giovedì 23 gennaio 2020

" RICHARD JEWELL " di Clint Eastwood ( USA, 2019 )

Clint Eastwood, il veterano attore-regista statunitense ( quest'anno festeggia 90 primavere !) negli ultimi tempi si è dedicato a portare sullo schermo storie di vita vissuta che hanno al centro persone comuni, uomini della strada che hanno impresso, ad un certo punto,complice il caso, una svolta alla loro esistenza raggiungendo, nel bene e talvolta nel male, una improvvisa notorietà. Dopo " Sully "  ( 2016 ), la vicenda del coraggioso pilota che salva un aereo con tutti i passeggeri in un ardimentoso ammaraggio sul fiume, "Ore 15.17 -Attacco al treno " ( 2017 ), l'attentato terroristico al TGV Parigi-Amsterdam sventato da tre coraggiosi giovanotti, " The mule- Il corriere della droga " ( 2018 ) sulla incredibile " performance " di un ultraottuagenario entrato al servizio di un cartello di spacciatori internazionali, ecco ora la sua ultima fatica degna di un' autentica " realtà romanzesca ". Qui, a dir il vero, più che ad un "exploit " del personaggio principale, assistiamo soprattutto al calvario che questi deve affrontare per la stupidità e la malevola stoltezza delle autorità. Stiamo parlando dell'episodio avvenuto ad Atlanta nell'estate del 1996 quando dei terroristi misero una bomba in un parco dove erano riunite migliaia di persone in festa per i Giochi Olimpici che si svolgevano in quella città facendo solo due morti ed un certo numero di feriti grazie all'intelligenza e alla prontezza di riflessi di un semplice addetto alla vigilanza, tale Richard Jewell, che scoprì in tempo l'infernale congegno e riuscì a limitarne l'effetto. Nel film vediamo come Jewell, salutato dapprima come un eroe  per il suo coraggio ed il suo spirito di abnegazione, venga in un secondo momento incredibilmente  sospettato  dalla polizia federale di aver messo lui stesso la bomba , da solo o con complici. Indagato, sottoposto ad ogni sorta di umiliazione e di stress anche a causa di mezzi di informazione spicci e faciloni,  se la caverà grazie all'intervento di un avvocato amico che riesce a dimostrare, non senza fatica, la sua totale estraneità alla delittuosa macchinazione. Arrestati i veri autori della tentata strage, Jewell, provato probabilmente dalla tristissima esperienza,  morirà qualche anno dopo.

Ipernazionalista ( ha una bandierina a stelle e strisce sulla porta di casa ) ciecamente fiducioso nei poteri costituiti ed in particolare nelle forze dell'ordine, con un passato lavorativo tutto nei servizi di sorveglianza e qualche infortunio per eccesso di zelo nel far rispettare " law and order ", Jewell è il perfetto " sospettabile " per un attentato che da subito viene ( correttamente ) attribuito ad ambienti di estrema destra. Il famigerato " profiling " di cui si avvalgono gli agenti federali che conducono l'inchiesta , in pratica il tracciare una sorta di " identikit " ideologico-comportamentale, il profilo appunto del possibile reo, e poi l'applicarlo acriticamente alla persona che più viene ritenuta corrispondervi, condanna in partenza il nostro uomo. Figurarsi, in casa ha un vero arsenale di fucili da caccia e pistole di ogni genere (in Georgia, dove si svolge l'azione, è peraltro legittimo possederli ) ed in più Jewell, un tipico ciccione mangiatore di "junk food " timido e solitario, a trentatré anni vive ancora con la madre ed ha quella "brutta" ossessione per il rigore e la precisione che, agli occhi dei più "scafati " poliziotti e giornalisti, deve proprio sembrare una intollerabile aberrazione. Ecco così che la storia, nella raffigurazione che ne fa Eastwood, diventa anche la contrapposizione tra  un personaggio fondamentalmente " buono ", onesto ancorchè limitato, e l'attuale "deriva" della società verso costumi più liberi e mentalità pericolosamente  meno esigenti, meno responsabili , esplicitate queste ultime da un agente federale tanto ottuso quanto pigro e da una giornalista assetata di successo e dalle abitudini morali quanto mai disinvolte.

E' evidente che il film , ancora una volta,non piacerà a coloro che rifuggono dal cinema di Eastwood, considerandolo un ricettacolo di pseudoconcetti  iperconservatori e contrari al "progresso ". Innegabile, indubbiamente, che a Clint gli spregiudicati antagonisti di Jewell  debbano piacere assai poco. Comprensibile quindi che , in questa storia di un povero ciccione ancorato ai valori del passato,egli  vi abbia visto anche il mezzo di celebrare una volta di più l'America profonda,  non intellettuale, semplice e fedele ai propri convincimenti tradizionalistici che, da " Gran Torino " ad oggi, gli è particolarmente cara. Ma sbaglierebbe chi non riuscisse a vedervi , ancor prima e soprattutto, il ritratto di un più ampio antagonismo tra, da un lato, i " poteri forti " ( il Governo federale- non dimentichiamoci che siamo nel Sud libertario e che la bandiera di " Dixie " occhieggia dovunque - ed i "media" ) e, dall'altro, il comune cittadino, l'uomo semplice che rischia di rimanere schiacciato da un ingranaggio più potente di lui nella sua cieca indifferenza. Un tema , questo, che è in realtà sempre attuale e che fece, a suo tempo, la fortuna di tanto buon cinema americano progressista  (" Arriva John Doe " , " Lo stato dell'Unione " ). E soprattutto sbaglierebbe chi si ostinasse a non riconoscere, nel cinema di Eastwood, quel respiro, quella maniera di affrontare le storie ed i personaggi con passione, impegno e classico rigore che , in certe scene ( penso agli interni, caldi, intimi, descritti con amorevole attenzione, della casa della mamma di Jewell ) lo avvicinano- non voglio esagerare- al miglior John Ford, poniamo, di "Sentieri selvaggi ". Il suo inconfondibile stile, il suo modo di filmare, sontuoso e fluido al tempo stesso, il " pathos " intimistico e sommesso che riesce ad infondere nella materia che tratta, dovrebbero ormai aver convinto anche i più scettici che Clint Eastwood è il degno erede della grande tradizione cinematografica americana.
Interpretazione molto buona ( Kathy Bates, la mamma, è candidata all' Oscar ) la fotografia è degna di particolare lode ed il commento musicale quanto mai delicato ed appropriato.


Please find here a short commentary  in English on the film :

" Richard Jewell ", the latest film by Clint Eastwood, is a true story ( The Atlanta bomber at the Olimpic Games of 1996 ) wich allows the veteran movie director to create a new  portrait of the antagonism between the old traditional  "national " values and a more open, "swinging" modern society. Jewell,  becomed a suspect terrorist for his " profile " but who is totally inocent, struggles against a power ( The F.B.I., the media )  wich turns out inconsistent and ideologically biased. Eastwood's filming is warm, passionate , yet soft  and classical in the best tradition of the great american cinema. To be seen by every dedicated moviegoer.


Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur ce film :

" Richard Jewell ", le dernier film de Clint Eastwood, rénoue avec la grande tradition du cinéma  "civique" américain : celui de  Ford et de Capra, cher à la  mouvance " liberal " comme à celle plus conservatrice mais soucieuse de la liberté de l'individu face aux pouvoirs publics. A travers l'histoire d'un pauvre homme de la rue, nationaliste et aimant la loi et l'ordre, qui sauve ses concitoyens des conséquences d'un grave attentat à la bombe  (nous sommes aux Jeux Olympiques d' Atlanta en 1996 ) mais qui est, par la suite, soupconné  d' en etre parmi les responsables simplement à cause de son " profil " idéologique, Eastwood nous donne un ennième essai de sa profonde maitrise du moyen cinématographique et de sa connaissance de l' Amérique profonde ( celle, entre autre, qui aime particulièrement ses films ! ). Tourné d'une facon superbe, chaud et lumineux, voilà un film qui va nous réconcilier, toutes tendances idéologiques confondues, avec un  cinéma humaniste et honnete.


lunedì 13 gennaio 2020

" HAMMAMET " di Gianni Amelio ( Italia,2020 )

Ecco un film che farà molto discutere ( sempre che piuttosto non si tenti abilmente di condannarlo al silenzio, visto che l'argomento è dei più scomodi che ci siano ). A vent'anni esatti dalla morte, avvenuta in Tunisia, nella località marina di Hammamet, la figura politica ed umana di Bettino Craxi è ancora delle più controverse ed il solo evocarla, sia pure con l'equilibrio e il distaccato pudore con cui qui lo si fa, crea disagio in molti ambienti. Peccato, perché si corre il rischio di identificare il film con il suo personaggio e invece di usare gli strumenti della critica estetica si finisce col ricorrere insidiosamente - sia pure camuffate da parametri di carattere formale - a categorie moralistico-giudiziarie che nulla hanno a che fare con un'opera che oltretutto non è né un racconto biografico né un documentario storico. Le prime reazioni che si sono potute riscontrare al riguardo ( auguriamoci che poi la musica cambi ) non lasciano in effetti ben sperare. Il film è stato tacciato di " ambiguità ", " incompiutezza ",  " confusione ", aggrappandosi coloro i quali lo hanno accolto in questo modo  ad una pretesa oscurità contenutistica nonché, qui sta il punto, ad uno scarso approfondimento del Craxi politico che costituirebbe uno dei suoi difetti principali. Tradotto in soldoni, " Hammamet " avrebbe il torto di aver  disotterrato  le ossa del defunto leader socialista senza intentargli quel processo postumo  (con sentenza scontata ) che parrebbe d'obbligo se proprio si vuole avere il " cattivo gusto " di rievocarne l'immagine.

A dimostrare quanto invece le preoccupazioni del film stiano altrove, ricorderemo che l'unica e breve sequenza, collocata all'inizio del film, che ricostruisce un momento più propriamente " partitico " della intera vicenda di Craxi  ( quel congresso socialista del 1989 che segnò il suo apogeo ) appare tutt'altro che trionfalistica, mentre ad essa fanno da contestuale contrappunto i dubbi di un vecchio militante che, prefigurando quasi l'imminente catastrofe,   mette in guardia il " leader " dagli eccessivi ed infidi consensi provenienti da ambienti che poco hanno a che fare con le tradizionali posizioni progressiste. Poi tutto il resto del film  si concentra invece sulla parabola discendente di un uomo stanco e precocemente invecchiato. Riparato all'estero nel periodo più infuocato e confuso della resa dei conti, è ormai un vinto. Ha perso il potere, le coperture di cui poteva disporre, una buona parte degli amici.  Si trova in una sorta di esilio più o meno dorato, incompreso e addirittura sopportato talvolta dai suoi stessi familiari,  ancora bersaglio degli attacchi di quei  concittadini convinti che una buona parte dei mali  del paese dipendano dal suo trascorso sistema di governo. Malato, impossibilitato a curarsi adeguatamente, il " presidente " ( nel film non lo si designa mai con il nome, quasi a conferire un significato più ampio alla sua condizione umana ) finirà i suoi giorni senza aver potuto far conoscere la sua versione di come siano andate propriamente le cose e senza aver potuto chiarire ( forse, ancora prima che agli altri, a sé stesso ) la propria particolare concezione del potere  e del rapporto tra governanti e popolo, la lotta politica e il denaro. Sì,un film " politico ", se proprio si insiste sul termine, ma in senso meno scontato e ristretto di come qualcuno vorrebbe. Dovremmo definirlo, piuttosto, un racconto filosofico ed umano, costantemente trascendente il mero punto di partenza cronachistico. "Finzione " quindi,  quale sempre al cinema diventa anche la più nuda ed essenziale delle verità perché trasfigurata dall'arte e dal significato universale che ogni vicenda finisce con l'assumere una volta  rappresentata sullo schermo.

 " Hammamet ",sceneggiato e diretto da Gianni Amelio ( il regista oggi settantacinquenne che quasi quaranta anni fa ci dette un magistrale film sul terrorismo, " Colpire al cuore " ) è un ottimo prodotto di quel cinema psicologico- ma con robuste venature politiche e sociali - che ha fatto, nei suoi anni migliori, le fortune del cinema italiano e che da un po' di tempo sembra appannaggio di altre cinematografie, ad incominciare da  quella francese. Lineare nella sua progressione drammatica, fluido e vigoroso al tempo stesso,il film dipinge con tinte calde e vibranti, sempre esteticamente molto convincenti perchè coerenti con il proprio punto di vista morale, la decadenza di un uomo. Senza giudicare, senza esaltare o condannare, non prendendo partito, limitandosi a registrare l'umana, comprensibile autodifesa di un potente  abbandonato da tutti. Forse colpevole , forse no. Ma degno egualmente della " pietas " di cui il vero artista circonfonde i propri personaggi.Ne vien fuori un ritratto singolare di "uomo in rivolta ", prima di tutto con sé stesso. Un ritratto che  non si impantana mai - salvo forse nel finale, leggermente fuori tono - nei meandri di una indagine  forzatamente a tratti  complessa e apparentemente contraddittoria ( se Craxi si sentiva innocente, non avrebbe fatto meglio a rimanere in Italia per  difendersi dalle accuse che gli erano state mosse ? ). Corposi e ben calibrati la maggior parte dei personaggi di contorno, il film necessitava forzatamente, per il coraggio dimostrato nell'affrontare un argomento così scottante,  di una grande capacità di resa del personaggio principale che si caricasse sulle spalle l'intero significato del film ( che non è "ambiguo " , bensì poliedrico e volutamente ridondante ). Lo ha trovata nella eccezionale , efficacissima, sorprendente interpretazione di Pier Francesco Favino. Appena reduce dalla impressionante incarnazione di Tommaso Buscetta ne " Il traditore " di Bellocchio, l'attore si è calato perfettamente nella nuova parte. Fisicamente aderentissimo, grazie anche al trucco superlativo,al proprio personaggio, dovremmo dire che più che di mera, totale somiglianza, si dovrebbe parlare qui di una reinterpretazione dal di dentro della figura dello statista milanese. Una  appropriazione totale che non ne rende, soltanto, perfettamente i gesti o il tono di voce ma lascia quasi intravedere i meccanismi interni, logico-psicologici che conferiscono alla figura del " leader " quella sua particolare valenza che ne ha probabilmente segnato la parabola umana e professionale.


Please find here a short commentary in English on this film :

Hammamet is a little town on the tunisian mediterranean shore. Twenty years ago a former italian prime minister, the socialist party leader Bettino Craxi, accused of bribery and handling of illegal funds, forced to fly abroad to escape judicial proceedings, died there. The film, bearing the same title, is not an ordinary biopic or an historical survey of Craxi's exile in Tunisia. It is more a philosophical and political  ( in the broader sense ) picture of a defeated man. Craxi ( called in the film simply as " the president " ) is the prototype of a man who,at the end of his life, realizes the vanity of power and the impossibility of building something durable. The film , by senior movie director Gianni Amelio, is beautifully shot in a vibrant and solid way and has a great comedian, Pier Francesco Favino, interpreting Craxi with a stunning resemblance to his character, both externaly and internaly. Two thumbs up !


Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire sur ce film en francais :

" Hammamet " , le dernier film de Gianni Amelio, metteur en scène chevronné auquel nous sommes débiteurs d'un beau film sur le terrorisme ( " Frapper au coeur " , 1982 ) risque de devenir un sujet de scandale en Italie, si un silence hypocrite n'essayera pas plutot de l'effacer du débat publique. Tant le souvenir de l'ancien prémier ministre  Bettino Craxi, accusé il y a plus d'un quart de siécle de trafic d'influence et de financement illégal du parti socialiste et mort dans ce lieu touristique en Tunisie ou il s'était réfugié, est encore sulfureux dans la péninsule et l'opinion publique italienne douteuse et très divisée.
Le film , néanmoins, est très réussi dans la mésure ou il est evite la plus part du temps  de s'enliser dans un discours lié à la cronique politique de l'époque et cherche plutot à entamer une véritable réflexion sur le pouvoir et l'inanité pour l'homme de toute tentative de batir quelque chose de durable. Très soigné dans sa forme, le film est vigoureux et subtil en meme temps, avec une interprétation epoustouflante de l'acteur qui interprète Craxi , Pier Francesco Favino : oui , le meme qui a donné son corps et sa voix d'une facon admirable au personnage de Tommaso Buscetta, le " Traitre " de la mafia dans le film homonyme  de Marco Bellocchio, présenté à Cannes en juin dernier.







mercoledì 8 gennaio 2020

" PINOCCHIO " di Matteo Garrone ( Italia,2019 )

" Pinocchio " di Carlo Collodi non è soltanto uno degli indiscussi capolavori della letteratura per l'infanzia. E' anche un bellissimo libro che si può leggere ( o rileggere ) a qualsiasi età. Benedetto Croce, che non fu sempre tenero con le opere letterarie del suo tempo, gli dedicò espressioni di sincero apprezzamento. Opera che può essere accostata per fantasia di ispirazione e libertà di svolgimento narrativo a due altre grandi creazioni, "Alice nel paese delle meraviglie" e "Peter Pan", essa trae peraltro parte del  fascino e della forza dal robusto ancoraggio ad una realtà ben precisa e nient'affatto secondaria: quella dei paesini e delle campagne di una "Italietta " povera, postunitaria e tesa nel disegno di " fare gli italiani " anche attraverso una narrazione di sè  che desse vita ad una sorta di immaginario letterario nazionale. Immaginario qui dalle tinte prettamente toscane, s'intende, ma estensibile a tutto il Paese, stante le condizioni sociali del tempo, ancora piuttosto omogenee da Nord a Sud. E bene ha fatto Matteo Garrone- e qui vengo al film odierno - a sottolineare il limpido fondo regionale del libro (con la scelta del fiorentino Benigni come Geppetto, con la descrizione puntuale e riconoscibilissima di un contesto geo-culturale piuttosto tipicizzato ) senza trascurare però la possibilità di ricondurlo - oltre la stessa valenza fantastica -  a qualunque altra zona d'Italia. E di qui, ad esempio, un  protagonista Pinocchio che non parla con un accento o una cadenza immediatamente decifrabili nonchè vari personaggi minori i quali, nella loro caratterizzazione popolaresca, sembrano a volte  provenire più dalle aree periferiche del Lazio o  della Campania ( usciti , si direbbe quasi con quei volti, da " Gomorra " o da " Dogman " dello stesso Garrone) che dalle rive dell' Arno. Non ne soffre certo l'ambientazione veritiera che pure, nel libro e nel film,  mantiene la sua indiscutibile importanza. Ne guadagna invece il carattere universale che il significato dell'opera indubbiamente riveste.

Il più significativo " precedente " cinematografico in tema  rimane ad oggi  il film di Luigi Comencini ( 1972 ) mentre né al " Pinocchio "  del 1940 ideato da Walt Disney, che è uno splendido film di animazione ma non può avere ambizioni maggiori, né ad un " Pinocchio "  supponente e mal riuscito  con la regia dello stesso Benigni ( 2002 )  credo convenga  far riferimento. Quello di Comencini , concepito originariamente per la televisione  in sei puntate e poi ridotto molto abilmente in una durata di due ore per il grande schermo, è filologicamente più aderente al libro  ( di cui riprende oltretutto il titolo esatto, " Le avventure di Pinocchio " ) e ha anch'esso un'ambientazione di sapido e amorevole realismo: sembra veramente che il paesino di Geppetto e di Mastro Ciliegia non si trovi solo nella fantasia di Collodi ma esca paro paro da una Toscana ruvida e senza tempo. Fornito di un ritmo sostenuto, solido nella sceneggiatura, è anche assai veritiero nella descrizione dei personaggi. Geppetto è un Nino Manfredi molto indovinato per la parte, toccante nella sua umanità indifesa. Il gatto e la volpe, nonostante le loro lunghe code, sembrano proprio poveracci scartellati come se ne potevano ancora incontrare una volta nelle campagne, resi come sono, con la consueta abilità mimica e vocale, dal duo comico Franchi e Ingrassia. La fata dai capelli turchini è una Gina Lollobrigida un pò troppo cresciuta per il ruolo ma di soave ed incorrotta bellezza. il film, come il libro,  ha ambizioni di apologo morale per tutte le età ed è soffuso da un'aura malinconica che accresce il pregio della narrazione.
Il film di Garrone - figurativamente splendido sia pur con qualche abituale indulgenza per lo "strano"  e il deforme - recupera maggiormente, rispetto alla versione precedente, la dimensione favolistica del libro di Collodi che in Comencini veniva forzatamente un pò negletta   a causa della scelta di far interpretare Pinocchio ad un vero " bimbo "  in carne ed ossa e  per di più toscanissimo, dando  il là in questo modo ad una ricostruzione in chiave prevalentemente naturalistica. La versone di Garrone ci riporta invece , attraverso  i trucchi e gli effetti speciali del cinema di oggi, allo stupore ed alle emozioni dell'infanzia , quando lo leggemmo, o magari ci fu letto, per la prima volta. La stessa campagna in cui è ambientata la vicenda, pur veritiera e riconoscibile, acquista qui un che di fantastico, o di iperreale se preferite, che  suggerisce una interpretazione di "Pinocchio " come una sorta di " mito " o di racconto iniziatico, quello del bambino che faticosamente, attraverso molte prove ed errori, accede finalmente all'età adulta ( il burattino di legno che finalmente si fa carne, assume forma umana ma esce così dal sogno e dall'illusione che la vita sia appunto una favola con il lieto fine obbligato ).

Accanto alla dimensione favolistica il " Pinocchio " di Garrone introietta una ancor più  chiara valenza psicologica. Da un lato il desiderio primigenio di tutti i  padri  (Geppetto, più padre ancora di un genitore carnale ) di avere un figlio, necessariamente percepito come una proiezione di sè , quasi la " cosa " ( il burattino ) che il " pater faber " si fabbrica a sua immagine e somiglianza e che intende indirizzare e guidare nel  difficile itinerario nel mondo. Dall'altra, quasi specularmente, il desiderio di emancipazione dei figli, portati ad eludere progressivamente le direttive paterne e ad affermare la loro autonoma individualità. Ed il film, pur senza eccedere in questo tipo di lettura, la fa propria e la integra armoniosamente nel proprio tessuto narrativo, evidenziando man mano l'insopprimibile tensione tra autorità e libertà che è sottesa ad ogni percorso di crescita.  Geppetto ( davvero un ottimo Benigni, mai così equilibrato eppur drammaticamente efficace come  qui ) e il burattino-aspirante bambino Pinocchio risultano i due poli di un apologo privato ( il rapporto padre-figlio ) che il risvolto pubblico ( un mondo spesso gretto e piccino ma capace a volte di gesti di bontà e di manifestazioni di affetto ) si incarica di rendere ancora più tormentato ma infine vittorioso.
Bel film , dunque, che  riconferma la capacità visionaria e la perfetta padronanza del mezzo cinematografico raggiunte da parte di quello che è oggi il migliore dei nostri registi della generazione dei quaranta-cinquantenni. Dopo le precedenti prove ( ancora "Gomorra " e " Dogman " su tutte ) il nuovo film di Matteo Garrone testimonia in effetti la personalità di un eccellente cineasta, capace di sposare le esigenze dello spettacolo con la raffinatezza di una ricerca artistica costantemente rinnovantesi." Pinocchio " potrebbe sembrare  di per sé un banco di prova tutto sommato facile, votato oltretutto ad un sicuro successo di pubblico, grande e piccino. Alcune delusioni del passato, a fronte di sforzi artistici e produttivi tutt'altro che inadeguati sulla carta, mostrano quanto sarebbe affrettato un giudizio del genere e quanto delicata si avveri al contrario l'impresa di venire a capo di un capolavoro letterario come questo. E l'assai soddisfacente risultato raggiunto da Garrone, unito al grande riscontro che sta avendo il film  in termini di platee stracolme, non fanno che rendere ancora più benvenuta e meritoria questa autentica boccata di ossigeno per un cinema italiano orfano ancora dei suoi " mostri sacri ".


Veuillez trouver, s.v.p. ci -dessous un court commentaire en francais sur le film :

" Pinocchio " au cinéma était jusqu'ici le dessin animé de Walt Disney ( 1940 ) et , pour ceux qui ont eu la chance de le voir hors d'Italie, " Les aventures de Pinocchio " de Luigi Comencini ( 1972 ), beau film celui-ci, naturaliste et élégiaque en meme temps. Maintenant et pour les années à venir on aura à faire à ce film époustouflant de Matteo Garrone ( le metteur en scène de " Gomorra " et de " Dogman " ) qui récouvre intelligemment la dimension féerique du conte de Collodi tout en épousant habilement, lui aussi, l'aspect réalistique d'un paysage toscan hors du temps qui répresente un atout non négligeable de la fortune de cette  oeuvre majeure de la littérature pour l'enfance ( mais lisible néanmoins a toute age ). L'interprétation par  Roberto Benigni dans le role du " père " de la petite marionette qui devient enfin un enfant est superbe de rétenue et de subtilité. La mise en scène de Garrone est sans faille , si on ne considère pas son gout, parfois, un peu trop prononcé pour le bizarre et le grotesque. Tous comptes faits, un film à voir absolument et à admirer.


Please find here a short commentary in English on this film :

" Pinocchio " is the latest  film by the celebrated italian director Matteo Garrone ( " Gomorra " , "Dogman " ). The wellknown story of the puppet who wants to become a child written by Collodi in XIX century , beloved by children ( and adults ) of at least five generations, becomes here a very nice and realistic picture of ancient italian  countryside whilst keeping its quality of a subtle  and eternal fairytale. The direction by Garrone is powerful, always in command, yet witty anf full of grace, one of its best so far. The actors are totally fit for the characters they are called to impersonate, the decoration and the special effects( just what is needed, here ) are splendid, the musical score quite pleasant . A whole  positive outcome for a film  that would have been admired by Fellini or De Sica and which  allows us to hope  in a shiny little future for an italian cinema still orphan of its " sacred idols ".










mercoledì 1 gennaio 2020

" THE FAREWELL " di Lulu Wang ( USA / Cina ,2019 )

Difficile parlare male di un film che ha avuto un  discreto successo di pubblico nel paese, gli Stati Uniti, che ha investito i capitali per produrlo, ha vinto addirittura il premio degli spettatori all'ultimo "Sundance Festival " e ha, soprattutto, avuto un'accoglienza critica - sempre al di là dell'Atlantico - positiva e pressochè unanime. Eppure sento il dovere di farlo, e tanto peggio se questo mi attirerà l'incomprensione dei lettori a cui il film fosse piaciuto e, forse, anche qualche sospetto di insensibilità. Come non commuoversi , infatti, di fronte alla vicenda che ci viene mostrata sullo schermo ? Giudicate voi. Una povera vecchia donna  cinese che ha lottato tutta la vita, ci viene detto, per il bene della sua numerosa famiglia viene trovata gravemente inferma ad un controllo medico, anzi praticamente condannata dato lo stadio di avanzamento del male. Ma lei non lo sa ( in Cina, a differenza che in America, il paziente non ha diritto di conoscere le sue condizioni e si pensa che sia meglio tenerlo all'oscuro ). Sconvolta nell'apprendere la notizia al di là dell' Oceano, la parte della famiglia emigrata negli Usa decide di partire per la Cina allo scopo di dare un ultimo saluto alla congiunta. Ma per non farle sospettare qualcosa dalla troppo brusca ricomparsa di tutti i suoi familiari lontani viene deciso di fingere una normale  transumanza per assistere al matrimonio nella madrepatria di uno dei più giovani componenti del gruppo, da poco sentimentalmente legato ad una ragazza giapponese. E alla fine anche Billi, la giovane di casa ,particolarmente affezionata alla nonna malata,la quale in un primo momento era stata esclusa dalla spedizione perchè giudicata pericolosamente troppo incline alla commozione, raggiunge di propria iniziativa in Cina il resto della famiglia. Oplà : le " dramatis personae " , i protagonisti della vicenda, sono tutti riuniti e possiamo incominciare con la pietosa finzione messa in scena per stare tutti un'ultima volta con l'amata nonna. Commozione  generale sapientemente frenata,  un pò di imbarazzo collettivo, molti ricordi in comune, perfino qualche risata ed un pizzico di saggezza spicciola: non ce la prendiamo troppo, la vita va vissuta per quello che, di bello e di brutto,  è in grado di offrirci e comunque non è che un passaggio.

Lo spunto di partenza, ammettiamolo, è azzeccato ed indubbiamente carino. Se sperare di indovinare un film significa, per un'autore, avere subito una buona idea da cui prendere le mosse qui ci dovremmo essere, perchè no ? Anche se una certa lentezza di ritmo e la povertà delle inquadrature ci avevano allarmato fin dall'inizio, via non si può negare che il film sembra partito sul binario giusto. Grossa delusione, invece, che man mano si fa più evidente, per lo spettatore che, al cinema, vorrebbe sostanzialmente due cose : che la storia venga sviluppata in modo convincente , o meglio " coinvolgente ", e che non ci si dimentichi mai che il cinema - come dice il nome - è fatto di immagini in movimento ( che debbono da sole risultare l'asse portante dell'intera operazione ) non di chiacchere che non supportino l'azione o di piccoli espedienti  per conquistare la benevolenza del pubblico. Cosa succede invece ? La dose di melassa e di familiar dulcore che, dato l'argomento, fatalmente rischia di spandersi attraverso una storia come questa, non mi è parsa tenuta sufficientemente a freno. Ci viene chiesto, come spettatori, di partecipare alla dolorosa preoccupazione e all'imminente lutto della famiglia ( e non si lesina, per raggiungere lo scopo, in conversazioni elegiache e fatalmente allusive, in primi piani di familiari consapevoli ed attoniti ). Ma nessuna tensione drammatica, nessuna ragion d'essere del film,   riesce mai a svilupparsi. Restiamo, in realtà, costantemente estranei ad una vicenda che si trascina stancamente, senza un'idea qualsivoglia che la faccia lievitare, chessò, un salto d'umore che ci dia una chiave di lettura meno piatta e scontata. A meno che la regista e sceneggiatrice (una furba sinoamericana dal nome di Lulu Wang ) non pensi - erroneamente peraltro - che il plot, come si dice, sia il film. Dimenticandosi che la vicenda, al cinema, deve tradursi costantemente in immagini, inquadrature, sequenze  di per sè significanti, che la spingano in avanti e le facciano conquistare appunto, cinematografica consistenza. Purtroppo, nulla o poco di tutto questo avviene nei cento minuti del " film ". Restiamo con una storia triste, come ce ne sono tante ahimè a questo mondo, delicata senza dubbio, forse anche sincera ( sembra sia perfino in parte autobiografica ) ma inerte , priva di vita,  un non cinema, appunto. E gli spunti quasi documentaristici  abbozzati quà e là( la nuova Cina, così sviluppata ed antica al tempo stesso, rispetto a quella che i personaggi si erano lasciati alle spalle emigrando in America ) rimangono  esterni, incapaci di amalgamarsi al nucleo principale,  un puro diversivo per il nostro sguardo.

Sono troppo severo ? Vedere per credere e giudicare. No, la mia idea di cinema non è questa. Stimo troppo l'invenzione di Lumière e senza bisogno di scomodare alcun mostro sacro della settima arte per accettare che questo " The Farewell " ( sottotitolo italiano " La bugia buona ", quella cattiva è invece che questo sia un buon film... ) possa essere giudicato alla stregua degli altri prodotti , piccoli o grandi, riusciti o meno, che ci vengono offerti dal mercato settimana dopo settimana. I " blockbusters, le saghe , i cartoni animati giapponesi, esecrabili per quanto possano essere, sono cinema e come tale meritano di essere giudicati, questo no. Qui siamo all'anticinema, alla negazione dei suoi postulati fondamentali. Non mi meraviglia ( lo apprendo ora ) che questa Lulu Wang, per evidenti affinità creative, abbia una liaison con il regista afroamericano Barry Jenkins, l'autore del sopravvalutato " Moonlight " che nel 2018 vinse l'Oscar per il miglior film... Ma Jenkins  sa muovere la macchina da presa, riesce almeno parzialmente a creare delle atmosfere. Coccolato dalla critica o meno, è un autore di cinema. Non così Lulu, astuta creatrice di un " caso " cinematografico che , a mio giudizio, non riesce proprio a stare in piedi. Lento, lentissimo nel ritmo ( ci sono perfino delle sequenze in " slow motion ", tanto per rallentare i tempi ancora di più ) non ha praticamente una sola inquadratura che riesca a comunicarci qualcosa, a sostituirsi al chiacchericcio appiccicoso dei vari personaggi , reso oltretutto molesto dal solito doppiaggio italiano similromanesco. Interpretazione , pertanto, ingiudicabile ( con una sfavorevole menzione per la sinoamericana attrice che interpreta Billi, antipaticuccia e costantemente monocorde ). Fotografia senza infamia e senza lode. Commento musicale incomprensibilmente straripante, pressochè  onnipresente ( e alla fine , non so se per la sola edizione italiana , una canzoncina lacrimosa cantata da un cinese nella nostra lingua... ).
Il punto qui, l'avrete capito, sta nella differenza sostanziale tra il cinema e le altre arti ( se vogliamo utilizzare questa categoria estetico-concettuale ). Una cattiva poesia, un quadro insignificante, tutto sommato fanno poco danno a chi legge e a chi guarda. Costano la carta o la tela che li contiene, cioè poco, e sono presto dimenticati. Un film è diverso. E' anche industria, impegno produttivo, comporta denaro e fatica da parte delle molte professioni che vi lavorano. Tante energie non dovrebbero essere sprecate. Se verso una cattiva poesia o un quadro insignificante si può essere, in una certa misura, indulgenti e  non arrivare a calcare troppo la mano nei giudizi, non così- io credo -  per il cinema, frutto di uno sforzo collettivo che andrebbe sorretto ed  ispirato da autentica capacità creativa, umiltà e tanto studio. E giudicato pertanto con il rigore che questo straordinario mezzo di espressione conseguentemente richiede, non vi sembra ?


Veuillez trouver ci- dessous, s.v.p. un court commentaire en francais sur le film :

" The farewell " est un film sino-américain par la jeune Lulu Wang, qui l'a  écrit et dirigé. Histoire larmoyante d'une famille chinoise émigrée jadis aux Etats Unis et qui revient en Chine voir pour la derniére fois la doyenne , grièvement malade mais à l'obscur de sa fin imminente, le film a eu un bon succès de critique et de public des deux cotés de l' Océan Pacifique. Helàs ! Il s'agit d'un film lent, rien du tout cinématographique, d'un auteur encore qui se cherche. Il n'arrive jamais à nous  parler le langage d'un véritable film, fait d'images en mouvement, cherchant la plus part du temps à se réfugier dans un " blablabla " inconsistent et quelque peu irritant. Occasion donc ratée . A voir seulement si on aime étudier comment on peut , auteur et spectateurs, se tromper de film...


Please find here a short commentary in english on the film :

Widely acclaimed last summer at the " Sundance Festival " , the sino-american film " The farewell ", by Lulu Wang ( screenwriter and director ) tells the story of a chinese family emigrated to the States long time ago ( the younger generation being perfectly integrated ) who come back to China for a while.  The Grand mother is terminally ill and they do not want to miss this last opportunity of staying with her.  At the same time,they do not want to let her know her own true conditions (according with the chinese medical protocol she has not been told the seriouseness of her illness ). Good starting point indeed, but spoiled by a very weak scenario and a terrific absence of true cinematic  development. Pity, because there are even one or two nice things inside ( the interaction between old and new China , between the " diaspora " and the mainland chinese people ). But the final product is quite inconsistent and sadly deceiving.