mercoledì 27 maggio 2020

1960: "Annus mirabilis" del cinema italiano ( " LA DOLCE VITA " di Federico Fellini / " ROCCO E I SUOI FRATELLI " di Luchino Visconti / " L'AVVENTURA " di Michelangelo Antonioni

Ci sono momenti nella storia del cinema ( storia ancora recente, ben viva nel ricordo ) in cui, non so per quale fortunata congiuntura astrale o più semplicemente per la ricchezza di talenti in circolazione, si sono creati in poco , pochissimo tempo e in un solo paese, autentici capolavori quali oggi si fa  assai fatica a vederne nella stessa quantità. Ed è così che il cinema italiano tra la fine degli anni '50 del secolo scorso e la prima metà del decennio successivo, dunque in un arco di soli  dieci anni, ha sfornato tanti di quei bellissimi film quanti, in altri contesti territoriali e non dei minori quali ad esempio la Germania o la Russia,  non è bastato il novantennio che intercorre dall'inizio del  sonoro ad oggi per farne di altrettanto validi. Merito, probabilmente, di una industria di settore che da noi, nell'epoca del " boom ", aveva raggiunto l'apice della capacità artistica e produttiva, sostenuta da un cospicuo stuolo di produttori, registi , sceneggiatori, personale tecnico, tutti di comprovata ambizione e bravura ed infine da un manipolo di attori famosi in tutto il mondo. Ed anche, perchè no,  frutto di una temperie politica e culturale sufficientemente libera, ricca e vivace, che stimolava a dovere i migliori talenti e li spingeva a dedicarsi al cinema quale forma d'arte maggiormente idonea a rappresentare sentimenti, vicissitudini e problemi dell'uomo contemporaneo.
Il 1960, l'anno che qui ci interessa, è caratterizzato statisticamente più di tutti da belle opere  tuttora validissime. Basta sfogliare un catalogo o una storia della nostra cinematografia per trovarne almeno 15-20 tra quelle presentate allora che rimangono ancora oggi vive  nel ricordo, avendo contribuito a dare  un sapore particolare ad una stagione particolarmente intensa dal punto di vista dell'evoluzione  della società italiana. E' l'anno, come sappiamo, delle Olimpiadi ( definitiva consacrazione logistico-organizzativa di un' Italia risorta dalle ceneri della guerra ) delle prime spensierate vacanze di massa propiziate da un rapido incremento del benessere, della crescita dell'immigrazione interna e della tumultuosa espansione delle attività industriali e commerciali. Anno in cui si pubblicano libri di successo, si compongono motivi musicali indimenticabili ( ricordate " Il cielo in una stanza " ? ) il nostro " design " conquista il mondo,  poi la moda e la gastronomia, il " saper vivere " italiano, incominciano ad imporsi nei confronti di paesi che ne erano stati fin qui leader incontrastati.
Tre grandi, anzi grandissimi uomini di cinema ( chiamarli solo " registi " sembra quasi riduttivo ) e cioè, in ordine di anzianità, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, ci dettero proprio quell'anno tre indiscussi capolavori. Anzi, aggiungerei che ognuno di essi raggiunse allora il miglior risultato della sua carriera, non ritrovando poi più, se non in parte, momenti creativi altrettanto forti e convincenti. "Miracolo" anche questo, o forse semplice coincidenza. Fatto sta che quei tre film segnano davvero un'epoca particolarmente fortunata per il nostro cinema e meritano dunque, in anni di vacche decisamente magre come questi che stiamo attraversando, che su di essi si torni sia pure brevemente.


Il posto d'onore, tra questi tre film del 1960, va riservato senza dubbio a " La dolce vita " di Federico Fellini. Innanzitutto perché è stato,  quell'anno, il primo in ordine di tempo ad essere mostrato al pubblico ( ai primi di febbraio, al " Fiamma " di Roma con esito trionfale e al " Capitol " di Milano tra accoglienze iniziali tempestose e successivo strepitoso esito). E poi perché è quello che ha avuto il maggiore successo anche all'estero,  contribuendo ad arricchire il mito di un' Italia fantasiosa, godereccia ed anche un pò cialtrona che agli stranieri in fondo piace tanto : vincitore a Cannes nel giugno successivo, quella " Palma d'oro " è stata, oltre che il suggello di una approvazione critica pressoché unanime, anche l'atteso omaggio ad un innegabile, clamoroso " fatto di costume ". Fatto di costume che da noi, va pure ricordato, ha contribuito ad ampliare i margini del consentito, al cinema e non solo, nella raffigurazione di una società che, già di per sé, camminava sempre più velocemente.
Poiché credo che, tra giovani e meno giovani, non rimanga più nessuno che non lo abbia visto ritengo superfluo tentare di descriverne la trama. Che poi vera trama non c'è. E qui sta il fatto modernissimo che rappresenta un vero e proprio salto concettuale nel concepire lo strumento cinema. Non più " racconto " , sia pure per immagini, di una vicenda  temporalmente definita e dallo svolgimento lineare (dal punto "a" al punto "b" ). Ma ingegnosa giustapposizione di sequenze , di frammenti apparentemente slegati e tenuti insieme solo dai due indiscussi protagonisti del film : il piccolo cronista mondano Marcello-   un Mastroianni che non tornerà mai più così grande -   irrimediabilmente diviso tra una vita intensa ancorché vacua ed insoddisfacente ed un anelito di spiritualità disordinato e vacillante ; Roma, la " grande prostituta ", la città meravigliosa e cinica in cui tutto può accadere ma dove tutto finisce col perdere consistenza e lasciarci con una sensazione di amaro in bocca. Un gigantesco " patchwork " multicolore (  girato in un austero, splendido bianco e nero ) un potente bassorilievo,  quasi una sorta di medioevale " mistero " fatto di tante formelle con altrettanti singoli episodi che trovano tutti insieme, mano mano, la loro ragion d'essere, la loro logica unitaria, nella descrizione di un caos apparente che è poi la "cifra " stessa della nostra progressiva decadenza. Fino alla sequenza finale, sulla spiaggia di Fregene, con la comparsa di quell'enorme mostruoso pesce che simboleggia tutte le brutture che sono dentro e fuori di noi, lo sguardo sperduto di un Marcello sempre più esausto dalla fatica di vivere ed il meraviglioso sorriso ( una speranza di redenzione ) della quindicenne Valeria Ciangottini che, ultima inquadratura, chiude emblematicamente il film . Da brividi.

Parente stretto , in un certo senso, de " La dolce vita " per il suo programmatico antirealismo e le preoccupazioni etico-spirituali chiaramente sottese, sempre al Festival di Cannes venne presentato quell'anno un altro capolavoro del cinema italiano, " L'avventura " di Michelangelo Antonioni. Il film, distribuito nelle sale solo nell'autunno successivo, divise la critica e, soprattutto, non fu un grande successo di pubblico, probabilmente stanco per le due ore e venti di andirivieni, senza una trama lineare e pochi dialoghi, dei due personaggi principali.  Premiato con il riconoscimento speciale della giuria, che ne colse per fortuna tutto il valore artistico, ha avuto una carriera negli anni piuttosto difficile e non credo, alla fine, che lo abbiano visto in molti. L'" alienazione ",il senso di estraneità nei confronti della realtà che avvertono i personaggi e l'" incomunicabilità " dei loro sentimenti e stati d'animo ( altra parola chiave del cinema del regista ferrarese che caratterizzò almeno  tre dei suoi film successivi  ) divennero poi una sorta di tormentone estetico-lessicale che non  favorì certo il successo commerciale  della sua intera opera, almeno sino a " Blow Up " ( 1967 ) che si impose invece perchè colse bene l'aria dei tempi e divenne di moda.
Eppure " L'avventura ", a rivederlo oggi senza pregiudizi, si rivela uno dei film più importanti della nostra cinematografia ed uno di quelli che , con " Fino all'ultimo respiro " di Jean Luc Godard, che è dello stesso 1960, ha addirittura cambiato il modo di fare cinema, di esprimersi con la macchina da presa. Antonioni vi arrivò dopo una serie di quattro- cinque film in cui superò coraggiosamente l'ingombrante eredità del neorealismo e diede vita a personaggi e storie che scavavano molto più a fondo nella natura umana e nel difficile rapporto tra individuo e ambiente e gli individui tra di loro. Raccogliendo l'intuizione del Rossellini di " Viaggio in Italia "( 1954 ) che già aveva messo i suoi personaggi di fronte ad una  dolorosa autoanalisi, con " Le amiche " ( 1955 ) e soprattutto " Il grido " (1957 ) Antonioni era pervenuto a darci dei ritratti egualmente appassionanti della condizione umana. Con " L'avventura " la ricerca andò ancora più avanti, approdando a risultati  molto convincenti per la spiritualità che emana dall'intero film ( prossima a quella di un Bresson o di un Bergman) e la perfetta resa estetica. Girato in gran parte in esterni, nel contesto scabro e maestoso delle Isole Eolie e delle chiese barocche delle cittadine della  Sicilia sud-orientale, le immagini del film - spesso contraddistinte da un bianco accecante, angoscioso nella sua programmatica nudità - sono di una forza eccezionale e corrispondono perfettamente all'atmosfera della vicenda e allo scavo interiore dei personaggi. Ecco così che una vicenda apparentemente banale ( durante una crociera una ragazza scompare misteriosamente e l'amante e l' amica si mettono alla sua ricerca intrecciando tra di loro una tormentata relazione amorosa ) assurge a specchio della nostra quotidiana difficoltà di vivere, di scambiare le nostre sensazioni più profonde , di confrontarci proficuamente con la realtà che ci circonda. Alla fine, l'unica salvezza,per quanto precaria, sembra essere in una sorta di " pietas " che ognuno di noi finisce con l'avvertire per sé stesso e per gli altri.
Grande regia ( Antonioni conosce perfettamente come valorizzare le sue inquadrature ) bellissima fotografia, musica molto suggestiva , gli interpreti non sono da meno. Gabriele Ferzetti ci dà una delle sue prove più convincenti e Monica Vitti si rivelò qui come una delle nostre migliori attrici di sempre. Altri tempi, verrebbe fatto di osservare.

A chiudere idealmente la trilogia dei grandissimi film del 1960, uscito nelle sale nell'ottobre  di quell'anno, " Rocco e i suoi fratelli " di Luchino Visconti. Presentato  alla Mostra di Venezia, ebbe ..mezzo Leone d'oro ( " ex aequo " con il decoroso e dimenticatissimo  "Passaggio del Reno " di André Cayatte , più per motivi politici che di autentica equipollenza artistica ) ma raggiunse subito, da noi, un grande  e meritatissimo successo critico e di pubblico. All'estero forse fu apprezzato in misura minore ma occorre dire che si trattava di una storia che parlava soprattutto agli italiani, ancorché di potenziale portata universale. Mai al cinema, infatti, il dramma dell'immigrazione interna che , in quegli anni, aveva trasferito nelle grandi città del Nord centinaia di migliaia di abitanti del nostro Mezzogiorno ed il tumultuoso  e vitalissimo amalgama che ne era scaturito avevano trovato al cinema descrizione più poeticamente veritiera di quella di Visconti. Film condotto secondo i canoni del naturalismo caro al regista milanese, era in realtà soprattutto un grande melodramma, una sorta di " Carmen " all'ombra della Madonnina cui mancavano solo la partitura musicale e le romanze. Del resto Visconti, si sa , è stato al cinema un regista spesso " teatrale " e quindi molto meno realistico di quanto programmaticamente non si proponesse di essere. E, per converso, talune sue regie teatrali ( si pensi a  quella di " Uno sguardo dal ponte" di Miller, che è del 1958 ) risultarono , per moduli espressivi e suggestioni di scena, tra le più sorprendentemente cinematografiche.
La vicenda di Rocco  ( interpretato da un giovanissimo Alain Delon  ) e della sua famiglia ( la madre-matriarca, impersonata dalla grande attrice greca Katina Paxinou ed i quattro fratelli tra cui spicca l'avido, indolente, temperamentale Simone interpretato da Renato Salvatori ) incomincia con il loro arrivo, da poveri emigranti lucani, alla Stazione centrale di Milano : sequenza scarna, tutta in chiaroscuro, magica nel primo contatto tra i " cafoni " e le luci della grande città. Prosegue poi con il racconto della loro  lenta ascesa sociale grazie al mondo della " boxe " e riceve una prima, insidiosa impennata con le prime tentazioni del benessere e la comparsa del personaggio della  prostituta Nadia ( una grande Annie Girardot,  lussuosamente doppiata da Valentina Fortunato ) che condurrà alla progressiva disgregazione dell'unità familiare e al tragico epilogo. Vicenda dura, impietosa, attraversata da cento suggestioni letterarie e atteggiata senza molta convinzione in forma di apologo politico  ( gli umili, corrotti dal vizio borghese, che troveranno in prospettiva il loro riscatto ) da un Visconti molto più interessato in verità all'estetica decadente insita nei suoi personaggi che alla morale ( forse più piccolo borghese che proletaria ) che si può ricavare dalla vicenda. Messa in scena ( giusto definirla così, più che con il termine " regia " ) sontuosa, con movimenti di macchina, ad esempio la carrellata notturna nella stanza del seminterrato dove dormono i quattro fratelli, sempre espressivi nella loro contenuta misura,  e con assai belle sequenze di violenza : i combattimenti pugilistici, l'aggressione di Rocco ad opera di Simone, l'uccisione di Nadia all' Idroscalo con quelle braccia di lei che si aprono a croce nell'accogliere la morte liberatrice. Grande, livida atmosfera di una Milano ancora nebbiosa ed industriale , descritta con complicità ed affetto. Confesso che , ogni volta che rivedo il film, non posso  fare a meno di commuovermi . Per la storia così dura e crudele, certamente. Ma anche perchè Visconti si conferma un autentico mago, nelle cui mani tutto riluce. Correva l'anno 1960, i nostri grandi registi erano tutti in perfetta salute ed il cinema italiano ancora inconsapevole di quanto, non molti anni dopo, gli sarebbe successo.



venerdì 8 maggio 2020

" IL FANTASMA E LA SIGNORA MUIR " ( USA, 1947 ) / " " LA GENTE MORMORA " ( USA, 1951 ) entrambi di Joseph Leo Mankiewicz

Singolare personalità , quella del regista americano Joseph Leo Mankiewicz ( 1909 - 1993 ). Ricordato paradossalmente più per il suo film meno riuscito ( il gigantesco e fallimentare "Cleopatra " con Elizabeth Taylor, 1963 ) che per i suoi numerosi successi ( tra questi almeno due andrebbero inclusi di pieno diritto tra i migliori cento film realizzati ad Hollywood, " Eva contra Eva "  del 1950 e " La contessa scalza " del 1954) non è stato certo un cineasta privo di contraddizioni. Puro prodotto del sistema delle " major "- aveva seguito tutta la trafila, esordendo come assistente alla  produzione , per passare poi alla sceneggiatura e infine alla regia - è sempre riuscito a  conservare una fama di artista indipendente, incline a fare solo quello che gli piaceva ,senza imposizioni o scelte obbligate. Considerato un intellettuale, anzi un cerebrale ( colto lo era certamente , più di tanti suoi colleghi ) il suo cinema è nondimeno caldo, ricco sovente di umanità e di passione. Ritenuto un maestro della parola ( i  dialoghi dei suoi film  sono spesso assai brillanti ) è tacciato da taluni critici di  verbosità e quindi di scarsa aderenza al mezzo cinematografico, che è sostanzialmente azione e visione, quando non si vuole rischiare di cadere nel teatro filmato. Accusa che ha certamente un minimo di fondamento, specie nelle opere minori e meno personali della ventina che ci ha lasciato. Ma che,colpevolmente, trascura il lato figurativo del suo cinema, la capacità che egli ha di tradurre in immagini stilisticamente perfette le vicende  piene di sottigliezza e di ironia nelle quali pone quasi sempre la sua mano di scrittore inventivo ed acuto. Contraddizioni, se tali poi fossero, che lungi dal rendere i suoi film artisticamente imperfetti li rendono ancora più interessanti e ricchi di sorprese. Prova ne siano due film del suo primo periodo, quello anteriore a quel " The Barefoot Contessa " che lo confermò definitivamente come regista  efficace ed affidabile per le grandi case di produzione.

" Il fantasma e la Signora Muir " ( " The Ghost and Mrs. Muir,  1947 ) scritto da Philip Dunne ma certamente con il concorso dello stesso Mankiewicz, è un film delizioso, romantico, di cui consiglio vivamente la visione e che offre già tutte le caratteristiche del  suo cinema. Lo " "script" è brillante, ricco di dialoghi piacevoli e misurati, i personaggi molto ben tratteggiati. Mrs. Muir è una vedova ancora giovane ed estremamente attraente ( Gene Tierney, oggi ingiustamente dimenticata, aveva due occhi stupendi e una figura molto graziosa ) che decide di lasciare Londra e di andare a vivere con la figlioletta e la governante in una vecchia casa con una splendida vista sul mare. Ma la casa è abitata dal fantasma  del lupo di mare che l'abitava in precedenza, morto ancora  relativamente giovane (un Rex Harrison misurato ed efficace, che Mrs. Muir e noi spettatori vediamo perfettamente come se fosse in carne ed ossa).  Un fantasma geloso della sua antica dimora il quale , falliti i tentativi di spaventare ed allontanare la vedova, ne diventa una sorta di confidente e di premuroso protettore fino al giorno in cui....  ma ritengo sia meglio non raccontare il finale perchè ci regala una bellissima sequenza  (puramente cinematografica, a dispetto dei detrattori di Mankiewicz ) con, al suo interno, una delle più emozionanti, sublimi inquadrature del cinema di tutti i tempi. Arioso, sufficientemente dinamico nei movimenti di macchina da sfatare vittoriosamente il mito di un regista statico e fondamentalmente " teatrale ", il film è di un romanticismo delicato ed autentico ( la Signora Muir " vede " il fantasma e se innamora perché ha un disperato bisogno di confidarsi e di aprirsi con una figura di riferimento che corrisponda al suo elevato ideale ) e lascia nello spettatore un sentimento struggente, ben saldo nel ricordo.

" La gente mormora " ( " People will talk ", 1951 ) è un film altrettanto godibile anche se  in un registro diverso. Se " Mrs. Muir " è romantico ed intimistico, questo è un film che non esiterei a definire umanistico e " civile ", nel senso che descrive, con calore e ricco sentimento umano, atteggiamenti e situazioni suscettibili di avere un impatto su di un'intera collettività. Tutt'altro che " cerebrale " o costruito a tavolino, è stato interamente scritto da Mankiewicz , ancorchè tratto da una commediola senza grande importanza.  Ci si accorge subito, infatti, dello spessore e della forza tranquilla, sostanzialmente autonomi, con cui la vicenda avanza verso il suo finale, prevedibile  certamente ma nondimeno sofferto nell'evidenza con cui il bene trionfa sul male : bene e male che non sono  " esterni " ai personaggi, ma sono dentro di essi come in ognuno di noi, e richiedono quindi il coraggio, civile per l'appunto, di essere identificati e tenuti separati nell'interesse nostro e del gruppo sociale cui apparteniamo. Nella vicenda, ambientata in una cittadina di provincia, di un medico ed insegnante dalle origini alquanto misteriose e su cui " la gente mormora " ( Cary Grant impeccabile e convincente ) costretto ad un " chiarimento " dinnanzi ai  colleghi malevoli ed invidiosi, sostenuto dall'affetto di qualche  raro amico e della moglie ( Jeanne Crain, graziosa ed espressiva ) Mankiewicz ha certamente trasfuso ed allegoricamente tratteggiato la triste vicenda della " commissione per le attività antiamericane " del senatore McCarthy. Quella  per intenderci che, proprio in quegli anni, tormentò più di un cineasta visto con qualche sospetto e non fu certamente una bella pagina per le libertà civili di quel pur grande Paese. Ma, al di là del contesto storico-politico in cui il film è stato girato, quello che conta qui è il nitore anche figurativo con cui la vicenda si dipana, il rilievo dei personaggi, così ricchi di umanità e di caratteristiche complesse, la pulizia formale con cui lo sceneggiatore- regista  mette in scena   sentimenti e comportamenti, fusi in uno stile sorvegliato, fluido ed accattivante. Un film esemplare , una lezione di cinema che, anche in un'opera apparentemente " minore ", ci restituisce la personalità di un autentico autore, che andrebbe oggi adeguatamente rivalutato.