venerdì 30 dicembre 2016

" Florence " di Stephen Frears ( USA, 2016 ) - " Divorzio all'italiana " di Pietro Germi ( Italia, 1961 )


Vi è mai capitato di andare al cinema e sentirvi vagamente imbarazzati di fronte a vicende o personaggi che , come si dice, non "lievitano ",non vi catturano, non vi prendono insomma all'altezza del diaframma così come dovrebbe avvenire per un film che vi lasci invece  completamente soddisfatti ? Beh a me è capitato qualche volta ( poche volte, per fortuna ). Quest'anno, due o tre . Ed una di queste, spiace dirlo, è stata durante la proiezione dell'ultima fatica di Stephen Frears, questo " Florence " ( nell'originale " Florence Foster Jenkins " che è l'intero nome del personaggio principale, evidentemente tanto noto negli USA da indurre i produttori ad enunciare subito di che "Florence " si tratti ). Prodotto formalmente tutt'altro che disprezzabile, buona ricostruzione d'epoca, attori di primo piano ( una strepitosa ancorchè straripante Meryl Streep, uno Hugh Grant un tantino imbolsito ma sempre così " carino " ) ed un ottimo caratterista nella parte del pianista Cosmè Mc Moon, di cui ora non ricordo il nome . Ma privo delle due qualità o meglio delle due componenti che sono essenziali per la riuscita di un film: una idea del cinema e una idea del mondo , semplici l'una e l'altra - il cinema non è filosofia - ma immanenti, coerenti con le immagini che scorrono sullo schermo, facilmente identificabili. Ecco perchè mi dispiace. Perchè Stephen Frears non è un qualunque mestierante, ma un rispettabile signore inglese che fa cinema da trentacinque anni e che quelle due componenti altre volte ha tenuto ben presenti ( " My beautiful launderette ", " The drifters ", "Relazioni pericolose ", " The queen " per citare solo alcuni titoli della sua sostanziosa ed eterogenea filmografia ).
Sentite qui. Questa Florence ( Merryl Streep ) è una ricchissima signora newyorchese vissuta nella prima metà del ventesimo secolo, benefattrice e protettrice delle arti. Siamo nel 1944 - lei ha ormai più di settant'anni - la guerra insanguina il mondo ma , a casa, gli States godono di una invidiabile periodo di vivacità culturale ed anche di prosperità ( almeno per alcuni ). La signora ama particolarmente la musica - vedremo che conosce e frequenta Toscanini e Cole Porter - ed ha un solo vizio, se così si può dire : le piace cantare, cantare in pubblico voglio dire. Peccato che sia completamente stonata e , quando intona le melodie ed i brani d'opera che le piacciono tanto, faccia francamente ridere chi ha la ventura di ascoltarla. Ma lei procede imperterrita, incoraggiata e sostenuta dal marito ( Hugh Grant ) fino a decidere di esibirsi addirittura alla Carnegie Hall. Non più quindi, badate bene, di fronte ad un pubblico selezionato di altri ricchi che la conoscono bene, indulgenti di fronte ad una loro pari sia pure un tantino stravagante, ma a tremila persone che, nella stragrande maggioranza, con lei non hanno alcun collegamento " di classe " nè un particolare debito di riconoscenza. La vicenda ( non vi racconterò naturalmente la fine ) si snoda blandamente , mostrandoci vari personaggi di contorno : un pianista timido ma di buon cuore, la giovane amante del marito della signora, impresari teatrali, artisti spiantati, giornalisti malleabili ed altri un pò meno. Tutto un microcosmo che gravita intorno alla " upper class " cui appartiene la protagonista, ne assorbe la linfa che gli serve per sostentarsi ma a cui rimane sostanzialmente estraneo. E questa Florence potrebbe sembrare, in definitiva, quasi un " freak ", un fenomeno da baraccone spiegabile solo con la forza del denaro e con quella adamantina ingenuità che la contraddistingue e che la renderebbe, a tratti, perfino simpatica.
Come vedete, la carne al fuoco non manca . I personaggi, almeno sulla carta, ci sono e la vicenda ( probabilmente autentica, oltretutto ) potrebbe anche interessarci. Non adeguatamente supportato da una sceneggiatura piuttosto sfilacciata, il regista purtroppo non ci mette l'anima, diremmo quasi che diriga con la mano sinistra, distrattamente , senza credere fino in fondo nè agli uni nè all'altra. Peccato. Pensate a cosa avrebbero potuto fare di una storia del genere un Howard Hawks o un Billy Wilder : una commedia scoppiettante, un ritmo sostenuto, un pizzico di cinismo e una solida pittura d'ambiente. Lo stesso Frears ( penso al suo " Eroe per caso ", ben superiore a questo come descrizione dell' America ) aveva qualità, precedenti e ambizioni di critica sociale, sufficienti per darci un buon film , sincero e sufficientemente ispirato. Niente da fare, invece. Indeciso a premere più di tanto il pedale del grottesco, sfuggente nel giudizio sui suoi personaggi, il regista sembra aver puntato sulla fama e la simpatia di cui godono gli interpreti, lasciando loro ( troppe volte ) la briglia sul collo. Ne esce una rappresentazione, ripeto, formalmente corretta, ma esangue, a tratti insopportabilmente patetica ( tipo " anche i ricchi piangono " , non so se rendo l'idea ) priva di una logica cinematografica che non sia quella di regalarci qualche bella immagine " retro " e di offrirci qualche discreta battuta. E , con l'insoddisfazione dello spettatore che di questo non voglia accontentarsi, cresce il disappunto dell'estimatore di Frears. Il regista tira fuori le unghie, ormai forse troppo ben curate, solo con un paio di movimenti di macchina che cercano mollemente di gettare lo sguardo oltre una piccola vicenda come questa, allargandola ad una più ampia considerazione di una New York maggiormente " difficile " e problematica. Ed il personaggio di contorno di una soubrette , l'amica di un industriale, che è un  convinto " fan " di Florence, ci fa intuire - nelle scene in cui appare -  un film diverso che , muovendo dalla stessa storia, il regista avrebbe potuto darci, più capace di colpirci dal punto di vista emozionale ed estetico, continuando egualmente a divertirci.

Passando a tutt'altra faccenda, debbo alla solerte cortesia di un carissimo amico che mi ha " costretto " a rivederlo, lo stimolo per parlarvi di " Divorzio all' italiana ", il notissimo film di Pietro Germi uscito nel 1961. Un film che , collocato accanto a " Florence " ( li ho visionati a poche ore di distanza uno dall'altro ) vi fa capire quanto bene possa farci il cinema di qualità ma che non abbia paura di confrontarsi con il grande pubblico, di essere cioè autentico ed intelligente"spettacolo ", da seguire con divertimento e passione.
La storia raccontata dagli sceneggiatori ( De Concini, Giannetti e lo stesso Germi ) che per questo film ottennero addirittura l' Oscar, è troppo nota per tentare qui di riassumerla. Basterà porre mente, retrospettivamente, ad una Italia dove il divorzio poteva arrivare solo attraverso...l'omicidio del coniuge ( il famigerato " delitto d'onore" ) e dove i costumi - e la libertà delle donne e degli uomini - erano ben diversi da quelli odierni. Ma se lo sguardo del regista è ( giustamente ) risentito e mordace verso quel piccolo frammento di medioevo incrostato nella società italiana, con particolare ma non unico riferimento al Mezzogiorno, non per questo il film è noiosamente moraleggiante : il pericolo nel quale avrebbe potuto incorrere con cineasti meno abili ed ispirati. Tutt'altro, giacchè invece la vicenda è raccontata con grandissima capacità di coinvolgere lo spettatore con onestà e chiarezza di intenti, di incuriosirlo abilmente e di farlo sentire realmente partecipe di quello che gli si sta mostrando sullo schermo.
Come rimanere indifferenti , in effetti, di fronte a quella acutissima descrizione ambientale- certo, a volte al limite del grottesco ma mai falsa o impietosa - di una Sicilia che , prima ancora che una precisa e limitata realtà territoriale, è soprattutto un modo di essere e di comportarsi, quasi una dimensione dello spirito. " Signori " e "cafoni" , padroni e servi , familiari , amici , preti, mafiosi. Tutti accomunati dalla stessa " morale " , carnefici e vittime gli uni degli altri, ma tutti degni dello stesso sguardo umano , sorridente e pietoso al tempo stesso, con cui Germi ce li restituisce alla nostra divertita indulgenza. E l'interpretazione , senza soffocare vicenda e personaggi - come purtroppo avviene in " Florence " - ci appare in "Divorzio" perfetta : un necessario complemento della descrizione ambientale , capace di rendere esemplare la vicenda stessa, vicinissima alla realtà sociologica esposta nel film ma capace al tempo stesso di trascenderla e di sconfinare nella creazione di autentici archetipi più che semplici personaggi. Si pensi al magistrale, godibilissimo Barone " Fefè " di Mastroianni ( fatto di sguardi, di tic nervosi,di mezze frasi) o all' intenso rilievo che alla sfortunata Rosalia imprime la brava Daniela Rocca ( senza parlare della fresca e appetitosa Angela di Stefania Sandrelli, all'epoca appena quindicenne ).
Questo, signori, era il cinema italiano dei primi anni sessanta del secolo trascorso. Il migliore che abbiamo avuto, probabilmente ( il cinema intendo ) perchè onesto, intelligente e coraggioso: le qualità che si riconoscono in Pietro Germi, il valoroso artefice di tanti bei momenti trascorsi nelle sale cinematografiche di una volta e del quale, in altra circostanza, converrà tornare più ampiamente a discorrere.
Mi piace ,proprio con questa grande figura di artigiano e di artista, chiudere l'anno 2016 , farvi i migliori auguri per il Nuovo che sta arrivando e darvi appuntamento ad una nuova veste editoriale che, a partire da gennaio, assumerà progressivamente questa rubrichetta : da " Facebook " ad un vero " blog " di cui vi darò poi gli estremi . Naturalmente, facendo i conti con la mia scarsa dimestichezza con la tecnologia in generale.... Buon 2017 a tutti !

sabato 24 dicembre 2016

" Paterson " di Jim Jarmusch ( USA, 2016 )


L'inizio del film è molto calmo, sommesso. Mentre appare sullo schermo una scritta che ci informa che è lunedì, un giovane uomo, ripreso dall'alto mentre dorme abbracciato alla giovane sposa nel letto matrimoniale, si sveglia - un orologio indica le sei e un quarto del mattino - si alza , si veste, fa colazione ed esce di casa per dirigersi verso il proprio lavoro. Poche inquadrature situano il personaggio e ci danno qualche indizio su di lui, il suo retroterra, la sua attuale condizione sociale. Paterson , questo è il suo nome, fa l'autista nella compagnia dei trasporti pubblici della cittadina - ci credereste ? - di Paterson , New Jersey .Guida l'autobus dalla mattina alla sera, sempre lungo lo stesso percorso, torna a casa dopo il lavoro, cena con la moglie ( una graziosa donna di origine mediorientale ) e poi porta fuori il cane per una passeggiatina fermandosi in un pub a farsi una birra. E la mattina dopo la sua vita ricomincia con lo stesso identico schema , ogni giorno della settimana fino al sabato e alla domenica, quando è fuori servizio e può permettersi di oziare per casa o per le strade cittadine.La sua vita scorre su ritmi abbastanza tranquilli o almeno noi spettatori non assistiamo ad alcun fatto drammatico che alteri la sua esistenza se si eccettua un increscioso episodio al pub quando, una sera, è costretto a disarmare - ma con calma determinazione , senza tradire particolari emozioni - un conoscente che, respinto dalla donna che ama, perde la testa e brandisce una pistola ( che si rivelerà poi un' arma giocattolo ). Oppure un banale incidente col suo autobus che improvvisamente ha un guasto elettrico , non va più avanti e costringe tutti i passeggeri a scendere e ad aspettare un mezzo di rimpiazzo.
Raramente, credo , il cinema ci ha fatto assistere alla apparente banalità del quotidiano con altrettanta linearità, con altrettanto disincanto. Ma - badate bene- senza annoiarci, facendoci anzi progressivamente interessare al personaggio e rendendocelo più accattivante, intrigandoci con quella ripetitività di situazioni e di gesti tutt'altro che scontata. Giacchè molto presto il regista ( che è anche autore della sceneggiatura ) ci fa vedere come Paterson , un personaggio al di fuori grigio e senza storia, abbia in realtà una ricchissima vita interiore, una forte sensibilità ed un autentica empatia con il mondo. Qualità che lo spingono, nei ritagli di tempo, a scrivere poesie in un taccuino - il suo " quaderno segreto "- che non mostra a nessuno ( solo alla moglie, che sa della sua passione per la poesia, rivela ogni tanto qualche verso ).L' osservazione quotidiana delle piccole cose che lo circondano , delle persone che salgono sull'autobus e talvolte dialogano tra loro, la tranquilla bellezza dei luoghi in cui vive, tutto muove la sua ispirazione e si trasfigura in lui in veste poetica . I versi che scrive e che leggiamo sullo schermo sono semplici ma intensi, parlano di cose concrete, oggetti o fenomeni quotidiani ( ad esempio una scatola di fiammiferi, l' acqua, l'amore per una donna ). Una poesia minimalista, diremmo, sulla scia di tanta poesia americana ed europea del secolo scorso. E Paterson - ci viene ricordato- è la città in cui e vissuto e ha tratto ispirazione per un poema dallo stesso nome il grande scrittore americano William Carlos Williams ( 1883- 1963 ) che il nostro personaggio naturalmente conosce ed ama in particolar modo.
Illuminato,diremmo quasi confortato sul piano narrativo dal vivificante parallelismo tra la vita quotidiana del protagonista e il suo mondo poetico, il film, nonostante una trama così ridotta all'osso, si dipana per quasi due ore senza un cedimento, un momento di noia o di stanchezza. Diremmo che è un film che non alza mai la voce, Non la alza perchè la poesia non ha bisogno di farlo per farsi udire, visto che parla sommessa ai nostri cuori , alla nostre sensazioni. Il mistero della creazione poetica viene indagato qui con sottile intelligenza e attraverso sequenze semplici nella loro toccante nudità ma estremamente illuminanti. Così ,incontrata casualmente una ragazzina appena decenne che compone anche lei graziosi versi di ingenua freschezza e che lamenta però di " non sapere fare le rime ", Paterson le spiega che questo ha poca importanza. La vera poesia - egli sostiene - ha un'armonia interna che crea spontaneamente delle rispondenze tra le varie immagini evocate, quasi delle "rime " sotterranee insomma che, percepite, soddisfano egualmente l'orecchio ed imprimono ritmo adeguato alla composizione.
Direi che questo concetto è anche un pò la chiave stessa del film e ne aiuta l'interpretazione. La vita, il mondo che ci circonda e che osserviamo ogni giorno, sembra dirci il regista, " fa rima " con la nostra esistenza perchè anche noi ne facciamo parte e l'armonia tra le parole scritte o recitate - la " costruzione " poetica - risponde all'armonia del creato, alle sottili geometrie che uniscono le persone , gli animali, le cose che ci circondano . Se capiamo o, meglio, se sentiamo questo - anche se noi non siamo o non diverremo mai poeti - potremo sperare di comprendere meglio il mistero dell'esistenza ed avere in tal modo una vita più piena e soddisfacente . E non a caso Paterson , il protagonista, si chiama come il luogo in cui vive. Perchè egli " è ", in un certo senso, quel luogo, quegli abitanti , quella natura , quell'autobus che guida ogni giorno. Tutti elementi, pezzi sparsi della nostra umana esperienza che si compongono nella carne e nello spirito di ognuno trasformandoci in ciò che siamo. E la poesia " é " in noi, ci parla costantemente, anche se talvolta non riusciamo ad intenderla, sopraffatti dal rumore che è fuori e dentro di noi, dalle tante paure ed illusioni che inseguiamo e ci inseguono.
Se dovessi descrivere con un solo aggettivo un film come " Paterson"
direi che è un film " apollineo ", nell' accezione classica che - forse ricorderete - al termine davano i greci e i romani contrapponendolo a quello di "dionisiaco ", Se quest'ultimo stava infatti a rappresentare il disordine, lo scomposto pulsare dei sensi e dell'animo determinato da Diòniso ( il dio del vino e dell'esaltazione orgiastica ) il primo ( derivante da Apollo, il dio della composta bellezza ) identificava invece stati d'animo e comportamenti in cui prevale la calma, la serenità, la consapevole armonia dei propositi. Ecco, apollineo lo è "Paterson " nel suo pacato ( ma tutt'altro che dimesso ) svolgimento, come un lento fiume tranquillo le cui acque scorrono pacificamente e determinano in noi un'eco altrettanto serena e ordinata. Difficile infatti assistere alla proiezione del film - almeno , soggettivamente , questo è quanto ho provato - senza sperimentare una sensazione di progressivo benessere che si impadronisce dello spettatore , dapprima lievemente sconcertato dalla indubbia novità dell'approccio , e poi man mano sempre più conquistato. So che non tutti, magari, la penseranno come me. " Paterson " è un film che si può amare moltissimo ( come mi è accaduto ) ma che , se non si vuole, o non si può , entrare nel suo gioco - l'arte non è , in fondo, un gioco " a rimpiattino " con la sensibilità di chi ne fruisce ?- può lasciare anche delusi ed incerti. " Da maneggiare con cura : può nuocere ( o fare del bene ) al vostro equilibrio interiore ! ", andrebbe forse scritto sulle sue locandine.
Il film , va detto perchè non sembri comunque troppo serio o monotono , è tutt'altro che " penitenziale ". Siamo lontani qui dalle atmosfere - per esemplificare al massimo - del cinema di un Bresson o di un Rossellini ( quello dei " Fioretti di San Francesco ") che tanto poco concedono alla pigrizia dello spettatore, mettendone a dura prova , anche se in nome di un risultato spesso sublime, la normale capacità di resistenza .Jim Jarmusch, per chi non ha mai visto un suo film, è uno spirito bizzarro, un indipendente, anzi un " irregolare" del cinema americano. Se rifugge dagli schemi tradizionali, non cessa mai peraltro di stupire per le sue intelligenti notazioni, il suo umorismo, la sua calda umanità. I suoi non sono film che annoiano, l'abbiamo detto. Magari provocano o sconcertano, ma è tutt'altro discorso. Giunto alla non più verde età di 64 anni , dopo quasi quarant'anni di cinema , mi sembra pervenuto ad una prova particolarmente convincente. Non era facile dare veste cinematografica ad una " storia " come questa ( se di " storia " si possa propriamente parlare ). Far vivere Paterson sullo schermo come essere reale , in carne ed ossa, e non semplice fantasma della mente, quasi uno schema di comodo, richiede una "creazione artistica " particolarmente abile e convincente. Aiutato dalla prova maiuscola dell' interprete principale , Adam Driver, Jarmusch rende credibile, patetico e nobile il suo personaggio. Difficile non reagire positivamente a tanta sensibilità ed intelligenza, cui si accompagna uno stile cinematografico - in piena sintonia con l'assunto del film - composto, essenziale, senza sbavature e senza inutili virtuosismi ( menzione speciale per la splendida fotografia ). Un film da vedere per darci coraggio nel cinema e nella vita in generale, mi sento di poter dire .
Un " film di Natale " anche, vista la particolare epoca dell'anno in cui viene programmato in Europa e visto il suo ottimismo ed il messaggio di speranza che reca, per fettamente in sintonia con il significato profondo di questa ricorrenza. Mi sia dunque concesso, in calce a questa noterella, di rivolgere a tutti gli amici , ed in particolare a coloro che seguono con assiduità la " rubrichetta ", un affettuoso augurio che tutti li stringa al mio cuore.

martedì 20 dicembre 2016

" Aquarius " di Kleber Mendonca Filho ( Brasile, 2016 ) - " Le notti della luna piena " di Eric Rohmer ( Francia, 1984 )


Questa settimana vi parlerò di due film molto diversi tra loro ma entrambi interessanti e godibili per coloro ( non sono pochi ) che amano un cinema fatto di vicende ben costruite , personaggi che colpiscano l'immaginazione, finezza di analisi : insomma, qualcosa che meriti davvero di impegnare il nostro tempo per un paio d'ore o giù di lì. E non importa che il primo, comunque da vedere, non sia un film che resterà nella storia ( è un pò dispersivo , specie nella seconda parte, troppo lunga, e soffre quà e là di un eccesso di retorica ) mentre il secondo è gemma purissima, uno dei migliori del grande regista francese scomparso alcuni anni or sono. Il cinema che a noi piace è quello che ci regala momenti di perfetto equilibrio tra il nostro stato d'animo ( l'emozione estetica che ognuno personalmente avverte ) e il nostro atteggiamento verso gli altri ( quella sorta di " pietas ", oggi si direbbe di empatia, che dalla fruizione dell'opera d'arte non possiamo non ricavare nei confronti del mondo ). Ed entrambi i film - su due livelli diversi di valore e di intensità - si raccomandano per la loro capacità, oltre che di intrattenerci piacevolmente, di suscitare in noi quel duplice sentimento di cui abbiamo appena detto.
Di " Aquarius " , opera di un regista brasiliano di cui ignoro tutto ma che deve essere di buona reputazione se il film è stato invitato in concorso all' ultima Mostra di Venezia, dirò subito perchè mi è piaciuto . Anche se, come non vi ho celato, a mio avviso ha qualche difetto, tratteggia infatti con intelligenza ed amore un personaggio di anziana, raffinata signora con un passato più che soddisfacente ( è stata affermata critico musicale, ha vissuto intensamente la sua vita ) ed un presente più tormentato ed incerto ( rischia di perdere la graziosa abitazione in cui vive, perseguitata da rapaci "palazzinari" desiderosi di costruire al suo posto un orribile condominio ). Un personaggio , dato che lo vediamo sullo schermo praticamente senza interruzione, che necessita di una grande interprete, sensibile e carismatica. Ed è la migliore e più famosa attrice del cinema brasiliano, Sonia Braga ( la ricorderete forse, molto più giovane, in " Donna Flor e i suoi due mariti" ) ad assumersi l'onere di renderlo vivo e tremendamente simpatico anche nelle sue evidenti contraddizioni, facendone l'autentico punto focale del film.
Il film è abilmente costruito - in gran parte - proprio sul contrasto, da un lato, tra la dignità , la nobiltà d'animo ed il coraggio della protagonista e , dall'altro, l'incultura, i miseri obiettivi e l'elementarità dei comportamenti dei promotori immobiliari che vogliono per forza comprare il suo appartamento, l'ultimo rimasto abitato in quella casa, e poter così realizzare il loro progetto . Ma esso si raccomanda anche per una più sottile qualità. Mi riferisco all' approccio trepido e sereno ad un grande tema universale, il problema dell'invecchiamento dell'essere umano e della divaricazione che viene a crearsi ad un certo punto tra l'eterna fanciullezza del nostro "io " e la stanchezza del corpo che decade progressivamente. Il personaggio femminile del film, pur menomato da una grave malattia, mantiene freschezza di approccio alle situazioni e alle cose ed istintiva capacità di cogliere il profumo della vita, ricevendone la forza che le occorre per contrastare il peso degli anni ed opporsi con successo ai suoi rozzi interlocutori. Alla fine , sembrano dirci l'interprete ed il regista, non prevalgono il potere economico o la frettolosa sfacciataggine di chi pensa di essere sempre e comunque "nella corrente della storia ". Vince la nostra autenticità, la capacità- per quanto difficile- di sentirci liberi internamente, al di fuori del tumultuoso avanzare del tempo.
Con " Le notti della luna piena " invece ,rivisto in un DVD di pregevole e recente riedizione insieme agli altri film del ciclo " Commedie e proverbi ", realizzati da Rohmer tra il 1980 ed il 1987, torniamo a dubitare della possibilità di una vera libertà da parte del personaggio principale. Si tratta del secondo dei due film di cui vi ho parlato la volta scorsa ma sul quale , per ragioni di spazio, non avevo avuto modo di soffermarmi. Louise, la protagonista, lavora a Parigi ma vive nella banlieue con Rémi, il suo attuale compagno. Ma anela nello stesso tempo ad avere un suo spazio di libertà , a poter fare le cose che a lei piacciono ed al partner meno : chiacchierare con gli amici, uscire la sera, andare a ballare, flirtare perchè no.La soluzione ideale Louise ritiene di averla trovata quando decide di non affittare più il suo monolocale del centro di Parigi appena ristrutturato e di tenerlo per sè. Pensa di andarci ad abitare qualche sera, per non dover affrontare il lungo ritorno verso la casa di Rémi ma anche per sentirsi ancora autonoma, frequentare gli amici che non piacciono al fidanzato. Senza secondi fini, almeno in partenza.
L'esperimento non è così agevole, come rileverà chi , seguendo il mio consiglio, se già non lo conosce vorrà vedere il film . Louise ritiene- come in genere i personaggi delle " Commedie e proverbi " - di essere sempre in grado di realizzare le proprie strategie e di determinare liberamente il proprio presente ed il proprio futuro. Ma, dopo aver visto che il proverbio che fa da epigrafe a questo film è " chi ha due donne perde la propria anima , chi ha due case perde la propria ragione ", lo spettatore incomincia a dubitarne. Divisa tra la sana e morigerata esistenza che le propone Rémi nella periferia moderna ed asettica in cui risiede e la vita dispersiva ma intrigante rappresentata dalla propria abitazione parigina, la ragazza non sa scegliere. Pensa di poter conservare l'una e l'altra , cioè in sostanza di mantenere contemporaneamente due stili di vita , due modi diversi di pensare e di essere. Non dico - per chi non conosce il film - come andrà a finire ( anche se ciò che conta , nei film di Rohmer, è il percorso attraverso cui si arriva all'epilogo e non l'epilogo in sè stesso ) ma mi limito a segnalare che il regista ci dimostra appunto come la vera libertà non esista. Gli avvenimenti sfuggono al nostro controllo e noi stessi non siamo fino in fondo ciò che crediamo di essere.
Parlare, anche succintamente, del cinema di Rohmer ( uno dei più appassionanti insiemi di opere, dove non vi è film che possa essere considerato " minore " perchè tutti rigorosamente "necessari ", tesi cioè a completarsi vicendevolmente componendo la stessa visione della vita e del cinema ) prenderebbe ben più spazio di quello che posso dedicare a questa rubrichetta. Vi torneremo senz'altro perchè sto rivedendo tutti i suoi film e vorrei farvi condividere, a volte, l'entusiasmo che provo. Di " Le notti della luna piena " vorrei però sottolineare almeno l'assoluta rispondenza tra dialoghi ed immagini (Rohmer è considerato " un chiacchierone " dai suoi detrattori ma essi non sanno o non vogliono riconoscere che la parola in lui si fonde mirabilmente con l'immagine , finendo l'una e l'altra con l'assumere simultaneamente lo stesso valore semantico ). E poi la splendida interpretazione di attori che con lui riescono ad essere molto naturali, cogliendo perfettamente l' " aria dei tempi " , quasi stessimo assistendo ad un documentario sulla vita dei giovani francesi nell'anno di grazia 1984 e non ad una opera di fiction. Ma che , al tempo stesso, sotto l'attenta guida del regista, sanno essere anche "classici ", interpretare cioè i loro personaggi come se non appartenessero ad una epoca storica definita. Personaggi che recano con sè logiche e sentimenti di cui gli esseri umani vivono ed hanno sempre vissuto. Semplicemente da togliere il respiro, credetemi, di fronte a tanta bellezza e nobiltà di creazione artistica da parte del regista e dei suoi attori.

domenica 11 dicembre 2016

"E' solo la fine del mondo " di Xavier Dolan ( Canada / Francia, 2016)


Grande tema, quello della libertà. Libertà personale, non politica intendo ( anche se la seconda , è ovvio, entra nella prima per arricchirne i contenuti ). Voglio dire la possibilità di autodeterminarci, di decidere del nostro presente e del nostro futuro superando i condizionamenti- interni od esterni, strutturali od occasionali - che limitano o frenano il nostro sviluppo quali esseri creati, appunto, per essere liberi e indotti a scelte il più possibile autonome. L'esperienza , la nostra come quella degli altri, ci indica quanto questo sia difficile. Sicchè ogni discorso sulla libertà, anche dalla prospettiva che qui ci interessa , cioè quello della creazione artistica, finisce con l'evidenziare spesso traiettorie umane alla ricerca della libertà ma che finiscono, in ultima analisi, col rimanerne distanti.
Due film visti di recente- il primo sugli schermi in questi giorni, il secondo in un DVD anch'esso uscito da poco- parlano di libertà e, nel parlarne, ne mettono fortemente in dubbio l'esistenza.
Il personaggio principale di " E' solo la fine del mondo ", uno scrittore di successo sulla trentina ( Gaspard Ulliel ) decide di tornare a visitare i familiari, lasciati più di dieci anni prima, per annunciare loro la sua morte imminente. Ma si rende conto nelle poche ore trascorse con essi di quanto tutti, in fondo, siamo prigionieri del nostro " io " ed incapaci pertanto di aprirci verso gli altri. La sorella minore ( Léa Seydoux ) che pure lo ha mitizzato nei lunghi anni di assenza, non trova con lui un vero terreno di intesa, incapace di fuggire dai soffocanti condizionamenti familiari e di vivere, altrove, la vita autonoma alla quale aspira. Il fratello maggiore ( Vincent Cassel ) che ha verso di lui un evidente complesso di inferiorità derivante dal proprio fallimento professionale ed affettivo, sembra una mosca impazzita, prigioniera in un bicchiere , pieno di aggressività e di paura del futuro. La madre ( Natalie Baye ) ha l'apparenza di una creatura premurosa ,intenta a ricucire le lacerazioni della sua famiglia, affettuosa ed indulgente verso i figli. Ma in realtà è un personaggio ancora più negativo, manipolatrice e castrante, un' ape regina che tesse- inconsapevolmente ? - una trama sottile ma resistente per imprigionare sempre di più i propri familiari in una casa che ha tutta l'apparenza di una prigione. Solo la moglie del fratello maggiore, timida e sottomessa ( Marion Cotillard ) vorrebbe stabilire una comunicazione con il nuovo arrivato , forse per chiedergli aiuto, per riceverne una spinta ad affrancarsi, fuggire essa stessa. Ma i goffi, quasi afasici, tentativi da lei posti in essere non hanno sbocco e si infrangono sulle sue stesse paure.
Dopo un lungo, interminabile " pranzo di famiglia ", lo scrittore, giunto con l'intento, probabilmente, di ritrovare la propria infanzia e con essa un ultimo aggancio con la vita che lo sta abbandonando, comprende che il tentativo è fallito e, rinunciando al proposito iniziale di mettere gli altri al corrente della propria situazione, riparte definitivamente. Si è accorto- mi viene fatto di pensare- che anch'egli è in fondo un prigioniero : prigioniero dei propri ricordi d'infanzia e di adolescenza, delle tensioni e dei rapporti di forza all'interno della famiglia , della propria incapacità ad assumere pienamente quella dimensione autenticamente libera che un tempo aveva vagheggiato, prigioniero della propria chiusura verso l'esterno. Un vinto, come tutti. E a cui non rimane che la fuga, una fuga che ha solo il sapore derisorio della libertà ma che non lo affranca dai propri fantasmi interni.
Una storia così tesa e disperata, con poche o nessuna apertura non dico ottimistica ma almeno vagamente consolatoria, per essere raccontata al cinema in modo da giustificare il nostro interesse ed un eventuale piacere necessita, credo di poter dire, di due cose fondamentali. La prima è la recitazione, una interpretazione da parte degli attori capace di farci accostare positivamente a personaggi di cui finiamo col sapere in realtà molto poco e che sono, in definitiva, puramente dimostrativi della tesi sostenuta dal film, cioè ombre ancora più evanescenti di quelle cui lo schermo cinematografico ci ha reso adusi. Se ho voluto ricordare dianzi i nome dei cinque interpreti è per testimoniare tutta la mia ammirazione per il difficilissimo sforzo da essi compiuto, per la sottigliezza e la profondità conferita ai loro personaggi ( con una menzione speciale per le due più giovani attrici, Léa Seydoux e Marion Cotillard ).
La seconda condizione per apprezzare la visione di un film come questo è quella che dietro la macchina da presa vi sia un grande regista. Qui il francocanadese Xavier Dolan ( ventisette anni, beato lui, e già al suo quinto o sesto lungometraggio ! ) conferma di esserlo. Dirigere gli attori in ruoli, sulla carta, così poco accattivanti, farli muovere in un " décor " soffocante quale una casa di abitazione dalla quale non usciremo praticamente mai per tutta la durata del film, sfruttare quindi intelligentemente le scarne possibilità di creare in tal modo immagini che riescano ad imporsi con bella evidenza plastica, costruire una progressione drammatica coesa e coerente, non è uno sforzo da poco. Uno sforzo che richiede abilità, senso del ritmo, intelligenza e gusto non comuni. Uno sforzo che Dolan compie con scioltezza, giocando molto sui primi piani per evidenziare i tratti del volto dei suoi personaggi, le loro apparenti motivazioni, l'ambiguità che è sottesa alle loro parole. E la cinecamera, come in tutti i suoi film , sottolinea con i suoi frequenti movimenti la sensazione di precarietà e di impotenza di quanto ci viene mostrato.
Tuttavia " Juste la fin du monde " rappresenta a mio avviso un film riuscito solo a metà ed un passo indietro rispetto allo straordinario risultato della sua precedente opera , quel " Mommy " che era un vero pugno nello stomaco tanto ci sorprese con la sua straordinaria bellezza ed intensità.La storia sembra a tratti piuttosto cerebrale, costruita a tavolino, non sentita fino in fondo, forse, dal regista. Confesso, e credo conveniate che per uno spettatore questo sia un brutto segnale, che ho provato a tratti un sentimento di noia , di non adesione totale alle immagini che si inseguivano sullo schermo, pur riconoscendo la loro giustezza, la loro perfezione estetica. Insomma , al " movimento" delle immagini filmiche ( motion ) che rappresenta una sfida vinta da Dolan, non corrisponde il secondo elemento essenziale perchè un film ci piaccia, e cioè l'elemento "emozionale" ( emotion ). In buona sostanza, il film non cattura il nostro cuore e la nostra sensibilità più profonda , cosa che - è evidente - va al di là della ammirazione per i risultati massimamente formali.
La spiegazione di questa dicotomia sta in una considerazione molto semplice. " E' solo la fine del mondo " rappresenta la trasposizione filmica di un dramma dallo stesso titolo del francese Jean -Luc Lagarce, acclamato ed indubitabilmente ispirato autore e regista teatrale. Non ho visto quella " pièce " ma, vedendo il film di Dolan, penso che mi sarebbe piaciuta.Sono convinto che, sulla scena, la sensazione di angoscia e di paura che proviene dall'interagire dei cinque personaggi e dai dialoghi che essi pronunciano ( e dai loro inquietanti silenzi, a volte ) risulterebbe molto più efficace e percussiva di quanto non avvenga sullo schermo. Il teatro ha regole interne, tempi e pause di sospensione tutte diverse da quelle del cinema e "reinventare " tutto questo - come il regista canadese ha pur tentato di fare - non è impresa semplice. Lo provano le opere cinematografiche che, per non essere semplice teatro filmato, hanno dovuto appunto sfuggire, e lo hanno fatto con successo, alle convenzioni teatrali e hanno finito con il dare vita ad una creazione per molti versi autonoma ( penso ai film shakespeariani di Orson Welles ). Nè teatro filmato nè cinema autonomo ( giacchè il film non riesce sufficientemente ad evadere dall'impianto teatrale di un soffocante " huis clos " ) " Juste la fin du monde " resta una pausa interlocutoria - certamente di classe anche se minore - in una filmografia , quella di Dolan, destinata ancora a stupirci.
La lunghezza di questa noterella mi impedisce, per non annoiarvi troppo, di parlarvi del secondo film sul tema della libertà visto di recente. Prometto di farlo alla prima occasione utile ( cioè senza film recenti di un qualche interesse ). Per finire su di una nota meno grave, diciamo che non desidero privarvi, a mia volta, della vostra libertà...

domenica 4 dicembre 2016

"Sully" di Clint Eastwood ( USA, 2016 )

Sorprendente destino, quello di Clint Eastwood. Da attore di secondo piano negli anni a cavallo tra i ' 50 e i '60, a fortunato interprete pochi anni dopo degli " spaghetti western " di Sergio Leone e, infine, ad intelligente ed abile regista di tante opere che - fenomeno non comune - hanno spesso messo d'accordo, da più di quarant'anni, critica e pubblico. Merito di un artista dalla personalità a tutto tondo, profondo conoscitore degli ingranaggi del cinema, ispirato quanto basta, capace di riannodarsi ai momenti più felici dell'era hollywoodiana dei film " di genere " e dei grandi "studios ". Un uomo d'azione, certamente, ma anche un intellettuale, tutt'altro che intellettualistico. Il cinema, per lui, è innanzitutto emozione, spettacolo, lavoro di equipe e conseguente sforzo produttivo. Convinzione profonda, resa ampiamente manifesta nel corso degli anni, testimoniata da una serie di titoli che, non tutti certamente della stessa qualità, non hanno peraltro mai tradito le aspettative dei finanziatori, del variegato ambiente cinematografico e di noi spettatori.
" Sully ", la sua ultima fatica, arriva oggi sui nostri schermi dopo un buon successo in patria. Storia tipicamente, fortemente americana, ispirata ad un drammatico fatto di cronaca . Un volo interno della " United Airlines ", appena partito dall' aeroporto La Guardia di New York in una fredda mattina del gennaio 2009, ebbe un terribile incidente, di quelli che i frequentatori di aerei non vogliono immaginarsi neanche nei loro peggiori incubi. Un grosso stormo di uccelli, quando l'aereo era ancora a bassa quota sulla metropoli , mise fuori uso entrambi i reattori, impedendogli di prendere quota e ponendo a repentaglio la vita dei 155 passeggeri e dei membri dell'equipaggio. Fu solo grazie all'ardimento ed alla capacità del primo pilota , Chesley Sullenberger, " Sully " per tutti coloro che lo conoscevano bene, che quel giorno venne evitata una catastrofe. Venendo meno infatti ai " protocolli " che avrebbero optato per il tentativo di tornare al punto di partenza, impossibile in quelle condizioni, questi operò con successo una coraggiosa manovra di emergenza che fece posare l'aereo sul fiume Hudson. Dall' impatto con le acque,sapientemente governato dal comandante dell'aereo, tutti i passeggeri ed il personale di bordo uscirono praticamente indenni, condotti successivamente in salvo dai soccorritori. Un fatto che è ricordato come unico negli annali dell'aviazione civile e che emozionò per settimane l'opinione pubblica del paese.
Raccontato così il film potrebbe sembrare un epigono dei " film catastrofe " che andavano di moda , ricorderete , alcuni anni or sono, costruiti su eventi fortemente drammatici ( terremoti, incendi di grattacieli, dirottamenti di aerei e altri " orrori " ). Film che, con qualche concessione alle vicende dei personaggi coinvolti, puntavano soprattutto ad emozionarci attraverso scene a grande contenuto spettacolare, a sorprenderci con gli "effetti speciali " e in definitiva a titillare, attraverso la paura, quel prevalente e contrastante sentimento di sollievo e di sicurezza di chi assiste ,comodamente installato nella poltrona di un cinema o sul divano di casa sua, ad accadimenti di cui è semplice e distante spettatore. Nulla di meno vero per " Sully ", ed è qui che l'intelligenza e le ambizioni artistiche di Eastwood si dispiegano con successo. Esposto frammentariamente in brevi sequenze in " flash back " che, come lampi di memoria del protagonista, lo tratteggiano con scarna intensità, il drammatico evento dell'incidente dell'aereo e susseguente salvataggio rappresenta solo il congegno dal quale il regista prende le mosse. Il punto di partenza, cioè, per raccontarci una storia " esemplare ", quasi un " morality play " sul senso del dovere, l'assunzione di responsabilità, l'impegno , lo sforzo collettivo di tutto un gruppo che riesce a sormontare le tremende difficoltà cui è improvvisamente posto di fronte. Proprio come potrebbe capitare, in fondo, ad ognuno di noi.
Il salvataggio dell'aereo assurge così- nell' epica visione del regista - a cartina di tornasole di una società, quella americana, che nei suoi momenti migliori può dare grandi lezioni di civismo e di civiltà, basata su valori elementari ma essenziali, in quella continua lotta tra il Bene ed il Male che è il grande tema di tanta creazione artistica del " Nuovo Mondo ". Lotta in cui vincitori risultano i puri di cuore, gli onesti, coloro che antepongono il bene collettivo agli interessi individuali o almeno si adoperano perchè la naturale salvaguardia di questi ultimi si armonizzi con il senso di appartenenza ad una collettività , ad un gruppo. Caratteristica che richiede a volte forti dosi di solidarietà, coraggio e spirito di sacrificio. Sono i temi, questi, del grande cinema " civile " americano, quello che ci ha accompagnato lungo tutta l'evoluzione sul continente della " decima musa ", il cinema di Griffith, Ford, Capra, Walsh, al quale Eastwood palesemente si ispira .E il frequente insistere di " Sully " sugli affetti familiari,visti non solo come istintivo rifugio nelle bufere dell'esistenza ma come potente leva che può spingerci a bene operare per valori ed affetti anche più grandi,lo avvicina soprattutto a Ford, alla sua epica della quotidianità impegnata e solidale che ci ha dato capolavori come "Ombre rosse ", Alba di gloria ", " Furore " , " La prigioniera del deserto ".
" Non sono un eroe, ho fatto solo il mio dovere " - dichiara, cito a memoria, il protagonista al termine dell'inchiesta pubblica che, dopo le iniziali perplessità, perviene a giustificare ampiamente l'audace manovra di emergenza da lui posta in essere- " tutti siamo vincitori: io , il mio secondo pilota, gli addetti alla torre di controllo, i soccorritori, il personale di cabina che si è comportato altrettanto responsabilmente , finanche tutti i passeggeri che hanno dato prova, nella circostanza, di disciplina e di coraggio ". Una perfetta epigrafe, mi pare di poter dire, di un film corale, nonostante abbia come titolo( giustamente ) il nome del protagonista. Un film che rende omaggio a tutte le persone che si impegnarono duramente, in quella occasione, per evitare una probabile catastrofe ma che,nello stesso tempo, ricorda attraverso di esse l' " eroismo " quotidiano di quanti concorrono ogni giorno alla nostra sicurezza ed al nostro benessere di cittadini. Parole che possono sembrare retoriche o almeno un tantino fuori misura per un disincantato spettatore europeo. Ma che esprimono il meglio che può darci la società americana ed il sostrato di buona parte dei suoi valori culturali ( quanto al " peggio ", esso convive con quegli elementi positivi ed il grande cinema americano, come ampiamente dimostrato dallo stesso Eastwood, non lo ha mai sottaciuto ).
" Sully ", vorrei sottolinearlo, non è tra i " grandissimi " film di Eastwood ( " Gran Torino " , " Million dollar baby ", " Hereafter ",, per citare solo i più recenti ). In alcuni momenti, specie nella prima parte, una certa freddezza di costruzione drammatica, qualche scena non essenziale, gli nuocciono. Ma la bella e convincente progressione con cui si avvia all'epilogo, la recitazione sobria ed efficace di Tom Hanks ( finalmente un " Oscar " che non dovrebbe sfuggirgli ) le potenti inquadrature dell'aereo nel fiume e del salvataggio dei passeggeri , lo riscattano ampiamente. E soprattutto ne fanno un film solido, onesto, che mantiene le sue promesse e ci riappacifica con un cinema capace di catturare le emozioni degli spettatori, di convincerli e di commuoverli con delle storie che hanno il dono prezioso della semplicità e della verità. Uscendo dalla sala dove l'ho visto ieri pomeriggio mi sono sorpreso a riflettere su come dobbiamo essere grati ad uomini di cinema come Clint Eastwood che, alla non più verde età di ottantasei anni, hanno ancora tanto vigore e tanto ottimismo da aiutarci - sempre che il cinema,come qualcuno vorrebbe, possa renderci migliori - a contrastare la nostra paura del presente e ad infonderci un pò di speranza nel futuro che ci attende alla prova.