domenica 24 dicembre 2017

" LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE " di Woody Allen ( USA , 2017 )

Puntuale, o inesorabile se preferite, ogni anno nella prima parte della stagione arriva il nuovo film di Woody Allen. Quanti ne ha girati sino ad oggi ? Non sono sicuro del numero esatto ma credo che ci stiamo avvicinando alla cinquantina in quasi mezzo secolo ( l'esordio registico, dopo quello come sceneggiatore e attore, è del 1969 : " Prendi i  soldi e scappa ", un film ancora oggi godibilissimo). Questo fa di Woody uno dei cineasti americani da maggior tempo in attività di esercizio. Uno  della cui statura di " autore " non si discute nemmeno più, tale è la cifra inconfondibile delle sue opere, il personalissimo stile e l'alone di successo che , almeno in Europa, corona sempre i suoi sforzi. Già , perchè è abbastanza paradossale che  i maggiori riconoscimenti Woody li abbia  ottenuti proprio sul vecchio continente. A differenza che a casa sua ( mai un Oscar ! ) dove spettatori e critica -  soprattutto questa - hanno  spesso arricciato il naso di fronte a quelle  commedie, rosa o gialle o un poco più fosche che fossero, trovandole troppo " cerebrali " e un tantino pretenziose. Appassionato estimatore di Fellini e di Bergman,  chiaramente in cerca dell'approvazione , oltre che del grande pubblico, dei cinefili più difficili , il  suo cinema non vuole mai arrestarsi al puro divertimento. Insegue sempre , anche  sotto un'apparenza dimessa, un significato più "alto " che lo apparenti a quello dei grandi maestri europei . Pensate a " Settembre " o a " L'altra donna " , di chiara ispirazione bergmaniana. Oppure a quella che , per me, rimane una delle sue commedie più riuscite , " Crimini e misfatti ", dove il tono apparentemente leggero - l'abituale cicaleccio dei suoi film , così parlati  e ricchi di  storie che si intrecciano - cede poi il passo, senza che abbia a soffrirne l'equilibrio omplessivo dell'opera, ad uno sconsolato apologo sulla facilità con cui ci assolviamo dai nostri piccoli e grandi peccati.

" La ruota delle meraviglie " appartiene decisamente al filone delle commedie " agre " di Allen. Quelle , per intenderci, dove non vi è solo la spiritosa e brillante descrizione delle tante piccole gioie e miserie che costellano la nostra esistenza,  per quanto essa ci abbia dato in passato i capolavori che sappiamo , da " Manhattan " a " Anna e le sue sorelle ". No, qui siamo più nella meditazione - mai banale - sulla responsabilità dell'individuo , la colpa  nella quale possiamo  tutti incorrere,  il  "vizio " esistenziale che inficia  la nostra pur legittima ed umanissima ricerca della felicità quando , per inseguire quest'ultima, finiamo col trascurare gli altri esseri umani che ci circondano e che avrebbero anch'essi simmetrico diritto a quel medesimo bene supremo, così sfuggente ed effimero. Sul versante , dunque , di " Match Point " o di "  Scoop " . Quei due film " gialli " di ambientazione londinese  usciti una decina di anni or sono che, accanto a pagine di graffiante umorismo, ci dettero poi ampia e convincente materia per commuoverci. E per  riflettere sulla imponderabilità  di un destino che non riesce ad assicurare " a ciascuno il suo "nell'unica realtà che- secondo Allen - ci è data, quella della nostra vita terrena,  dispensatrice non sempre equanime di  soddisfazioni e dolori. La dimostrazione ce ne è offerta qui dal personaggio di Jenny, una donna che ha oltrepassato  da tempo la quarantina , ancora piacente e speranzosa nonostante i colpi della sfortuna. Malmaritata ad un giostraio brontolone  ma di cuore semplice, vive - sarebbe meglio dire vegeta - a Coney Island, un sobborgo marino di New York, e  per arrotondare i magri introiti familiari lavora in un bar..  Una  di quelle località ( siamo nei primi anni '50 del secolo scorso ) del divertimento di massa, spensierato e a poco prezzo, ma in cui i sogni galoppano facilmente come i cavalli di cartapesta e danno l'illusione di potersi trasformare in realtà. Insoddisfatta, convinta di potersi rifare un'esistenza ( le sue ambizioni erano quelle di recitare in teatro ) Jenny si lascia facilmente sedurre da un bagnino tanto intraprendente quanto leggero che , subito dopo, sposta  le sue attenzioni sulla figlia di primo letto del giostraio, una bella ragazza molto più giovane della matrigna, maritata ad un gangster dal cui tetto coniugale è  appena prudentemente fuggita. 
Voi vedete come qui l'ambientazione sia abbastanza diversa da quella classica dei film di Allen. Niente intellettuali nevrotici od altoborghesi , cenette sofisticate e " bon mots " come , ad esempio, in " Melinda e Melinda " o " Misterioso delitto a Manhattan ". Si direbbe quasi che Woody, dopo tante incursioni tra i privilegiati o aspiranti tali - e, alla fine, tante inevitabili autocitazioni -  abbia sentito il bisogno di tornare a quel mondo piccolo borghese o francamente proletario da lui conosciuto negli anni dell'adolescenza e che faceva già capolino in qualcuno dei suoi primi film. Ci verrebbe fatto di chiamarla quasi una ambientazione " neorealista ". E non sembri malposta o fuori contesto questa mia definizione, atteso il fatto che la vicenda ed i personaggi del film risentono  certo, almeno esteticamente, di quella temperie cinematografica che Allen conosce e che , in un certo senso,  egli si è pagato il lusso di ricreare per la sua soddisfazione di cinefilo. Intendiamoci, più una strizzata d'occhio allo spettatore che una  adesione ( questa sì sarebbe stata antistorica e fuorviante ) ad una autentica poetica del " vero ". Siamo sempre  in una classica " fiction " che porta l'inconfondibile marchio della " fabbrica dei sogni "-  seppure di alta qualità - propria del cinema di Allen.E chi ha detto poi che, al cinema, la realtà debba per forza  prevalere sulla finzione ? 

Di come la finzione evolva ne " La ruota delle meraviglie " non dirò naturalmente , perchè è lì poi che si cela la chiave interpretativa della vicenda stessa ed il significato che Allen intende conferirle e che vi invito a scoprire. Una " morale " che  ad essa si attaglia perfettamente, così come ci viene presentata, nell'eterna dialettica tra  svolgimento predeterminato delle cose- chiamiamolo  il fato o  il destino di ciascuno di noi - che egli da sempre ritiene presieda agli affari umani e il libero arbitrio che dovrà pur esistere da qualche parte anche se ci fa comodo , a volte, negarne l' esistenza.
Una storia del genere, voi capite benissimo,  necessita per risultare accattivante di personaggi principali ben delineati ed interpretati in modo credibile. Ciò che succede soprattutto per la irrequieta moglie del giostraio , interpretata benissimo, con forza e convinzione, da una Kate Winslet in stato di grazia ( candidatura per l' Oscar, a mio sommesso avviso ). Che brava attrice che è diventata questa ragazzona bene in carne dai tempi di " Titanic " ad oggi ! La sua Jenny è stanca e sfiduciata quanto guizzante e speranzosa, in una altalena continua di stati d'animo che ben testimoniano della complessità del personaggio e del modo sottile e pur tuttavia robusto con cui  viene resa dall'interprete. E che bella donna ancora ! Per estimatori ed  appassionati della bellezza muliebre nel favoloso decennio 1950-60 dirò che  le sue apparizioni " en déshabillé " ( quanta fantasia e quanta ingenua malizia  nell'abbigliamento intimo di quegli anni... ) sono veramente notevoli e che, lungi dall'apparire gratuite,esse conferiscono ancor maggiore risalto alla triste sensualità del personaggio. Accanto a lei ,  Jim Belushi (il fratello dello scomparso John, quello dei mitici " Blues Brothers " ) dà al giostraio irruento e pasticcione una corposità ed un rilievo, nell'economia della vicenda, che arricchiscono il film di una ulteriore componente interpretativa. Bellini i due attori più giovani, fatalmente un pò soffocati dallo strapotere della coppia di cui sopra .
Se lo sceneggiatore Allen innova , come si è detto , nell' ambientazione e nei  personaggi , il regista Woody si è voluto anche lui regalare qualche novità - o che almeno tale mi è sembrata - nella maniera di filmare. Invece di inquadrature a mezzo campo o in campo lungo piene di figure, in armonia con le sue vicende complesse e  con abbondanza di " sotto-testi " e trame parallele, qui ha prediletto i primi e primissimi piani, in sintonia probabilmente con quel cinema degli anni ' 50 coevo alla vicenda narrata. Scene drammatiche, confronti accesi tra i personaggi che richiamano forse, più che le atmosfere " neorealistiche ", quelle dei drammi tratti dalle opere teatrali di Tennesse Williams (  una Winslet in sottoveste che fa quasi da eco figurativa ad una Blanche Dubois di " Un tram chiamato desiderio " o ad una  Magnani- Serafina ne " La rosa tatuata " ). Non mancano difetti, a cominciare dallo scontato personaggio del ragazzino piromane, che dopo un pò stanca, per chiudere con  l'abusato espediente del personaggio che funge  quasi da coro greco rivolgendosi al pubblico per far avanzare la storia . Ma le immagini sono , come sempre in Allen, una festa per gli occhi. C'è ritmo , c'è vita in questa "ruota"  che gira e nelle sue derisorie, patetiche " meraviglie ".




martedì 19 dicembre 2017

" LOVELESS " di Andrej Zvyagintsev ( Russia, 2017 ) / " " L'INSULTO " Di Ziad Doueiri ( Libano, 2017 )

Torno necessariamente, in questa puntata, su due  bellissimi film che sono in questi giorni finalmente approdati sugli schermi di casa nostra e di cui , per chi mai se ne ricordasse, avevo in verità già parlato. Il primo, il russo " Loveless " ( titolo internazionale che, se non fossimo così  supini all'invadenza dell'inglese, avrebbe potuto essere benissimo reso, da noi,   con " Senza amore " ) venne presentato a Cannes  - dove vinse il premio speciale della Giuria - e lo commentai nel mese di Giugno. Il secondo, il libanese "L'insulto " ( anche questo non è il titolo originale, ma almeno è in italiano ) è stato applaudito al'ultima rassegna cinematografica di Venezia, vincendo la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile,e l'ho segnalato alla fine di settembre.
Se oggi sento la necessità di  prenderli nuovamente in considerazione  non è solo perchè " repetita iuvant " e vorrei stimolarvi a non perderli ( venendo da cinematografie poco amate dai nostri distributori ed esercenti c'è il rischio concreto che spariscano presto dal normale circuito ). Ma anche perchè , stante la loro caratura artistica ed i soggetti di bruciante attualità, questo mi permette di spezzare ancora una volta una  lancia in favore di un  cinema che, pur muovendo da una realtà ben precisa, fornito cioè di  un solido retroterra politico-sociale,  arrivi poi a verità, intuizioni, echi, di carattere meno contingente e più vicini agli interrogativi assoluti che spesso ci poniamo ( che senso ha la vita, questo conflitto permanente tra opposti interessi e sensibilità, e quale l'antidoto che può permetterci di conferire un minimo di ordine e di chiarezza ad un mondo sempre più complesso ed  oscuro ? ).
 Che poi, parliamoci chiaro, è perfino legittimo fermarsi all'aspetto realistico di un film , goderlo semplicemente per il ritratto che offre di una determinata situazione e non porsi troppe domande sul significato più nascosto che potrebbe  o vorrebbe assumere. L'arte , e quindi il (buon ) cinema, è già sublime per ciò che rappresenta e per il modo con cui lo fa. Ma in realtà non credo vi sia opera  che non abbia un secondo livello di lettura , di fruibilità. Che non abbia cioè, presa nel suo insieme, un significato " altro "  e che vada più in profondo a colpire la nostra sensibilità, a scuoterci , a farci riflettere. I buoni, anzi qui occorre dire gli ottimi film, sono proprio quelli che riescono ad unire  perfettamente i due aspetti. A farci apprezzare cioè una storia ben raccontata, con  delle immagini incisive, un sicuro senso del ritmo, una buona recitazione. Ma poi, senza quasi che lo vogliamo, a trasmetterci un sentimento , delle emozioni che ci ricolleghino ai grandi problemi della vita, quella di sempre, indipendentemente quasi da quello scampolo di realtà che ci è stata mostrata sullo schermo. Non mi riferisco al mitico e  abusato " messaggio " di cui nei vecchi cineclub andavamo alla ricerca , convinti che le opere "serie" ne dovessero tutte avere uno ( e dagli, allora, ad interpretare ogni più piccolo elemento dei film di Bergman o di Antonioni  in chiave politica o filosofica ). No, qui mi voglio riferire all'istintivo, spontaneo moto dell'anima che lo spettatore prova, e non può non provare, assorbendo  (non analizzando col solo raziocinio ) immagini, storie, personaggi di un film. Emozioni, anche forti, anzi fortissime,  che lo pongono in comunicazione diretta - senza tanti arzigogoli - con il mondo poetico dell'autore e gli consentono di gioire o di soffrire con lui. Ed è quello che questi due film sui quali sto tornando oggi riescono ad ottenere con umile, sorprendente semplicità. 

Prendiamo " Loveless ", per esempio. Ecco una vicenda di terribile, feroce " disamore " tra i componenti di  una coppia che sta per divorziare e che si sbranano nel frattempo senza pietà, incuranti dei sentimenti di paura ed angoscia che così ingenerano nell' unico figlio appena adolescente, lacerato dalla prospettiva della loro separazione. Figlio che, non sostenendo più questo macigno che grava su di lui, ad un certo punto fugge di casa senza lasciare tracce che permettano di ritrovarlo. Il film è ambientato, come il precedente e bellissimo di Zvyagintsev, " Leviathan ", nella Russia di oggi, dove un  relativo, improvviso ed aggressivo benessere si accoppia , per alcuni strati della popolazione, alla tradizionale deresponsabilizzazione e al vuoto spirituale della vecchia Unione Sovietica. Guardare questa coppia genitoriale e rabbrividire è tutt'uno. Belloccia, insaziabile divoratrice di piaceri dozzinali, lei. Imbelle, piagnucoloso ed ipocrita, lui che si tiene in caldo una futura seconda moglie  che nell'attesa ha messo incinta.  Impietoso quadro di una umanità senza ideali nè punti di riferimento, il film ci svela aggregazioni sociali dove all'indifferenza degli individui ed alla inefficienza dei poteri pubblici si uniscono, in preoccupante simbiosi, pulsioni autoritarie ( i soccorritori paramilitari che aiutano i coniugi nella infruttuosa ricerca del piccolo scomparso ) e tentativi di sterile scimmiottamento delle società più avanzate.
Ma il film è qualcosa di più - e qui vengo al punto -  di una pur interessante e convincente critica della Russia post-sovietica. O di una descrizione , pur spietatamente accurata,  di un sordido fallimento matrimoniale. " Loveless " scende più in profondità, facendo vibrare corde ancora più nascoste dell'animo umano, mettendoci di fronte - non è esagerato dirlo - al male. Sì, semplicemente l'antitesi del bene , cioè della mutua comprensione e della solidarietà che da quest'ultima discende. In poche parole- e qui il titolo è estremamente calzante - l'esatto contrario , anzi il nemico dell'amore tra gli esseri umani. Un mondo " senza amore " che, partendo dall'analisi della crisi di una coppia in una società spiritualmente vuota, assume significati universali e che si attagliano a tutta ( o a gran parte ) della condizione umana. " Leggere " il male, scoprirlo nei comportamenti dei nostri simili ed in quelli talvolta di noi stessi,  non è mai operazione  indolore. Qui la descrizione che fa Zvyagintsev della mancanza di amore ( sostituito spesso dal puro desiderio carnale spinto dall'egoismo o dall'interesse oppure da semplici rapporti di distante cortesia e di freddo " civismo " )  è semplice, lineare, chiarissima. In altre parole , cinematograficamente potente, tutta calata nelle immagini, nei volti e nei corpi dei protagonisti. Sceneggiatura di ferro, ritmo incalzante nel susseguirsi delle sequenze, interpretazione ottima. Gli ingredienti per fare un grande film ci sono tutti. Certo, non un 'opera "distensiva", Qualcosa, piuttosto, che scuote la nostra coscienza, che ci spinge ad interrogarci anche se le risposte non possono che essere necessariamente insoddisfacenti . Ma, ripeto, un grande film, che - nella giusta disposizione d'animo - converrebbe vedere.

Stesso discorso mi sento di poter fare per il film libanese , " L'insulto ". Il punto di partenza, potremmo dire,  è un piccolo fatto di cronaca- tra l'altro ispirato ad una vicenda autentica - che più banale non si potrebbe : un " litigio di strada " tra il proprietario di un appartamento e il tecnico di una società incaricata dal comune di certi lavori pubblici a proposito di un tubo o di una gronda di scolo probabilmente non a norma. Il fatto, in sè, sarebbe - ripeto - di scarsissimo rilievo ma il contesto locale e la condizione dei due contendenti si incaricano subito di smentirci. Siamo infatti nel Libano di oggi , autentico crocevia di civiltà e soprattutto religioni diverse. Religioni , quella cristiano-maronita e quella musulmana - scita ,  che dettero luogo,  nel 1975, ad una sanguinosa guerra civile durata vent'anni  e che ha lasciato strascichi nelle coscienze della popolazione, aggravata dalla presenza, non certo neutrale,  di una folta  comunità di profughi palestinesi in grandissima parte musulmani anch'essi. E si dà il caso che il bollente proprietario, di professione meccanico di automobili, sia un fervente sostenitore del partito- nazionalista e destrorso - che sostiene la componente cristiana del Paese. Mentre l'apparentemente più mite tecnico stradale, in realtà rancoroso e frustrato, sia uno di quei profughi palestinesi che le autorità libanesi, dopo la fine della guerra civile, cercano di blandire per evitare nuove e pericolose frizioni anche se in realtà li disprezzano e non ne favoriscono l'integrazione. Accade quindi che, dietro la banalità del litigio (iniziato con un insulto  ed una aggressione fisica del musulmano nei confronti del cristiano ) si schierino gli appartenenti all'uno e all'altro schieramento, soffiando sul fuoco della disputa e rischiando ( il caso nel frattempo è approdato in tribunale e gode di vasta pubblicità ) di appiccare nel Paese un incendio di ben più vaste proporzioni.
Riflettori sul Mediterraneo contemporaneo, divisioni apparentemente insanabili tra due comunità contrapposte. Ci sono gli ingredienti giusti, dal punto di vista cinematografico, per fare una bella storia di rivalità e di rancore. Un film schiettamente " politico ",  sulla scia di certi film coraggiosi del passato ( quelli di Francesco Rosi, ad esempio o , in chiave minore, di Costa- Gavras ). E "L'insulto ", in gran parte, è certamente tutto questo. Ti fa capire benissimo quali sono i termini del problema , non si schiera  con  nessuna delle due parti ma  non nasconde ragioni e torti degli uni e degli altri.  Mostra i protagonisti nel loro immediato retroterra familiare e sociale, avanza con ritmo e tecnica narrativa propri di un buon film americano d'azione , senza i  fronzoli e i piccoli lenocini di  troppo cinema ideologico e moraleggiante oggi sugli schermi. E' vero e spietato quando occorre, delicato e sottile nel suo assunto più sotterraneo. Ed è proprio qui , nel suo significato " ultimo ", che il film si stacca decisamente dalla materia cronachistica per elevarsi ad una prospettiva più ampia e capitale, al tema cioè dell'odio che è purtroppo nella natura umana e all'amore , alla solidarietà ed alla pietosa, reciproca comprensione tra le persone che ne sono l'unico antidoto. Il film non ha  nè potrebbe avere, propriamente parlando, un  lieto fine , quell' ingenuo " embrassons- nous " che avremmo forse desiderato. Ma, certamente, mostra una presa di coscienza nei personaggi principali che prima  faceva loro difetto. E', potremmo dire , un itinerario doloroso e necessario : verso che cosa non sapremmo dire, ma che le cose si muovano e non, per fortuna, nel senso dello scontro feroce è già un grande risultato.
Cinema di grande levatura, sceneggiatura densa ma coesa, regia sorvegliata eppur ricca di immaginazione , recitazione superba ( gli arabi, diremmo quasi questi napoletani del Vicino Oriente ). Andate a vedere " L'insulto " e vi rifarete dalle nequizie e dai facili tremori di cento " Gomorre " e " Suburre " oggi imperanti. Vita vera eguale cinema vero. In fondo la grande lezione del neoralismo, rivissuta e corretta dal cinema d'oltre oceano degli anni '60 - '70 . E scusate se è poco.

lunedì 4 dicembre 2017

" THE SQUARE " di Ruben Ostlund ( Svezia, 2017 )

Film molto importante, questo " The square ". Vincitore della Palma d'oro a Cannes , la scorsa primavera. Forse non mancavano film in concorso che  avrebbero avuto maggiore diritto a quel premio, a cominciare dal russo " Senza amore " che sta per uscire nelle sale italiane e di cui vi parlai a suo tempo. Ma bene fecero allora  i giurati a segnalarcelo mediante il massimo riconoscimento. Privo di elementi esteriori di immediata presa sul pubblico ( attori famosi, una vicenda attraente e  facilmente " classificabile "- film drammatico, o brillante, storia d'amore ecc. - una cospicua campagna pubblicitaria ) avrebbe rischiato altrimenti di passare inosservato. O di venire relegato nella categoria delle opere " eccentriche ", da lasciare ai cinefili incalliti o al pubblico dei festival. Mentre invece è un'opera che non può lasciarci indifferenti, noi che apparteniamo al  genere umano di questo primo ventennio del ventunesimo secolo. E che - a non essere prevenuti - non risulta neanche particolarmente sconcertante od oscura. Con l'unica avvertenza, diceva un mio caro amico, di non andarlo a vedere dopopranzo. Potrebbe infatti risultare un tantino indigesto, suscitare qualche senso di colpa, far sobbollire il fondo della nostra coscienza  . Tutto ciò, peraltro, attraverso   una semplicità espressiva (niente  inutili virtuosismi di regia ) che è  da ascrivere a  grande merito di questo regista e sceneggiatore svedese di poco più di quarant'anni di età, Ruben Ostlund, già autore tre anni fa di un ragguardevole " Force majeure " o " Snow therapy " come da qualche parte è conosciuto quel film.

Lo " square " del titolo, è una piazza ma ,volendo, anche un quadrato in uno dei diversi significati di questo vocabolo. Ed è, nel film , il nome di una " installazione " ( quelle cose fatte di tubi, di luci o di materiali grezzi che ormai, nell'arte contemporanea , sempre di più prendono il posto delle vecchie tele o delle sculture ) che il protagonista, Christian,  direttore del Museo Reale di Stoccolma, orgogliosamente presenta al pubblico per celebrare  non ricordo più quale anniversario. Quella " opera d'arte ", nelle intenzioni dell'autore e dei committenti, dovrebbe simboleggiare " un luogo di amore e di fratellanza, aperto a tutti e dove tutti abbiano gli stessi diritti e gli stessi obblighi ". Insomma, una trasparente metafora del mondo cui aspiriamo e che alcuni ritengono addirittura sia  già stato realizzato qui in Occidente o almeno nei ricchi ed egualitari paesi dell' Europa del Nord. Se non fosse che, complice la crisi economica di questi ultimi anni e soprattutto  il progressivo inaridimento del sentimento di solidarietà, della tolleranza e del rispetto reciproco,  resta un paradigma puramente ideale dal quale ci stiamo in realtà allontanando. Ed il tema centrale del film di Ostlund è proprio l'ipocrisia di una società, la nostra, che a parole predica bene  ( l'onnipresente " politically correct " ! ) ma che, nella attività quotidiana, finisce con lo  smentire clamorosamente  il progetto verso cui si illude di tendere. Ecco allora, invece, l'aridità nei rapporti interpersonali, la paura e il pregiudizio nei confronti di coloro che non sono come noi (ad esempio  intellettuali benestanti, magari con belle case, belle automobili e molti " gadget " che rassicurino una traballante  identità ). E soprattutto, ci ricorda l'autore, la fuga dalle responsabilità individuali , una volta che si è trovato comodo delegare ad altri se non addirittura al gruppo - cioè in pratica a nessuno- il compito di difendere i nostri valori, indignarsi , reagire quando necessario. Altrettante situazioni che leggiamo agevolmente nei comportamenti del protagonista e che, complice un iniziale banalissimo episodio di un subìto furto con destrezza ( sì, anche nella civilissima Svezia ) conduce quest'ultimo ad una serie di scelte ( o non-scelte ) più sbagliate le une delle altre e che sconvolgeranno il suo " delizioso " tran-tran. Insomma, la " piazza " ( luogo di libertà, di incontro e di scambio ) rischia di trasformarsi in un sempice e chiuso " quadrato " , una gabbia nella quale prevenzioni ed oscuri timori, incomprensioni e mancanza di dialogo, minacciano di tenerci segregati gli uni nei confronti degli altri.

Che mondo ci siamo costruiti, sembra chiedersi polemicamente l'autore, questo mondo  in cui vi è  un così grande distacco tra i nostri buoni propositi ed una realtà fatta di indifferenza, di crescente divario tra i vari strati della società, di repressione dei nostri stessi sentimenti, in poche parole di mancanza di quell 'amore - laico o cristiano poco importa - che è l'unico lievito per una esistenza autenticamente serena e fruttifera ? Io non credo che il film  di Ostlund sia , come qualcuno ha detto, una requisitoria  nei confronti della " borghesia capitalista ". Può benissimo esistere,e non solo nei sogni , un capitalismo compassionevole e cosciente dei propri limiti come, per converso, un  socialismo spietato e nemico dell'uomo ( che , del resto, abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi cento anni di storia ) . Penso invece che il significato del film sia altrove. Nella condanna, cioè,  di una società meccanicistica, disumanizzata, fatta di tante stupide  regolette  ma - qualunque sia la formula politica in cui essa si iscriva - incapace di provvedere agli autentici bisogni degli esseri umani e di creare uno spazio di pacifica ed armoniosa convivenza. Mi confortano in questa percezione del significato del film  le  scene desolanti in cui viene mostrata l'incapacità del protagonista di stabilire un autentico rapporto da eguale ad eguale con le persone con cui entra in relazione ( la giornalista intervistatrice con cui ha una fugace avventura, l'assistente di colore, il ragazzino che si ritiene da lui diffamato, i suoi stessi figli ) e quelle , forti e quasi insostenibili nella loro durezza, in cui il mondo  cui appartiene Christian è confrontato a sentimenti ed istinti genuini ancorchè " primitivi " e quindi dimenticati ( la lunga sequenza dell' aggressivo uomo scimmia al banchetto offerto dal museo ed ancora il confronto tra Christian stesso ed il ragazzino che gli chiede di riparare alle disastrose conseguenze  della iniziativa da lui posta in essere per recuperare gli oggetti che gli erano stati sottratti nello scippo iniziale ). Ed in un siffatto contesto, la stessa arte- per accennare ad  un importante " sottotema " del film - che era nata per dare conforto e dignità  a noi umani, sembra aver ormai largamente abdicato alle proprie funzioni originarie.Se l'artista era prima un mediatore tra la società del suo tempo e  le forze oscure e vitali della creazione, quasi sempre di immediata comprensione e fruibilità, oggi si è trasformato in un " performer " che si limita spesso a cogliere l' " aria che tira " e a riprodurla in forme talvolta oscure o risibili. Ne sono prova quelle " creazioni artistiche " che lo stesso Christian ospita nel proprio museo ma non sa bene nemmeno lui cosa vogliano dire e se abbiano un valore che trascenda la mera circostanza di essere conservate in quel luogo.

Non vorrei peraltro che i pochi lettori che mi seguono traessero da tutto questo l'impressione che si tratti di un film plumbeo, quasi disperato,  un tantino deprimente. Se l'assunto è quanto mai serio e non molte sono le faglie di speranza che esso ci lascia intravedere per una condizione umana gravemente compromessa ( i diseredati di oggi, consapevoli che non hanno nulla da perdere ? I più giovani che possono puntare, nel lungo periodo, ad un mutamento di rotta ? ) non per questo, andando a vedere " The square ", rischiamo di annoiarci o di rattristarci ulteriormente. Si tratta fondamentalmente di un dramma , ma che scivola spesso nella commedia e non pochi sono i momenti in cui si sorride o francamente si ride dinnanzi a situazioni di irresistibile umorismo. Proprio come nella vita , verrebbe fatto di dire. A contribuire a questo tono così variegato, ad un ben dosato cocktail di sensazioni e di emozioni , contribuiscono- l'abbiamo già detto - una regia mai invadente o declamatoria ed una recitazione , complessivamente, di livello assai buono. Ho visto solo l'edizione doppiata in italiano- di usuale, elevato livello professionale - ma ho ragione di ritenere  che anche la versione originale lasci soddisfatti. Claes Bang, un attore danese, conferisce solido rilievo al non facile personaggio di Christian, il direttore del museo. Bene anche gli altri, compresi i giovanissimi. Menzione particolare, tra i comprimari, all'attrice americana Elizabeth Moss, che mostra un volto espressivo ( e non solo ) nell'interpretazione della giornalista.
Cosa manca, infine, al film per essere un capolavoro e per non restare invece solo ( ma non è poco )  tra i film interessanti  di questa stagione e sicuramente da andare a vedere ? Probabilmente gli fanno difetto quelle immagini ( una breve sequenza, un volto, chessò ? ) che ci facciano intravedere- al di là dello stesso assunto del film - l'impronta del genio. Quei fotogrammi, quei brevi attimi di assoluta felicità creativa insomma, che ad un Rossellini o ad un Bergman o  ai fratelli Dardenne hanno consentito di travalicare la stessa grave ed importante materia trattata e di assurgere alle vette sublimi dell'arte cinematografica. Ma non è certo un motivo per perdere l' occasione di vedere un film così coraggioso e convincente come questo e che quindi caldamente, ancora una volta, consiglio. 

lunedì 27 novembre 2017

" THE BIG SICK " di Michael Showalter ( USA, 2017 ) ; " MY NAME IS EMILY " di Simon Fitzmaurice (Irlanda, 2015 )

Perchè alcune commedie al cinema funzionano bene ( tutte quelle di Billy Wilder o di Blake Edwards, ad esempio ) ed altre assai meno ? Qual'è il segreto per far "montare"- sì, proprio come la panna - una storia piacevole, destinata a farci passare due ore con quella serenità e quell'ottimismo che certe volte  chiediamo ad un cinematografo inteso semplicemente come benigna ed inesauribile " fabbrica dei sogni" ? Due film che mi è capitato di vedere a distanza di pochi giorni uno dall'altro sembrano in grado di darci qualche schiarimento in proposito.  Che il primo, di cui vi consiglio caldamente la visione, sia il frutto di un sistema produttivo  prolifico e ben collaudato  mentre il secondo, per cui non saprei fare altrettanto, provenga da una piccola industria senza grandi precedenti in materia, potrebbe sembrare una circostanza, tutto sommato, ininfluente .E non dico che, in questo, non  vi sia un pizzico di verità. Anche una cinematografia marginale, con pochi film all'attivo, può riservarci ogni tanto una piacevole sorpresa. Più facile però che ci dia qualche opera coraggiosa nel registro drammatico che in quello leggero e sentimentale. Per i film che facciano ridere o almeno sorridere, meglio, molto meglio, andare a cercarli- parlo del cinema occidentale - nella mastodontica produzione USA o in quella francese ( un tempo sarebbe stato così anche per quella di casa nostra , ma si sa come è andata a finire ).

Ecco, prendiamo il cinema americano, così entriamo subito in argomento per quanto riguarda l'ottimo " Big Sick ". A parte le opere destinate, in prima battuta, al grande schermo, laggiù la macchina produttiva oggi lavora soprattutto per la televisione : " sitcom " e serie di tutti i generi, con una cospicua presenza di commedie, storie leggere fatte per farci divertire, consolarci magari ( e qui è il loro limite, ne sono consapevole). Ma che  fucina di sceneggiatori e " battutisti ", che palestra di attori ed attrici, protagonisti o semplici comprimari ! Hollywood stava morendo - e, in verità, non se la passa ancora bene - se la televisione non  avesse infuso nuova vita, nuovo vigore intellettuale ed artistico nell'intero sistema. D'accordo, una bella fetta dei programmi televisivi di " fiction " sono modesti ed alcuni addirittura esecrabili. Ma ne restano tanti altri di ottima fattura e che hanno rinnovato quei " generi " che erano la forza del cinema dei bei tempi che furono.  Tra questi, in primo luogo, proprio la commedia. Stimolata dalla continua crescita  di scrittori  di testi di ottimo livello, per le varie " sitcom " televisive o i " talk show" di intrattenimento , la commedia è  nuovamente  tornata sugli schermi ed ha arricchito e rivitalizzato un " filone " che sembrava a corto di talenti e di idee. Certo, ormai una commedia come " Ninotchka "( Lubitsch, 1939 ) o anche solo " Victor Victoria " ( Edwards, 1983 ) non la si saprebbe ( o potrebbe ) più concepire. I gusti delle più giovani generazioni - il nerbo dei frequentatori delle sale cinematografiche - sono cambiati e diverso è il meccanismo che suscita interesse, induce simpatia e coinvolgimento nelle vicende e nei personaggi. Ma film, anche recentissimi, capaci di farsi ammirare senza offendere la nostra intelligenza e di unire, nello spazio di una proiezione, le vecchie e le nuove categorie di spettatori ce ne sono ancora. Cambia il ritmo, le battute sono più rapide e un tantino pepate, si ride in un modo diverso. Ma ci si continua a divertire. Ed è il caso di questo " Big Sick " ( titolo originale rimasto invariato per la distribuzione in Italia ) prodotto da quel Judd Apatow che , come sceneggiatore e regista, aveva già dato interessanti prove del suo talento a cavallo tra televisione e cinema.

La sceneggiatura , scritta dal comico di origine pakistana Kemail Nanjiani e dalla moglie Emily Gordon, non è altro che la narrazione della vicenda personale della coppia, cioè di un sodalizio   costituitosi attraverso non poche difficoltà da superare : l' incapacità di Kemail di sottrarsi alla cultura d'origine e alla propria famiglia ligia alle tradizioni anche dopo l'ingresso negli USA , una grave ed improvvisa malattia di Emily, la diffidenza poi venuta meno dei genitori di lei nei confronti del giovane immigrato. Storia vera ma roba vecchia, verrebbe fatto di dire, pensando che non è certo la prima volta che il cinema ci rappresenta -ora in chiave leggera ora in chiave più drammatica -  differenze " etniche " tra innamorati, incomprensioni di coppia su cui influiscono le famiglie, persino malattie che rischiano di mettere la parola fine ad una bella storia d'amore. Un pò " Indovina chi viene a cena ", un pò  " The perfect couple " di altmaniana memoria e non senza un pizzico del lacrimoso " Love Story ", questo " Big Sick " riesce ad evitare, in realtà, tutti gli scogli del " copia incolla " in agguato e  se la cava brillantemente , rivisitando con garbo  i moduli della " romcom " e  trovando, in ultima analisi, un tono fresco e genuinamente umoristico. Da manuale, tra le tante, la sequenza del primo incontro tra Kemail ed Emily,le gustose scene con i  familiari di lui e la baruffa all'ospedale tra i genitori di lei. Ulteriore prova che anche con pochi mezzi ( il film è costato " solo " 15 milioni di dollari e negli USA ne ha già incassati 45 ) ma con una buona dose di intelligenza e qualcosa da dire, si possono raggiungere non disprezzabili risultati in termini di piacevolezza e di dignitoso " entertainement ". Bravi gli attori ( oltre al simpatico e pacioso Nanjiani, va citata  Zoe Kazan nella non semplice parte di Emily e la strepitosa coppia dei genitori di lei , gli " evergreen " Holly Hunter e Ray Romano ). Il registaMichael Showalter, di franca derivazione televisiva, dal canto suo rinuncia saggiamente a qualunque superfluo virtuosismo.

Per venire invece al secondo dei film di questa puntata, l'irlandese DOC " My name is Emily ",  naufraga proprio  sull' assenza di un solido e collaudato retroterra di " genere ". Eppure non si può certo dire che nella verde isola  manchi una tradizione di umorismo e di commedia leggera, di stampo almeno teatrale, e soprattutto che  non vi siano schiere di ottimi attori ( alcuni dei quali, nelle parti minori,  sono stati poi  effettivamente utilizzati). Ma un film che , per partito preso, voglia essere  al 100 % autoctono rischia di essere penalizzato dalla indisponibilità di sceneggiatori di tratto svelto  e genuino ( la televisione in Irlanda, soffocata da quella inglese e " massacrata " dai programmi provenienti dagli USA, praticamente non decolla ). Non ci sono neanche  gli attori adatti, forse - chissà - manca anche un pubblico che ci creda. Risultato: invece di essere quella  piccola ma simpatica commediola, " rosa " e divertente, che pur sarebbe stato lecito attendersi, questa " Emily "  è un filmetto pretenzioso e sbagliato. Nè racconto filosofico sul significato dell'esistenza così come può vederlo un'adolescente - cui pure ambirebbe -  nè romanzetto  " di formazione " e d'amore come poi potrebbe limitarsi  ad essere, finisce col deragliare totalmente e rimane solo un " road movie " con due giovani scriteriati. Una lei ed un lui, impegnati in una poco comprensibile  fuga dalla capitale, metà amorosa e metà alla ricerca del padre di lei  : più sopportabile lui, non ricordo il nome dell'attore, e nettamente meno la protagonista , tal Evanna Lynch, che non trovando mai il passo giusto della commedia rovina definitivamente con il proprio debolissimo personaggio . Peccato davvero perchè il film  non è minimamente avvicinabile al solare e festoso " Sing Street " della scorsa stagione, egualmente girato in Irlanda ( regia di John Carney ) ma con idee e propositi fortunatamente più rivolti al mercato globale . Quindi, forzatamente, con occhio attento a quanto si è fatto e si fa in Inghilterra e negli " States ", senza scimmiottature ma avendo introitato le  esperienze di particolare successo  che da quei lidi provengono. Ed avvalendosi, anche, di   strutture produttive ed artistiche più solide e convincenti di quanto un piccolo film della piccola Irlanda potrebbe permettersi se non volesse spaziare al di là dei propri confini. La cosa  può piacere o no. Ma ho il fondato convincimento che , in fatto di commedia, complice la televisione " senza frontiere " ed una diffusa omologazione degli stili di vita,  i gusti dei vari pubblici nazionali si vadano uniformando. E  a  non tenerne conto il cinema rischierebbe di perdere la sua straordinaria capacità di rinnovarsi continuamente.    

sabato 11 novembre 2017

" UNA QUESTIONE PRIVATA " di Paolo Taviani ( Italia, 2017 )

I film sulla Resistenza ( 1943-45 ) sono tanti. Ed alcuni davvero pregevoli, anche a prescindere dal  quadro ambientale, per noi italiani così emotivamente intenso. Penso, tanto per citare un paio di titoli,  a " Roma città aperta " e a " Paisà ". Ma queste, mi rendo conto, sono opere che vanno al di là della loro cornice storica, per assurgere , in assoluto, ad una ricerca sulla stessa condizione umana, né più né meno che tutte quelle del loro autore, Roberto Rossellini. La Resistenza come "pretesto ", verrebbe fatto di aggiungere. O meglio, come punto di partenza davvero particolare ( il momento in cui ognuno, dopo quel terribile 8 settembre, dovette spesso e in fretta operare scelte decisive per sè e per gli altri ) da cui sviluppare poi il tema della responsabilità, del rapporto con gli altri, del dovere, del sacrificio. Non tutti i film " resistenziali " (numerosi soprattutto nell'immediato dopoguerra e poi negli anni '60 -70 ) si sono posti gli stessi interrogativi, le stesse preoccupazioni etiche dei due capolavori di Rossellini. Paghi, mi sembra di poter dire, di celebrare momenti salienti dell'epica insita nella tradizionale " narrazione " di quelle vicende ( " Le quattro giornate di Napoli " di Nanni Loy ) ovvero di utilizzare quella specialissima lotta per improbabili  trasposizioni trionfalistiche nella  temperie politica coeva all'autore ( " Novecento " , parte seconda, di Bernardo Bertolucci ). 
Ambizioni non semplicemente illustrative o consolatorie sono quelle invece del film di questa settimana , egualmente situato nel periodo della guerra civile e più precisamente nell'autunno del 1944, prima dell'ultimo, terribile inverno che in Alta Italia fu preludio, e presagio,  del 25 aprile. Ne fanno fede, in partenza, la personalità e la carriera davvero esemplare dei fratelli Paolo e Vittorio  Taviani che hanno scritto questo film , " Una questione privata ", traendolo " liberamente " come dicono i titoli di testa (e su questo torneremo ) dall'omonimo romanzo - o racconto lungo, se preferite - di Beppe Fenoglio.  Sceneggiatura quindi, come sempre , a quattro mani ma regia affidata questa volta al solo Paolo, probabilmente per l'età più avanzata di Vittorio ( entrambi comunque hanno ormai oltrepassato brillantemente l'ottantina ! ). E che avevano già in passato creato un'opera di singolare bellezza collocata egualmente nell ' incandescente 1944, "  La notte di San Lorenzo ". Sceneggiatori e registi di una ventina di film , con qualche inevitabile scivolone ma diversi film all'attivo che restano tra i migliori italiani dell'ultimo mezzo secolo. Autori impegnati , come si diceva un tempo ( ed anche politicamente " schierati " ) discutibili per alcuni aspetti del loro cinema ma onesti e mai banali.

La storia , nel suo dipanarsi fattuale, è abbastanza fedele al libro di Fenoglio. Questo -va ricordato - è non solo uno dei migliori che siano stati scritti sulla Resistenza . E' anche, come sosteneva  Italo Calvino, uno dei più bei romanzi italiani del Novecento, carico di una fortissima suggestione che deriva dai personaggi, dalla vicenda, dall'ambientazione. Ed i primi due elementi, sostanzialmente,  ci sono. Milton , il protagonista, è un giovanissimo partigiano, un intellettuale timido e idealista che, come tanti coetanei, ha lasciato gli studi universitari per andare in montagna ad aggregarsi ai gruppi combattenti spontaneamente creatisi dopo l'armistizio e l'occupazione tedesca. Ossessionato dal ricordo di Fulvia, una ragazza di condizione superiore di cui si era perdutamente innamorato in una precedente estate, egli  torna col ricordo ai  lunghi pomeriggi trascorsi nella bella villa di lei ascoltando dischi americani ( " Over the rainbow " ) ed intessendo timidi approcci amorosi  senza speranza. Vuota ormai la villa perchè i suoi occupanti sono tornati in città per sottrarsi ai pericoli della guerriglia partigiana che infuria nella zona,  alcune fortuite confidenze avute dalla custode gli instillano improvvisamente il dubbio che , mentre egli era lontano, militare prima dell'8 settembre,la ragazza possa essersi abbandonata con il comune amico Giorgio - bello e molto più sicuro di sé - ad assai meno platonici interludi. Roso dal tarlo della gelosia, ma forse più ancora dal desiderio di chiarezza, di qualcosa che possa soddisfare la sua sete di verità, Milton non ha che un mezzo. Rintracciare Giorgio, partigiano anche lui in una zona limitrofa, parlargli, farlo parlare. Ma Giorgio, si apprende nel frattempo, è stato malauguratamente preso prigioniero dai fascisti, rischia anzi di venire fucilato  e di portare quindi con sè nella tomba la testimonianza di ciò che può essere  accaduto. Di qui prende le mosse l'affannosa ricerca di Milton, il suo incontro con altri gruppi partigiani, con gli abitanti del posto cui si rivolge per informazoni , il tentativo addirittura di catturare un fascista per scambiarlo ed ottenere la liberazione di Giorgio. Sino al concitato finale che non vi rivelo.
 Milton, che sopravviva o meno al termine della vicenda, ha intrecciato, dovremmo forse dire sovrapposto, la propria " questione privata " alla lotta contro il comune nemico, allo sforzo collettivo.Un venir meno ai propri doveri, potremmo frettolosamente concludere. O forse no, non del tutto, se riflettiamo al forte sentire morale di Milton , alla sua  purezza ed alla sua giovinezza, al " diritto " all'amore  ed alla propria autodeterminazione, sacrificati inevitabilmente nello scontro che lo oppone ad altri giovani, egualmente prigonieri di una contingenza storica che  spinge incessantemente gli uni e gli altri verso l'autodistruzione.

Bellissimo tema, come vedete. Una descrizione della Resistenza priva di retorica, problematica e a mio avviso modernissima anche se non certo " revisionista " ( il romanzo è stato scritto diversi  anni dopo la Liberazione ed è uscito, postumo , nel 1963 ). Non  è questione in essa  di disconoscere quale fosse, nella guerra civile, la " parte giusta ". Ma piuttosto di collocare retrospettivamente tutto quel magma , quel ribollire di sentimenti e di passioni, nel grande fiume della memoria, la memoria di una straordinaria esperienza umana  in cui gioia e dolore, amore e morte,  vicende private e pubblici accadimenti costituiscono un nodo ormai inestricabile. Ed il tono del romanzo, ora secco e puramente descrittivo, ora  tenero ed elegiaco , gli da un sapore particolare, il gusto delle cose buone e semplici. Priva di sovrastrutture intellettualistiche, la " cifra " romanzesca balza purissima e ci dà una vicenda esemplare, capace di scolpirsi per sempre nella nostra mente e nel nostro cuore.
Qui sorge l'interrogativo. E mi ricollego a ciò che avevo preannunciato all'inizio di questo scritto. Cosa volevano dire i titoli di testa  del film stabilendo, tra questo e  il testo di Fenoglio, quell'ambiguo rapporto che è forzatamente insito nella piccola frase " liberamente tratto da " ? I fatti ci sono tutti o quasi e quelle piccole aggiunte o modifiche operate in sede di sceneggiatura non stravolgono l'impianto complessivo della vicenda ed anche il suo significato ultimo che ho cercato di individuare dianzi. Ma il tono, il gusto così tipicamente legato al retroterra geografico e culturale di Fenoglio ( ricordiamolo, nato e vissuto ad Alba, in Piemonte ) quello è rimasto ? Certamente no. E ce ne rendiamo conto fin dall'inizio, quando ci accorgiamo che gli interpreti, fino all'ultimo comprimario, parlano con cadenze dialettali che tutto ricordano salvo che il piemontese. In breve , la storia è stata, bella e buona,  " delanghizzata " dai fratelli Taviani. Non siamo più in quella lingua di territorio così caratteristica in provincia di Cuneo, le Langhe appunto, in cui sono ambientati quasi tutti i testi narrativi dello scrittore ( e che del resto non costituisce neanche il " set " dove è stato girato il film  )  ma in una sorta di " non territorio ", da qualche parte nell' Italia del 1944. Ma neanche il riferimento storico-temporale è chiaramente evocato.  Le divise dei militi fascisti certo sono quelle e le armi da fuoco degli uni e degli altri sembrano d'epoca. Ma i personaggi evitano quasi sempra e con cura di citare nomi e fatti che possano suffragare l'ipotesi che si tratti veramente del conflitto così apertamente descritto da Fenoglio nel romanzo. Potrebbe anche essere una qualunque altra, insensata ed indecifrabile tenzone, eminentemente tra giovani.
Capisco il desiderio dei Taviani, conforme al cinema di tipo non naturalistico ma politico e brechtiano che vanno facendo da sempre, di liberare la vicenda da una caratterizzazione localistica e troppo intimamente legata alla Storia che le avrebbero tolto quel significato universale e paradigmatico che essi probabilmente ricercavano. Ma occorre dire che la doppia "decontestualizzazione " in tal modo operata ( dalle Langhe e dai precisi contorni del conflitto tra fascisti ed antifascisti ) non rafforza il senso umanissimo della vicenda ma anzi l'intristisce e lo banalizza, svirilizzandolo. E con  questo non intendo certo contestare l' autonomia, in generale, del cinema rispetto all'opera letteraria. Ma piuttosto militare per una necessaria fedeltà a quel  " minimo " essenzialissimo, fatto di luoghi e di riferimenti, che quest'ultima racchiude e senza il quale essa  non avrebbe neanche potuto vedere la luce. Potreste immaginare , faccio solo un esempio, " Guerra e pace "  senza la steppa russa e l'invasione napoleonica ? Oppure i " Promessi  Sposi " lontani da quel ramo del lago di Como e  con i bravi trasformati in semplici rubagalline ? Peccato per questo duplice errore che non sarebbe certo piaciuto all'autore, fosse stato ancora in vita.

Detto questo, il film non è certo da buttare. Fratelli Taviani  è un marchio che vuol dire garanzia di  rigore stilistico, di inquadrature perfette, di movimenti di macchina semplici ed essenziali.  Si guardi alle prime scene, quando viene introdotto il personaggio principale e vengono poi evocate le figure, quasi trasfigurate nel ricordo di Milton, dei compagni di vacanza e di schermaglie amorose, la soave Fulvia e l'audace Giorgio. Qui sì, siamo vicini alla pagina di Fenoglio, al suo narrare trasognato, delicato eppure denso e terragno ( ancora le Langhe... ). Non più quando entrano in scena i compagni di Giorgio gravidi di improbabili accenti umbro-laziali ed il particolare incanto della narrazione perde mordente. Resta una descrizione puntuale e a tratti persino convincente della insensatezza di quel cruento ,crudele e forzato giocare a rimpiattino con la morte ad opera di giovani che avrebbero molto più diritto di cimentarsi in altre imprese. E resta, tratteggiato con mano sicura, l'affannoso prodigarsi del protagonista nella sua " ariostesca " follia d'amore e nel pervicace tentativo di raggiungere  quella  privata " verità " che gli interessa,  in mezzo a tanti infingimenti collettivi che ne contrastano il progredire.
Merito anche, occorre dirlo, dell'ottima interpretazione di Luca Marinelli nella parte di Milton : sensibile, partecipe ed attenta, una prova davvero convincente. Meno bene gli altri due giovani attori principali. Un pò troppo leziosa la Fulvia di Valentina Bellè, ancorché graziosissima. Abbastanza anonimo e di scarso risalto il Giorgio del Richelmy (che essendo poi, contrariamente che nel libro, meno bello del Milton del Marinelli, non si capisce proprio come Fulvia potrebbe farne il preferito ).
Fotografia sempre molto curata, con un'abbondanza forse di vapori che avvolgono alcune scene e che poco hanno a che fare con la fitta nebbia magistralmente evocata da Fenoglio. Musica così così, con un eccesso di " Over the rainbow " in tutte le salse.  Dietro le quinte, il mago di Oz sommessamente ringrazia.





giovedì 2 novembre 2017

" VITTORIA E ABDUL " di Stephen Frears ( Regno Unito, 2017 )

Tra i film attualmente in programmazione, questo " Vittoria e Abdul " mi è sembrato così, ad occhio e croce, uno che andandolo a vedere non potesse poi  deluderci del tutto . Anzi, che fosse perfino in grado di riappacificarci con un cinema di qualità ma  senza troppe ambizioni ( non si può  mirare sempre a fare il capolavoro di cui parleranno un giorno le storie del cinema ) e con il regista, il britannico Stephen Frears. Forse ricorderete che costui ci deluse, lo scorso anno,  col ruffianesco e mal riuscito "Florence ", la storia della miliardaria che si ostinava a credere di essere una grande cantante, interpretato (ahimè) da una eccessiva Merryl Streep. Autore particolarmente interessante a cavallo tra gli anni '80 e '90, libero e corrosivo , si è poi lasciato riassorbire dal cinema più commerciale, continuando a darci , quà e là , qualche titolo interessante  ( " The Queen " , " Tamara Drewe " ). Fino all'infortunio  di " Florence " appunto, dove alle prese con una  " success story " tipicamente americana, con due attori  che gli avevano troppo preso la mano ( a dar la replica alla Streep era il bolso Hugh Grant ) Frears non è stato capace di tirarne fuori un film autenticamente personale : solo un pallido " divertissement ", insomma, che mal sfruttava un soggetto tutt'altro che scialbo e che nelle mani di un regista di casa - un Clint Eastwood ad esempio - sarebbe forse  diventato una storia interessante, non priva di evidenti risvolti drammatici.
Mi attirava poi il fatto di vedere, ancora una  volta in un film di Frears, la più grande attrice inglese,   "Dame " Judi Dench, oggi ottantatreenne ma sulla breccia più che mai. Una garanzia, si capisce. E poi, terza ed ultima ragione per andare abbastanza sul sicuro con questo " Vittoria ed Abdul ", il fatto che al centro della vicenda c'è un personaggio come la Regina Vittoria, con la quale proprio la Dench si era già misurata alcuni anni or sono. Un grande monarca, che ha regnato su un autentico impero per quasi sessantaquattro anni e che ha dato il suo nome ad una intera epoca che si voleva ispirata da forti valori morali e che propiziò l'ascesa, quasi dovunque in Europa,  della borghesia produttiva. Un tipetto oltretutto abbastanza tosto, capace di confrontarsi con le  altre teste coronate della sua epoca e con la stessa corte d' Inghilterra, non proprio un giardino d'infanzia.

Qui la trama è, ancora una volta, una storia vera. Una storia  già nota a suo tempo ma che la scoperta, pochi anni or sono, dello scambio epistolare  avvenuto  tra Vittoria  e questo Abdul, un giovane indiano mussulmano diventato cameriere ed in seguito segretario particolare e confidente della regina  ultrasessantenne ( siamo nel 1987, l'anno del giubileo del suo regno )  ha arricchito di nuovi particolari permettendo di meglio caratterizzarla. Proiettato un pò dalla mera casualità e un pò dal suo spirito di intraprendenza a stretto contatto con la sovrana, Abdul riesce ad attrarre prima la curiosità di costei per il mondo culturalmente così diverso da cui egli proviene . Poi a far nascere nei suoi confronti, sempre da parte di Vittoria, un complesso sentimento   che oscilla da una specie di protettivo paternalismo ad una vera e propria dipendenza psicologica cui non è estranea probabilmente , ancorchè rimanga inespressa, una forma  di attrazione fisica e , conseguentemente , di natura sentimentale. Ormai personaggio imprescindibile dello stretto " entourage " della regina, Abdul  diviene inevitabilmente il bersaglio dell'astio e dell'invidia  degli altri membri della Casa reale i quali cercano di disfarsi di lui con tutti i mezzi più o meno leciti. Vittoria resisterà peraltro a tutte le pressioni volte ad allontanare Abdul e lo terrà con sè fino alla sua morte, avvenuta quindici anni dopo. L'attrazione reciproca ed il frastagliato rapporto tra i due , cementato dal desiderio di evasione di una donna stanca dei vincoli cui è assoggettata per i doveri del suo stato e, per converso, dallo spirito di avventura di un giovane straniero, povero ed ambizioso, avranno dunque avuto partita vinta sulle regole di un mondo ingessato nelle sue forme e nei suoi pregiudizi.

Libertà e costrizione. Sono questi i due poli, l'alfa e l'omega tra cui si muove una vicenda senza dubbio affascinante e ricca di chiaroscuri. Vi è dentro lo stato d'animo di una donna non più giovane, rimasta vedova e sola negli affetti più elementari, l'attrazione tra due esseri così  diversi, l'esotismo di un mondo colonizzato ma ricco di una prorompente spiritualità, il fascino che esercitava indubbiamente il dominio britannico sui sudditi di paesi lontani ( Abdul è galvanizzato, all'inizio del film, dall'idea di  poter andare in Inghilterra per consegnare una medaglia commemorativa a colei che è anche imperatrice dell' India ). Nasce così, tra i due personaggi della vicenda, un sentimento che acquista forza crescente man mano che il nuovo vincolo di amicizia si precisa sempre di più. Una amicizia, sia pure diseguale, che sorta inizialmente , nell' animo della sovrana, come curiosità e  quasi capriccio da soddisfare , trova dall'altra parte una reazione di riconoscenza e di affetto per vedersi elevato ad un ruolo così prominente. Sentimenti cui peraltro non è estraneo -  come riusciamo ad intravedere -  un umanissimo calcolo di convenienza sociale ed economica che conferisce al personaggio di Abdul  un pizzico di ambiguità e di cinismo che sfugge alla stessa Vittoria.
Ed è qui che il film , godibilissimo nella descrizione dell'ambiente reale, con un Frears tornato caustico ed irriverente quanto basta, avrebbe potuto arricchirsi di una ulteriore ed ancora più coinvolgente dimensione, se gli sceneggiatori ed i registi lo avessero voluto. Vittoria ed Abdul, prigionieri l'una dei riti della Corte e l'altro della sua condizione di suddito colonizzato, cercano entrambi nel loro legame la possibilità di sfuggire alle imposizioni, di  autodeterminarsi, di vivere il destino cui si si sentono sollecitati. Ma così facendo si affidano, in un certo senso, ad una nuova costrizione che li rende psicologicamente e materialmente dipendenti l'una dell'altro e quindi , irrisoriamente, non più liberi di quanto non fossero prima. Suprema ironia - verrebbe fatto di dire - della condizione umana che più cerca di sbarazzarsi dei suoi  condizionamenti e più ricade in nuove forme di sudditanza. Tema,  come vedete, che era già  " in re ipsa", nel legame così singolare che si stabilisce tra i due personaggi, ma che il regista ha solo sfiorato, pago probabilmente della buona, puntuale  trattazione  dell'ossatura centrale, diciamo così , della vicenda  e della pittura d'ambiente, come dicevo, sempre vivida e accattivante per lo spettatore . Il Frears di trent'anni fa probabilmente avrebbe scavato più a fondo. Quello di oggi si accontenta di rimanere alla superficie, peraltro perfettamente levigata e resa scintillante dalla mano  di un professionista consumato.


Se questa è la ( piccola ) riserva di fondo che mi sento di fare ad un film  che , almeno nella seconda metà, cade a tratti in un eccesso di sentimentalismo  ed appare un pò troppo " politically correct ", assolutamente evidenti sono comunque i suoi non pochi meriti . A cominciare da una fluidità di narrazione, specie nella prima parte,  che va tutta accreditata al  regista. Si vedano le scene dell'arrivo presso la Corte inglese  di Abdul e del suo compagno grassottello, la sequenza del banchetto reale durante il quale avviene l'incontro tra Vittoria ed il suo futuro confidente indiano ( un capolavoro , questa, di intreccio tra piani medi, primi piani e piani lunghi  che " spiegano " molto meglio di qualunque dialogo ). Si scorge qui l'abilità - e perchè no l'ispirazione - di un vero uomo di cinema. Continuando, la cura con cui sono stati arredati gli ambienti in cui si svolge la vicenda, la magnificenza e la precisione dell'abbigliamento costituiscono particolari di grande importanza in un film che voglia porsi come una fedele ricostruzione di un'epoca , non per sfuggire al suo assunto principale  ma per cogliere meglio le implicazioni di carattere storico-ambientale che quel nucleo centrale, quel " focus " del film ( il legame che si stabilisce tra due esseri tanto diversi ) fanno emergere con ancora maggiore evidenza drammatica . Per concludere poi con l'interpretazione, davvero superlativa. Qui , a differenza che in " Florence ", Frears ha avuto la fortuna di avvalersi di un'attrice molto sorvegliata nell'incarnare un personaggio che pur si sarebbe prestato a  qualche deprecabile  gigioneria . L'interpretazione della Dench è un miracolo di sottigliezza,  orgoglio e malinconia, illusione e disincanto di un personaggio regale che è prima di tutto una donna sola e destinata, fondamentalmente, ad essere ingannata, l'epitome della condizione femminile stessa di quegli anni, che si nascesse regina o semplice borghese. A Dame Judi basta socchiudere gli occhi, piegare leggermente il capo, accennare una frase ( che splendida voce, andate, se potete, a vedere il film in versione originale ) per evocare tutto un mondo, tutta una gamma di sentimenti che richiederebbero molti maggiori sforzi ed impegno da parte di regista ed interprete se non ci fosse lei, con la sua meravigliosa capacità di calarsi perfettamente nel personaggio, senza nulla togliere e nulla aggiungere. Mirabile Judi ! Ce la farà questa volta a conquistare l' Oscar per la migliore interpretazione da protagonista che le sfugge da tempo ?. Ne prese uno, quasi vent'anni fa, come " best supporting actress ", per " Shakespeare in love ". Sarebbe ora che ne avesse uno che suggellasse in modo degno una carriera esemplare.       



lunedì 23 ottobre 2017

" DUE GIORNI E UNA NOTTE " di Jean-Pierre e Luc Dardenne ( Belgio, 2014 )

Perdura in questi giorni, a mio umile avviso, la penuria di nuovi film che meritino  la nostra  abituale visita ad una sala cinematografica. Quel che passa il convento , almeno sugli schermi milanesi, non mi convince molto. Forse dovrei andare a vedere il film del cileno Sebastian Lelio, " Una donna fantastica ", ma sento odore di " politically correct " nella trama e quindi - almeno per ora - mi astengo. Oppure non dovrei lasciarmi sfuggire un film slovacco su cui ho scarse referenze, presentato da noi col bislacco titolo in inglese di " The Teacher ", giudicando dal fatto che, sia pure in un cinemino semiperiferico, resiste qui  da più di un mese.
 Sarà, ma nell'incertezza preferisco- come ho detto altre volte - rifugiarmi nella visione di un bel DVD con un film del passato. Che poi " passato " non vuol dire necessariamente epoche lontanissime e quindi vicende in scarsa sintonia con la nostra. Questo che vi propongo oggi- e che alcuni di voi potrebbero aver visto a suo tempo - non ha che tre anni di vita ed è sempre attualissimo. Scritto e diretto dalla coppia di registi belgi che ci ha dato, in poco più di un ventennio, alcuni tra i film più sinceri ed intensi che sia capitato di vedere  (ricorderete, nella scorsa stagione, " La ragazza senza nome " ) questo " Due giorni e una notte " si vede sempre con grande emozione ed un genuino piacere estetico . Il cinema dei fratelli Dardenne  (les frères ", come vengono chiamati con semplicità e rispetto dai cineasti e dai cinefili ) non tradisce mai le nostre aspettative. Appaga sempre la nostra sete di verità, la verità dei sentimenti, e libera il gioco delle nostre reazioni emotive : pietà, tristezza, affetto e speranza per  personaggi  ordinari  ma emblematici della vita d'oggigiorno.


Il punto di partenza , cioè il quadro ambientale da cui prende le mosse la vicenda, è ben conosciuto dai fedelissimi dei Dardenne perchè , ad ogni loro film, è sempre lo stesso. Siamo a Seraing, località che fa parte dell'agglomerazione di  Liegi, nella parte francofona del Belgio. Zone un tempo piuttosto fortunate dal punto di vista economico per la presenza di importanti giacimenti di carbone (tutte le miniere sono ormai chiuse ) e di una connessa attività siderurgica di considerevole ampiezza,oggi in gravissima crisi. Zone quindi socialmente depresse, come tante altre in Europa e dove la nascita di nuove piccole attività economiche non è ancora in grado di assorbire la disoccupazione o il sottoimpiego venutisi a creare. Ed è qui, in questi centri urbani topograficamente abbastanza confusi, distesi  in modo irregolare lungo la  Mosa, il grande fiume della regione, in questi anonimi quartieri di abitazioni modeste ma ancora dignitose, senza un vero centro, con scarsi luoghi di aggregazione che i Dardenne - che hanno sempre vissuto lì - ambientano le loro vicende.  Vicende esemplari di una condizione umana chiusa spesso nel guscio dell'indifferenza, senza vera interazione tra le persone o i gruppi familiari, a volte poco solidale negli stessi  ambienti di lavoro. I personaggi dei loro film, piccoli artigiani, giovani in cerca di occupazione, immigrati,persone che con difficoltà sbarcano il lunario, si muovono su questo ristretto palcoscenico. Cambiano di nome di film in  film ( ma gli attori , tutti fedelissimi dei " frères ", sono spesso gli stessi, riconoscibilissimi ) vivono vicende sempre diverse ma accomunate da una situazione di malessere esistenziale prima ancora che economico e ambientale. Il fatto è che i due autori non sono tanto interessati agli aspetti politici e sociali delle vicende che vengono messe in scena- pur precisi e presenti, mai edulcorati - quanto alla dimensione umana , alle risonanze " interne " dei personaggi, potremmo dire,  che quelle vicende sono chiamati a vivere. Cinema eminentemente " umanistico ", quindi , perchè incentrato sulle persone semplici, sui loro sentimenti, le loro paure, le loro modeste aspettative . Che pone in evidenza situazioni di disagio, talvolta anche di grande difficoltà, ma senza cadere nella disperazione. Anzi, dotato sempre di un cauto , provvidenziale ottimismo che deriva proprio dalla fede nella condizione umana, fragile e sorprendentemente forte al tempo stesso.

Possiamo, oltretutto in un difficile momento dell'esistenza,  vedere il nostro destino lavorativo messo in gioco in un referendum tra i nostri colleghi in cui questi siano chiamati a scegliere tra, da un lato,  il mantenimento del nostro posto di lavoro e, dall'altro, l'ottenimento di un " bonus " , cioè un premio "una tantum " di un migliaio di euro ( collegato , però, al nostro automatico licenziamento ) ?  Scelta tremenda quella che- nell'intento di ridurre il personale e forse anche di liberarsi di un elemento ritenuto meno valido - viene proposta dalla direzione ai dipendenti della fabbrichetta di pannelli solari nella quale lavora Sandra, la protagonista del film e la "nominata" per la fatale estromissione. All'inizio del film, è un venerdì sera, Sandra apprende che il referendum ha dato una schiacciante maggioranza all'ipotesi del " bonus " e quindi, indirettamente, a favore del suo licenziamento. Per una donna giovane ma sposata ( il marito fa il pizzaiolo in un caffè e non deve nuotare nell'oro ) con due figli ancora piccoli e che, soprattutto, esce da una grave depressione che l'aveva costretta a restare a casa per lungo tempo, non precisamente una bella notizia. Ma c'è ancora una speranza, come le dicono subito una collega di lavoro ed il marito. Quella , avendo ottenuto che il direttore consenta la ripetizione del voto il lunedì successivo, di convincere nel frattempo una parte di coloro che avevano votato a favore del premio in danaro a cambiare orientamento e a pronunciarsi, questa volta, per la continuazione del rapporto di lavoro di Sandra ( rinunciando, s'intende in questo caso al "bonus" ). Per raggiungere questo ( non facile ) obiettivo mancano solo, quindi, due giorni. Due giorni ( più una notte ) che Sandra impiegherà, sostenuta dal marito, a contattare una buona parte dei colleghi di lavoro andandoli a cercare a casa loro durante il fine settimana. Non vi racconterò, ovviamente, come va a finire questa vicenda così drammatica. Ma, senza tradire la consegna che mi sono dato, vi dirò almeno che le peregrinazioni di Sandra non assumono un significato solo ai fini dello scioglimento del nodo narrativo al centro del film  quanto anche della  crescita personale del personaggio, dei contatti che stabilisce con colleghi di lavoro con i quali, prima, scambiava forse solo un rapido saluto. Una storia " di formazione ", insomma, come tutte quelle dei fratelli Dardenne.

" Due giorni e una notte " ha quindi  come nucleo centrale - voi vedete -  un tema nobilissimo. Muovendo da una situazione purtroppo molto comune, l' odierna precarietà del posto di lavoro a fronte dei bisogni  alla cui soddisfazione , per converso, diventa sempre più difficile rinunciare , ad essere esplorati in questo film  sono la condizione umana, il rapporto con sè stessi di maggiore o minore autostima, le relazioni con gli altri, l'empatia e la solidarietà che ne derivano. Ma, come ho ricordato prima, è vero che  il viluppo dei sentimenti, il dolore , l'angoscia, costituiscono il sostrato delle vicende solitamente proposte dai due autori. Ma l'acuta, sensibile osservazione delle tipologie umane  (che qui compone una straordinaria " galleria " di figure di contorno, ma non per questo meno importanti )  e il costante anelito dei personaggi a liberarsi dal peso  dei condizionamenti che impediscono loro di assurgere ad una rinnovata positività, in breve alla consapevolezza di ciò che è  "giusto" fare e , quindi ad una speranza di rigenerazione, sono il contrappeso che fa dei loro film tutt'altro che delle opere tristi e pessimistiche. E tutt'altro che triste è il risultato figurativo di  "Due giorni e una notte ".Questo è un film  splendido dal punto di vista anche formale. Difficile rimanere insensibili alle sequenze degli incontri di Sandra  con i colleghi di lavoro o alle scene di vita familiare, tutte filmate con scioltezza del ritmo espositivo e solidità della costruzione drammatica. Ecco spiegato perchè i  " frères " ci offrono solo un film ogni  due- tre anni . Tale è infatti la loro cura nella preparazione di un nuovo titolo ( l'impostazione degli attori, le numerosissime prove prima di incominciare a girare , la scelta dei luoghi dove ambientare la vicenda , in particolare gli interni, tutti grondanti di verità ) che i normali tempi di produzione vengono necessariamente dilatati.
Marion Cotillard ( sì, proprio lei, l'interprete di tanti film " patinati " di stampo semi-hollywoodiano) è in scena sempre  e risulta qui di una assoluta, sconvolgente autenticità. Accanto agli altri interpreti minori, una menzione particolare va fatta almeno per l'attore che interpreta il marito, il bravo e misurato Fabrizio Rangione ( che, con il suo nome italianissimo, ci ricorda il contributo storicamente rilevante dato al Belgio dai nostri connazionali immigrati ). Quanto sono commoventi e convincenti i fratelli Dardenne con il loro neo-neorealismo ! E, soprattutto, quanto sono bravi ( nella sceneggiatura così come nella regia ) nel non far emergere  troppo la loro bravura ! Nella francescana semplicità, voglio dire, di " nascondersi " interamente dietro le loro storie ed i loro personaggi, dietro la nuda verità delle une e degli altri.

  


domenica 15 ottobre 2017

"Il COLORE NASCOSTO DELLE COSE " di Silvio Soldini ( Italia, 2017 )

Vi piacciono , al cinema, le storie romantiche ? L' amore che nasce tra due esseri che si sono appena conosciuti, le piccole e grandi difficoltà cui costoro vanno inevitabilmente incontro per le differenze che sempre esistono nella natura umana ? Temi che sembrano ormai frusti, abusati, visti mille volte, letti o ascoltati fino alla noia. Eppure, ogni volta ( almeno certe  volte ) capaci ancora di destare in noi un sentimento, un'emozione particolare. Come se quella storia fosse la nostra. Come se fossimo ancora pronti ad  innamorarci ed a mettere in gioco la nostra stessa esistenza per raggiungere la felicità...
Se, come credo, la risposta è sì, allora andate a vedere di corsa - prima che sparisca dalla ordinaria programmazione - questo " Il colore nascosto delle cose ", uscito sugli schermi ai primi di settembre senza troppo rumore pubblicitario. Per la verità era stato presentato, negli stessi giorni, a Venezia in occasione del Festival. Ma, come si dice, fuori concorso e quindi non destinato ad attirare su di sè l'attenzione della critica. Peccato perchè , dell'intera gamma italiana,  era probabilmente la cosa migliore ed almeno un premio per l'interpretazione femminile lo avrebbe francamente meritato. Il titolo, per la verità, può sembrare un pò concettoso. Ma il suo significato si chiarisce subito quando ci si rende conto, dalle prime inquadrature, che il personaggio femminile è una cieca e quindi  persona ricca di sensibilità e  capace di " vedere ", di intuire ciò che è dietro la superficie delle cose, appunto.  Non però un personaggio dotato di particolari poteri sensoriali, una specie di superdonna in grado di far fronte a biechi od astuti lestofanti che cercano di profittare della sua minorazione. Ricordate Audrey Hepburn in  " Gli occhi della notte " oppure Mia Farrow in " Terrore cieco " ? No, qui abbiamo una semplice non vedente, come purtroppo  altre come lei,  che conduce una esistenza normale, ha una professione (fa l'osteopata ) e non  si trova implicata in vicende particolarmente spettacolari o drammatiche.


Devo fare un passo indietro. Il film è italiano, italianissimo per regia, sceneggiatura, interpretazione. Si svolge in Italia, anzi a Roma (anche se l'aspetto localistico, a differenza della maggior parte di quelli ambientati nella capitale, non è mai particolarmente marcato ). Io non amo troppo, anzi non li amo quasi mai, i prodotti della cinematografia italiana d'oggi.  Sappiamo che i  "maestri" -  come del resto un pò dappertutto nel mondo -  non ci sono più ( qui da noi sopravvivono Bellocchio, Olmi, i fratelli Taviani ). Ma non sono stati rimpiazzati, come in Francia o negli Stati Uniti, da nuove schiere di buoni autori, accompagnati talvolta da ottimi attori . Orfano di " mostri sacri " o di grandi divi, il cinema italiano è per di più quasi sempre asfittico, ripiegato su sè stesso, privo di idee. Non riflette , a a differenza delle  due fortunate epoche che ha attraversato negli ultimi decenni ( il neorealismo e gli anni '60 ) la nostra società, i fermenti che la agitano. Anche i film che trattano problematiche lontane da quelle "civili", ad esempio le vicende di coppia o le trame familiari, hanno in sé, spesso, qualcosa di artefatto,  di lontano dalla realtà che ci circonda. D'accordo , sappiamo che il cinema è finzione Ma nel senso di trasfigurazione, non di fuga dal vero. Ecco , i film italiani - perfino quelli programmaticamente  più realistici, i molti che trattano vicende di malavita e di conflittualità urbana, ce n'è oggi una folta compagine, un 'arcadia quasi  di storie drammatiche ambientate nelle zone più disastrate del Paese - danno l'impressione a tratti  di un cattivo fumetto, di una raffigurazione arbitraria, esteticamente piatta. Manca  la spontaneità, la verità delle cose. Manca, in parole povere, la divina semplicità, quella che il poeta racchiude nella rima fiore-amore ,"...la più antica e la più difficile di tutte ".


Non così, fortunatamente, in questo " Colore nascosto delle cose ". Sono andato a vederlo  in extremis  ( stava lì ad aspettarmi da quattro settimane ) e convinto solo, alla fine, dal fatto che è l'ultima fatica di Silvio Soldini. Un regista milanese ( dunque uno di casa... ) ma che non ha remore nell'ambientare i suoi film anche altrove, autore diseguale di una decina di film tra cui vanno ricordati almeno " Le acrobate " e  " Pane e tulipani ". Un regista onesto, che non delude mai. Uno dei non molti, nello spento panorama nazionale, che sappia descrivere con pochi tocchi, con delicatezza ricca di profondità , i sentimenti, le gioie e le difficoltà del vivere quotidiano. E poi , un altro motivo che mi ha spinto è stata  la presenza di Valeria Golino che avevo lasciato, due anni fa, meravigliosa protagonista di " Per amor vostro ", un film coraggioso ma riuscito a metà che le dette allora la Coppa Volpi a Venezia per la migliore interpretazione femminile. Straordinaria attrice, cresciuta tantissimo negli ultimi anni, ed oggi a 52 anni -  possiamo dirlo perchè non li dimostra per niente  -  di gran lunga la migliore attrice del nostro cinema ( forse  solo Claudia Gerini e Margherita Buy possono starle vicino, ma un gradino più sotto ). E l'unica, soprattutto, per la propria esperienza internazionale, ad essere esportabile all'estero a cercare di rinverdire i  fasti delle nostre interpreti drammatiche migliori, da Anna Magnani a Monica Vitti.  E Soldini e Golino ( già insieme nel ricordato " Le acrobate " , che però risale  più di vent'anni fa ) non tradiscono  le nostre  tenui speranze, dandoci un film chiaro , lineare, " italiano " ma non bozzettistico, sincero anche quando - occorre dirlo - non convince sempre pienamente . Ma se questo accade non è per imperizia o mancanza di ispirazione. Una volta di più il problema sta nella sceneggiatura - troppo ricca di personaggi secondari non sempre necessarissimi -  e in una lunghezza un tantino eccessiva : quasi due ore. A quando il ritorno alla buona abitudine di contenere i film nei canonici novanta minuti di una volta ?


Il film  parte da una situazione  classica, al cinema e in qualunque forma di narrazione: l'incontro tra due persone, spesso molto lontane tra di loro per carattere ed inclinazioni.Teo, un pubblicitario "creativo " quarantenne , tutto teso a godere della semplice superficie, dell' involucro delle persone e delle cose in cui si imbatte, ed Emma, una cieca della stessa età, indipendente, che ha saputo coraggiosamente vincere le mille costrizioni della sua condizione esistenziale, si incontrano per caso in un luogo dove i visitatori " normali " , guidati da volenterosi non vedenti, fanno l'esperienza di muoversi nel buio totale, senza punti di riferimento, per comprendere meglio cosa significhi una condizione così estrema. Teo, abituato a mordere , a consumare in fretta qualunque cosa senza particolari scrupoli, "punta"  in realtà Emma- che è molto carina - alla ricerca di una semplice avventura, una sorte di  "trofeo " da esibire agli amici , vista l' " eccezionalità " della preda. Emma, ricca di emotività, fragile sotto una scorza di apparente saldezza, si innamora realmente di Teo, senza sospettare che  questi ha una compagna fissa oltre ad una seconda amante saltuaria e non disdegna - come abbiamo visto -  qualche storia passeggera . Dal canto suo Teo, a contatto con un mondo totalmente nuovo che gli si schiude dinnanzi ( la sensibilità, la dolcezza, la profondità dei sentimenti di Emma ) a poco per volta si apre e riscopre, come se fosse stato lui  il vero " cieco " di questa vicenda, una gamma di sensazioni che, complice una dolorosa esperienza da adolescente, credeva di avere ormai sepolto in in angolino buio del proprio cuore.Purtroppo il destino sembra avere in serbo per lui nuove sorprese, nuovi ostacoli... Basta, non dirò di più per permettervi di scoprire da soli come andrà a finire. Occhio solo ( o meglio orecchio, e capirete perchè ... ) all'ultima , incantevole sequenza che chiude un film dalla trama molto semplice ma in realtà di un grande spessore contenutistico.Vorrei aggiungere, per permettervi di apprezzare meglio le situazioni in cui è in scena Emma, la cieca, che il regista-sceneggiatore Soldini ha studiato a lungo la condizione dei non vedenti, traendone anche, qualche anno fa, un bel documentario. Ma questo film , naturalmente, pur innestandosi su tale precedente esperienza, si spinge poi su altre piste, su altre ricerche morali ed estetiche.


Dicevo della sceneggiatura. Coesa, finalmente coerente ( il che vuol dire , semplificando, che il racconto sceglie la strada più breve e più logica per andare dal punto a al punto b ) costruisce una vicenda , diremmo , tutta in punto di merletto, delicata, fatta di stati d'animo e di una lente evoluzione di uno dei due personaggi principali, con sequenze brevi che si succedono con un ritmo sostenuto (delicatezza e descrizione dei moti dell'anima non debbono tradursi necessariamente, al cinema, in noia e scarsa incisività... ). Mi interrogo solo se il personaggio della giovane studentessa cieca , che Emma aiuta nei suoi primi difficili passi, dovesse avere necessariamente il rilievo e lo spazio che gli è stato dato. E lo stesso mi chiederei a proposito dell'amica ipovedente di Emma, anche se è  un personaggio secondario abbastanza gustoso. Con qualche aggiustamento, a mio avviso, la sceneggiatura sarebbe stata ancora più coesa e il film sarebbe durato di meno...
Soldini regista , comunque , è bravissimo. Finissimo nel renderci le più piccole sfumature dei suoi personaggi e della loro traiettoria emozionale, ha un vigore plastico nel descrivere i corpi, i particolari anatomici , le mani che si toccano, gli occhi che si incontrano. Come i migliori registi, non muove sullo schermo semplici ombre prive di spessore ma crea autentiche " forme " che occupano lo spazio . Con lui la più semplice o banale delle situazioni acquista una particolare risonanza interna che scuote la coscienza dello spettatore, senza far ricorso a quei lenocini artistici cui la presenza di un personaggio " estremo " come una cieca si sarebbe facilmente prestato.
Di Valeria Golino, implicitamente ho già detto. Non recita Emma , " è " lei. Incantevole, commovente interpretazione che la consacra definitivamente- se ancora qualcuno non ne fosse convinto - come la migliore attrice italiana degli ultimi venti- venticinque anni. La sua  capacità espressiva ( pensate che qui , per esigenze di copione, non può ovviamente avvalersi dei suoi occhi ) è davvero notevole, grazie anche a una forte presenza scenica e ad una voce straordinaria,  roca e sensuale quanto basta. Di fronte a lei, un attore meno famoso ma molto duttile e che interpreta con  bravura il non facile personaggio di Teo: Adriano Giannini , figlio di Giancarlo, un volto molto espressivo e che tiene testa con successo al " mostro sacro " Golino. A posto gli altri, come si diceva nelle recensioni di una volta. Buona la musica e ottima la fotografia, così nelle scene cittadine, specie quelle notturne, come negli interni sempre molto ben studiati che Soldini predilige.
Che dire di più ? Confesso che questo film mi ha colpito nel profondo, mi ha commosso ( forse sto invecchiando )e, effetto collaterale che non intendo trascurare, mi ha indotto a non considerare completamente spento l'orizzonte del nostro cinema. Come dicono qui a Milano, " sperém " ( speriamo ).




giovedì 5 ottobre 2017

" " L'INSULTO " di Ziad Doueiri ( Libano, 2017 ) " LES BIENHEUREUX " di Sofia Djama ( Algeria, 2017 ) " LE FIDELE " di Michael Roskam ( Belgio , 2017 )

Tre film della imperdibile rassegna  milanese " Le vie del cinema ", visti la settimana scorsa,  mi inducono a qualche riflessione sulla qualità di alcune cinematografie " marginali ", tali cioè rispetto a quelle imperanti sul  mercato ( voglio dire l'americana,  la francese  e, visto che siamo in Italia, quella di casa nostra ). Sono tutte e tre opere che si giovano  di capitali e, talvolta,  di contributi tecnici di una cinematografia maggiore,  in questo caso la francese. Ma sono,in massima parte, frutto di  idee, di esperienze di vita vissuta e di contesti artistici  genuinamente autoctoni. Libano, Algeria , Belgio. Ecco tre Paesi, tre situazioni ambientali non prive di problemi. A cominciare da quelli linguistici e di " identità " nazionale , relativamente al primo e all'ultimo. Per andare poi a quelli politici, religiosi e di sicurezza interna , prevalenti nella ancor giovane repubblica magrebina. Sulla carta, sono  tutte situazioni quanto mai interessanti.
Il cinema, lo abbiamo sostenuto altre volte, ha il diritto di affrontare o anche solo sfiorare temi di una maggiore consistenza " civile " o francamente politica che non quelli più "personali ", ad esempio i classici rapporti di coppia o di ambito familiare ( tutt'altro  che trascurabili, questo va da sé,  per i loro potenziali connotati drammatici e che ci hanno spesso dato opere memorabili ) . Deve farlo però non da semplice " comiziante ", se mi permettete il termine un tantino desueto ma che spero renda l'idea. Piuttosto da artista, preoccupandosi cioè di rivestire le proprie idee - condivisibili o meno , giuste o sbagliate che possano sembrarci - di una forma autenticamente " cinematografica ". Che soddisfi cioè i nostri sensi, non solo la nostra mente, e giustifichi quindi il fatto di essere andati al cinema invece di essere rimasti a casa a leggere un libro o un articolo di giornale.  Con questo voglio dire che un film, come qualunque opera d'arte, può avere un contenuto, di per sè,  intellettualmente attraente e stimolante quanto si vuole. Ma poi bisogna saper fornire a questo contenuto una veste consona al mezzo con il quale vogliamo trasmetterlo all'esterno. E che, sempre nel caso del cinema, arte eminentemente visiva, richiede maturità espressiva e capacità di dare vita ad una creazione che si regga sulle proprie gambe grazie alle cose che " mostra " e non solo a quelle che " dice ".

Fortunatamente per noi spettatori è, proprio in pieno, il caso dei primi due film in argomento, il libanese e l'algerino.  Diretti da registi che per varie ragioni, personali ed artistiche, passano entrambi buona parte della loro esistenza all'estero, in particolare in Francia, ma non per questo non riflettono fedelmente lo stato delle cose dei loro rispettivi Paesi di origine. Direi anzi che, come succede talvolta per molti " esiliati ", volontari o meno, il loro coinvolgimento spirituale negli ambienti e nelle situazioni da cui sono fisicamente lontani è ancora più forte di quello di chi ci vive in mezzo tutto il tempo.
" L'insulto " è scritto e diretto da Ziad Doueiri. Non più giovanissimo ( 53 anni ) ha già al suo attivo almeno due o tre lungometraggi, visti nei festival ma che hanno circolato poco nel circuito commerciale. Il suo modo di fare cinema è  influenzato, con tutta evidenza,  dai film d'azione americani. Diplomato in California, assistente e operatore  in passato di Quentin Tarantino , Kubrick  è per lui un'altra fonte di ispirazione , considerando il vigore polemico del suo approccio all'argomento trattato e la forza delle immagini cui fa ricorso. Ma chissà che non abbia visto, per venire ad influenze più mediterranee, anche i film di Costa- Gavras sulla Grecia dei colonnelli e quelli del nostro Francesco Rosi degli anni '60-70 ( " Le mani sulla città ", " Lucky Luciano " , " Il caso Mattei " ).  Il suo, insomma, è cinema sanguigno ma politicamente avvertito, improntato a valori di mutuo rispetto e di solidarietà contro tutti i settarismi, religiosi e politici, che da sempre minano la pace e i delicati equilibri di una tormentata regione come il Medio Oriente. Mussulmano di origine, ha sempre contestato - tra l'altro - la situazione di non guerra e non pace del proprio Paese nei confronti di Israele, posizione abbastanza scomoda e invisa all'ufficialità del Libano. Nel settembre di quest'anno è stato perfino brevemente arrestato ( poi rilasciato ) al ritorno in patria da Venezia per aver girato il suo precedente film proprio in Israele contravvenendo così al divieto per i cittadini libanesi di viaggiare  in quel Paese. Situazioni che per noi possono sembrare difficili da accettare ma che in quella regione sono purtroppo all'ordine del giorno.

La trama è molto semplice. Il punto di partenza è un banale litigio di strada come  ne potrebbero avvenire dovunque ( insulti e percosse ) tra un focoso meccanico e un capomastro che, sotto casa sua,  stava eseguendo certi lavori  per conto del comune. Il litigio finisce addirittura per due volte in tribunale tra l'imbarazzo dei giudici che non sanno bene,nella circostanza, come dividere la ragione dal torto. Già, anche perchè siamo nel Libano che ancora sconta la tragedia di una guerra civile quasi ventennale tra milizie " cristiane " da un lato, mussulmani e palestinesi dall'altro. E perchè si da il caso che il meccanico sia un fervente sostenitore del partito cristiano ed il suo antagonista un  orgoglioso rifugiato palestinese. Materia incandescente, capirete bene, per un ambiente così facile al continuo rinnovarsi degli odi settari. Ci si mettono quindi anche la politica ed i media a cavalcare le emozioni delle due opposte fazioni, fino alla decisione finale dei giudici che qui non vi dirò. Mi rendo conto che così riassunto il film può lasciare un tantino dubbioso un potenziale spettatore occidentale abituato a sapori più forti e a vicende più sottili ed articolate. Sarebbe però un vero peccato tralasciare un film che non solo vi fa capire in poco più di novanta minuti quali sono le passioni che agitano quella bella e sfortunata regione meglio di tanti saggi che potreste aver letto in argomento. Ma che , soprattutto, è una vera lezione di cinema. Drammatico, teso, girato con mano esperta da un regista che sa il fatto suo, autore anche della sceneggiatura ( finalmente una che sia  convincente nello sviluppo narrativo) " L'insulto " è interpretato da attori sorprendenti per tipologia umana e capacità recitativa, a cominciare  da Kamel El Basha che interpreta il palestinese e che, per questo,  ha avuto il premio a Venezia. Ma sono tutti bravi. Menzione particolare per l'istrionico attore che interpreta l'avvocato difensore del meccanico e per la bellissima  Rita Hayek che fa ( con apprezzabile intensità ) la parte della moglie del meccanico. A questa flessuosa bruna mediterranea, già celebre in Libano, sembra facile- tra l'altro - pronosticare una bella carriera anche all'estero.

Con  " Les Bienheureux " ( titolo evidentemente ironico, che noi potremmo tradurre con " Beati e contenti " ) Sofia Djama ci trasferisce in Algeria . Dal Medio Oriente al Magreb, dunque, un salto di qualche migliaio di kilometri. Ma la situazione politica presenta qualche analogia con quella descritta ne " L'insulto ". Traumatizzate da una  sanguinosa rivolta terroristica a sfondo islamico-integralista durata più di quindici anni e che ha richiesto una repressione altrettanto violenta, le autorità - un tempo fiere della struttura laica del loro Stato - non sembrano oggi contrastare a sufficienza una nuova e strisciante deriva a sfondo religioso della società algerina. Persistente autoritarismo pubblico e perdurare di una arretrata mentalità  nei rapporti familiari creano un'atmosfera soffocante che induce alcuni, giovani e meno giovani, a prendere in considerazione la "fuga " all'estero come unica soluzione. Un paese un tempo orgoglioso di essersi liberato da solo del giogo coloniale, imbevuto di ideali solidaristici, dubita ormai di sè stesso e sembra bloccato nel suo sviluppo civile e sociale. Questa la tela di fondo sulla quale  la regista ( qui anche autrice di una sceneggiatura nel complesso coesa e coerente )  colloca la vicenda del film . Vicenda attraversata da tensioni ed incomprensioni familiari e interpersonali ma anche da momenti di tenerezza, di abbandono, di speranza venata da sconforto per un passato che non può tornare e da timore per un futuro ricco di incognite. Questo registro così vario e ricco di sfumature, difficile da modulare con piena padronanza per una regista esordiente ( Djama è al suo primo film ) viene invece utilizzato con maestria , senso del ritmo cinematografico, giustezza di accenti. Ne esce non solo un ritratto interessante di un Paese in fondo poco conosciuto ma anche uno " spaccato " familiare e sociale molto accattivante nella sua convincente descrizione e che si guarda con piacere e sincera partecipazione emotiva. Grande merito va, anche qui, non solo alla regista ma ai bravissimi interpreti, tutti molto espressivi. Menzione particolare alle due interpreti femminili ( le donne sono la vera speranza del mondo arabo, suprema ironia per un mondo ancora in gran parte maschilista... ) e cioè la giovanissima Lyna Koudri ( la ragazza amica del poliziotto ) e la splendida, solare Nadia Kaci ( la moglie del medico ). Davvero un film che emoziona e fa riflettere al tempo stesso. Libano, Algeria : sono davvero così lontani dalla nostra prospettiva o quelle storie e quei personaggi non hanno forse qualcosa da dire anche a chi abita sulla sponda opposta del Mediterraneo?

Situazione completamente diversa per " Le fidèle " di Michael Roskam, l'ultimo film di cui parliamo oggi.Qui siamo in Belgio, il ricco, gaudente Belgio che nuota ancora spesso nel benessere, la spensieratezza, il soddisfacimento dei sensi. Ma Anche il Belgio del malessere sociale crescente, dell'ipocrisia e del crimine. Un Paese molto meno scontato di come ce lo presentano i dépliants turistici e che, in fondo,  aspetta ancora il suo Bunuel o il suo Losey per essere raffigurato al cinema con  tutte le sue luci e le sue ombre. Un Paese che tutti conosciamo almeno attraverso la capitale, Bruxelles. Tra l'altro una città " cinematografica " come poche, con la sua particolare atmosfera, le case sofisticate, l'abbondanza di parchi e di giardini.  Ero andato  a vedere il film sperando di rivedere almeno tutto questo, dopo tanto mondo arabo di oggi splendidamente reso sullo schermo. Niente di ciò, purtroppo : amara delusione quindi per un film che , ancorchè ambientato a Bruxelles e immediati dintorni, potrebbe esserlo sulla luna senza che avessimo a stupircene. Trama e personaggi sembrano collocati in uno spazio asettico, privo di connotati di immediata riconoscibilità, tanto da suffragare la tesi un pò cattiva di chi sostiene che il Belgio, alla fin fine , è solo "un grande incrocio autostradale". Non sto a raccontarvi la trama per non deprimervi. Siamo in pieno nel fumetto ( quello alla " Diabolik", ma lì almeno i disegni erano migliori ) anche se il regista , autonobilitandosi, preferisce parlare di " melodramma ", credo senza capire di cosa stia  parlando.  Cafoni arricchiti, corse automobilistiche ( che ci regalano sequenze stucchevoli e risapute, senza alcuna valenza ai fini della vicenda ) delinquenti dal cuore tenero, ragazze disinibite e sventatelle, sparatorie e grandi lacrime. Il tutto senza coerenza narrativa ( ahi quei registi che non sanno scrivere i loro film ! ) e scarsa preoccupazione estetica ( l'uso troppo frequente dei primi piani e dei piani ravvicinati è per lo più sbagliato o inespressivo ). Insomma , un pasticcio incredibile che regala a " Le fidèle " ( " fedele " non so a chi, " infedele"  però al cinema appena decente e ai diritti degli spettatori ) la palma di peggior film del 2017 tra quelli che mi è capitato di vedere. Peccato davvero. Se questo fosse un esempio probante di "cinematografia belga " ci sarebbe da che essere preoccupati per il destino artistico del Reame ( per fortuna qualche discreto regista, fiammingo o vallone , esiste ). Pensando ad una delle caratteristiche che più colpiscono il visitatore quando mette piede per la prima volta a Bruxelles, cioè il bilinguismo quasi paritario ( in una città peraltro per più di due terzi assolutamente francofona ) c'è un solo momento simpatico in tutto il film .  Quello quando il rapinatore in banca , prima di impartire i suoi perentori ordini alla spaventata cassiera, si informa, " politically correct, " in quale delle due lingue  preferisce ascoltarli : "francais ou flamand ? " ( " francese o fiammingo " ? ). Un briciolo di forse involontario umorismo che è anche la spia della circostanza che no, non siamo sulla luna ma in Belgio, anno di grazia 2017. Pasticciata la regia, poco credibile la sceneggiatura, anche l'interpretazione è scarsa . Matthias Schoonaerts  mi è sembrato non all'altezza di un personaggio che dovrebbe essere il fulcro della vicenda . Adèle Exarchopoulos, strappata alle vicende pruriginose de " La vita di Adele ", è solo una bambinona inespressiva e leggermente sovrappeso. Temo che il film , visto che c'è un pò di sesso e un pò di violenza, non faticherà troppo, qui da noi, a trovare un distributore. E " L'insulto " e i " Bienheureux " ( qualunque sia il titolo che vorranno dargli)  ce la faranno ad arrivare sui nostri schermi ? Chi vivrà vedrà.

lunedì 25 settembre 2017

" MADAME HYDE " di Serge Bozon ( Francia, 2017 )

E' in corso a Milano- dopo essere stata a Roma-  la consueta rassegna  di film presentati all'ultimo Festival di Venezia, cui si aggiungono talune pellicole provenienti dal Festival di Locarno, sempre di quest'anno.Anche se stavolta mancano purtroppo i titoli più attesi, incluso il Leone d'oro, si tratta sempre di un evento molto seguito dal pubblico degli appassionati. Esso permette infatti di vedere in anteprima opere di un  qualche interesse ma che magari i distributori ( sempre loro... ) immetteranno nel circuito commerciale solo tra qualche tempo. Senza considerare poi  quei film , egualmente buoni se non migliori, che addirittura - se non ci fosse questa occasione -  non vedremmo mai perchè ritenuti, a torto o a ragione,  poco redditizi per una ordinaria programmazione nelle sale.

Il film che ha aperto la rassegna è stato " Madame Hyde ", francese, diretto da Serge Bozon. Il regista non è conosciutissimo internazionalmente ( io non avevo mai visto nulla di suo, prima di oggi ) ma in patria deve pur riscuotere qualche credito, come dimostra il fatto che è il secondo film di seguito che gira con Isabelle Huppert, cioè con un " mostro sacro " del cinema transalpino. Attore e critico cinematografico a tempo perso, oltre che " metteur en scène ", Bozon  potrebbe passare per una personalità poliedrica e quindi abbastanza degna di nota. A giudicare però da questa sua prova lo si dovrebbe , come si diceva una volta per gli scolari,  rinviarlo ad ottobre. Attenderlo cioè ad una prova migliore, che ci convinca pienamente della sua perizia e soprattutto della sua idea di cinema. Fare cinema per me, l'ho detto altre volte, significa esprimere  una visione del cinema stesso e del mondo ben strutturata sul piano estetico ed anche etico, perchè no . E al tempo stesso coinvolgere, emozionare il pubblico. Qui, invece, mi sembra si siano battute altre strade. A cominciare da quella dell'intellettualismo, inteso come tentativo di appellarsi  solo al cervello dello spettatore, costretto a cogliere allusioni, pretese " finezze " di sceneggiatura e di regia, rinvii ed ammiccamenti ad altri film, ad altri contesti. Un gioco, appunto,  tutto intellettuale  e che ci lascia a digiuno rispetto alla nostra abituale fame di storie, situazioni e personaggi che abbiano spessore narrativo e che arrivino a farci provare qualche sensazione forte ed autentica. Se no, ditemi voi, perchè perdere tempo a  scrutare delle ombre che si muovono su di uno schermo ?

Giudicate voi. Una insegnante in un liceo tecnico di una delle tante problematiche "banlieues " francesi, una timida ed apprensiva cinquantenne che risponde al nome di Madame Géquil ( capita  la sottilissima allusione al  probo dottor Jekyll del racconto di Stevenson ? ) ci viene mostrata come vittima prediletta del preside, dei colleghi , degli indisciplinatissimi allievi, perfino di due famelici alani neri  posseduti da  una mastodontica ed inquietante vicina di casa. Insicura, esitante perfino nei confronti del marito, l'unica persona peraltro che dimostri un pò di tenerezza per lei,essa si dedica la sera al suo unico apparente interesse nella vita, cioè alcuni misteriosi esperimenti scientifici, in una baracchetta nel compound della scuola cui solo lei ha diritto di accedere. Uno di questi tentativi con provette ed elettricità va a male, ci sembra di capire, per un improvviso guasto di corrente durante un temporale che  trasmette alla nostra ricercatrice una forte scossa e  la lascia bizzarramente alterata. Ed ecco madame Géquil trasformata, in certe notti di insonnia, in una assertiva ed implacabile Madame Hyde ( sì, proprio come nel " classico " cui lontanamente si ispira questo film ) che percorre l'abitato in una " mise " quanto mai eccentrica, a metà tra il negativo di una fotografia ( il " doppio " della  nostra abituale natura ? ) e una specie di arco voltaico ambulante , con scintille e linguelle di fuoco,  pronto a trasmettere a sua volta  scariche mortali alle malcapitate creature che vengono da lei avvicinate.Vengono così eliminati, gli uni dopo gli altri, i due odiati alani che la terrorizzavano e un insulso " rappeur " nero aduso , con i suoi compari, ad allietare musicalmente- si fa per dire - le pacifiche notti dei laboriosi " banlieusards ". Invece un allievo della nostra Madame Géquil/Hyde,un  adolescente diversamente abile di origine magrebina il quale la tormentava in classe ma era poi da lei apprezzato per il suo inusuale interesse per la fisica ed in particolare l'elettrotecnica, rimane solo fortemente bruciacchiato dal contatto con la inquietante apparizione e si salva . Dopo di che, Madame Géquil, resasi conto dei danni che può arrecare una Madame Hyde così malamente intenzionata, si autodenuncia alla polizia e, per fortuna di tutti, spettatori inclusi, esce di scena ponendo termine all'inquietante giochino.

Intendiamoci. Riscrivere in chiave moderna l'appassionante, tragica vicenda di Jekyll e Hyde o anche soltanto ispirarsi ad essa per tornare ad esplorare il dritto ed il rovescio dell'anima umana, l'inscindibile ma pericolosa coesistenza nella nostra natura del bene e del male, è operazione del tutto legittima e tentata più volte anche al cinema. Ma chi si accinge all'impresa, scrittore, sceneggiatore, regista, deve avere le idee molto chiare e far  capire bene le proprie intenzioni. Qui Bozon  ha invece , a mio personale avviso, ciurlato nel manico ed ingannato il suo pubblico. Partito apparentemente per una scontata satira di costume ( la scuola di Madame Géquil, ricettacolo di tante pratiche demenziali all'insegna del " politically correct " infuso in  un tessuto educativo sempre più slabbrato ) sceglie poi di percorrere i sentieri sdrucciolevoli del fantastico ( l'inquietante trasformazione  della protagonista in Madame Hyde ) senza averne la reale capacità visionaria ed il coraggio di sostenere fino in fondo l'astruseria di un siffatto registro . Esitante tra una possibile e graffiante " cattiveria " della sua  eroina ( resta poi da capire cosa le avessero fatto le sue sfortunate vittime, cani compresi ...) ed il "buonismo"  del tentativo  di quest'ultima volto a  recuperare attraverso l'amore per le scienze l'allievo che inizialmente non la rispettava e guidava quotidianamente l'azione di disturbo delle sue lezioni di fisica, il film dà l'impressione di non sapere in che direzione andare. E si perde quindi in caratterizzazioni quasi macchiettistiche dei personaggi minori. Ecco così il preside vanesio ed ambizioso, l'ispettore scolastico poco perspicace, il marito "modello" preoccupato per una moglie così speciale, l'inquietante e straripante vicina di casa, due allieve in continuo ed odioso rimprovero delle manchevolezze pedagogiche della povera Madame Géquil . Tutti " sottotesti " , diremmo gergalmente, che non aggiungono nulla alla vicenda centrale, anzi la rendono ancora più confusa ed insulsa. Nè critica di costume ( e Dio sa se non ce ne sarebbe bisogno con i tempi che corrono ) nè apologo sulle pieghe nascoste dell'animo umano, questo " Madame Hyde " naufraga inevitabilmente nel bozzettismo dell'ennesimo film sui quartieri periferici ed annessi stabilimenti scolastici di una Francia multietnica, in chiave ora ironica ora scontatamente comica. E tenta, addirittura,  un ardimentoso quanto problematico recupero della assurda storiella virando verso il film horror, il mistero, la dimensione fantastica, senza averne - ripeto - nè le capacità tecniche ( Madame Hyde e il suo cerchio di fuoco , a volte , più che la paura, ci infondono il buonumore che potrebbe darci un ingegnoso travestimento per un party di Halloween ) nè l'afflato ed il respiro morale ed estetico ( la sua Madame Géquil è quasi più scialba ed antipatica delle modeste persone che la circondano e le sue motivazioni restano incomprensibili ).

Anche qui, mi sento di poter dire, il difetto sta nel manico. Cioè nella sceneggiatura , che invece di condividere come le volte precedenti  con la moglie, l'attrice e regista Axelle Ropert, Bozon ha voluto caricarsi interamente sulle sue spalle. Vale il discorso di sempre : cattiva sceneggiatura, cattivo film. La sceneggiatura , a sua volta, deve essere il riflesso di una visione chiara, sufficientemente precisa degli obiettivi estetico-morali che vuole perseguire il film. Quando questa visione non c'è o è debole e confusa - come nel caso di specie- incominciano i guai : si vaga tra più tematiche senza affrontarne veramente nessuna e  non ci si accorge delle inevitabili incongruenze  narrative cui si presta una sceneggiatura raffazzonata e poco professionale ( quelle lunghe ed astruse spiegazioni di fisica della prof Géquil che ci stanno a fare , cosa aggiungono realmente al personaggio ? ) Anche il regista Bozon ( come lo sceneggiatore Bozon ) non riesce a muoversi con sufficiente coerenza in questo guazzabuglio. Alterna inquadrature molto studiate ( le scene notturne della banlieue) ad  immagini da sceneggiato televisivo, sciatte e frettolose ( gli " interni " della scuola e della casa della protagonista ) Una prova, sul piano estetico, puramente anodina, senza vera personalità. Ci sono film tutto sommato  lisci e levigati come un gigantesco cubo di plastica nel quale non si ha voglia di entrare, di visitarlo, di lasciarsi coinvolgere, di interrogarsi su cosa voglia dire chi l'ha ideato. Basta, il cubo sta lì. E tra noi e lui c'è uno spazio che ci separa irrimediabilmente.
Resta da dire dell'interpretazione. Nessuno mi toglie dalla mente che il soggetto sia piaciuto ad una Huppert in cerca di personaggi " estremi " dopo il successo di " Elle ". La sua interpretazione ( premio a Locarno ) è tutta in sottotono nella prima parte ( la timida Madame Géquil ) ed acquista man mano vigore quando subentra la trasformazione in Madame Hyde e la sua vera personalità, forte ed assertiva, finalmente si fa strada . Una buona prova, senza dubbio, ma un tantino sprecata.
 Nel consigliare o meno i film al pubblico dei lettori,  i " Cahiers du Cinéma " classificavano i film dal punto di vista del valore e dell'importanza,oltre che con le classiche stelle, con il ricorso a  delle frasette standard .  La penultima categoria (  diremmo quella corrispondente ad  uno striminzito 18 universitario ) era all'insegna di un lapidario ma possibilista " à la rigueur " : cioè, se proprio vi va , dateci un'occhiata ( e qui, in questo ordine di idee, lo consiglieremmo solo ai patiti della Huppert o ai collezionisti di film su Jekyll e Hyde ) L'ultima categoria  dei Cahiers,  quella più bassa, quella in cui in un soprassalto di malumore sarei tentato di collocare questo film, diceva lapidariamente " inutile de se déranger ", in pratica " non vale la pena di scomodarsi per andarlo a vedere ". Fate voi, a seconda di come vi sentite...