lunedì 30 gennaio 2017

" La La Land " di Damien Chazelle ( USA, 2016 )

Andate pure a vedere " La La Land ". Preceduto da un sapiente battage pubblicitario , coperto di premi fin dalla sua apparizione nel settembre scorso alla Mostra Cinematografica di Venezia, candidato a 14 Oscar ( sì, avete letto bene,  tante candidature quante quelle ottenute, in passato, solo da " Eva contro Eva"  e " Titanic " ) è il film del momento, quello di cui tutti parlano. Ma, lo dico subito, dimenticate  tutto ciò che, su di esso,  avete già letto o sentito. Cercate di comportarvi come se andaste a vedere un qualsiasi filmetto semisconosciuto. Non partite con eccessive aspettative. Non è il film più importante della stagione , a giudicare da quanto si è visto fin qui. Non segna una data nella storia del cinema né rinnova i fasti delle  commedie musicali di un tempo .  Se avrete la mente ed il cuore liberi da troppi pregiudizi positivi vi sarà più facile, vedendolo,  rendervi conto  dei non pochi  meriti e di qualche serio  difetto che possiede. Senza i  malintesi o  le delusioni che potreste avere al termine della proiezione chiedendovi " tutto qui ? ". Sì, tutto qui. Un buon film, che vi farà passare serenamente due ore. Una storiellina sottile, una messa in scena accattivante  e non dimentica degli archetipi del genere, un paio di canzoni che avranno successo, due attori carismatici e che , come si dice, bucano lo schermo. Tutto sommato mi accontenterei. Senza bisogno  di gridare al miracolo o di non voler vedere le astuzie disseminate quà e là in un'opera a tratti più abile che ispirata.

Quello della commedia musicale è un genere talmente legato alla storia del cinema dopo l'avvento del sonoro da rendere difficile qualunque innovazione troppo marcata. Un genere ormai " codificato ", con tutti i suoi momenti topici così sedimentati nel nostro immaginario da lasciare poco spazio alla fantasia degli autori. Ma, soprattutto, un genere legato al teatro ( dove sono nati quasi tutti i più grandi successi trasposti poi sullo schermo ) e che risente di una certa " fissità " da palcoscenico - originario o soltanto virtuale -  fosse pure il più vasto disponibile. E i registi che  , come Minnelli o il  Robert Wise di " West Side Story ", sono riusciti a togliergli di dosso la polvere di scena portandolo  "en plein air " o decostruendone lo schema narrativo, hanno dovuto faticare non poco. Un primo punto di merito di " La La Land ", quindi, è che nasce per il cinema, "è " cinema allo stato puro ed afferma orgogliosamente la sua indipendenza estetico-visiva. Lo dice la folgorante scena iniziale dell'ingorgo sul viadotto della superstrada, quando tutti i guidatori delle auto bloccate nel traffico saltano giù dalle loro vetture, cantano e ballano atleticamente in un inno al sole di California (" Another day of sun " ). Scena  cinematografica quant'altra mai, tutta nervosa e con un taglio ed un ritmo  che annunciano quasi programmaticamente l'originalità del film stesso. Ed anche il balletto tra i due protagonisti al crepuscolo sul belvedere che domina Los Angeles  insiste sulla piena autonomia del suo impianto visivo rispetto ad ogni ipotetica derivazione teatrale. L'inquadratura qui  non sottende un ideale spazio scenico, come nella maggior parte dei " musical "apparsi sullo schermo,  bensì riafferma la sua capacità di allargarsi ad abbracciare un orizzonte meno forzatamente limitato. Un " musical ", questo,  che, pur tributando al passaggio evidenti omaggi alla grande tradizione che corre sull'asse Broadway- Hollywood, assume poi tutt'altra dimensione. Flirta con la  pittura (con i suoi vivaci colori postmoderni ) si apparenta al jazz e alla sua caratteristica principe  che è l'improvvisazione  "ragionata". Ma soprattutto  strizza costantemente l'occhio allo stesso cinema, dall'ambientazione non a caso hollywoodiana della vicenda  alle citazioni filmiche spesso palesi, talvolta solo accennate ( " Gioventù bruciata " per la disarmata giovinezza e la purezza originaria dei protagonisti , " New York New York " per le incomprensioni professionali che dividono la coppia, " L'appartamento " per la momentanea vittoria dell'amore sulle costrizioni ambientali, " Les parapluies de Cherbourg " per la grazia tenue e la freschezza  di talune situazioni ).
Questo Chazelle -  dimenticavo di dirlo - ha poco più di trent'anni ma  conosce  bene come deve inquadrare le scene del suo film , ha un tocco morbido col quale ci prende quasi per mano e ci conduce a zonzo con i protagonisti nel loro girovagare, nel loro momentaneo perdersi e poi ritrovarsi. " Boy meets girl ", dicono ad Hollywood per descrivere l'impianto narrativo che ha garantito il successo a tanti e tanti  film . Un ragazzo incontra una ragazza. Si innamorano, si giurano eterna fedeltà, quasi sempre poi  alla loro felicità si frappongono degli ostacoli, finiscono quindi  col lasciarsi, qualche volta si ritrovano, qualche volta no. Uno schema sempre eguale, una storia raccontata  in migliaia di opere  e che la magia del cinema rinnova ad ogni nuova incarnazione, come se noi la vedessimo sullo schermo senza conoscerla in anticipo. La bravura del regista, qui, non sta solo nello stile che è riuscito ad infondere all'intera vicenda ma nella capacità che egli ha di evocare un' atmosfera, una vera e propria aura, con pochi tocchi appena accennati. Cinema di qualità ma  non vistoso, incapace di saltarti addosso e di catturarti di colpo. Cinema che ci mette un po' a  "carburare " ( e infatti la prima parte di " La La Land " sembra sotto tono se paragonata alla seconda, più pirotecnica e inventiva ) ma poi sale gradatamente di tono e si conclude in modo cinematograficamente convincente ( non dico come, in omaggio alla mia conclamata - e spero apprezzata - volontà di non dire più molto sulle trame dei film di cui parlo ). La scelta del formato , il classico cinemascope , permette poi non solo  di annodare  un ulteriore legame ideale con la grande produzione di " musical " cinematografici negli anni cinquanta e nella prima metà dei sessanta, prima cioè che il genere incontrasse un grave momento di crisi. Esso concede a Chazelle di  " distanziare " la vicenda narrata, come se appartenesse a quell' età dell'oro della commedia musicale , e di creare di per ciò stesso un singolare contrappunto con la modernità di una storia che si svolge ai giorni nostri e che assume come postulato un'etica e una psicologia dei personaggi lontane da quelle proprie del " genere ".

Ecco, veniamo alla storia ( soggetto e sceneggiatura, per intenderci ). Chazelle ha scritto l'uno e l'altra , oltre a dirigere il film . Condizione invidiabile per qualunque " metteur en scène " perché consente all' autore di avere il pieno controllo sulla propria creazione artistica ( produttori permettendo, naturalmente... ). Ma non sempre ottimale. Pochi sono i registi-sceneggiatori egualmente bravi nello scrivere - senza l'aiuto di un professionista del ramo -  e nel dirigere un film ( tra questi citerei, ai giorni nostri, Woody Allen nella commedia e, in tutt'altro registro, i fratelli Dardenne ). Qui il soggetto è abbastanza  indovinato. Non originalissimo nell'introdurre i due personaggi principali ( un'aspirante attrice costretta ad una lunga anticamera prima di sfondare, un pianista squattrinato e con il sogno di aprire un locale tutto suo in cui " proteggere " il jazz classico che è la sua grande passione ). Ma , si sa, da che cinema...è cinema, anche un soggetto gracilino e raccontato mille volte può essere svolto in maniera interessante. Peccato che " La La Land " - o meglio Chazelle  - non riescano del tutto in questo intento. La sceneggiatura  in molti punti è un po'  fiacca, sembra un semplice canovaccio per le invenzioni visive della regia ( invenzioni che, peraltro, proprio da uno sviluppo narrativo più deciso, avrebbero ricavato ancor maggiore impatto ). Si rifletta alla sequenza del sogno ad occhi aperti della protagonista, quasi alla fine del film, quando lei  pensa a come avrebbe potuto essere la sua vita se fosse rimasta  con il pianista. Un felice " mix " di musica e ballo, movimento scenico e inquadrature tutte " giuste ", per carità . Ma , francamente era lecito attendersi  qualche sviluppo narrativo, qualche " gag " più succosa, che non  quella specie di "santino"  colorato che ne vien fuori , tipo " voi non vi immaginate proprio quello che mi sono persa... ". Peccato realmente perché poi altri momenti del film  sono concepiti e scritti meglio. Penso alla ormai celeberrima sequenza - già ricordata -  del " pas de deux " al tramonto con Los Angeles sullo sfondo, situazione finalmente azzeccata e spontanea ( ma, per favore, non la paragonate al " Dancing in the dark " di Fred Astaire e Cyd Charisse in " Spettacolo di varietà " di Vincente Minnelli, forse il più bel balletto a due della storia della commedia musicale  : è quello, per intenderci, ambientato al Central Park ).

Proprio gli attori sono una nota lieta di " La La Land ". Niente Astaire o Gene Kelly, Cyd Charisse o Liza Minnelli, questo è fuori discussione. Ma , finalmente, come ho detto all'inizio, due giovani interpreti veri, vibranti, che riescono a infondere vita nei loro personaggi. Lui, Ryan Gosling, l'idolo delle giovanissime ( e non solo ) non sarà forse così duttile ed espressivo come sarebbe stato auspicabile ( guardate bene la sua espressione mimico-facciale : è sempre il solito sorrisetto un po' enigmatico, declinato in due soli modi, quello speranzoso e quello deluso... ). Ma il  "ragazzo " - ormai sono tutti ragazzi, anche a quarant'anni -  sa muoversi, ha presenza scenica, è carismatico, danza - o meglio accenna una danza- e canta in modo più che accettabile. Lei, Emma Stone, non è bellissima. Ha due grandi occhi tremendamente espressivi che le divorano il volto dai tratti incisivi ( una nuova Bette Davis ? ) e li atteggia , li sgrana , li irrora di pianto o li illumina di gioia come meglio non potrebbe. Proprio una buona attrice , signori miei ! Ed è anche bravina a ballare e cantare ( con un fil di voce ). Fanno entrambi molta tenerezza ed i momenti in cui il film è felicemente venato da una sottile , elegante malinconia, devono molto al fascino e all'intelligenza degli interpreti.
Tornando a casa - ho visto il film nella più bella sala di Milano, quella  grande del vecchio Odeon , su di un vasto schermo  come richiede - pensavo ai molti meriti e ai qualche difetti del film, probabilmente inscindibili gli uni dagli altri come quasi sempre accade. E ho capito, allora , qual è - secondo me - il suo problema. Non osa abbastanza. Riprendere un genere che sembra ormai aver dato tutto ciò che poteva non era facile. Ma allora perché non andare oltre ,perché non esplorare cosa può esserci dietro la tela di un film levigato e a tratti formalmente perfetto ? Perché non avere più coraggio nel " reinventare " il genere della commedia musicale ? ( un po' come fecero  Altman o Scorsese per i film polizieschi o le commedie sofisticate, " dinamitate " dall'interno ). Aspettiamo a vedere. Il cinema, specie quello americano, sa darci sempre nuove sorprese. E nel frattempo, senza complessi di colpa, godiamoci il tenue fascino che, onestamente, ispira  questo " La La Land ". Magari avendo in mente la curiosa annotazione del critico del " New Yorker "  , Anthony Lane , che recensendo questo film diceva  pressappoco : "Ad un certo punto non sapevo più se guardarlo o mettermi a leccarlo "...

mercoledì 25 gennaio 2017

" Arrival " di Denis Villeneuve ( USA , 2016 )

Ho sempre avuto scarsa inclinazione per la fantascienza. Sarà un mio limite, lo ammetto. Ai racconti di " Urania ", quando ero ragazzino, preferivo " Piccole donne ". Molto più intrigante calarsi nelle vicende della quattro ragazze March , con i loro caratteri così diversi , con le loro psicologie femminili così interessanti, che perdere tempo con le storie di improbabili UFO, alieni verdognoli  ed altre orride "creature venute dallo spazio esterno ". Crescendo, ho accettato con rassegnazione  " E. T. " con la sua patetica invocazione ( " Home! , Home ! " ) gli incontri ravvicinati del terzo tipo e qualche spiritosaggine di discreta fattura come  "Mars attacks ! ". Ma niente di più. Penso che ci sia già abbastanza fantasia su questa terra per andare a cercarla altrove. So di dare un dispiacere a quanti non la pensano come me  ma non riesco a commuovermi più di tanto con le storie che ci parlano di altri mondi e  di altri esseri ( che magari esistono pure, chissà ? ) Anche perché non mi piacciono i trucchi, gli effetti speciali , le grandiose scenografie da " guerre stellari ". Qualcuno a questo punto mi ricorderà che, agli albori del cinema, il grande cineasta francese Meliès ci faceva  già  andare sulla luna, e non senza un pizzico di autentica poesia . Ma la luna era una luna di cartone , o di compensato . La fantasia dello spettatore era direttamente chiamata in causa, come è  sempre avvenuto nel  cinema onirico. Un cinema che ha trovato accoglienza nel nostro immaginario senza bisogno di tanta tecnologia . Non così , temo, per  buona parte della produzione fantascientifica di questi ultimi trenta - quarant'anni , che fa leva su di un armamentario impressionante e che quella fantasia, a parer mio, non finisce certo col solleticare. Ma, francamente, non vorrei ingaggiarmi in uno scontro con gli amanti della fantascienza al cinema dal quale, probabilmente , e per mia colpa, uscirei perdente.

Questo, in realtà, per dirvi che sono andato a vedere " Arrival " con qualche esitazione e solo perché ho sentito parlare bene del  regista, il franco-canadese Denis Villeneuve. Questi, eclettico nelle scelte, lavora ormai stabilmente per il cinema USA ( anche se il film, per motivi di budget, è stato girato a Montréal simulando lo stato del Montana ) e sta completando il " sequel " di " Blade Runner ". Insomma, un predestinato al successo di pubblico ma con un occhio attento al cinema di qualità. Buon prodotto del resto, questo " Arrival ", visivamente splendido.  Ricorda, a tratti, il cinema di Terrence Malick - quello di " Tree of life " - nell' impeto lirico e nella quiete al tempo stesso delle immagini . Soprattutto un film che racconta una storia di fantascienza ma lo fa in veste allegorica e senza abusare di effetti speciali. Un film che si affida più alla riflessione ed agli echi sottili che può suscitare nello spettatore che alla magniloquenza dell'impianto scenografico ( qui ridotto al minimo  indispensabile, tanto  per non deludere  le attese degli appassionati di " science fiction "). Una storia di alieni che con le classiche astronavi -  una via di mezzo tra un gigantesco guscio di noce e un enorme pallone da rugby - scendono verso la terra  ma non vi posano il piede ( in questo caso, come vedremo, piuttosto le zampe o i tentacoli... ) preferendo che siano i terrestri a prendere contatto con loro. Il contatto, la comunicazione quindi - visto che gli alieni sembrano emettere solo suoni inarticolati e vagamente minacciosi - presuppone  forzatamente l'assistenza di qualcuno in grado di comprendere che cosa vogliano. Ed è qui che il film comincia, raccontato in un lungo " flash back "- inframezzato da improvvisi salti nel futuro -  dalla protagonista,  una giovane donna separata dal marito e a cui è appena morta la figlia, una adolescente affetta da una rara malattia. La donna ( Amy Adams ) è una esperta glottologa che insegna all' Università, ha collaborato in passato con i servizi segreti per qualche traduzione di materiale sensibile e in virtù dei suoi precedenti viene letteralmente prelevata dalle forze di sicurezza e condotta sul luogo dove, ferma in aria  a poca distanza dal terreno, si trova un'astronave venuta dallo spazio extraterrestre contenente le misteriose "creature " di cui non si capisce quali siano le reali intenzioni ( sapremo poi che altre undici astronavi, in tutto simili alla prima,  si trovano sospese, nello stesso momento, sopra il suolo di altri undici paesi nei cinque continenti, tra cui Russia e Cina ).

L'inizio del film è perfetto. La donna è appena tornata a casa dopo una lezione nel " campus " universitario, interrotta da un allarme generale che ha fatto allontanare tutti gli studenti. Un'atmosfera irreale, fatta di sospensione e di sgomento aleggia sulle cose e la natura circostante.  Mentre lei è al tavolo di lavoro nella semioscurità, una presenza si manifesta improvvisamente nella stanza. E' un solido, massiccio colonnello afroamericano dell'esercito ( Forrest Wittaker ) venuto appositamente per condurla al campo base e da lì farla incontrare con gli alieni. Un inizio tenuto volutamente su di un registro " basso ", lontano dalla concitazione e dall'isteria cui si sarebbe prestato in una storia del genere. Una scena che ricorda il miglior Hitchcock ( ricordate gli inizi egualmente in tono minore di  "Gli uccelli " e di " Psyco " ? ) anche per la raffinata sintassi visiva ( una alternanza sapiente di campi lunghi, piani ravvicinati, primi piani, che ci introducono nella vicenda e ci presentano il personaggio principale con sobrietà ed eleganza ).Tutta l'opera , del resto, non va mai sopra le righe anche nei momenti più drammatici, sorretta - occorre dirlo -  da una recitazione quanto mai puntuale e controllata, specie per la Adams, giustamente candidata all' Oscar 2017 per questa interpretazione. Degli alieni, che la professoressa finalmente incontra , non dirò molto, anzi nemmeno quel poco perché è giusto che li scopriate da voi. I primi approcci non sono molto incoraggianti, sia per le difficoltà  di traduzione che per la vaga impressione che le strane creature abbiano un atteggiamento minaccioso verso gli umani. I primi successi della professoressa- propiziati dalla sua naturale empatia  e dal vivo desiderio di comunicare -  consentiranno, poco per volta, una migliore comprensione. Ma il tempo incalza e la Russia e la Cina sembrano voler approfittare delle circostanze per smarcarsi dalla provvisoria intesa con gli Stati Uniti, minacciando così la pace mondiale.

Il messaggio del film è abbastanza semplice  e rischia talvolta di sembrare  senz'altro semplicistico. Gli abitanti di un mondo lontano dal nostro non vanno antagonizzati solo perché diversi ( anche noi lo siamo per essi... ) ed occorre per questo un effettivo sforzo di reciproca fiducia e di mutua comprensione. Per reagire efficacemente ad una situazione nuova l'umanità deve fare fronte comune ed abbandonare gelosie , particolarismi, desideri di supremazia. Gli alieni si sono diretti sulla terra, con tutta probabilità, proprio per porre termine a questo stato di cose ed indurci ad una sorta di  grande, pacifica coalizione che ponga termine , sperabilmente per sempre, al belluino stadio del " tutti contro tutti ". Come si vede, quasi una favoletta . Graziosa , morale ed asettica, bene accetta da tutti. Questo è il limite della fantascienza. Per uscire da una situazione imprevedibile ed abnorme ( gli alieni, la guerra dei mondi, in prospettiva la distruzione del  pianeta) non c'è nelle sue storie che l'automatico ritorno - o l'approdo, come preferite - ad una sorta di età dell'oro, senza conflitti, senza guerre, senza quiproquo. Se ci accontentiamo, perché no ? Qui la sceneggiatura, a dire il vero,  non soccorre molto ( il regista non ne ha colpe, non avendovi apparentemente messo le mani ) e non riesce a dare alla vicenda uno spessore maggiore, che la mantenga sempre al livello di una autentica meditazione sulle sorti dell'umanità  e non di una semplice traccia per un nuovo videogioco quale a tratti, malauguratamente, ci appare. Per fortuna, ripeto, l'interpretazione fa miracoli nel rendere credibile personaggi e storia. E poi c'è la regia di Villeneuve. Calma, felpata nel sussurrare dove altri avrebbero urlato ma pronta ad alzare il tono dell'intero film nei momenti di " pathos ", in un registro continuamente puntuale e sapiente . Una bella prova da " autore "  in un film " di genere ", come si suol dire, e che quindi deve  rispondere a determinate attese di un determinato pubblico. Una prova che ci ricorda come il cinema sia anche spettacolo, industria dell' entertainment , e  non possa sempre e comunque rifuggire da questi parametri per confinarsi ( ancora fantascienza ! ) in una presunta  "sfera pura dell'arte". Ma non per questo si potrebbe frettolosamente concludere che  il cinema debba rinunciare  all'intelligenza, all'ispirazione, alla spontaneità creativa di chi è chiamato a farlo. In caso contrario, e questa volta per davvero, ben vengano gli alieni a salvarci da un mondo nel quale - dolorosamente - non potremmo più riconoscerci.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        

domenica 22 gennaio 2017

" Dopo l' amore " di Joachim Lafosse ( Belgio, 2016 )

Cosa rimane quando - in una coppia sposata - l'amore non c'è più ? O, meglio, quando l'amore va e viene, senza che vi sia certezza che possa tornare forte come prima , quando il legame che  ci ha uniti ad un'altra persona si affievolisce fino quasi a  scomparire del tutto ? Risentimento verso il partner, frustrazione, senso di vuoto, ma anche  a volte una caduta della nostra stessa autostima. E non importa che , come in tutti i rapporti amorosi, il grado di intensità di queste sensazioni non sia eguale per i due soggetti coinvolti, cioè che uno sia ancora più o meno confusamente innamorato e l'altro no. Quando il legame è pericolosamente sfilacciato, è molto difficile riannodarlo, preservarlo da ulteriori assottigliamenti senza che esso necessiti di una nuova intesa paritaria e, soprattutto, di un forte desiderio di ricominciare da parte di entrambi. "Dopo" l'amore, dovremmo dire piuttosto " dietro" l'amore,  emergono allora, fatalmente,  le implicazioni economico-sociali di quella determinata unione che sta per finire. Non solo l'affidamento dei figli- con gli intricati arrangiamenti perché ciascuno dei due genitori possa, a turno,  vederli e stare insieme ad essi - ma la proprietà dei beni comuni, a cominciare dalla casa in cui la coppia ha vissuto e cresciuto la prole, la quale costituisce in definitiva la  sua  "produzione ". Questioni delicate, specie la seconda, in cui al computo puramente monetario si intrecciano quel risentimento e quel senso di frustrazione dei quali abbiamo detto prima e che rischiano di complicare maledettamente le cose. L'economia della coppia. Ecco ciò che resta. E se pensiamo che la famiglia, almeno fino ad oggi, rappresenta la cellula primordiale del nostro ordinamento economico-sociale, non dovremmo trovare troppo  "blasfema "- rispetto alla " santità " dell'amore-  questa semplice constatazione.

  E " L'économie du couple " ( L'economia della coppia ) è il titolo originale, suggestivo e diretto al tempo stesso, del film di cui parliamo oggi. " Dopo l'amore "- titolo più banalotto ed in parte fuorviante scelto dalla produzione per la distribuzione internazionale -  parte proprio da qui. Dalle questioni che si pongono in vista dell'imminente  conclusione sul piano amministrativo di una unione matrimoniale giunta ormai al capolinea sul piano degli affetti e  dell'intesa reciproca. Anzi, se vogliamo essere precisi, il film parte dalla casa in cui, di fatto già separati, convivono provvisoriamente i due coniugi della nostra storia, Marie e Boris. La casa  come oggetto della loro disputa. Perché del ricavato della vendita lei , che l'aveva acquistata esclusivamente con il denaro regalatole dai genitori , vuole tenere per sé i due terzi lasciandone  uno al marito. Mentre lui, che aveva apportato molte migliorie all'aspetto originario della dimora coniugale grazie alle sue capacità di architetto, ne pretende la metà rivendicando l'importanza e la dignità - diremmo marxianamente - del proprio lavoro rispetto al capitale portato dalla moglie. Ma anche la casa come fortilizio della cellula familiare, rifugio ed insieme schermo verso l'esterno di un rapporto esclusivo, chiuso,  come finiscono con l'esserlo sovente i  rapporti familiari nella nostra società parcellizzata, frantumata in tante piccolissime realtà autosufficienti. E da questa casa, graziosa, ampia, con un piccolo giardino, arredata con gusto ma che finisce col dare allo spettatore un  leggero senso di claustrofobia, il film non ci farà praticamente mai uscire, salvo alla fine .Quasi a sottolineare il luogo dove l'amore della coppia si è inizialmente rinvigorito con la nascita della prole ( due gemelline sui sette, otto anni ) e che è  divenuto successivamente l'arena dei loro scontri verbali, della crescente reciproca incomprensione, della malinconica fine del loro rapporto .  E se poi la posizione economico-sociale dei due coniugi non è sufficientemente equilibrata ( lei è figlia di genitori borghesi e benestanti ; lui , aspetto più proletario-bohémien, non ha un soldo e vive di espedienti ) ecco che l' economia della coppia nasce squilibrata ed ancor meno agevole si manifesta l'equo scioglimento del legame.

 Non vi è solo un contrasto economico o sull'affidamento dei figli  al centro della vicenda .L'artista, lo sappiamo,  quando descrive qualcosa finisce sempre col " parlare " di qualcosa d'altro. Anche qui è il " non detto " , il non rappresentato che aleggia sulle cose, le vicende e le situazioni oggetto principale della creazione filmica, a costituire l'elemento sottostante  e più interessante. Perché il  rapporto  di Boris e Marie si sia logorato il film non lo dice, non vi è un " antefatto " che ci dia qualche indizio. E' così e basta. E il film ci svela solo, come abbiamo visto, le loro infinite discussioni, le loro ripicche, il continuo " tiro alla fune " sul futuro assetto dei loro rapporti familiari ed economici. Ma, quasi contro la volontà - diremmo - degli stessi personaggi, la trama sottile e dolorosa dei loro rapporti di un tempo emerge alla superficie. Una occhiata intensa, lucida di rabbia o di pianto trattenuto, ci fa capire quanto forte fosse il sentimento di Marie per Boris. E lo sguardo a volte attonito e perso nel vuoto di questi ci mostra lo smarrimento, l'incapacità di farsi una ragione, che lo caratterizzano . E spiegano soprattutto,  quell'occhiata e quello sguardo, il  sordo accanimento nel perseguire i loro interessi che  l'uno e l'altra mettono in campo. Boris e Marie si sono molto amati - questo possiamo intuirlo - e poi, come succede a volte per un sentimento così intenso, il loro amore è finito. O forse no, perché a volte essi danno l'impressione che potrebbero tornare insieme, riannodare un rapporto cui stanno mettendo fine, probabilmente, per troppo orgoglio e per troppa reticenza. La "economia della coppia " , in questo senso, non è fatta solo di conti economici, di capitale e di lavoro. E' fatta anche di scambio  (o " non scambio " ) affettivo , di sguardi, di momenti di intimità e di condivisione, secondo una aritmetica complessa, un bilancio le cui poste non sono tutte agevolmente misurabili. Inseguiamo , come sempre, la nostra felicità ma diamo purtroppo per scontato che potremmo non raggiungerla mai. Anche se, fortunatamente , questo non sempre  avviene , il solo fatto che potrebbe succedere ci induce all'ansia e alla malinconia.

Tutto ciò , ed altro ancora, è detto bene da " Dopo l'amore ". Merito del regista e cosceneggiatore del film, il quarantenne belga Joachim Lafosse ( autore in precedenza di un interessante " Proprietà privata" ), capace di compiere il tour de force di ambientare il 95 % per cento del film nello stesso spazio ristretto senza dargli un aspetto troppo da " teatro filmato " ( ricordate " E' solo la fine del mondo " ? ). Agile nella successione delle sequenze e delle inquadrature, il suo cinema è sempre lucido e asciutto. Qualche concessione troppo sentimentalistica ( le " gemelline ", peraltro brave e simpatiche, sembrano a volte essere messe lì solo per intenerire lo spettatore ) possiamo perdonargliela, in nome dell' "economia " complessiva del film . Certo, resta a mio avviso un film più di  "testa" ( un , pur dignitoso, prodotto intellettuale ) che di " cuore " ( un' opera  ispirata, nata da un sentimento autentico ). Non vi è la scintilla del genio , in questo Lafosse. Buon artigiano, ci dà un prodotto molto curato e che ha il merito di toccare un argomento eterno ed insieme attualissimo : la crisi della coppia, la solitudine dell'individuo. Molto del piacere estetico che si ricava dalla visione del film  è dovuto ai due bravissimi interpreti . Bérénice Béjo ( Marie ) in questa stagione ci aveva già dato il toccante, quasi magico personaggio di contorno della dottoressa del Pronto soccorso in " Fai bei sogni " di Bellocchio. Qui è la protagonista femminile ( a quarant'anni di età  la sua interpretazione più impegnativa ) e restituisce la fiducia che le è stata data da produttori e regista con una recitazione intensa e convincente. Cedric Kahn ( regista francese di discreto livello ) impersona Boris con particolare incisività. Ottimo ancora una volta - quasi dispiace dirlo - il doppiaggio in italiano ( del resto, almeno qui a Milano, non ci sono per il momento alternative ).In definitiva, se volete la mia opinione, un film "da vedere" per i motivi che ho cercato di illustrare più sopra. Ma non " da vedere assolutamente ", come " Il cliente " o " Fai bei sogni " di cui abbiamo parlato nelle scorse settimane. D'altra parte il cinema non può vivere di soli capolavori e il lavoro di molti cineasti che di questi non ne fanno, o non ne fanno ancora,  è egualmente interessante e degno di considerazione, spero ne converrete.





martedì 17 gennaio 2017

" Allied " di Robert Zemeckis ( USA, 2016 ) - " L' agente segreto " di Alfred Hitchcock ( Gran Bretagna, 1936 )

 .Mi scuso con gli estimatori della brava attrice francese Marion Cotillard e con le ammiratrici ( ben più numerose, ritengo ) di Brad Pitt se, parlando di " Allied ", darò loro un dispiacere. I due attori - la parola " divi " ormai è superata... - sono bravi, o almeno bravini, ma il film funziona fino ad un certo punto e rischia, in definitiva, di stingere sulla loro interpretazione. Proprio come è successo con  "Florence " dove, nonostante i lodevoli sforzi di Merryl Streep e di Hugh Grant, la storia non riesce a decollare e rimane nel limbo del semplice aneddoto. Colpa, in quel caso , di una sceneggiatura molle e sfilacciata cui non riesce a fungere da necessario contrappeso una regia ispirata o quanto meno avvertita e partecipe.
Fattispecie analoga, o almeno di poco superiore come risultati, è il nuovo film di Robert Zemeckis. Se il nome di costui ( 65 anni, americano di Chicago ) non vi evoca qualcosa di particolare mi permetterò di ricordarvi due tra i suoi  film ,  entrambi migliori di " Allied " , che risalgono agli anni '80 e forse avrete visto : " Ritorno al futuro " e " All'inseguimento della pietra verde " ( "Romancing the Stone" , nel titolo originale ). Due operine, parliamoci chiaro, non due film memorabili. Ma garbate, divertenti, affidabili. Diversamente- e adesso vedremo brevemente perché- dall'ultima fatica di questo regista. Peccato, preferisco dirlo subito, perché lo spunto di partenza era buono ( un coraggioso ufficiale canadese - Brad Pitt - viene paracadutato in Marocco durante la seconda guerra mondiale per compiere un clamoroso attentato contro gli occupanti nazisti, affiancandolo come copertura ad una moglie fittizia - Marion Cotillard - in realtà a sua volta una ancor più intrepida partigiana della Francia gollista ).

Penso che siate tutti d'accordo sul fatto che il cinema , arte visiva più di ogni altra, necessiti peraltro di storie, e quindi di sceneggiature, solide e coerenti. Non importa il grado di verosimiglianza delle storie in questione, che possono essere realistiche, magari ispirate a fatti realmente accaduti . Oppure  in parte o del tutto fantastiche, oniriche, frutto più della fantasia di chi le ha concepite che dell'osservazione della realtà presente o passata. Ciò che conta è che funzionino perfettamente e che tengano desta l'attenzione e l'emozione estetica dello spettatore sorreggendole sino alla fine. Una buona, anzi una ottima sceneggiatura, rappresenta il " fil rouge " che annoda le diverse parti , le scene e le sequenze in cui si articola un film, dandogli un tono ed un significato particolare , coerente con le immagini che appaiono sullo schermo, con la descrizione dei personaggi, con il loro agire, con le emozioni che traspaiano dai loro volti. Ma è anche, e soprattutto, la spina dorsale del film stesso, senza la quale , come si dice efficacemente, " il film non sta in piedi ". Hai voglia a metterci attori molto conosciuti, ad ingaggiare un bravo regista, un buon direttore della fotografia. E , per soprammercato, a moltiplicare le scenografie accattivanti, gli arredamenti più accurati. Il film non funziona. E ' come un oggetto bello da guardare ma inanimato, che non ispira sensazioni decise. In definitiva, una operazione poco convincente e che lascia delusi.

Il film di Zemeckis, impeccabile come regia ( ed in questo superiore a " Florence " ) soffre di una sceneggiatura arruffona, senza molte idee ( leggete più sotto cosa dico del film di Hitchcock, che ha un punto di partenza molto simile, quasi da sospettare che gli sceneggiatori di " Allied " gli abbiano rubacchiato l'idea ). Sospeso a metà- nella prima parte -  tra una vaga atmosfera neoromantica (i punti di contatto con un film mitico come " Casablanca ", nell'improbabile confronto con le ombre della Bergman e di Bogart, inevitabilmente suggeriti dallo svolgersi della vicenda alla stessa epoca e nello stesso luogo ) e un andamento  violento e quasi farsesco tipico dei film di Tarantino, il film non trova  mai la giusta caratura. Né romanzo di guerra, nella palese inverosimiglianza di tante sue situazioni, né - specie nella seconda parte -  incursione decisa nella dimensione del fantastico ( quasi da romanzo gotico, da incubo dal quale non ci si riesce a risvegliare ) la storia rimane ibrida e insapore. Resta lo splendore formale della ricostruzione d'epoca, la buona recitazione degli attori ( menzione speciale per i begli occhi della Cotillard ) e una regia fredda ma abile nel destreggiarsi tra le palesi incongruenze  di una sceneggiatura gravemente insufficiente. Poco, purtroppo, per sollevare il film dal livello della mera sufficienza e imprimergli un segno che lo faccia ricordare. Da vedere, certo, se qualcuno mi chiedesse un consiglio, per i pregi che possiede. Ma non " da vedere assolutamente ", per intenderci, in una stagione che sta offrendo di meglio ( ed ancora di più sembra riservarci ) .


Cambiando registro, vengo concisamente al film di Hitchcock che , ben ottanta anni prima, contemplava già una coppia fittizia di spioni, questa volta inglesi, mandati durante la prima guerra mondiale in territorio neutrale ( la Svizzera delle Alpi e ... del cioccolato ) a neutralizzare una pericolosa rete di spie tedesche. Gli attori sono altrettanto " mitici " di Pitt e Cotillard -  un giovane John Gielgud  giustapposto ad una fresca Madeleine Carroll - ma molto più spigliati nel registro  "brillante " che il film coerentemente assume nonostante gli omicidi e i drammatici incidenti che  non mancano certo. La storia si dipana, questa volta,  in modo serrato e convincente. Vi è anche qui un pizzico di " romance " tra le due spie britanniche , alleggerito ( o reso più inquietante ? ) dalle ripicche e le incomprensioni tra i finti coniugi, allegoria hitchcockiana delle gioie e ... dei tormenti matrimoniali da cui il suo cinema, descrivendo i rapporti di coppia, non si è in fondo mai liberato. Vi è una leggera dose di sadica violenza ( non per nulla tra gli attori troviamo la "maschera" espressionistica di Peter Lorre ) . La trama , anche qui, non è priva di qualche smagliatura - indice che il regista non ha potuto influirvi più di tanto - ma riesce a contenere con sufficiente destrezza i diversi toni, i diversi registri su cui è modulata,  in un tutto molto più coerente che non in " Allied" . Certamente un  titolo minore ,a conti fatti, nella filmografia del periodo inglese del grande regista.

Ma sempre un " vero " film di Hitchcock, quasi il regista abbia voluto apporvi la sua firma per evitare ogni equivoco, ogni errore di attribuzione. Penso alla magistrale sequenza della " lezione di tedesco " nell'albergo alpino dove sono acquartierati tutti i personaggi. Mentre  la Carrol cerca di distrarre la moglie della sospetta spia germanica balbettando i pochi vocaboli stranieri che ricorda ( i nomi dei giorni della settimana ) fuori, su di un sentiero di alta montagna, Gielgud ed il suo aiutante ( Lorre ) debbono procedere ad eliminare la spia in questione. Il montaggio parallelo tra l'interno e l'esterno dell'albergo -  mai come qui un procedimento tecnico di grande efficacia - ci mostra alternativamente la crescente inquietudine della moglie della sospetta spia ( accresciuta dalla spasmodica irrequietezza del cane della spia , rimasto in albergo ma che " sente " che qualcosa sta accadendo al suo padrone ) e il drammatico epilogo, quasi una vera e propria  esecuzione, cui il protagonista assiste con riluttanza e senza avere il coraggio di parteciparvi. Il tema del senso di colpa che aleggia su gran parte dell'umanità- centrale nel cinema di Hitchcock -  e l'impossibilità di farvi fronte, di trovare un senso compiuto nei tragici accadimenti che spesso ci circondano, viene espresso ancora una volta con la consueta maestria e l'assoluta padronanza del mezzo cinematografico. Il merito della sceneggiatura, qui, è quello di non appesantire  i presupposti e le possibili giustificazioni di quanto accade sotto i nostri occhi. La violenza, sembra suggerire " L'agente segreto ", è sempre gratuita : è una costante della storia dell'uomo, indipendentemente dalle spiegazioni che di volta in volta possono venirvi date. E 'misteriosa e terribile di per sé, per  i meccanismi che sottende,  non per le cause che le danno origine. Una tragica constatazione cui solo l'eleganza e l'ironia del regista sanno porre provvisorio rimedio.

martedì 10 gennaio 2017

" Il cliente " di Ashgar Farhadi ( Iran, 2016 )

Inizio l'anno con una piccola confessione. Ho sempre avuto una favorevole disposizione d'animo -  diciamo una certa simpatia - verso i film che provengono da paesi dove la libertà  ( a cominciare da quella politica ma continuando  con quella di espressione artistica, che della prima è un naturale corollario ) fatica ad affermarsi o è addirittura assente. Questo a prescindere dal loro maggiore o minore valore estetico. Che talvolta può essere  elevato - ho in mente alcune pellicole che dall' Unione Sovietica o da qualche altra nazione d'oltrecortina giunsero in Occidente negli anni della  "guerra fredda "-  come anche piuttosto limitato, e penso qui ad alcune balbettanti cinematografie del Terzo Mondo dove la carenza di mezzi non esalta certo una preoccupante povertà di idee. Belle o brutte, più o meno riuscite, le opere che provengono da paesi "difficili " per la loro situazione politico-sociale mi hanno sempre fatto tenerezza pensando agli ostacoli di varia natura che, per realizzarle, gli sceneggiatori, i registi, gli stessi interpreti, hanno probabilmente dovuto superare. Spesso esse mi attraggono anche perchè  permettono di gettare uno sguardo su nazioni, società, esperienze umane , il cui vero volto i  vari governi locali vorrebbero dissimulare ma che la forza stessa dell'immagine cinematografica ( anche la più controllata ) finisce impietosamente col rivelare  o quantomeno col lasciarci intravedere. Non parlo delle opere  più o meno propagandistiche o chiaramente insincere, concepite per confondere le idee dello spettatore straniero e fargli prendere...lucciole per lanterne. Mi riferisco ai film che - pur nella scontata assenza di elementi di forte critica ai regimi sotto i quali hanno visto la luce, chè altrimenti difficilmente uscirebbero dal loro paese - fanno trapelare tuttavia qualcosa di interessante, qualcosa per cui valga la pena di andarli a vedere. E se poi sono  validi ed appassionanti anche dal punto di vista artistico, ciò non può che aumentare il piacere dello spettatore.

Tra le cinematografie dei paesi che per brevità ( per pudore ? ) ho definito " difficili ", quella iraniana è certamente una delle più interessanti. A parte il " decano " Abbas Kiarostami, conosciuto qui da noi  già prima della rivoluzione del 1979, due registi mi sembra che si siano imposti, negli ultimi  dieci-quindici anni per originalità e capacità di raffigurazione della realtà che li circonda. Il primo, più anziano , è Jafar Panahi, che due anni or sono ci ha dato il brillante e  commovente " Taxi Teheran ", girato nella capitale con una piccola cinepresa dissimulata in un auto pubblica e poi trafugato in Occidente. L'altro, più giovane, è Ashgar Farhadi , autore in patria, qualche anno fa, del bellissimo  "Una separazione " e successivamente, in Francia, di un altro film meno ispirato del precedente ma egualmente degno di nota di cui, al momento, non ricordo il titolo. Ed è proprio Farhadi che si incarica, nella stagione in corso, di fornirci una nuova prova della vitalità del cinema iraniano. Cinema guardato con sospetto dai governanti del paese, osteggiato in mille modi, spesso celato alla nostra vista per il diniego alla proiezione fuori dai confini nazionali. E perciò tanto più percepito come "trasgressivo" e suscettibile di attirare la nostra curiosità. Non che questi film ( con l'eccezione di "Taxi Teheran ", che gli iraniani ovviamente non hanno mai visto ) critichino apertamente il regime o mostrino personaggi e situazioni che si discostino troppo dalla ufficialità vigente in fatto di moralità e di costumi. Ma, come succede sovente sotto le dittature, quelle passate e quelle presenti, già il " parlar d'altro " cui sono costretti gli artisti per non incorrere nei fulmini della censura può offrire uno spiraglio attraverso il quale dare un'occhiata alle condizioni in cui si trova la società di quel determinato paese, all'evoluzione dei rapporti sociali, a cosa dicono e fanno i suoi abitanti. E se il regista e sceneggiatore del film di cui stiamo parlando, per venire al sodo, è onesto ( come lo è Farhadi  ) anche una trama del tutto " apolitica ", apparentemente incentrata sul rapporto di coppia, può finire col dirci molto di più.

Amichevolmente rimproverato da coloro che trovano che mi spingo troppo avanti nell'esporre la trama dei film di cui parlo, non vi dirò molto sull'evoluzione della vicenda raccontata da " Il cliente" ( una volta tanto i distributori italiani non hanno cambiato il titolo originale, astutamente misterioso sino a metà della proiezione ). Siamo a Teheran, una Teheran fitta di brutte case cresciute come funghi negli ultimi anni, a volte mal edificate e a rischio di crollo in caso di abnormi sollecitazioni nelle aree adiacenti. Ed è così che inizia il film, con una sequenza drammatica e concitata in cui gli abitanti di un palazzo sono costretti, spinti da inquietanti scricchiolii e da improvvise crepe nei muri, a lasciare in tutta fretta ( è un'alba priva di luce )  le loro abitazioni ed a rifugiarsi in strada mentre enormi scavatrici procedono imperterrite, poco lontano, nella loro minacciosa ed imperscrutabile attività .Già in partenza, così,  il regista ci immette in quella che è una delle dimensioni del film :la difficoltà di venire a capo di una situazione difficile, con la fuga come unica soluzione provvisoria, una minaccia che incombe sui personaggi, una violenza che è nelle cose e che si respira nell'aria. Forse è troppo facile attribuire a questa bellissima sequenza di apertura un significato metaforico, che rimandi alle condizioni della società iraniana ( la costruzione socio-politica voluta dai teocrati iraniani, sempre più pericolante ma che non cade ancora, sospesa tra la forte resistenza delle vecchie strutture e le poderose sollecitazioni del nuovo che avanza ) ma è anche difficile sostenere il contrario. E come non identificare nei due personaggi principali -  un marito e una moglie ancora senza figli, professore di una scuola secondaria lui, casalinga lei, costretti a cercarsi un altro alloggio a causa  della forzata evacuazione cui abbiamo assistito - una fetta di società iraniana, intellettuale e borghese, smarrita ed incerta, in cerca di un approdo meno precario di quello cui li costringe la situazione del loro paese ? Per di più ( ed è un tema che Farhadi , forse, avrebbe dovuto sviluppare con maggiore chiarezza ) la coppia recita, al termine della giornata lavorativa, in  un teatro sperimentale nel quale viene rappresentato, lungo tutto il film, uno dei più significativi drammi di Arthur Miller, quel " Morte di un commesso viaggiatore " che è emblematico della impossibilità di raggiungere  un agognato " status " sociale e di rinunciare ai sogni che pur si rivelano irrealizzabili.

Non basta. Marito e moglie non sembrano completamente affiatati ed un improvviso incidente rivelerà poi, tra di loro,  differenze di carattere e  di reazione di fronte alle difficoltà della vita tali da acuire quella  sensazione di disagio che essi probabilmente vivono fin dall'inizio della storia. Una sensazione di irrisolto e di non detto  che aleggia sull'intero film, dandoci l' impressione anche qui che, con tutta probabilità, essa è l'eco attenuata di una più ampia situazione di malessere dell'ambiente circostante, un ambiente timoroso e nel quale  si preferisce  fingere per non ammettere le proprie responsabilità, le proprie speranze e le proprie paure. Ben riuscita, a tale proposito, mi è sembrata la descrizione del rapporto tra il marito - che dirige  il teatro sperimentale nel quale recitano lui e la moglie - e il resto della compagnia : amichevole, a tratti caloroso e partecipe, ma  venato da improvvise reticenze ed esitazioni che si riveleranno determinanti. E la stessa messa in scena del dramma di Miller - negli squarci che ci vengono mostrati- non sembra scevra da qualche incertezza, da qualche errore interpretativo ( dovuto anche , occorre riconoscerlo, alla difficoltà di trasporre il dramma originario in un contesto ambientale così diverso e lontano ) quasi non si riuscisse a trovare una giusta " cifra " per cogliere e vivere,  come la vicenda del dramma rappresentato,così la stessa difficile realtà che circonda i personaggi della vicenda filmica . Molto ben tratteggiato, infine , l'ambiente scolastico in cui svolge la sua attività il marito. Quei corpi adolescenti, quei volti imberbi ( in una società in cui tutti gli uomini hanno la barba ! ) che si stringono attorno all'insegnante, stretti tra il desiderio di apprendere, le tentazioni del progresso occidentalizzante ed il contrasto con la misera realtà con cui debbono fare i conti. Ecco, veramente, come si diceva prima , un " parlar d'altro"  che è molto più significativo di cento discorsi maggiormente espliciti.  E poi quelle donne nel film  e perfino nella rappresentazione teatrale, costrette a coprirsi letteralmente dalla testa ai piedi  ma così belle, così vibranti  nella incisiva nudità dei loro volti, autentico motore della società e sfida permanente alla stupidità del regime : un ' altro evidente interstizio in una vicenda " privata " che consente allo spettatore occidentale  una  incontrovertibile lettura politica.

Un film , questo " Il cliente ",  di uno spessore notevole, articolato e compatto, ricco di echi e di risonanze. Uno sguardo lucido eppure innamorato sulla società del suo paese ( nel film precedente il protagonista , sospeso tra Teheran e Parigi, finiva col  constatare l'impossibilità per lui di restare lontano dall' Iran ). E un omaggio, sia pure indiretto, ad una grande civiltà ricca di umanità e di cultura, costretta oggi a restare isolata dal cuore pulsante del mondo ma portatrice di speranza e di pace. Tutto questo ad opera di un cineasta, questo Ashgar Farhadi, che non ha ancora finito di stupirci con la sua padronanza del mezzo cinematografico e con la capacità che ha nel trasferire in immagini forti e significative realtà complesse ed a volte sfuggenti. Un regista che ha assorbito i valori  ed il linguaggio del cinema " occidentale " ma che rimane fedele - mi sembra di poter affermare - alla tradizione culturale, visivamente poliedrica ed intensa,  del proprio mondo di appartenenza. Un cinema, il suo, coraggioso non solo nell'offrire dell' Iran una descrizione lontana dalla propaganda del regime  ma anche nell' impiegare  un linguaggio ( ad esempio  l'uso di ripetuti primi piani ) che ci riporta  al cinema di una volta, semplice e diretto nel colpire l'immaginazione dello spettatore. Gli attori ( come spesso nelle cinematografie dei paesi del vicino e medio Oriente ) sono intensi e fortemente espressivi. L' attore che interpreta il marito ha vinto, in sè non immeritatamente, il premio per la migliore interpretazione all'ultimo Festival di Cannes. Pura ingiustizia peraltro, se si pensa che analogo riconoscimento non è andato, purtroppo,  all'attrice che interpreta la moglie e che , a mio giudizio, si è rivelata anche migliore : una bruna dai grandi occhi che le divorano il perfetto ovale del volto e sfidano cento, mille censori . Sono uscito dalla proiezione ( finalmente in una sala, qui a Milano, un po' meno vuota del solito ) con la gioia di aver visto quello che non sarà forse un capolavoro ma rappresenta pur sempre una  degnissima testimonianza di ciò che il cinema può darci quando l'intelligenza e l'ispirazione riescono ad aver ragione di circostanze oggettivamente meno favorevoli.