domenica 24 dicembre 2017

" LA RUOTA DELLE MERAVIGLIE " di Woody Allen ( USA , 2017 )

Puntuale, o inesorabile se preferite, ogni anno nella prima parte della stagione arriva il nuovo film di Woody Allen. Quanti ne ha girati sino ad oggi ? Non sono sicuro del numero esatto ma credo che ci stiamo avvicinando alla cinquantina in quasi mezzo secolo ( l'esordio registico, dopo quello come sceneggiatore e attore, è del 1969 : " Prendi i  soldi e scappa ", un film ancora oggi godibilissimo). Questo fa di Woody uno dei cineasti americani da maggior tempo in attività di esercizio. Uno  della cui statura di " autore " non si discute nemmeno più, tale è la cifra inconfondibile delle sue opere, il personalissimo stile e l'alone di successo che , almeno in Europa, corona sempre i suoi sforzi. Già , perchè è abbastanza paradossale che  i maggiori riconoscimenti Woody li abbia  ottenuti proprio sul vecchio continente. A differenza che a casa sua ( mai un Oscar ! ) dove spettatori e critica -  soprattutto questa - hanno  spesso arricciato il naso di fronte a quelle  commedie, rosa o gialle o un poco più fosche che fossero, trovandole troppo " cerebrali " e un tantino pretenziose. Appassionato estimatore di Fellini e di Bergman,  chiaramente in cerca dell'approvazione , oltre che del grande pubblico, dei cinefili più difficili , il  suo cinema non vuole mai arrestarsi al puro divertimento. Insegue sempre , anche  sotto un'apparenza dimessa, un significato più "alto " che lo apparenti a quello dei grandi maestri europei . Pensate a " Settembre " o a " L'altra donna " , di chiara ispirazione bergmaniana. Oppure a quella che , per me, rimane una delle sue commedie più riuscite , " Crimini e misfatti ", dove il tono apparentemente leggero - l'abituale cicaleccio dei suoi film , così parlati  e ricchi di  storie che si intrecciano - cede poi il passo, senza che abbia a soffrirne l'equilibrio omplessivo dell'opera, ad uno sconsolato apologo sulla facilità con cui ci assolviamo dai nostri piccoli e grandi peccati.

" La ruota delle meraviglie " appartiene decisamente al filone delle commedie " agre " di Allen. Quelle , per intenderci, dove non vi è solo la spiritosa e brillante descrizione delle tante piccole gioie e miserie che costellano la nostra esistenza,  per quanto essa ci abbia dato in passato i capolavori che sappiamo , da " Manhattan " a " Anna e le sue sorelle ". No, qui siamo più nella meditazione - mai banale - sulla responsabilità dell'individuo , la colpa  nella quale possiamo  tutti incorrere,  il  "vizio " esistenziale che inficia  la nostra pur legittima ed umanissima ricerca della felicità quando , per inseguire quest'ultima, finiamo col trascurare gli altri esseri umani che ci circondano e che avrebbero anch'essi simmetrico diritto a quel medesimo bene supremo, così sfuggente ed effimero. Sul versante , dunque , di " Match Point " o di "  Scoop " . Quei due film " gialli " di ambientazione londinese  usciti una decina di anni or sono che, accanto a pagine di graffiante umorismo, ci dettero poi ampia e convincente materia per commuoverci. E per  riflettere sulla imponderabilità  di un destino che non riesce ad assicurare " a ciascuno il suo "nell'unica realtà che- secondo Allen - ci è data, quella della nostra vita terrena,  dispensatrice non sempre equanime di  soddisfazioni e dolori. La dimostrazione ce ne è offerta qui dal personaggio di Jenny, una donna che ha oltrepassato  da tempo la quarantina , ancora piacente e speranzosa nonostante i colpi della sfortuna. Malmaritata ad un giostraio brontolone  ma di cuore semplice, vive - sarebbe meglio dire vegeta - a Coney Island, un sobborgo marino di New York, e  per arrotondare i magri introiti familiari lavora in un bar..  Una  di quelle località ( siamo nei primi anni '50 del secolo scorso ) del divertimento di massa, spensierato e a poco prezzo, ma in cui i sogni galoppano facilmente come i cavalli di cartapesta e danno l'illusione di potersi trasformare in realtà. Insoddisfatta, convinta di potersi rifare un'esistenza ( le sue ambizioni erano quelle di recitare in teatro ) Jenny si lascia facilmente sedurre da un bagnino tanto intraprendente quanto leggero che , subito dopo, sposta  le sue attenzioni sulla figlia di primo letto del giostraio, una bella ragazza molto più giovane della matrigna, maritata ad un gangster dal cui tetto coniugale è  appena prudentemente fuggita. 
Voi vedete come qui l'ambientazione sia abbastanza diversa da quella classica dei film di Allen. Niente intellettuali nevrotici od altoborghesi , cenette sofisticate e " bon mots " come , ad esempio, in " Melinda e Melinda " o " Misterioso delitto a Manhattan ". Si direbbe quasi che Woody, dopo tante incursioni tra i privilegiati o aspiranti tali - e, alla fine, tante inevitabili autocitazioni -  abbia sentito il bisogno di tornare a quel mondo piccolo borghese o francamente proletario da lui conosciuto negli anni dell'adolescenza e che faceva già capolino in qualcuno dei suoi primi film. Ci verrebbe fatto di chiamarla quasi una ambientazione " neorealista ". E non sembri malposta o fuori contesto questa mia definizione, atteso il fatto che la vicenda ed i personaggi del film risentono  certo, almeno esteticamente, di quella temperie cinematografica che Allen conosce e che , in un certo senso,  egli si è pagato il lusso di ricreare per la sua soddisfazione di cinefilo. Intendiamoci, più una strizzata d'occhio allo spettatore che una  adesione ( questa sì sarebbe stata antistorica e fuorviante ) ad una autentica poetica del " vero ". Siamo sempre  in una classica " fiction " che porta l'inconfondibile marchio della " fabbrica dei sogni "-  seppure di alta qualità - propria del cinema di Allen.E chi ha detto poi che, al cinema, la realtà debba per forza  prevalere sulla finzione ? 

Di come la finzione evolva ne " La ruota delle meraviglie " non dirò naturalmente , perchè è lì poi che si cela la chiave interpretativa della vicenda stessa ed il significato che Allen intende conferirle e che vi invito a scoprire. Una " morale " che  ad essa si attaglia perfettamente, così come ci viene presentata, nell'eterna dialettica tra  svolgimento predeterminato delle cose- chiamiamolo  il fato o  il destino di ciascuno di noi - che egli da sempre ritiene presieda agli affari umani e il libero arbitrio che dovrà pur esistere da qualche parte anche se ci fa comodo , a volte, negarne l' esistenza.
Una storia del genere, voi capite benissimo,  necessita per risultare accattivante di personaggi principali ben delineati ed interpretati in modo credibile. Ciò che succede soprattutto per la irrequieta moglie del giostraio , interpretata benissimo, con forza e convinzione, da una Kate Winslet in stato di grazia ( candidatura per l' Oscar, a mio sommesso avviso ). Che brava attrice che è diventata questa ragazzona bene in carne dai tempi di " Titanic " ad oggi ! La sua Jenny è stanca e sfiduciata quanto guizzante e speranzosa, in una altalena continua di stati d'animo che ben testimoniano della complessità del personaggio e del modo sottile e pur tuttavia robusto con cui  viene resa dall'interprete. E che bella donna ancora ! Per estimatori ed  appassionati della bellezza muliebre nel favoloso decennio 1950-60 dirò che  le sue apparizioni " en déshabillé " ( quanta fantasia e quanta ingenua malizia  nell'abbigliamento intimo di quegli anni... ) sono veramente notevoli e che, lungi dall'apparire gratuite,esse conferiscono ancor maggiore risalto alla triste sensualità del personaggio. Accanto a lei ,  Jim Belushi (il fratello dello scomparso John, quello dei mitici " Blues Brothers " ) dà al giostraio irruento e pasticcione una corposità ed un rilievo, nell'economia della vicenda, che arricchiscono il film di una ulteriore componente interpretativa. Bellini i due attori più giovani, fatalmente un pò soffocati dallo strapotere della coppia di cui sopra .
Se lo sceneggiatore Allen innova , come si è detto , nell' ambientazione e nei  personaggi , il regista Woody si è voluto anche lui regalare qualche novità - o che almeno tale mi è sembrata - nella maniera di filmare. Invece di inquadrature a mezzo campo o in campo lungo piene di figure, in armonia con le sue vicende complesse e  con abbondanza di " sotto-testi " e trame parallele, qui ha prediletto i primi e primissimi piani, in sintonia probabilmente con quel cinema degli anni ' 50 coevo alla vicenda narrata. Scene drammatiche, confronti accesi tra i personaggi che richiamano forse, più che le atmosfere " neorealistiche ", quelle dei drammi tratti dalle opere teatrali di Tennesse Williams (  una Winslet in sottoveste che fa quasi da eco figurativa ad una Blanche Dubois di " Un tram chiamato desiderio " o ad una  Magnani- Serafina ne " La rosa tatuata " ). Non mancano difetti, a cominciare dallo scontato personaggio del ragazzino piromane, che dopo un pò stanca, per chiudere con  l'abusato espediente del personaggio che funge  quasi da coro greco rivolgendosi al pubblico per far avanzare la storia . Ma le immagini sono , come sempre in Allen, una festa per gli occhi. C'è ritmo , c'è vita in questa "ruota"  che gira e nelle sue derisorie, patetiche " meraviglie ".




martedì 19 dicembre 2017

" LOVELESS " di Andrej Zvyagintsev ( Russia, 2017 ) / " " L'INSULTO " Di Ziad Doueiri ( Libano, 2017 )

Torno necessariamente, in questa puntata, su due  bellissimi film che sono in questi giorni finalmente approdati sugli schermi di casa nostra e di cui , per chi mai se ne ricordasse, avevo in verità già parlato. Il primo, il russo " Loveless " ( titolo internazionale che, se non fossimo così  supini all'invadenza dell'inglese, avrebbe potuto essere benissimo reso, da noi,   con " Senza amore " ) venne presentato a Cannes  - dove vinse il premio speciale della Giuria - e lo commentai nel mese di Giugno. Il secondo, il libanese "L'insulto " ( anche questo non è il titolo originale, ma almeno è in italiano ) è stato applaudito al'ultima rassegna cinematografica di Venezia, vincendo la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile,e l'ho segnalato alla fine di settembre.
Se oggi sento la necessità di  prenderli nuovamente in considerazione  non è solo perchè " repetita iuvant " e vorrei stimolarvi a non perderli ( venendo da cinematografie poco amate dai nostri distributori ed esercenti c'è il rischio concreto che spariscano presto dal normale circuito ). Ma anche perchè , stante la loro caratura artistica ed i soggetti di bruciante attualità, questo mi permette di spezzare ancora una volta una  lancia in favore di un  cinema che, pur muovendo da una realtà ben precisa, fornito cioè di  un solido retroterra politico-sociale,  arrivi poi a verità, intuizioni, echi, di carattere meno contingente e più vicini agli interrogativi assoluti che spesso ci poniamo ( che senso ha la vita, questo conflitto permanente tra opposti interessi e sensibilità, e quale l'antidoto che può permetterci di conferire un minimo di ordine e di chiarezza ad un mondo sempre più complesso ed  oscuro ? ).
 Che poi, parliamoci chiaro, è perfino legittimo fermarsi all'aspetto realistico di un film , goderlo semplicemente per il ritratto che offre di una determinata situazione e non porsi troppe domande sul significato più nascosto che potrebbe  o vorrebbe assumere. L'arte , e quindi il (buon ) cinema, è già sublime per ciò che rappresenta e per il modo con cui lo fa. Ma in realtà non credo vi sia opera  che non abbia un secondo livello di lettura , di fruibilità. Che non abbia cioè, presa nel suo insieme, un significato " altro "  e che vada più in profondo a colpire la nostra sensibilità, a scuoterci , a farci riflettere. I buoni, anzi qui occorre dire gli ottimi film, sono proprio quelli che riescono ad unire  perfettamente i due aspetti. A farci apprezzare cioè una storia ben raccontata, con  delle immagini incisive, un sicuro senso del ritmo, una buona recitazione. Ma poi, senza quasi che lo vogliamo, a trasmetterci un sentimento , delle emozioni che ci ricolleghino ai grandi problemi della vita, quella di sempre, indipendentemente quasi da quello scampolo di realtà che ci è stata mostrata sullo schermo. Non mi riferisco al mitico e  abusato " messaggio " di cui nei vecchi cineclub andavamo alla ricerca , convinti che le opere "serie" ne dovessero tutte avere uno ( e dagli, allora, ad interpretare ogni più piccolo elemento dei film di Bergman o di Antonioni  in chiave politica o filosofica ). No, qui mi voglio riferire all'istintivo, spontaneo moto dell'anima che lo spettatore prova, e non può non provare, assorbendo  (non analizzando col solo raziocinio ) immagini, storie, personaggi di un film. Emozioni, anche forti, anzi fortissime,  che lo pongono in comunicazione diretta - senza tanti arzigogoli - con il mondo poetico dell'autore e gli consentono di gioire o di soffrire con lui. Ed è quello che questi due film sui quali sto tornando oggi riescono ad ottenere con umile, sorprendente semplicità. 

Prendiamo " Loveless ", per esempio. Ecco una vicenda di terribile, feroce " disamore " tra i componenti di  una coppia che sta per divorziare e che si sbranano nel frattempo senza pietà, incuranti dei sentimenti di paura ed angoscia che così ingenerano nell' unico figlio appena adolescente, lacerato dalla prospettiva della loro separazione. Figlio che, non sostenendo più questo macigno che grava su di lui, ad un certo punto fugge di casa senza lasciare tracce che permettano di ritrovarlo. Il film è ambientato, come il precedente e bellissimo di Zvyagintsev, " Leviathan ", nella Russia di oggi, dove un  relativo, improvviso ed aggressivo benessere si accoppia , per alcuni strati della popolazione, alla tradizionale deresponsabilizzazione e al vuoto spirituale della vecchia Unione Sovietica. Guardare questa coppia genitoriale e rabbrividire è tutt'uno. Belloccia, insaziabile divoratrice di piaceri dozzinali, lei. Imbelle, piagnucoloso ed ipocrita, lui che si tiene in caldo una futura seconda moglie  che nell'attesa ha messo incinta.  Impietoso quadro di una umanità senza ideali nè punti di riferimento, il film ci svela aggregazioni sociali dove all'indifferenza degli individui ed alla inefficienza dei poteri pubblici si uniscono, in preoccupante simbiosi, pulsioni autoritarie ( i soccorritori paramilitari che aiutano i coniugi nella infruttuosa ricerca del piccolo scomparso ) e tentativi di sterile scimmiottamento delle società più avanzate.
Ma il film è qualcosa di più - e qui vengo al punto -  di una pur interessante e convincente critica della Russia post-sovietica. O di una descrizione , pur spietatamente accurata,  di un sordido fallimento matrimoniale. " Loveless " scende più in profondità, facendo vibrare corde ancora più nascoste dell'animo umano, mettendoci di fronte - non è esagerato dirlo - al male. Sì, semplicemente l'antitesi del bene , cioè della mutua comprensione e della solidarietà che da quest'ultima discende. In poche parole- e qui il titolo è estremamente calzante - l'esatto contrario , anzi il nemico dell'amore tra gli esseri umani. Un mondo " senza amore " che, partendo dall'analisi della crisi di una coppia in una società spiritualmente vuota, assume significati universali e che si attagliano a tutta ( o a gran parte ) della condizione umana. " Leggere " il male, scoprirlo nei comportamenti dei nostri simili ed in quelli talvolta di noi stessi,  non è mai operazione  indolore. Qui la descrizione che fa Zvyagintsev della mancanza di amore ( sostituito spesso dal puro desiderio carnale spinto dall'egoismo o dall'interesse oppure da semplici rapporti di distante cortesia e di freddo " civismo " )  è semplice, lineare, chiarissima. In altre parole , cinematograficamente potente, tutta calata nelle immagini, nei volti e nei corpi dei protagonisti. Sceneggiatura di ferro, ritmo incalzante nel susseguirsi delle sequenze, interpretazione ottima. Gli ingredienti per fare un grande film ci sono tutti. Certo, non un 'opera "distensiva", Qualcosa, piuttosto, che scuote la nostra coscienza, che ci spinge ad interrogarci anche se le risposte non possono che essere necessariamente insoddisfacenti . Ma, ripeto, un grande film, che - nella giusta disposizione d'animo - converrebbe vedere.

Stesso discorso mi sento di poter fare per il film libanese , " L'insulto ". Il punto di partenza, potremmo dire,  è un piccolo fatto di cronaca- tra l'altro ispirato ad una vicenda autentica - che più banale non si potrebbe : un " litigio di strada " tra il proprietario di un appartamento e il tecnico di una società incaricata dal comune di certi lavori pubblici a proposito di un tubo o di una gronda di scolo probabilmente non a norma. Il fatto, in sè, sarebbe - ripeto - di scarsissimo rilievo ma il contesto locale e la condizione dei due contendenti si incaricano subito di smentirci. Siamo infatti nel Libano di oggi , autentico crocevia di civiltà e soprattutto religioni diverse. Religioni , quella cristiano-maronita e quella musulmana - scita ,  che dettero luogo,  nel 1975, ad una sanguinosa guerra civile durata vent'anni  e che ha lasciato strascichi nelle coscienze della popolazione, aggravata dalla presenza, non certo neutrale,  di una folta  comunità di profughi palestinesi in grandissima parte musulmani anch'essi. E si dà il caso che il bollente proprietario, di professione meccanico di automobili, sia un fervente sostenitore del partito- nazionalista e destrorso - che sostiene la componente cristiana del Paese. Mentre l'apparentemente più mite tecnico stradale, in realtà rancoroso e frustrato, sia uno di quei profughi palestinesi che le autorità libanesi, dopo la fine della guerra civile, cercano di blandire per evitare nuove e pericolose frizioni anche se in realtà li disprezzano e non ne favoriscono l'integrazione. Accade quindi che, dietro la banalità del litigio (iniziato con un insulto  ed una aggressione fisica del musulmano nei confronti del cristiano ) si schierino gli appartenenti all'uno e all'altro schieramento, soffiando sul fuoco della disputa e rischiando ( il caso nel frattempo è approdato in tribunale e gode di vasta pubblicità ) di appiccare nel Paese un incendio di ben più vaste proporzioni.
Riflettori sul Mediterraneo contemporaneo, divisioni apparentemente insanabili tra due comunità contrapposte. Ci sono gli ingredienti giusti, dal punto di vista cinematografico, per fare una bella storia di rivalità e di rancore. Un film schiettamente " politico ",  sulla scia di certi film coraggiosi del passato ( quelli di Francesco Rosi, ad esempio o , in chiave minore, di Costa- Gavras ). E "L'insulto ", in gran parte, è certamente tutto questo. Ti fa capire benissimo quali sono i termini del problema , non si schiera  con  nessuna delle due parti ma  non nasconde ragioni e torti degli uni e degli altri.  Mostra i protagonisti nel loro immediato retroterra familiare e sociale, avanza con ritmo e tecnica narrativa propri di un buon film americano d'azione , senza i  fronzoli e i piccoli lenocini di  troppo cinema ideologico e moraleggiante oggi sugli schermi. E' vero e spietato quando occorre, delicato e sottile nel suo assunto più sotterraneo. Ed è proprio qui , nel suo significato " ultimo ", che il film si stacca decisamente dalla materia cronachistica per elevarsi ad una prospettiva più ampia e capitale, al tema cioè dell'odio che è purtroppo nella natura umana e all'amore , alla solidarietà ed alla pietosa, reciproca comprensione tra le persone che ne sono l'unico antidoto. Il film non ha  nè potrebbe avere, propriamente parlando, un  lieto fine , quell' ingenuo " embrassons- nous " che avremmo forse desiderato. Ma, certamente, mostra una presa di coscienza nei personaggi principali che prima  faceva loro difetto. E', potremmo dire , un itinerario doloroso e necessario : verso che cosa non sapremmo dire, ma che le cose si muovano e non, per fortuna, nel senso dello scontro feroce è già un grande risultato.
Cinema di grande levatura, sceneggiatura densa ma coesa, regia sorvegliata eppur ricca di immaginazione , recitazione superba ( gli arabi, diremmo quasi questi napoletani del Vicino Oriente ). Andate a vedere " L'insulto " e vi rifarete dalle nequizie e dai facili tremori di cento " Gomorre " e " Suburre " oggi imperanti. Vita vera eguale cinema vero. In fondo la grande lezione del neoralismo, rivissuta e corretta dal cinema d'oltre oceano degli anni '60 - '70 . E scusate se è poco.

lunedì 4 dicembre 2017

" THE SQUARE " di Ruben Ostlund ( Svezia, 2017 )

Film molto importante, questo " The square ". Vincitore della Palma d'oro a Cannes , la scorsa primavera. Forse non mancavano film in concorso che  avrebbero avuto maggiore diritto a quel premio, a cominciare dal russo " Senza amore " che sta per uscire nelle sale italiane e di cui vi parlai a suo tempo. Ma bene fecero allora  i giurati a segnalarcelo mediante il massimo riconoscimento. Privo di elementi esteriori di immediata presa sul pubblico ( attori famosi, una vicenda attraente e  facilmente " classificabile "- film drammatico, o brillante, storia d'amore ecc. - una cospicua campagna pubblicitaria ) avrebbe rischiato altrimenti di passare inosservato. O di venire relegato nella categoria delle opere " eccentriche ", da lasciare ai cinefili incalliti o al pubblico dei festival. Mentre invece è un'opera che non può lasciarci indifferenti, noi che apparteniamo al  genere umano di questo primo ventennio del ventunesimo secolo. E che - a non essere prevenuti - non risulta neanche particolarmente sconcertante od oscura. Con l'unica avvertenza, diceva un mio caro amico, di non andarlo a vedere dopopranzo. Potrebbe infatti risultare un tantino indigesto, suscitare qualche senso di colpa, far sobbollire il fondo della nostra coscienza  . Tutto ciò, peraltro, attraverso   una semplicità espressiva (niente  inutili virtuosismi di regia ) che è  da ascrivere a  grande merito di questo regista e sceneggiatore svedese di poco più di quarant'anni di età, Ruben Ostlund, già autore tre anni fa di un ragguardevole " Force majeure " o " Snow therapy " come da qualche parte è conosciuto quel film.

Lo " square " del titolo, è una piazza ma ,volendo, anche un quadrato in uno dei diversi significati di questo vocabolo. Ed è, nel film , il nome di una " installazione " ( quelle cose fatte di tubi, di luci o di materiali grezzi che ormai, nell'arte contemporanea , sempre di più prendono il posto delle vecchie tele o delle sculture ) che il protagonista, Christian,  direttore del Museo Reale di Stoccolma, orgogliosamente presenta al pubblico per celebrare  non ricordo più quale anniversario. Quella " opera d'arte ", nelle intenzioni dell'autore e dei committenti, dovrebbe simboleggiare " un luogo di amore e di fratellanza, aperto a tutti e dove tutti abbiano gli stessi diritti e gli stessi obblighi ". Insomma, una trasparente metafora del mondo cui aspiriamo e che alcuni ritengono addirittura sia  già stato realizzato qui in Occidente o almeno nei ricchi ed egualitari paesi dell' Europa del Nord. Se non fosse che, complice la crisi economica di questi ultimi anni e soprattutto  il progressivo inaridimento del sentimento di solidarietà, della tolleranza e del rispetto reciproco,  resta un paradigma puramente ideale dal quale ci stiamo in realtà allontanando. Ed il tema centrale del film di Ostlund è proprio l'ipocrisia di una società, la nostra, che a parole predica bene  ( l'onnipresente " politically correct " ! ) ma che, nella attività quotidiana, finisce con lo  smentire clamorosamente  il progetto verso cui si illude di tendere. Ecco allora, invece, l'aridità nei rapporti interpersonali, la paura e il pregiudizio nei confronti di coloro che non sono come noi (ad esempio  intellettuali benestanti, magari con belle case, belle automobili e molti " gadget " che rassicurino una traballante  identità ). E soprattutto, ci ricorda l'autore, la fuga dalle responsabilità individuali , una volta che si è trovato comodo delegare ad altri se non addirittura al gruppo - cioè in pratica a nessuno- il compito di difendere i nostri valori, indignarsi , reagire quando necessario. Altrettante situazioni che leggiamo agevolmente nei comportamenti del protagonista e che, complice un iniziale banalissimo episodio di un subìto furto con destrezza ( sì, anche nella civilissima Svezia ) conduce quest'ultimo ad una serie di scelte ( o non-scelte ) più sbagliate le une delle altre e che sconvolgeranno il suo " delizioso " tran-tran. Insomma, la " piazza " ( luogo di libertà, di incontro e di scambio ) rischia di trasformarsi in un sempice e chiuso " quadrato " , una gabbia nella quale prevenzioni ed oscuri timori, incomprensioni e mancanza di dialogo, minacciano di tenerci segregati gli uni nei confronti degli altri.

Che mondo ci siamo costruiti, sembra chiedersi polemicamente l'autore, questo mondo  in cui vi è  un così grande distacco tra i nostri buoni propositi ed una realtà fatta di indifferenza, di crescente divario tra i vari strati della società, di repressione dei nostri stessi sentimenti, in poche parole di mancanza di quell 'amore - laico o cristiano poco importa - che è l'unico lievito per una esistenza autenticamente serena e fruttifera ? Io non credo che il film  di Ostlund sia , come qualcuno ha detto, una requisitoria  nei confronti della " borghesia capitalista ". Può benissimo esistere,e non solo nei sogni , un capitalismo compassionevole e cosciente dei propri limiti come, per converso, un  socialismo spietato e nemico dell'uomo ( che , del resto, abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi cento anni di storia ) . Penso invece che il significato del film sia altrove. Nella condanna, cioè,  di una società meccanicistica, disumanizzata, fatta di tante stupide  regolette  ma - qualunque sia la formula politica in cui essa si iscriva - incapace di provvedere agli autentici bisogni degli esseri umani e di creare uno spazio di pacifica ed armoniosa convivenza. Mi confortano in questa percezione del significato del film  le  scene desolanti in cui viene mostrata l'incapacità del protagonista di stabilire un autentico rapporto da eguale ad eguale con le persone con cui entra in relazione ( la giornalista intervistatrice con cui ha una fugace avventura, l'assistente di colore, il ragazzino che si ritiene da lui diffamato, i suoi stessi figli ) e quelle , forti e quasi insostenibili nella loro durezza, in cui il mondo  cui appartiene Christian è confrontato a sentimenti ed istinti genuini ancorchè " primitivi " e quindi dimenticati ( la lunga sequenza dell' aggressivo uomo scimmia al banchetto offerto dal museo ed ancora il confronto tra Christian stesso ed il ragazzino che gli chiede di riparare alle disastrose conseguenze  della iniziativa da lui posta in essere per recuperare gli oggetti che gli erano stati sottratti nello scippo iniziale ). Ed in un siffatto contesto, la stessa arte- per accennare ad  un importante " sottotema " del film - che era nata per dare conforto e dignità  a noi umani, sembra aver ormai largamente abdicato alle proprie funzioni originarie.Se l'artista era prima un mediatore tra la società del suo tempo e  le forze oscure e vitali della creazione, quasi sempre di immediata comprensione e fruibilità, oggi si è trasformato in un " performer " che si limita spesso a cogliere l' " aria che tira " e a riprodurla in forme talvolta oscure o risibili. Ne sono prova quelle " creazioni artistiche " che lo stesso Christian ospita nel proprio museo ma non sa bene nemmeno lui cosa vogliano dire e se abbiano un valore che trascenda la mera circostanza di essere conservate in quel luogo.

Non vorrei peraltro che i pochi lettori che mi seguono traessero da tutto questo l'impressione che si tratti di un film plumbeo, quasi disperato,  un tantino deprimente. Se l'assunto è quanto mai serio e non molte sono le faglie di speranza che esso ci lascia intravedere per una condizione umana gravemente compromessa ( i diseredati di oggi, consapevoli che non hanno nulla da perdere ? I più giovani che possono puntare, nel lungo periodo, ad un mutamento di rotta ? ) non per questo, andando a vedere " The square ", rischiamo di annoiarci o di rattristarci ulteriormente. Si tratta fondamentalmente di un dramma , ma che scivola spesso nella commedia e non pochi sono i momenti in cui si sorride o francamente si ride dinnanzi a situazioni di irresistibile umorismo. Proprio come nella vita , verrebbe fatto di dire. A contribuire a questo tono così variegato, ad un ben dosato cocktail di sensazioni e di emozioni , contribuiscono- l'abbiamo già detto - una regia mai invadente o declamatoria ed una recitazione , complessivamente, di livello assai buono. Ho visto solo l'edizione doppiata in italiano- di usuale, elevato livello professionale - ma ho ragione di ritenere  che anche la versione originale lasci soddisfatti. Claes Bang, un attore danese, conferisce solido rilievo al non facile personaggio di Christian, il direttore del museo. Bene anche gli altri, compresi i giovanissimi. Menzione particolare, tra i comprimari, all'attrice americana Elizabeth Moss, che mostra un volto espressivo ( e non solo ) nell'interpretazione della giornalista.
Cosa manca, infine, al film per essere un capolavoro e per non restare invece solo ( ma non è poco )  tra i film interessanti  di questa stagione e sicuramente da andare a vedere ? Probabilmente gli fanno difetto quelle immagini ( una breve sequenza, un volto, chessò ? ) che ci facciano intravedere- al di là dello stesso assunto del film - l'impronta del genio. Quei fotogrammi, quei brevi attimi di assoluta felicità creativa insomma, che ad un Rossellini o ad un Bergman o  ai fratelli Dardenne hanno consentito di travalicare la stessa grave ed importante materia trattata e di assurgere alle vette sublimi dell'arte cinematografica. Ma non è certo un motivo per perdere l' occasione di vedere un film così coraggioso e convincente come questo e che quindi caldamente, ancora una volta, consiglio.