sabato 28 marzo 2020

" IL CICLO DI ANTOINE DOINEL " di Francois Truffaut ( Francia, 1959/1979 )

Succede quasi sempre che, nel loro primo film, sceneggiatori e registi  ci mettano un po' tutto quello che avrebbero voluto esprimere se, prima di allora, glie ne fosse stata data la possibilità. Pensieri , sentimenti , ricordi ( soprattutto quelli ) tutto ciò che da tempo premeva con urgenza dentro di essi chiedendo di diventare "reale " o almeno veridico una volta inciso nella celluloide. Il primo film , si dice, finisce sempre  col risultare più o meno autobiografico nella misura in cui riflette sia la vita " esterna " dell'autore sia quella che, internamente, si è andata mano a mano costituendo dentro  di lui per impulso del suo cuore e della sua mente. Autobiografia veritiera o idealizzata , dunque, e al tempo stesso catalogo in certo modo delle tante componenti del suo mondo interiore. " Luci del varietà " di Fellini o " I pugni in tasca " di Marco Bellocchio mi paiono, tra i tanti , pienamente esemplificativi di questa sorta di " legge del primo film " che, del resto, raramente viene smentita, soprattutto per quegli sceneggiatori e registi che non siano costretti dalle circostanze a firmare opere prime prevalentemente commerciali e su cui abbiano finito con l'esercitare, quindi, un controllo quanto meno limitato.
Meno usuale è che un regista ( e sceneggiatore ) non si fermi al primo film ma insegua il proprio personaggio autobiografico - o semplice portatore della sua biografia " interna "- per quasi vent'anni, riservandogli in tutto ben cinque opere. E' il caso, questo, di Francois Truffaut. Creato il personaggio quattordicenne di Antoine Doinel nel suo lungometraggio di esordio, " Les quatre-cent coups " che è del 1959, il regista francese è tornato su di lui, seguendone l'ipotetica crescita ed evoluzione sentimentale, ben altre quattro volte fino al 1979, l'anno cioè di " L'amour en fuite " con il quale ne ha preso definitivamente congedo. Nel frattempo Truffaut  ha girato altri film, scrivendo soggetti originali o più spesso adattando romanzi e racconti che lo ispiravano particolarmente. Ma Antoine Doinel, per quel lungo periodo di vent'anni (che rappresenta poi quasi tutta la carriera, di Truffaut, avendo questi terminato di  girare film l'anno prima di  morire, cioè nel 1983 ) ha continuato ad affacciarsi al suo spazio creativo, imponendogli di tanto in tanto la sua imprescindibile presenza. Mentre però nei primi due ( quello, citato, del 1959 ed il successivo del 1962, il mediometraggio " Antoine e Colette" inserito nel film a episodi " L'amore a vent'anni " ) il personaggio principale è una sorta di " doppio " del regista, risultando le sue vicende assai aderenti a quelle autentiche vissute  dall'autore, non così gli altri che compongono il ciclo. Se in quei primi due film era Antoine Doinel, il perno principale della storia, ad essere dominato da Truffaut che ne faceva il proprio " alter ego " idealizzato, negli ultimi tre è infatti  lo stesso protagonista che, quasi in una sorta di pirandelliano rivolgimento ( "Sei personaggi in cerca d'autore " ) sembra impadronirsi del suo autore e costringerlo, fuori da ogni evidente analogia biografica, a conferirgli ancora  autonoma, artistica esistenza.

Antoine Doinel vede la luce... cinematografica nel 1959 con " Les quatre-cent coups ". E' l'adolescente inquieto che vive con la madre ( che lo ha avuto da un uomo con il quale si è poi lasciata ) e con il patrigno che lo ha riconosciuto come suo, in un appartamentino  della Parigi popolare. Allievo tutt'altro che modello nella scuola, rigida e insensibile, che frequenta, mal amato in famiglia, ne combinerà di tutti i colori ("i quattrocento colpi") per ansia di conoscenza e di affetto, smania di vivere, finendo addirittura in riformatorio. Scontato, conoscendo la biografia così simile di Truffaut, che nel personaggio, nelle sue incertezze, nei suoi errori, nei suoi desideri, ci siano tutto il mondo interiore e le esperienze del regista. Spontaneo, struggente nella sua sincerità, è il tipico " primo film " autobiografico di cui si è parlato. Ed è anche , rivisto dopo sessant'anni, ancora un gran bel film : sorretto da una sceneggiatura che non delude, ha immagini molto belle ( si pensi alla sequenza della corsa di Antoine verso il mare e l'ultima inquadratura con il suo volto in primo piano rivolto alla macchina da presa, uno dei più bei finali nella storia del cinema francese ). Un classico, insomma, un film senza tempo nel quale l'autore cristallizza una volta per tutte  quel momento nella formazione di ognuno in cui siamo a tu per tu con i nostri sentimenti, con il nostro io interiore, senza infingimenti. Pronto magari, liberatosi dai suoi fantasmi personali e forte di questa esperienza,  a partire verso altri orizzonti, ad affrontare altre vicende ed altri temi. Ma Truffaut, tre anni dopo e avendo girato altri due film di soggetto completamente diverso, dedica ad Antoine Doinel una sorta di codicillo ( L'" Antoine et Colette " cui si è già accennato ). In esso il  personaggio, interpretato sempre dall'attore Jean Pierre Léaud di cui è diventato nel frattempo grande amico, muove le prime schermaglie amorose con una riluttante Colette , per la delusione che ne  ricava si arruola nell'esercito, diserta, passa alcuni mesi in un carcere militare prima di essere definitivamente restituito alla vita civile. Sono anche qui vicende vissute in gran parte dallo stesso Truffaut : l'autobiografismo sembra tracimare dal primo film in una  deliziosa operina di neanche mezz'ora che  annuncia già, per taluni spunti, la seconda parte di quello che si va delineando come un vero e proprio ciclo organico, caratterizzato dallo stesso personaggio seguito nella sua evoluzione fisica e spirituale. Non più, nelle  tre occasioni che si succederanno, sostanzialmente un  "doppio" del regista di cui ripercorre le vicende salienti dell'adolescenza e della prima giovinezza. Quanto piuttosto, e qui sta la novità contenutistica e stilistica, un personaggio maggiormente autonomo nel quale Truffaut si diverte ad iniettare una parte dei suoi sogni, delle sue fantasticherie, creando insomma un " altro da sè ", quello che egli avrebbe potuto diventare se, nella realtà, la sua vita non avesse avuto una svolta improvvisa mediante  il fortunato incontro con il critico André Bazin e l'inizio della sua professione di giornalista cinematografico, transitato poi nel cinema militante. Un personaggio, dicevamo poc'anzi, questo " nuovo " Antoine Doinel , che è - come sempre nella finzione artistica - modellato dall'autore . Ma che,  a sua volta, di conserva con il complesso rapporto Truffaut - Léaud, diventa in un certo senso lui stesso " manipolatore " e finisce con l'imporre una presenza di cui il regista non sa più fare a meno.

Ecco allora che in " Baisers volés " ( 1968 ) Antoine Doinel si ingaggia in una serie di mestieri disparati per sbarcare il lunario ( prima portiere di notte in un alberghetto di Pigalle, poi investigatore privato , infine riparatore di televisori a domicilio ) conosce una nuova ragazza, Christine, che punta decisamente al matrimonio e con la quale, dopo una passeggera iniziazione amorosa con una donna sposata, immaginiamo che finirà con lo sposarsi. Il film, leggero, spiritoso, ricco di notazioni picaresche,è anche un omaggio a Parigi, qui descritta garbatamente, pochi attimi prima che il maggio '68 le togliesse definitivamente quell'aura lievemente fantastica e la riportasse bruscamente ad una realtà fatta di tensioni sociali e di aspettative disattese. Il successivo " Domicile conjugal "  ( 1970 ) vede Antoine sposato con Christine, padre di un bebè, modesto coltivatore di fiori e poi pilota di battelli in miniatura, sempre sentimentalmente irrequieto al punto di intrecciare una relazione amorosa con una ragazza giapponese temporaneamente a Parigi e di separarsi dalla moglie, riguadagnando poi, al termine del film, il tetto coniugale in una riconciliazione che non inganna nessuno quanto ai suoi futuri sviluppi. Delicatamente malinconico, ma non privo di spunti bozzettistici abbastanza gradevoli, il film è un'acuta riflessione sulle difficoltà della vita di coppia ed ha il merito di riconfermare come attrice simpatica e dotata la sua protagonista, Christine Jade. Infine, sono passati ben sette anni, Jean Pierre Léaud è ormai un uomo fatto, la sua carriera è pienamente lanciata, il personaggio di Antoine Doinel torna un'ultima volta in " L'amour en fuite " ( 1979 ). Separato ormai da Christine, Antoine ritrova fortuitamente Colette ( autore di un romanzo , " Les salades de l'amour " , in cui ha riassunto la sua vita amorosa, non riesce ancora a conquistarla ) rivive le sue principali esperienze negli spezzoni di film del  ciclo stesso che Truffaut ha inserito in questo capitolo conclusivo e trova un ( provvisorio ? ) ristoro nell'amore per Sabine, conosciuta attraverso una vicenda assolutamente romanzesca. L'amore, sembra voler dire Truffaut, è sempre una perpetua " fuga in avanti ", perchè il sogno ed il desiderio sono costantemente sfasati rispetto alla loro tardiva realizzazione.
Ho rivisto in questi giorni, uno dopo l'altro,  i tre film che compongono la seconda parte del ciclo e li ho trovati ancora interessanti- specialmente il primo- per capire il cinema di Truffaut, quel tanto di malinconico rimpianto e di sottile poesia, non disgiunte certo da un " ego " a tratti straripante, che costituiscono il tono particolare della sua filmografia , dove opere molto convincenti si alternano a qualche titolo oggi un po' troppo datato perchè meno ispirato. Truffaut lo si potrebbe defnire, parafrasando il titolo di uno dei suoi film migliori, ( " L'uomo che amava le donne " ) come l'uomo che amava il cinema . Che lo amava tanto, probabilmente, da avere poco chiara la linea di demarcazione tra quest'ultimo e la vita reale. Fino al punto di mancare un poco, a volte, di quella lucidità che sola permette all'artista di distinguere tra ciò che veramente vale, nell'uno e nell'altra.




sabato 14 marzo 2020

IL CINEMA AL TEMPO DEL " CORONAVIRUS "

In momenti di forte, anzi fortissimo disagio collettivo ( guerre, calamità naturali, emergenze sanitarie come questa che imperversa nel mondo da diverse settimane ) le menti ed i cuori rischiano, ovviamente, di essere assorbiti da preoccupazioni diverse che non quella di coltivare  una predilezione per l'arte o anche, più semplicemente, di cercare un po' di ristoro nella visione di un film. Per la verità, proprio in tempo di guerra ( quella più vicina a noi, del 1940-45 ) i cinema, come altri luoghi di spettacolo, rimasero aperti quasi costantemente. Privi di altri passatempi, gli spettatori anzi affollavano letteralmente le sale per cercare un diversivo alle tristezze che li circondavano.Si trattava, almeno sino alla progressiva  liberazione del territorio nazionale, di un cinema autarchico e salvo qualche eccezione non eccelso , popolato quasi interamente da film di produzione italiana, con poche pellicole tedesche o della cinematografia francese di Vichy. Poi, finalmente, incominciarono ad arrivare a frotte le opere di Hollywood prodotte nel frattempo e  che in Italia non avevamo potuto vedere. Provo solo ad immaginarmi l'emozione e la gioia del pubblico del tempo,-povero, derelitto, provato nel morale e nel fisico - che ritrovava i suoi beniamini o scopriva per la prima volta attori e registi che , negli anni successivi, gli avrebbero fatto  buona e solerte compagnia.
E così sarà per noi, speriamo presto, quando potremo tornare a frequentare le sale oggi tristemente sbarrate e vedremo quei film che dovevano uscire nelle sorse settimane e che il " coronavirus " ci ha fin qui sottratto. Settimane di astinenza dal cinema su grande schermo che noi, più fortunati in questo del pubblico del tempo di guerra, possiamo surrogare, sia pure in modo imperfetto, con i film in televisione o ancor meglio con la nostra personale videoteca. Occasione, dunque, per vedere o rivedere con profitto qualche opera del passato più o meno recente. Da un lato questo ci aiuterà a passare meglio  il tempo nell'ozio forzato delle nostre abitazioni. Dall'altro, ed è la vera funzione del cinema, ci permetterà di continuare a sognare , ad emozionarci, a ridere o a commuoverci, grazie alla possente forza evocativa della immagine cinematografica.

Cosa consigliare nel frangente che stiamo vivendo, quali sono i film " da vedere "  ? Mi sentirei, prima di tutto, di indicare i classici, che non tradiscono mai e sono fonte di un piacere che cresce ogni volta che ci accostiamo ad essi. Penso ai grandi autori di casa (Rossellini, De Sica, Visconti, Antonioni , Fellini ) ai tre, quattro americani di cui bisognerebbe aver visto tutto ( Ford , Welles, Hitchcock, Wilder ) ai francesi di ieri e di sempre ( Renoir, Bresson, Becker, Truffaut, Rohmer ), a Bergman. Poi , secondo me, si aprono due vie.
Ai più coraggiosi suggerirerei, come antidoto "omeopatico" alle paure che ci disturbano in queste ore, quei film  che hanno al loro centro proprio la descrizione di un mondo preda di una galoppante epidemia. Opere di " finzione " ma che , viste oggi, risultano sorprendentemente anticipatrici di quanto qui sta veramente succedendo. Perchè vederle, vi chiederete. Potrei rispondere, paradossalmente proprio per sconfiggere  i nostri fantasmi interni. Come quando da piccini ci forzavamo a percorrere il  lungo corridoio buio di casa nostra per combattere la paura dell'oscurità o quando, ancora oggi, siamo attirati, in un Luna Park, dal " tunnel dell'orrore ". Razionalmente certi che, durante quegli interminabili minuti nulla ci potrà realmente capitare e che, al termine, saremo salvi con ogni sicurezza.
In quest'ordine di idee vi raccomanderei il migliore, senza dubbio, dei film del genere " epidemico " e che ha il titolo, quanto mai trasparente , di " Contagion " ( 2011 ). Scritto e diretto da uno dei più interessanti autori degli ultimi trent'anni, l'americano Steven Soderbergh ("Traffic", "Unsane" ) è interpretato da un cast di prim'ordine : Matt Damon, Jude Law, Laurence Fishburne, Gwyneth Paltrow, Marion Cotillard, Kate Winslet. Reperibile in DVD ( ammesso che troviate un negozio aperto...) ipotizza un' epidemia di un virus sconosciuto e terribile proveniente da Hong Kong ( sempre la Cina... ) che rischia di mettere in ginocchio il pianeta sia dal punto di vista sanitario che da quello della sopravvivenza delle istituzioni democratiche. Ben diretto, scorrevole, tutt'altro che retorico,  promette di farvi passare  due ore in modo intelligente anche se, lo ammetto, potreste sentire  un piccolo brivido nella schiena...

L'altro modo di " esorcizzare " cinematograficamente l'emergenza di queste ore è quella, decisamente all'opposto, di buttarsi su film di assoluto disimpegno. Che vi trasportino, insomma, in una prospettiva totalmente diversa, descrivendovi un mondo magari un pò edulcorato rispetto alla realtà, ma almeno senza troppe preoccupazioni e  depurato dai rischi di vario genere che corriamo oggi. E' questo il caso di un film che, nel sicuro della mia abitazione, ho rivisto proprio ieri sera, " Altri tempi ", di Alessandro Blasetti ( 1951, ma uscito l'anno successivo nelle sale ). Esempio tra i primi di un  genere, il " film ad episodi ", che  negli anni '50 e poi i '60 del secolo scorso incontrò particolarmente i gusti degli spettatori, è un piccolo gioiello se ci poniamo nell'ottica del film disimpegnato e di intrattenimento. Lo spunto è quello di un'estemporanea antologia di racconti di autori italiani dell'Ottocento ( da  Nievo a De Amicis, da Fucini a Boito ed altri ) trasposti cinematograficamente con arguzia e molta eleganza ( se si esclude " La Morsa " di Pirandello, francamente un po' fuori registro rispetto al tono generale dell'opera ). Ne esce un' Italia postrisorgimentale, desueta ma tanto, tanto piacevole nella sua attenta e gradevole raffigurazione che la intelligente sceneggiatura di Suso Cecchi D'Amico ed altri, così come l'esperta regia di Blasetti, ci offrono in questa operina graziosa e distensiva. Niente di travolgente , badate bene, ma  due ore passate gradevolmente e in totale oblio, questo sì, delle tristezze che ci circondano. E poi nel film c'è un'autentica chicca che si rivede con piacere , se già la si conosceva, o che si scopre con sorpresa in caso contrario. Parlo dell'episodio " Il processo di Frine " in cui un  divertente e  bravo Vittorio De Sica nelle vesti di un avvocato d'ufficio riesce a far assolvere con una astutissima arringa una radiosa, esuberante Gina Lollobrigida , allora ventiquattrenne, nei panni (piacevolmente succinti ) di una popolana abruzzese rea confessa dell'avvelenamento della suocera. E', per intenderci, la nascita della fortunata espressione " maggiorata fisica " ( e del relativo personaggio ) che tanto successo ebbero nel cinema italiano e non solo. E basterebbe questo per strapparci un sorriso e farci sognare, presto, il ritorno ad un mondo in cui primeggino  l'intelligenza e la bellezza.