domenica 23 dicembre 2018

I FILM DI NATALE E DI CAPODANNO

I film delle Feste . Fin da ragazzi li aspettavamo con ansia. Prima di tutto perchè era una occasione per andare al cinema più spesso del solito, magari con la famiglia. E poi perchè i distributori ( questi " signori " assoluti del nostro piacere cinefilo) ben sapendo che la propensione a rinchiudersi per qualche ora in una sala buia cresceva esponenzialmente con l'avvicinarsi al Natale, avevano la sana abitudine di darci in pasto proprio allora le cose migliori del ricco patrimonio filmico di cui disponevano. Cose che magari avevano tenuto in serbo proprio per quelle magiche due - tre settimane tra la seconda metà di dicembre ed i primi di gennaio, certi di fare la nostra felicità ma soprattutto di massimizzare i loro guadagni, unitamente a  quelli dei produttori a monte e agli incassi degli esercenti a valle. Oggi la situazione, e basta dare un'occhiata alla programmazione di questi giorni, è radicalmente cambiata. Diminuita la presenza del pubblico nelle sale lungo tutto l'arco dell'anno, neanche a quest'epoca vi è speranza di una sostanziosa ripresa ( cambiano le abitudini, si festeggia in modo diverso ). Ecco così che i film degni di essere visti, insomma gli imprescindibili sono , anche nei giorni dei festeggiamenti natalizi e di fine d'anno, numericamente gli stessi, cioè pochini davvero.

Per risollevarci lo spirito , consoliamoci con quel che passa il convento : ma i " buoni frati " - chiamiamoli così per coerenza di metafora - hanno comunque, pure questa volta, apparecchiato due o tre cose, forse anche quattro, tra le quali individuare con buone prospettive i nostri preferiti per il sano rito del cinema delle Feste. Dopo avervele ricordate ( di fatto poi sono tutti film di cui avevamo già parlato qui ) vi indicherò- e vi consiglierò di vedere - due pellicole del passato che, secondo i miei personalissimi gusti, meglio rappresentano i film di questo periodo così particolare di fine d'anno, con la nostalgia e la speranza che sempre l'accompagnano.
Ricordo ancora una volta l'esigenza di non perdersi " Roma ", il capolavoro del messicano Alfonso Cuaron, miglior film di questi primi quattro mesi di stagione cinematografica. Il " Leone d'oro " - meritatissimo - dell'ultima Mostra veneziana, annoda sapientemente le  vicende private di due donne, coraggiose entrambe ma divise dalle differenze di classe, con la temperie politico-sociale del Messico dei primissimi anni settanta del secolo scorso. Un film forte, commovente, il campione di quella tendenza neo-neorealista che si sta facendo strada nel cinema contemporaneo di quà e di là dell' Oceano. Alcune sale, a Milano ed a Roma, dopo averlo tolto dalla programmazione ( è visibile sulla " piattaforma " Netflix che lo ha prodotto ) ora lo stanno rimettendo in ( limitata ) circolazione.
Rammento poi un bellissimo film polacco, anche questo in bianco e nero ( con schermo quadrato, come una volta ! ) che potrebbe sparire dai nostri schermi nei prossimi giorni : prego quindi affrettarsi se si vuole godere di una drammatica ( ma a tratti ironica e dolce ) storia d'amore sullo sfondo del contrasto tra " paradisi " comunistici e decadenti piaceri occidentali nel ventennio 1945-1965. " Cold war " , di Pavel Pawlikowski, può lasciare  a tratti leggermente interdetti per lo sviluppo narrativo, ma possiede una regia di sconvolgente fulgore.
E' infine alle porte ( uscita nazionale il 27 dicembre ) una intelligente commedia agrodolce del francese Olivier Assayas di cui parlammo in questa rubrica quando fu presentato quest'autunno a Venezia con il titolo originale di " Doubles vies ". Sembrava allora che dovesse uscire da noi con  il titolo ( incomprensibile ) di " Non fiction ". Lo ha cambiato ora in quello , un pò fatuo ma meno criptico, di " Il gioco delle coppie ". Se potete, vedetelo in lingua originale per gustarvi a pieno la recitazione degli attori. Ma anche doppiato non potrà certo guastarvi il piacere di assistere ad uno spettacolo gradevole e nello stesso tempo " morale " ( nel senso cioè, sulla scia dei grandi moralisti francesi del XVII e XVIII secolo, di saper  cogliere alla perfezione i difetti della nostra epoca ).
E, infine, una " chicca " di cui egualmente ho parlato da poco in questa rubrica , e che è uno dei quattro o cinque capolavori di Sir Alfred Hitchcock. Esce infatti sugli schermi, ai primi di gennaio, la copia restaurata de " Gli uccelli " ( " Birds " ). Non vi dico di più, tanto il film è per me una delle vette raggiunte da uno dei più talentuosi artisti della storia del cinema ed un film celeberrimo per aver modificato per sempre il modo con cui guardiamo ormai i graziosi  ed apparentemente innocui pennuti che svolazzano in cielo. Ma anche per i suoi evidenti significati metafisici e l'aura misteriosa che lo avvolge e  non svanisce neppure alla fine.

Veniamo alla mia indicazione per il " film di Natale " , intendendo per tale il film che è ambientato proprio nei giorni delle Feste e che è consigliabile, in una sorta di " rito ", programmare sul vostro televisore , magari cercandolo sulle tante piattaforme " on demand" oggi disponibili, visto che purtroppo nessuna sala si perita di riesumarlo. Si tratta di " Scrivimi fermo posta " ( orrendo titolo italiano dell'originale " The shop around the corner ") e risale al lontano 1940, coevo o quasi degli altri grandi film del regista, l'austriaco emigrato negli Stati Uniti Ernst Lubitsch ( " Ninotchka ", " To be or not to be ", " Il cielo può attendere"). La vicenda, delicata ed ingegnosa al tempo stesso, vede un commesso di un negozio di oggettistica a Budapest ( James Stewart, semplicemente sublime ) impegnato in una schermaglia caratteriale  ed amorosa  con una collega di lavoro ( la deliziosa Margaret Sullavan ) ed è desunta da una commedia ungherese, ricca di tanti altri personaggi minori ma abilmente tratteggiati. La trama è stata poi ripresa qualche anno fa, in un contesto contemporaneo , da un discreto film di Nora Ephron ( " C'è posta per te "  ) che non eguaglia però il fascino che emana dall'originale. Il Natale  è veramente il protagonista , con la magica atmosfera piena di sospensione e di attesa che fa da controcanto alla bella storia raccontata da un Lubitsch in possesso, qui come negli altri suoi film,  del  proverbiale " tocco " che rendeva inconfondibile il suo stile.

Se di film di ambientazione interamente natalizia ne esistono diversi ( ricorderò almeno il celeberrimo " Bianco Natale " , ovvero " White Christmas " , del grande regista di " Casablanca " , Michael Curtiz ) pochi sono, a mia memoria , quelli che si svolgono il giorno di Capodanno o in cui almeno il 31 dicembre giochi un ruolo da protagonista, anche se diversi ci mostrano , en passant, celebrazioni di fine anno, peraltro puramente decorative nell'economia complessiva dell'opera ). Vi è però un film - che è il mio prescelto per rivederlo in questa data così ricca di significato e di aspettative - la cui ultima sequenza  si svolge addirittura in tempo reale con i minuti che precedono lo scoccare della Mezzanotte , ed è " L'appartamento " di Billy Wilder , che risale al 1960. Ricorderete, spero, la frenetica corsa in una Manhattan deserta di Shirley McLaine per arrivare giusto in tempo, prima della  fatidica mezzanotte, a ricongiungersi con uno Jack Lemmon che aveva appena disilluso per andare dal maturo  amante ( il bravo ma antipatico " manager " Fred McMurray ). E tutto il film , del resto , è ambientato nei giorni che precedono, nel freddo ed umido inverno newyorchese, le festività del 25 dicembre e del 1° gennaio, in una atmosfera carica di speranza e di qualche forzata delusione . E l'happy ending finale non si può dire che cancelli del tutto , come ricorderete egualmente, l'amaro sapore di una vicenda di piccoli soprusi ed umiliazioni inflitti ai due miti personaggi principali dal torvo , misero ambiente di una grande " corporate ". Grande film umano ed umanista, secondo l'abituale canone wilderiano ed una bella occasione, ripeto, di festeggiare Capodanno con un film intelligente ed onesto, tenero e coraggioso, a mo' di ideale benvenuto al 2019 che batte alle porte.




lunedì 17 dicembre 2018

" SANTIAGO, ITALIA " di Nanni Moretti ( Italia, 2018 ) / " L'AVVENTURA " di Michelangelo Antonioni ( Italia, 1959 )

Settembre 1973. Chi non ricorda il colpo di stato in Cile che rovesciò il  governo legittimo guidato da Salvador Allende ed instaurò la dittatura militare con a capo il generale Pinochet ? Furono giorni di paura e di sofferenza per i militanti della coalizione di " Unidad popular ", sconfitti, perseguitati, molti di loro costretti alla fuga, numerosi imprigionati, torturati, uccisi. E dovunque nel mondo, ma in particolare in Europa occidentale, un moto di simpatia e di solidarietà accompagnò la triste sorte di chi aveva sperato in un Cile più giusto ed aveva visto spazzati via in poche ore tutti i propri sogni. In sede storica può naturalmente discutersi sugli errori di Allende e dei suoi nelle settimane prima del " golpe " e sui rischi di una pericolosa deriva che aleggiava su quel tentativo di governo in una temperie internazionale sempre più delicata. Resta il fatto di una brutale interruzione di un processo democratico che aveva visto una vasta e sincera partecipazione di masse un tempo del tutto emarginate e di una susseguente, violenta, spietata caccia al " nemico " da parte delle forze della restaurazione. Di vicende così drammatiche, e che hanno impresso sul Cile un marchio indelebile per quasi vent'anni, il cinema si è occupato più di una volta dandoci racconti spesso straordinariamente efficaci quando non abilmente allusivi ad un passato difficile da lasciarsi alle spalle. A fronte di ciò non è facile comprendere cosa , a distanza di quarantacinque anni e senza alcun episodio specifico, anniversario , commemorazione che ne spiegasse la genesi, abbia spinto oggi Nanni Moretti a darci il " suo " personalissimo contributo su avvenimenti tanto tormentati e lontani . O meglio, la chiave di lettura è evidente. Un gruppo di cileni già seguaci di Allende ed  emigrati in Italia , spesso con il concorso attivo delle nostre autorità, unitamente ad altri militanti rimasti in Cile a volte dopo anni di persecuzioni ed incarceramenti,ad opera di Moretti stesso rende  ora testimonianza su di un momento importantissimo per le forze di sinistra nel mondo, in singolare controcanto alla fase attuale di generale inaridimento ideale e di ripiegamento delle speranze rivoluzionarie di un tempo.

Resta peraltro  che il documentario " Santiago, Italia " - pur generoso nel suo intento - fallisce in gran parte proprio i due obiettivi che è presumibile si ponesse. Non tentativo di contributo critico di che cosa sia successo in quelle settimane così drammatiche che precedettero e seguirono il colpo di stato ( le interviste sono tutte alquanto monocordi, appiattite in uno  scontato" reducismo " da circolo di anziani ex combattenti, e le uniche due di seguaci di Pinochet sono troppo grottesche per offrire un qualunque " minority report " ) il film non spiega neanche bene lo straordinario sforzo collettivo che aiutò alcune migliaia di cileni a trovare rifugio in Italia . Una pagina questa che, al di là come la si possa pensare su Allende ed i disegni di una parte delle forze che lo appoggiavano, fa assolutamente onore al nostro paese ed è storia, sorprendentemente, ancora poco conosciuta anche da noi dove tutta la problematica dei diritti umani, del resto, trova sempre così scarso riscontro. Ma qui sarebbe occorso dare maggiore spazio alla testimonianza dei  funzionari in servizio allora presso la nostra Ambasciata in Santiago ( alcuni dei quali, per parte loro,  hanno scritto efficaci e commoventi resoconti di quell'esperienza ) e chiarire meglio lo sforzo diplomatico che condusse alla partenza , a volte dopo anni, dei cileni che avevano trovato fortunosa accoglienza in quella istituzione. Insomma, nè  abbozzo di ricostruzione storica di quegli avvenimenti nè iniziativa di divulgazione di una pagina poco nota della nostra tradizionale" pietas " verso chi soffre, quando non di vera e propria presa di coscienza delle ingiustizie che ogni giorno si compiono nel mondo , il film offre poco ad una nuova lettura dei fatti del Cile e quasi niente sul piano dell cinema stesso. Che Moretti debba trovarsi in un momento difficile sul piano personale ed artistico lo si intuiva già e se ne ha qui preoccupante conferma. Peccato per quei pochi attimi di autentica commozione che a volte emergono dalle varie interviste e che fanno rimpiangere il bel documentario che " Santiago, Italia " avrebbe potuto essere e non è stato. 

La Cineteca di Bologna, già responsabile di alcuni prestigiosi restauri di opere cinematografiche italiane e non, ha ora " in portafoglio " anche quello di un autentico capolavoro , non più visto su grande schermo negli ultimi anni ed introvabile anche in DVD a causa delle condizioni del negativo. Parlo di " L'avventura " , il film del 1959 di Michelangelo Antonioni che  lanciò definitivamente  il regista a livello internazionale. Personalmente non lo rivedevo proprio da quasi sessant'anni per le ragioni anzidette. Estimatore, in epoca a noi più vicina, delle prime e già importanti opere del regista ferrarese, da " Cronaca di un amore " ( 1950 ) a " Il grido " ( 1957 ), confesso che vidi " L'avventura " ( avevo forse diciott'anni o poco di meno ) senza conoscere i suoi film precedenti e influenzato probabilmente da un'accoglienza non proprio entusiastica di quella parte della critica italiana che gli contrapponeva il più solare e speranzoso Fellini così come i " mostri sacri " del neorealismo ,  più semplici da capire ed amare. Lo trovai allora  troppo lungo e noioso, ambiguo nel suo significato, irrisolto sul piano drammatico. Ad una nuova visione della copia restaurata, su grande schermo presso la Cineteca di Milano, faccio oggi ammenda di quel giudizio evidentemente affrettato e privo della necessaria prospettiva ( unica qualità che, ammetterete, matura col tempo per qualsiasi spettatore ).Il film in realtà, fatta ancor oggi la tara di una eccessiva lunghezza - due ore e venti - non pienamente giustificata dal suo sviluppo narrativo ( " La dolce vita " o " Rocco e i suoi fratelli " durano ancora di più ma sono affreschi di maggiore complessità e maestosa composizione ) è in realtà l' eccezionale prodotto di un cineasta di genio. Girato in circostanze di notevole difficoltà ambientale sullo scoglio di Lisca Bianca ( Isole Eolie, non lontano da Panarea ) e poi, sempre in esterni, a Noto, la capitale del barocco siciliano e, nelle ultime sequenze, a Taormina nel prestigioso hotel " San Domenico Palace ", ha una vicenda assai minimalista. Un brillante ma volubile architetto, Sandro, nel corso di una crociera al largo della Sicilia, " perde " la propria amante,Anna, scomparsa in circostanze misteriose. Messosi alla ricerca della ragazza senza troppa convinzione, accompagnato da un'amica di lei, Claudia, intreccia ben presto una relazione con quest'ultima ma, nel finale, la tradisce con una " escort "straniera di passaggio. Materiale da cineromanzo o da fumetto, si direbbe. E, in certi punti, il dialogo e talune situazioni( che la critica del 1960, quando il film uscì sugli schermi, impietosamente rilevò ) potrebbero dare la sensazione di un melodramma qualsiasi allo spettatore superficiale o leggermente prevenuto.

Niente di più sbagliato. In realtà, come anche nei precedenti film di Antonioni, il nocciolo della questione non è la vicenda in sè. Quanto piuttosto la difficoltà dei personaggi di essere sinceri, con sè stessi e con gli altri, liberandosi dalle sovrastrutture  della tradizione, dei pregiudizi, della morale corrente. Mentre il mondo si trasforma continuamente, sostiene in un suo interessante scritto il regista, l'umanità rimane ferma, legata sempre agli  stessi vecchi schemi. Ne consegue una incapacità di aprirsi realmente al nostro prossimo, fossero anche le persone che crediamo di amare ( la citatissima " incomunicabilità "  con cui fu etichettato il suo cinema ) la superficialità dei rapporti interpersonali, in breve la difficoltà o addirittura la sofferenza del vivere quotidiano. Ma tutto questo, si badi , lungi dal rimanere pura enunciazione teorica che - come succede talvolta ad un cinema troppo " letterario "- non riesce poi a calarsi compiutamente nelle immagini, trova qui in ogni inquadratura un inveramento, una evidenza plastica interamente e puramente cinematografici. Lunghi silenzi, una fotografia in bianco e nero di rapinosa, struggente bellezza, cittadine desolate che sembrano popolate solo di uomini tristi  e senza donne, campi lunghi che ci mostrano le nude, desolate rocce a strapiombo dello scoglio dove scompare misteriosamente Anna ( una splendida, intensa Lea Massari ), primi piani del volto sfuggente ed ambiguo di Sandro ( un incisivo ed inquietante Gabriele Ferzetti ) o della solare, biondissima Claudia ( una sorprendente  Monica Vitti al suo esordio ) si inseguono e si intersecano per darci la sensazione visiva ed immediata della lunga pena, del faticoso errare che è la nostra stessa esistenza. C'è speranza di salvezza  in tutto questo ? Le due ultime bellissime inquadrature, che lascio allo spettatore il piacere di scoprire, lascerebbero intendere di sì, anche se i sentimenti, specie quelli amorosi,sembra suggerirci l'autore, non possono che restare fatalmente superficiali e precari.Il film ci fa anche ricordare, su di un altro piano visivo, che Antonioni fu ( e rimase sempre )anche un grande documentarista. Qui abbiamo, specie nella seconda parte, un lungo ed appassionante reportage sulla Sicilia alla fine degli anni cinquanta, l'equivalente cinematografico di un " album " di foto di Cartier Bresson.  La sceneggiatura, per quello che vale, è dello stesso Antonioni e di Tonino Guerra. Ma quiel che conta veramente è  soprattutto  la regia, il ritmo erratico eppure sempre intenso che Antonioni imprime alla sua creazione, i movimenti di macchina lenti ma che sempre ci stupiscono per la loro precisione e morbidezza vellutata, la recitazione leggermente teatrale ( voluta, in un film antinaturalistico e " didascalico " ) ma di grandissima intensità. In definitiva, un film che, rivisto oggi, rivela nuovi sapori ed  induce ad un sottile rimpianto per cio' che era il grande cinema italiano di quegli anni ( 1959- 60 : " L'avventura " , " La dolce vita " e " Rocco e i suoi fratelli " : scusate se è poco.... )


sabato 8 dicembre 2018

" ROMA " di Alfonso Cuaron ( Messico, 2018 ) / " LA PRIERE " di Cedric Kahn ( Francia , 2018 )

Per fare del buon , anzi dell'ottimo cinema non c'è bisogno di molto. Bastano le idee, certo, ed il cuore  : intelligenza ( abilità tecnica ) da un lato, sensibilità artistica dall'altro. Non è una ricetta complicata. E lo prova ampiamente lo stupendo " Leone d'oro " di quest'anno. Quel " Roma " del messicano - con trascorsi hollywoodiani -  Alfonso Cuaron che, prodotto dalla piattaforma "Netflix",  è  uscito ora per pochi giorni in alcuni cinematografi  italiani prima di venire relegato nella " scatola " che lo farà vedere in seguito ( su televisori, computer e addirittura telefonini...) solo agli abbonati di quest'ultima applicazione tecnologica. Inutile tornare sul tema. C'è chi piange sulla possibile fine del cinema quale emozione collettiva, come, in gran parte, l'abbiamo conosciuto fin qui. C'è chi afferma che questo è il progresso e che dovremo abituarci al nuovo tipo di " supporto ": nè più nè meno come alla progressiva sostituzione della carta stampata, libri e giornali da fruire ormai in forme ben diverse da quelle tradizionali.
Lasciamo stare e prepariamoci al peggio ( se tale lo consideriamo ). Il paradosso, semmai, è che proprio un film come "Roma", girato in bianco e nero e in un  classicissimo "cinemascope ", quindi adattissimo al grande schermo ( vedere per credere ) sia stato concepito per formati molto più piccoli e di resa artistico-spettacolare forzatamente inferiore. Mistero. Accontentiamoci di nutrire comunque gratitudine per chi, finanziando il film, ha  permesso la sua realizzazione  e ce lo fa ora ammirare, anche se per poco tempo, in qualche sala del normale circuito. Perchè il film è davvero molto bello ed ha ampiamente meritato il massimo riconoscimento veneziano. Uscendo dalla proiezione ( contrassegnata, finalmente, da una cospicua presenza di pubblico già al primo spettacolo di un normale giorno lavorativo ) mi sono chiesto come mai film così semplici ed insieme profondi, capaci con pochi tocchi di commuoverci ed entusiasmarci ( una specialità della " ditta " Italia nei primi venti-venticinque anni del secondo dopoguerra ) li sappiano fare oggi quasi solo le cinematografie considerate un tempo minori : qualche paese dell' Est europeo, l'Africa , l' Oriente, l' America Latina. In questo caso il Messico : realtà composita,in chiaroscuro, con molte contraddizioni al suo interno e forse per questo un potente stimolo per chi voglia affrontarla attraverso la macchina da presa.

Il film inizia piano, quasi silenzioso, nel tratteggiarci in modo man mano più ampio e preciso una grande ma un pò disordinata abitazione di Città del Messico ( scopriremo poi che siamo nel 1970 ) in un quartiere medioborghese della grande metropoli che è proprio chiamato " Roma ", non chiedetemi perchè. E man mano facciamo conoscenza con gli abitatori : una moglie ancora piacente e dotata di un sano appetito per la vita, un marito  tabagista e distaccato (non perdetevi il ritorno a casa del " pater familias " in una obsoleta e un pò ammaccata " Galaxy ", le automobili allora erano tutte macchinoni americani difficili da manovrare in spazi ristretti ) quattro figli un pò turbolenti tra infanti ed adolescenti, una nonna dal senso pratico  e due donne di servizio a tempo pieno ( le classiche " indie ", laboriose ed ancestralmente educate alla pazienza ). Non che succedano fatti clamorosi nel tran-tran un pò monotono di questa famigliola , anche se ci accorgiamo che, fuori, le forze  al potere reprimono duramente il dissenso dei meno fortunati e non disdegnano talvolta di  appoggiarsi a corpi paramilitari fascistoidi. Finchè due fatti sconvolgono quel " ménage " apparentemente senza storia (ma che il regista ha incominciato a farci apprezzare con il suo approccio quasi documentaristico, tutt'altro che asettico, soffice e caldo al tempo stesso ). La cameriera più giovane rimane incinta ad opera di un piccolo mascalzone che poi l'abbandona. La padrona di casa è a sua volta lasciata, oltretutto in ristrettezze economiche, dal marito che fugge ad Acapulco con l'amante. Nuvole sempre più pesanti sembrano ora addensarsi sui nostri personaggi - vedrete quanto e quando - ed il film sale di tono e di intensità,ma senza  cadere in alcuna sbavatura sensazionalistica e riuscendo sempre a conservare un approccio misurato e sincero. Alla fine ciò che prevale è la gioia di vivere, l'amore che lega gli abitanti della casa tra di loro. Domani è un altro giorno e continueremo ad affrontarlo insieme. 

Temi così intimistici eppur ricchi di "pathos " si sposano armoniosamente in " Roma " ad una non oziosa riflessione sulla circostante atmosfera  del tempo, autoritaria e a decisa impronta maschile, in cui il ruolo delle donne era socialmente residuale. Che affetto evidente, scopriamo, ha Cuaron per i propri personaggi femminili : umiliate e offese, le donne sono , attraverso il loro sacrificio e la loro rassegnata ma non doma fierezza, portatrici di una speranza di riscatto per l'intera comunità. Guardate la povera cameriera india, scoprirete  attraverso i suoi occhi timidi ed onesti questo paese dai mille contrasti ma estremamente vitale e vibrante. Così come lo sguardo vacuo e sfuggente del padrone di casa o il cipiglio torvo ed esaltato di Firmin ( il paramilitare che mette incinta la serva ) ci dicono molto più di mille parole sulla deriva autoritaria di una società oziosa e incapace di operare un deciso salto nella modernità. Questa fusione tra temi personali e " civili " era la forza, ve ne ricorderete, del grande cinema italiano di una volta, dal neorealismo a Germi, Fellini, Olmi. Piace vederla qui in un film che è indiretto omaggio a quella temperie artistica, a quello stile,  a quel coraggio morale. Ma è anche , e soprattutto, una testimonianza dei fermenti culturali e politici che attraversano l' America Latina, con la prova di una raggiunta maturità artistica che pone oggi lo stesso Cuaron , con gli altri due più famosi cineasti messicani, l' Inarritu di " The Revenant " e il Del Toro di "La forma dell'acqua ", nei piani alti del cinema mondiale. Soggetto quanto mai congeniale e pertinente per consentire all'autore di tornare con la memoria al Messico della sua infanzia,  sceneggiatura senza smagliature : tutto è chiaro ed immediato oppure contribuisce ad illuminare più tardi il senso di ciò che abbiamo visto, proprio come nella vita. Regia sempre inventiva , ma senza strafare. Qui veramente capiamo come i movimenti di macchina debbano essere dettati non da una estetica fine a sé stessa ma dalla posizione morale di chi li dirige. E non vi è inquadratura in " Roma " che non ce lo ricordi costantemente, con grazia e senza pedanteria: Cuaron sa sempre dove posizionare la cinepresa e lo fa per esprimere un punto di vista mai banale. Fotografia da Oscar ( autore lo stesso Cuaron ) , in un bianco e nero di struggente risalto. Interpretazione assolutamente all'altezza, con menzione speciale per le due principali attrici. Insomma, da tempo non si vedeva un film altrettanto convincente.

Analogo discorso andrebbe fatto per " La prière " , film francese di Cédric Kahn, uscito in Francia nello scorso mese di marzo e salutato  molto favorevolmente dalla critica d'Oltralpe Se non chè, complice la circostanza che da noi, in questi giorni, lo abbiano visto in pochi ( a Milano solo tre proiezioni in un cineclub ) e che non ne sia ancora sicura la distribuzione nel circuito commerciale, preferisco rinviare al momento in cui sarà possibile a tutti andarlo a vedere una analisi più distesa. Dirò solo, perchè teniate a mente nel frattempo questo piccolo capolavoro, che anche qui , come in " Roma ", il soggetto è semplice ed austero, niente affatto noioso ( un giovane tossicodipendente, inserito in una comunità di recupero basata sul lavoro manuale, la solidarietà ed appunto la preghiera e la fede cristiana, tornerà a vivere e potrà con autonomia e raggiunta consapevolezza operare una scelta tra amor sacro e amor profano ). Ambientazione di sontuosa bellezza nelle Alpi del Delfinato, non lontano da Grenoble , sceneggiatura ben costruita e scandita da un ritmo cinematografico pacifico e solenne, regia sempre attenta a scovare la verità delle cose, nei volti e nei gesti dei personaggi ( tutti giovanissimi attori esordienti o poco conosciuti ), una fotografia a colori che incanta, una interpretazione del protagonista, Anthony Bujon, da " César " ( gli Oscar francesi ). 

  • Ricordo infine che è da qualche giorno sugli schermi l'ultimo film del regista iraniano Jafar Panahi ( quello, per intenderci, di " Taxi Teheran, grande cineasta inviso al regime degli ayatollah e costretto a non uscire dall' Iran ). La mirabile operina ( uso il diminutivo tanto è graziosa e ben orchestrata ) si chiama " Tre volti " e ne ho parlato , mi pare , il 16 giugno su questo blog. Ragione per non ripetermi ma raccomandarne a tutti la visione, in nome del cinema e, beninteso , della ( sacrosanta ) libertà di opinione.




domenica 25 novembre 2018

" WIDOWS " di Steve McQueen ( USA, 2018 )

Che si deve fare, quando ci si chiama Steve McQueen e si lavora nel cinema, per evitare  incresciosi " qui pro quo " e correre il rischio di  sentir dire " come, adesso fa anche il regista,  ma non era morto ? ". Fare io credo, come stà facendo in effetti, dei gran bei film con cui ritagliarsi un posto tutto suo nella cinematografia mondiale. Anche perchè, di somigliante al carismatico attore americano dagli occhi cerulei scomparso  nel 1980, Il nostro McQueen non ha proprio nulla. Britannico di nascita e di nazionalità, nero e cicciottello, la sua storia è tutta diversa. Artista polivalente in linea con le tendenze più contemporanee , fotografo e scultore, da una decina d'anni bazzica anche il cinema dandoci film di folgorante bellezza anche se non del tutto identici per compattezza e vigore drammatico. I suoi primi due lungometraggi ( " Hunger ", su di un militante separatista nordirlandese impegnato in un lungo e tragico sciopero della fame, e  " Shame " su di un uomo ancora giovane e completamente roso dall'ossessione del sesso inteso come unica ragione di vita ) erano due autentici pugni nello stomaco.Tesi come lame di coltello, supportati da due interpreti eccezionali ( Daniel Day Lewis per il primo e Michael Fassbender per il secondo ) rivelavano un regista capace di dominare perfettamente l'ingrata materia trattata rivestendola di forme plastiche di grande potenza drammatica. Un pò meno rigoroso e coerente, anche se capace di tenere costantemente svegli i sensi dello spettatore più smaliziato, " Twelwe years a slave ", sulla drammatica vicenda di un nero americano libero e  benestante della metà dell' Ottocento che viene rapito e condotto a lavorare come schiavo in  una piantagione del Sud, confermava nondimeno la vocazione di McQueen per le storie " forti " e la descrizione di personaggi al di fuori del comune, succubi di una condizione umana "borderline " e costretti per ciò ad una impari lotta con il fato che incombe su di loro. Proprio l'ultimo film, forse anche per l'assunto antirazzista, ha riscosso  il maggior successo tra questi tre , conquistando un paio di Oscar e consacrando definitivamente  il suo autore come uno dei maggiori cineasti della " nuova Hollywood ".

Intenzionato a non riposare sugli allori ma ad evitare nel contempo di rifare lo stesso film e quindi desideroso di spaziare in ambienti sempre diversi, questa volta Mc Queen si rivolge nuovamente agli " States " ( dove ormai vive da alcuni anni ) andando però ad esplorare il variopinto e sinistro mondo criminale di Chicago, una delle più violente città americane, dove la comunità nera nel bene e nel male è adeguatamente rappresentata. E lo fa ispirandosi, con l'aiuto della sua compagna di vita  Gillian in veste di cosceneggiatrice, ad una serie televisiva che egli seguiva con passione da ragazzo , " Widows " ( Vedove ) incentrata su alcune mogli di gangster defunti che continuano le attività criminali dei mariti dimostrando non poca perizia nel nuovo e periglioso lavoro. Tema senza dubbio originale ma che non solleverebbe di per sè il film dal rango di un film- come si suol dire - di genere, quasi una sorta , a tratti, di " B-movie " come se ne facevano a dozzine negli anni '40-'50, se non fosse per la messa in scena, di cui poi diremo, e la presenza ancora una volta di quei temi ispiratori che fanno la singolarità e la forza del cinema di questo artista angloamericano. Anche qui siamo di fronte, come già, soprattutto, in " Hunger " e poi in  "Shame ", a personaggi che assomigliano a quelli di una tragedia greca. Guidati da un destino che non dà loro scampo, costretti ad assumere fino in fondo il loro ruolo, sino all'autodistruzione o comunque ad uno scioglimento " obbligato " della loro vicenda, morte od amara vittoria. Così non solo la protagonista ( interpretata dalla vincitrice di uno degli Oscar  dello scorso anno ed intenzionata con questo film a fare forse il bis , cioè  la bravissima afroamericana Viola Davis ) ma anche le sue due colleghe bianche e gli stessi " villain ", cioè i cattivi di turno : un padre ed un figlio , politicanti dai sordidi affari, adusi a sguazzare nella corruzione, incapaci di uscire dalla loro condizione e votati al sacrificio supremo ( due interpretazioni " minori " per durata nell'economia complessiva del film ma di grande spessore, ad opera rispettivamente del veterano Robert Duvall e del più giovane ma altrettanto abile Colin Farrell ). 

Raccontare la trama del film è fortemente sconsigliabile, visti i continui colpi di scena, la tensione drammatica che tiene desta l'attenzione dello spettatore proprio per seguire l'evoluzione di una vicenda forse poco verosimile ma di grande fascino estetico. I film di Mcqueen- e qui la sua felice frequentazione di altre arti visive e plastiche lo aiuta non poco - sono sempre " oggetti " molto belli da ammirare ed assaporare da parte dello spettatore con un piacere quasi sensuale. Non mi riferisco solo alla messa in scena vera e propria ( grandi movimenti di macchina, arditi movimenti di gru e folgoranti carrellate , volti ad imprimere un andamento sontuoso e " lirico " al dipanarsi del filo conduttore dell'opera e a preparare , in un certo senso, la sorpresa finale ). Ma alla capacità di McQueen di rendere con pochi tocchi, un'ambientazione perfetta, e la creazione di autentiche " forme " cinematografiche - non mere immagini illustrative- una situazione, uno stato d'animo, un desiderio, un rimpianto. Si pensi, a questo proposito, alla bellissima scena  d'amore tra Viola Davis ed il marito nella finzione cinematografica, l'intenso Liam Neeson, e poi al ricordo fisico che la protagonista ha, nella prima parte, del defunto : inquadrature cosi' belle , di un erotismo sottile e potente al tempo stesso, capaci di descriverci il carattere ma, in un certo senso, anche il " fato " che incombe sui due personaggi, non si vedono al cinema tutti i giorni. E poi, considerato che in questi giorni si celebrano le donne e si condannono tutte le violenze su di esse, diciamo anche che " Widows " è un'autentica, affettuosa, ode alla forza, alla pazienza e  all'intelligenza di tutto il genere femminile di fronte ( a volte ) alla crudeltà e alla stolta esaltazione di sè della " gens " maschile.

Se " Widows ", pur meritevole di essere visto, non è il capolavoro che avrebbe potuto essere il difetto sta forse in una sceneggiatura troppo ricca e sovrabbondante, non chiarissima in ogni snodo narrativo, un pò troppo indulgente  verso qualche " luogo comune"  dei film di gangster ( la violenza, il sadismo di alcuni personaggi marginali ) e , in definitiva, con qualche lungaggine che poteva essere evitata conferendo al film maggiore compattezza e rigore narrativo. Qualità invece , le ultime due, di un bellissimo ( questa volta sì ) film francese di cui vi ho già parlato quando fu presentato a Cannes la scorsa primavera : " En guerre "  ( "In guerra" , il titolo italiano ) di Stéphane Brizé ( andate a cercare la mia recensione , se vi va, nelle puntate di giugno della rubrichetta ). Teso, coerente in ogni fotogramma, la descrizione degli accesi dibattiti tra " management " di una multinazionale e la commissione interna di una fabbrica che deve essere chiusa nell' Ovest della Francia, avrebbe molto per essere considerato un film noioso per la sua trama così monocorde e " respingente " per una tranquilla serata al cinema. Ma il modo - anche qui - con cui il regista ha messo in scena una situazione dolorosamente drammatica ma di palpitante vitalità, la sceneggiatura perfetta e senza alcuna smagliatura, lo raccomandano ad una visione di tutti coloro che amano il cinema. Lo segnalo ancora una volta con convinzione perchè temo che stia per uscire di programmazione e sarebbe un peccato perderlo !




martedì 13 novembre 2018

" SENZA LASCIARE TRACCIA " di Debra Granik ( USA, 2018 )

Dapprincipio lo schermo è interamente occupato, in primo piano e in campo medio, da immagini di una natura rigogliosa e suggestiva (fogliame, fiori selvatici, insetti , farfalle, riflessi di luce tra gli alberi ad alto fusto di una foresta che scopriremo poi trovarsi nell' Oregon, nel Nord Ovest degli Stati Uniti d' America ). Una natura semi-selvaggia, apparentemente inviolata e certamente poco popolata giacchè, nel silenzio circostante, udiamo distintamente i suoi suoni, lo stormire delle fronde, i versi del variegato regno animale che la abita . Ma presto, nel paesaggio, identifichiamo anche  due figure umane che si muovono rapide e  circospette, come se si sentissero spiate o incalzate da un invisibile avversario. Un uomo sui quaranta- cinquanta, barbuto, dall'aspetto trasandato, ma agile e a suo agio sui sentieri e sulle balze sulle quali si inerpica cambiando spesso direzione, accompagnato o meglio seguito non senza qualche difficoltà da una ragazzina sui tredici-quattordici anni, anche lei, come l'uomo, in abbigliamento da escursionista, sacco in spalla, atteggiamento cauto . Si direbbero due gitanti che hanno smarrito il loro itinerario prefissato. Oppure, due persone in fuga, da chi o da che cosa non sappiamo. Ci rendiamo  conto che  i due non sono visitatori occasionali quando li vediamo raggiungere una sorta di campo-base che hanno eletto come domicilio almeno temporaneo, visto che vi consumano un pasto frugale a base di alimenti raccolti nella stessa foresta e vi riposano la notte, avvolti nei loro sacchi a pelo, uno accanto all'altra. Presto ci accorgiamo anche che la ragazzina chiama l'uomo " papà ", il che toglie  qualche dubbio sul loro rapporto ma non ci fa ancora avanzare nel capire perchè essi vivano nella foresta, vedremo poi  situata solo a poche miglia da Portland, andando in città solo per qualche obbligata incursione, come rifornirsi in un supermercato,  ma sempre muovendosi a piedi, transfughi probabilmente da una civiltà urbana e da un consorzio umano dal quale vivono ormai separati.

Quelle che ho appena descritto sono solo le scene iniziali del bellissimo film di una cineasta americana indipendente, appena al suo terzo lungometraggio ma già da considerarsi una voce fondamentale nel cinema di questi ultimi anni. Debra Granik è il suo nome e qualcuno  ne ricorderà, sette-otto anni fa, almeno il precedente film " Un gelido inverno " ( "Winter's bone")  ambientato egualmente nelle zone impervie e semispopolate di quella multiforme realtà che è costituita dagli USA. Questo  "Senza lasciare traccia " (titolo originale " Leave no trace " ) è stato presentato la scorsa primavera a Cannes nella prestigiosa " Quinzaine des Réalisateurs " , che è a volte migliore della stessa selezione ufficiale in cui sono  inclusi i film che concorrono ai premi principali. Perchè un film " bellissimo ", appellativo spesso abusato ma mai come qui pienamente meritato ? Se è vero che un'opera cinematografica deve avere alla base, per dirsi compiutamente riuscita, un progetto " forte ", fatto di una o più idee interessanti verso cui coerentemente indirizzare il proprio sviluppo narrativo ed essere capace, nel contempo, di tradurre tutto ciò in forme visive di plastica evidenza, in un armonioso, convincente susseguirsi di immagini altrettanto robuste e tali da emozionarci ( e qui da commuoverci fino alle lagrime ) ebbene questo piccolo-grande film si candida senz'altro a diventare un'opera memorabile, che ogni amante del cinema dovrebbe vedere e rivedere. Senza ombra di dubbio una delle migliori, se non la migliore, di questi primi due, tre mesi di stagione cinematografica in Italia. E vediamo , più da vicino, perchè.

Il primo tema su cui ruota l'intero asse del film, quello più evidente,ed anche quello che Granik ha saputo meglio introiettare nella dinamica del film, è la contrapposizione tra natura ed artificio ( ricomprendendo tra le costruzioni " artificiali " la più antica storicamente tra queste, cioè la città, intesa come tentativo di addomesticare- o forse stuprare ? - la dimensione naturale che circonda l'uomo, fatta  di aria, di terra , di acqua, di vegetali, degli stessi animali che con l'uomo armoniosamente ne condividono lo spazio ). Da un lato, dunque, civiltà primigenia ed intoccata, alla quale l'uomo tenderebbe a tornare per ritrovare la perduta felicità e, dall'altro,  civiltà urbana,  "civilisation ", che sorta per appagare nuovi bisogni, spesso crea timore, ansia, insicurezza. Sappiamo quanto questo tema sia caro  alla cultura americana,  in letteratura da Emerson a Thoreau, a Mark Twain, nel cinema dei nostri giorni da Terrence Malick a Jeff Nichols, ed abbia spesso ispirato coloro , come Granik , che lo sentono fortemente e lo considerano, giustamente, un materiale drammatico di notevole spessore. Ma in " Senza lasciare traccia " un secondo tema, in parte parallelo al primo ed in parte sviluppantesi per linee proprie, si impone poi  con tutta evidenza. Ed è quello del contrasto tra la vita associata, le istituzioni e le formazioni sociali, la società insomma, e l'individuo il quale, per sfuggire al malessere che sempre di più avverte e che ritiene gli venga inflitto dai gruppi sociali che tendono a comprimere sempre maggiormente i suoi spazi di libertà, anela a liberarsi da qualunque vincolo e a tornare addirittura all'originario stato di natura. Sentimento fortissimo, oggi in particolare oltre Oceano  a causa anche, come vediamo nel film , degli eccessi dei poteri pubblici e relativa , disumanizzante, burocratizzazione che rischia di togliere spontaneità alla più semplice manifestazione della vita associata. E per restituire alla società il senso , il valore aggiunto che essa pur indubbiamente ha per lo stesso individuo, Granik ci descrive con immagini forti e davvero commoventi il principale motore che dovrebbe presiedere ad ogni aggregazione degli esseri umani : la fiducia reciproca e l'empatia (ma forse a quest' ultimo vocabolo così " moderno " personalmente sostituirei, nell'accezione più lata, la parola " amore ", cristiano, religioso o laico che sia  ) che  , da sole, attenuano e compongono i conflitti ed inducono alla fruttuosa,  scambievole cooperazione. Terzo ed ultimo tema " forte " di questo magnifico film, quello della famiglia, dei rapporti di sangue. Tom, la ragazzina del film, e suo padre Will appaiono uniti da un complesso legame di amore, di senso di responsabilità ma anche di sottile reciproca dipendenza e , quindi, di potere, che evolverà lungo tutto il film fino al momento culminante in cui esso sarà fatalmente messo alla prova. E ancora una volta la sceneggiatrice e regista Granik saprà affrontare artisticamente questo delicato snodo con  la sapienza, la forza e  la delicatezza  che riconoscevamo con emozione nel grande cinema  americano di sessanta-settant'anni fa, da John Ford a Nicholas Ray per fermarci solo a due degli autori che di empatia ( o della sua mancanza ) hanno intessuto le loro storie ed il loro cinema.

Opera polifonica, che tocca come abbiamo visto più temi e poggia su più moduli narrativi, "Senza lasciare traccia " è tenuto insieme da una poderosa sceneggiatura che ci dice solo quanto basta per capire storia e personaggi senza appesantire il racconto di troppe, inutili informazioni sui rispettivi retroterra. Si vede qui il frutto e della tradizione del grande cinema USA e, in tempi più vicini a noi, delle scuole di cinema che insegnano a scrivere e a costruire il film a partire da una storia semplice e scorrevole in tutti i suoi meccanismi.Ma il vero " asso nella manica " di questo film è nella regia della stessa Granik. Pudica, discreta ed equilibrata nelle scene di maggiore impatto emotivo, la scelta delle immagini e la direzione degli attori è morbida e forte al tempo stesso, in carattere con un film che fa dell'" understatement ", dell'allusione e del " non detto " il suo non tanto paradossale punto di forza. Per suggerire una situazione, una dimensione psicologica o sociale, a Granik bastano pochi tocchi delicati , senza mai salire sopra le righe , anche nei momenti più coinvolgenti e commoventi. Stante la " cifra " espositiva della regista, occorrevano qui interpreti di grande caratura e di espressività particolarmente immediata.Sono felicemente riuniti nelle persone  di un attore poco noto e  di secondo piano , qui letteralmente ispirato , Ben Foster ( Will, il padre ) e di una autentica,assai lodevole sorpresa , la giovanissima esordiente  Thomasin McKenzie ( Tom , la figlia ). Fotografia , molto importante, degnamente sontuosa specie nei numerosi esterni e musica all'altezza della situazione. In poche parole, l' America cinematografica al suo meglio.                                                                                                                 







lunedì 5 novembre 2018

" LA DONNA DELLO SCRITTORE " di Christian Petzold ( Germania/ Francia, 2018 )

Quando si trae un film da  un romanzo o da una pièce teatrale, spostare la vicenda  in un'epoca diversa da quella dell'originale è sempre operazione discutibile. Cioè, che va discussa e  analizzata, caso per caso, al fine di giudicarne la " liceità " logica ed  artistica e valutare quindi se sia compatibile con il significato dell'opera da cui il film prende le mosse. Precisiamo subito un punto. Laddove l'opera originaria  costituisca poco più di una mera fonte di ispirazione per un film che si sviluppi poi in modo del tutto autonomo, situare la trama che ne è al centro in un contesto temporale differente è in fondo poco rilevante. Quante opere cinematografiche sono debitrici (magari senza nemmeno menzionarli ) di illustri o sconosciuti " canovacci ", classici o contemporanei, per  via di uno spunto di partenza o per un determinato personaggio o ancora per un semplice snodo narrativo. Non si finirebbe più di citarle. E li', a dire il vero, le modifiche e le libertà, anche temporali, che si sono prese soggettisti, sceneggiatori e registi  non ci turbano più di tanto.  Quando invece il film si vuole la più o meno fedele riduzione o illustrazione del proprio " precedente ", letterario o teatrale , mi pare che le cose cambino. La trasposizione temporale, il passaggio da un'epoca all'altra, deve trovare infatti una giustificazione " interna " al film stesso; deve non solo preservare il significato dell' originale da cui questo è tratto ma anche essere capace di conferire una nuova e più interessante prospettiva alla vicenda  che ne è al cuore. Mostrare " Amleto " in abiti moderni ( lo si è fatto spesso anche in teatro ) non deve essere, in buona sostanza, solo una simpatica trovata esterna per "togliere un pò di polvere ai classici", come teorizzato da alcuni scioccherelli. Deve farci capire, più in profondità, che il triste principe di Danimarca è realmente un nostro contemporaneo e che le passioni, i dubbi e i conflitti che si agitano alla corte di Elsinore  ci toccano ancora da vicino, come se si svolgessero oggi.

Questa premessa non mi pare inutile introducendo il bel film di Christian Petzold, " La donna dello scrittore ",da poco sui nostri schermi dopo aver riportato un certo successo di critica e di pubblico , la scorsa primavera , alla " Berlinale " , il Festival cinematografico che si tiene ogni anno nella capitale tedesca. E tedesco è il regista ( non più giovanissimo , Petzold è arrivato tardi al successo, in questi ultimi anni, con film quali " Barbara " e " Phoenix " che in Italia, peraltro, si sono visti poco ) come tedeschi ne sono gli interpreti e tedesco è il romanzo da cui è tratto, " Transit " di Anna Seghers, scritto nel 1942. Ambientato durante la seconda guerra mondiale, con le truppe del Terzo Reich che stavano occupando l'intera Francia e dando la caccia, aiutate dalla zelante polizia di Vichy, ad ebrei e dissidenti politici di tutte le nazionalità, è un'opera certamente politica ( l'autrice era una militante comunista e, dopo la guerra, andò volontariamente  a stabilirsi nella DDR ) ma  ha anche altri obiettivi, quale quello di indagare i meccanismi psicologici che entrano in gioco in persone , come i protagonisti,  che fuggono da sè stessi, dalle loro vite passate, prima ancora che dai loro persecutori. Sostituzioni di persona, finzioni di ogni sorta, nella vicenda si intrecciano con la realtà e con echi di vite vissute o semplicemente sognate : come in un complicato gioco di scatole cinesi in cui, aprendone una, si entra in un'altra vicenda ma senza mai lasciare quella precedente. Un puzzle, insomma, di cui (complice una sceneggiatura a tratti non perfetta ) non è semplicissimo venire a capo ma di costante suggestione stilistica grazie ad una regia salda ancorchè apprezzabilmente discreta e ad una interpretazione di prim'ordine. E qui mi ricollego, chiarendone il motivo, a quanto osservavo prima sui film che, tratti da un'opera letteraria, modificano l'epoca in cui si svolge la vicenda. Petzold e i suoi sceneggiatori hanno deciso infatti di trasferire ai giorni nostri questa storia di aspiranti transfughi in un' Europa sconvolta dalla guerra . Sono rimasti come nel romanzo ( evocati nei dialoghi , anche se non si vedono mai ) i nazisti ; e ben presente, anzi visibile, permane la caccia agli " indesiderati " ( ebrei e  sovversivi, come ieri,e in più, oggi, migranti clandestini ). Ma l'ambientazione- all'inizio siamo a Parigi e poi l'azione si sposta a Marsiglia - è assolutamente attuale, con edifici, interni di alberghi ed abitazioni, uffici, a noi del tutto familiari, automobili odierne, abbigliamento dei personaggi in linea con le moderne fogge di vestiario. Questo, lungi dall'apparire arbitrario, o un tradimento dello spirito del romanzo, rende ancora più interessante ed angosciosa la vicenda, dilatandone la portata. Persone in fuga, che cercano disperatamente di emigrare verso paesi ritenuti più sicuri ( nel romanzo e nel film il Messico , dove effettivamente la Seghers si rifugiò durante la guerra ) ce ne sono sempre state nella Storia. Nella nostra apparentemente tranquilla Europa, mostrarci persone, nostri concittadini o comunque esseri umani, perseguitati ed inseguiti dalla brutalità di un potere che non ammette dissenso ci manda un sottile brivido nella schiena, ci induce a pensare che ciò che è successo una volta non è detto che non torni purtroppo a manifestarsi.Trasportando la vicenda del romanzo nell'epoca attuale, Petzold ci ha risparmiato l'ennesimo, scontatissimo film " retro " sulle violenze naziste e ci ha offerto invece un inquietante apologo, adatto ad ogni epoca, sulla repressione istituzionale che, all'improvviso, può spietatamente colpirci.

Dicevamo della regia di Petzold, che supplisce anche ad una sceneggiatura un pò contorta (va bene che la storia è complicata, ma  il " trattamento " dovrebbe servire a renderla più intellegibile, o sbaglio ? ). Curioso ma non nuovo questo fenomeno. Ottimi registi che vogliono scriversi le sceneggiature da sè anche quando, palesemente, non  possediono tutte le capacità che ci vogliono: ricordarsi di maestri quali Hitchcock o Wilder che pur avendo un passato da sceneggiatori ricorrevano spesso ad un esperto del mestiere per le  storie dei loro film. Se Petzold è uno sceneggiatore claudicante ( l'inizio de " La donna dello scrittore " è quanto mai confuso e la vicenda stenta a decollare ) è peraltro davvero un ottimo regista. Certe atmosfere, certi stati d'animo che si penserebbe siano più facili da stendere sulla carta che da incorporare nelle fugaci ombre che passano sullo schermo ( l'attesa senza evidenti prospettive  di uno dei personaggi in un piccolo caffè, la sensazione di minaccia o di incertezza che grava su alcune sequenze ) sono resi con tocchi sapienti, mano ferma e tratto equilibrato. Si sente un'origine teatrale o quanto meno una dimestichezza  con il palcoscenico che consente al regista di creare, nel film, momenti di sospensione drammatica che gli  conferiscono, a tratti, una non banale dimensione  irrealistica, capace di riscattare quel lato inevitabilmente didascalico insito in tanto cinema ( e teatro ) politico. Aiuta non poco a stabilire questo clima di vago irrealismo ( che non sottrae peraltro alla vicenda nessuno  dei significati civili o psicologici cui essa si presta ) l'uso della voce narrante fuori campo. Un espediente spesso irritante cui fanno talvolta ricorso sceneggiatori e registi a corto di soluzioni " visive " per determinate situazioni e che si limitano ad  enunciare  oralmente e dall'esterno ciò che ci saremmo attesi fosse da essi espresso interamente in immagini e dialoghi diretti. Ma che qui , invece, mi pare un fortunato "congegno " capace di  distanziare la vicenda, accentuandone ulteriormente la dimensione di  apologo ed imprimendole quasi sfumature oniriche.
Accennavamo alla recitazione, che in un film del genere acquista grande importanza e rischierebbe, ove non all'altezza, di sciupare l'impresa irrimediabilmente. Il protagonista maschile, già collaboratore di Petzold in precedenti progetti, Ferenc Ragowski, conferisce al suo personaggio, solo con l'espressività del volto e la misura dei gesti, il mistero, la fragilità e la forza di un eterno fuggiasco. La " donna dello scrittore " , il principale personaggio femminile, è interpretato benissimo da Paula Beer, già ammirata un paio d'anni or sono in "Frantz " di Ozon. Ecco una giovanissima attrice ( 23 anni ) che è già uno dei punti fermi del cinema europeo, capace di passare dal registro romantico-elegiaco a quello fortemente drammatico senza perdere nulla della sua duttilità ed intelligenza espressiva.
Un'ultima osservazione. Il titolo del film è nell'originale, quello del libro : " Transit " ("transito", il semplice passaggio attraverso una frontiera di persone e cose che debbono proseguire  verso una ulteriore valico di confine ) ed è un bel titolo perchè sta anche a significare la condizione " transeunte " che è propria dell'umanità ). Quello italiano non poteva essere lo stesso perchè , pochi anni fa, sembra sia stato proiettato da noi altro film straniero con identico titolo. Ecco quindi, ancora una volta, il ricorso all'inventiva dei  nostri amati distributori ( questa volta davvero a corto di fantasia ) senza nemmeno sui manifesti e  negli altri annunci pubblicitari, tra parentesi, magari piccolo piccolo, il titolo originario che i meno distratti avrebbero potuto ricollegare al bel film proiettato al Festival di Berlino e di cui avevano parlato bene anche i giornali italiani : per un nuovo capitoletto del trattatello " Come farsi del male da soli ", ispirato con tutta evidenza alla crescente latitanza del pubblico dalle sale cinematografiche italiane, anche quello, voglio dire, meglio disposto a vedere film di qualità se solo gli venissero annunciati e presentati in maniera decente...


sabato 27 ottobre 2018

" GIRL " di Lukas Dhont ( Belgio, 2018 )

Lara è un'adolescente di quindici anni che vive in Belgio ed ha due desideri : imparare a danzare sulle punte come le ballerine classiche, e diventare femmina. Già, perchè Lara in realtà, all'anagrafe,  si chiama Victor ed è, per il momento, un maschio a tutti gli effetti. Ma osservandolo non si direbbe proprio, tanto questi si configura esternamente come una giovane donna : lunghi e fluenti capelli biondi,  volto e corpo perfettamente glabro, abbigliamento come quello delle sue (vere) compagne di classe. Insomma, lo si prenderebbe tranquillamente per una ragazza  se non ci  fosse  quel particolare anatomico a ricordare impietosamente la sua condizione di " transgender " che ha appena iniziato un lungo e difficile percorso terapeutico  a base di ormoni femminili al termine del quale ci sarà la tanto sospirata operazione che gli farà finalmente cambiare sesso. Ecco, in estrema sintesi, come potrebbe essere raccontato questo primo lungometraggio di un giovane sceneggiatore  e regista belga, Lukas Dhont, presentato quest'anno con grande successo di critica e di pubblico al Festival di Cannes e vincitore della " Caméra d'or " , il massimo riconoscimento della sezione " Un certain régard"  nella quale concorreva. Ma sbaglierebbe chi pensasse, visto l'argomento, ad un film sensazionalistico, volto in fondo a sfruttare un tema di cui si incomincia a parlare e che può indurre più a pensieri pruriginosi o ridicolizzanti che ad uno sforzo di immedesimarsi senza preconcetti in una realtà così delicata e complessa. Ambientato a Gand (dove esiste la più grande ed affidabile clinica europea specializzata nei cambiamenti di sesso ) il film è di un rigore quasi documentaristico nel descrivere la difficile situazione di Lara (chiamiamola ormai così) e di un estremo pudore, fin dove l'esigenza drammatica lo consente, nel tratteggiarne gli aspetti psicologici e comportamentali. Un film " serio " , quindi, che evita con successo molti prevedibili tranelli nei quali avrebbe potuto andare a parare. Un film che cattura con intelligenza la nostra attenzione e che, personalmente, mi ha emozionato e commosso.

Contrariamente a quello che sarebbe stato lecito attendersi - pensiamo a più di un film , per analogia di situazioni, che abbia descritto la ricerca in età giovanile di una controversa identità sessuale -  " Girl " non ci mostra  la nostra protagonista in contrasto con la famiglia e l'ambiente circostanrte. Il padre, forse divorziato visto che non vediamo mai una madre,  non osteggia il progetto di cambiamento di sesso anzi lo sostiene, avendo accolto pienamente la vera ed insopprimibile natura di Lara. Ha accettato, per venire a stabilirsi a Gand dove  questa può seguire il trattamento medico più idoneo e studiare nel frattempo danza classica, di trasferirsi dal luogo dove la famiglia risiedeva in precedenza  (con loro  c'è anche un fratellino minore ) e di rifarsi con fatica un'esistenza personale e  professionale. La sua preoccupazione è solo quella che Lara trovi la forza e la pazienza di attendere il momento in cui potrà sostenere l'operazione sopportando nel frattempo l'ibrida, scomodissima fase di passaggio ad una piena condizione femminile. Anche l'ambiente scolastico - che ci appare perfettamente a conoscenza della situazione - non si dimostra predisposto negativamente od ostile nella realtà di tutti i giorni ( Lara condivide lo spogliatoio delle ragazze ) salvo qualche piccola, inevitabile curiosità di alcune compagne di classe. I medici poi che la hanno in cura sono gentili, solleciti, le danno spiegazioni esaurienti e tranquillizzanti. Ma le cose non sono così semplici, nè potrebbero esserlo.

Il vero nucleo drammatico del film , quello che fa la sua forza e a sua bellezza, sta infatti nella lotta , sorda , accanita, implacabile, che Lara conduce contro il suo corpo, dunque contro sè stessa. O meglio, quel corpo e quella essenza maschile che essa sente, quasi con rancore,  come estranei ormai alla sua autentica vocazione identitaria. Di qui il continuo scrutarsi nello specchio alla ricerca anche di quelle minime trasformazioni cui la cura ormonale dovrebbe  dar luogo. La meticolosità con cui Lara compie la sua complessa vestizione mattutina, volta a nascondere il più piccolo indizio di una condizione fisica diversa da quella di cui si sente ora partecipe. Il disappunto nel constatare che le cose non vanno così in fretta come vorrebbe, mentre le urgenze puberali ed i primi innamoramenti mettono alla prova la sua ancora imperfetta geografia amorosa. Anche la dura, inflessibile disciplina fisica cui Lara si assoggetta per imparare a danzare sulle punte ( con piedi evidentemente non adatti ad un tale " barbaro " esercizio ) sta a significare la sua indefettibile volontà di aver ragione ad ogni costo  degli ostacoli che si frappongono ai disegni che essa persegue. Esercizio di complicato dominio dei propri muscoli e dei propri tendini, continuo controllo del proprio equilibrio e del proprio slancio in uno spazio predelimitato, la danza cui si dedica con passione, ma anche con il  dolore fisico che prelude ad un possibile fallimento, rappresenta plasticamente la ricerca, il costante anelito evidenziati nel suo faticoso itinerario. Traiettoria verso ciò che è visto come una liberazione, un traguardo finale, una porta  tentatrice che può spalancarsi su di una vita diversa, ma anche tanto sconosciuta e non priva di insidie. In questo senso Lara, come tutti i personaggi della creazione artistica, simboleggia in sostanza un sentimento universale : l'aspirazione alla felicità che , nella condizione umana, non può disgiungersi dalla consapevolezza delle difficoltà che vi si frappongono e dal timore di non essere in grado di farvi fronte fino in fondo. Ineluttabile conflitto, questo, tra la nostra forza di volontà ed il senso di sconforto che spesso ci assale e ci riconduce prepotentemente alla miseria della nostra fragile condizione esistenziale. 

Ma tutto ciò che ho detto, lungi dal risultare sullo schermo astratto od artificioso  come potrebbe anche succedere, trova qui una forma cinematografica ( quindi concreta,fatta di carne e di sangue ) di assoluta coerenza ed una resa estetica di grande bellezza. Merito certamente dello sceneggiatore - regista Dhont ( il quale , per rendere ancora più veritieri certi stati d'animo della sua creatura, non ha esitato, nella scrittura, a farsi aiutare da un'autentica " transgender " ) e della sua abilità ellittica, della discrezione che non va mai a discapito, peraltro, della chiarezza espositiva. Guardate come ogni sequenza, nel film,  si arresta dove non è più necessario proseguire perchè tutto è appena stato detto ed ogni insistenza suonerebbe falsa ed inutile. Non conosco molti altri giovani registi che abbiano questo senso della misura accoppiato al vigore espressivo che nel cinema è egualmente indispensabile. Raccontare per immagini, cioè l'essenza del linguaggio cinematografico, è la forza stessa di un film come " Girl ", dove anche il dialogo e quel continuo pendolo sonoro tra il francese di Lara e dei suoi familiari ed il fiammingo dell'ambiente circostante hanno pure, si badi, un fascino ed una valenza tutt'altro che trascurabili. Se Lara ci sembra di averla sempre conosciuta e l'affettuosa  partecipazione con cui seguiamo la sua vicenda cresce man mano con il progredire del suo dramma personale, molto è egualmente dovuto alla mirabile interpretazione del protagonista, un giovane quindicenne belga che studia ( anche lui ! )  come ballerino e che si è calato nel personaggio con l' " aplomb " di un veterano. Victor Polster, questo è il suo nome, recita benissimo, rende credibile e terribilmente vicino a noi un personaggio " scomodo ", con le cui motivazioni , stati d'animo e comportamenti non è sempre facile cioè andare d'accordo.
Un gran bel film , dunque, che lascia bene sperare per un rinnovamento del cinema europeo, a corto negli ultimi tempi di " monstres sacrés " capaci di attirare nelle sale il grande pubblico, ma  ben fornito per fortuna di tanti giovani di talento  in grado di farci dire che la settima arte è ancora viva e non se la passa poi tanto male.




venerdì 12 ottobre 2018

" SULLA MIA PELLE " di Alessio Cremonini ( Italia, 2018 )

Quando una persona viene posta in stato di detenzione, colpevole o innocente che sia, deve poterne uscire nelle condizioni fisiche in cui vi è entrata. Se non sempre è  così (e le alcune centinaia di morti o di lesioni gravi  nelle carceri o nella camere di sicurezza italiane stanno a testimoniarlo ) è un fatto molto serio, che richiede ogni volta di essere indagato a fondo. Durante la custodia delle persone, di breve o di  lunga durata, consentita o imposta dalle nostre leggi, continuano a sussistere infatti il diritto all'integrità fisica e, aggiungerei, il diritto al rispetto, anche da parte dei propri custodi, che è uno dei valori fondanti di uno stato che ambisca a definirsi civile ed osservante dei diritti umani. Anzi, proprio il trattamento riservato agli arrestati e ai detenuti, non solo sulla carta ma nella realtà pratica, dovrebbe essere uno dei tratti distintivi di un autentico stato di diritto rispetto ai regimi che si basano sull'arbitrio e sul disprezzo dei diritti degli individui.
Sono le prime, spontanee riflessioni che sorgono a caldo, insieme ad una grande pena per una giovane vita stroncata dalla malvagità e dall'incuria da chi aveva il dovere di proteggerla, dopo la visione del film " Sulla mia pelle ", presentato alla fine di agosto alla "Mostra" di Venezia, ora in programmazione nelle sale e visibile anche,apprendo e riferisco,  sulla piattaforma di "Netflix" che lo ha prodotto. Dirò subito che il film, ancorchè chiaro ed esauriente  nel ricostruire il caso di Stefano Cucchi , il giovane geometra romano deceduto mentre era in custodia cautelare - siamo nell'ottobre del 2009 - in attesa di essere processato per spaccio e detenzione di droga, va ben al di là del semplice fatto di cronaca. Esso tocca in realtà aspetti molto delicati e sensibili, praticamente universali, del rapporto tra dominanti e dominati , autorità e cittadino, in cui al legittimo esercizio di un potere si uniscono talvolta  evidenti istinti di sopraffazione quando non vere e proprie pulsioni di distruzione e di morte. E non si pensi , alzando le spalle , che tanto a noi, cittadini onesti e rispettosi delle leggi, questo non potrà mai capitare. I terribili casi di errori giudiziari ( si pensi ad Enzo Tortora ) o i semplici episodi di fermi, arbitrari o non come nella vicenda  del povero Cucchi, da parte delle forze dell'ordine sono lì a ricordarci che tutti possiamo un giorno incappare in una brutta avventura. Questa volta è toccato a me , " sulla mia pelle ", sembra ricordarci il protagonista di questa tragedia. Ma è anche sulla "tua", caro lettore, anzi sulla "nostra" pelle che tutto quanto accade nella vita di ogni giorno, e viene oggi mostrato sullo schermo, profondamente incide. Anche se non ne siamo direttamente colpiti, ogni ingiustizia , ogni lesione del patto di civile convivenza sottoscritto tra i cittadini, turba il quadro sociale e giuridico nel quale si svolge la nostra esistenza. E' una ferita che si unisce alle altre . Non può, in definitiva, lasciarci indifferenti. 

Il film, prendendo le mosse dalla morte di Cucchi, ripercorre quella terribile settimana intercorsa tra l'inizio della sua sfortunatissima vicenda ed il decesso in carcere. Assistiamo così a quanto occorso quella sera di inizio autunno quando il giovane,con qualche piccolo precedente penale alle spalle e un passaggio in una comunità terapeutica, fu fermato per un controllo dai carabinieri che lo sospettavano di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti ed entrò,  apparentemente sano, in una  camera di sicurezza di una stazione dell' Arma. Ne uscì, come vediamo sullo schermo, la mattina dopo in evidente stato di sofferenza fisica, il volto vistosamente tumefatto e fortissimi dolori alla schiena. Condotto in tribunale a Piazzale Clodio , il suo arresto fu convalidato frettolosamente senza che giudice e pubblico ministero facessero mostra di stupirsi delle sue infermità  e ritenessero di promuovere un'inchiesta volta a rinvenirne la cagione. Tradotto quindi a Regina Coeli in attesa di un processo che si sarebbe celebrato di lì ad un mese, venne  trasferito in infermeria quando le sue condizioni si aggravarono in conseguenza delle numerose fratture e dei danni renali riportati in quello che avrebbe dovuto apparire subito come un brutale pestaggio. Senza che i familiari, impediti dalle lungaggini burocratiche, ottenessero il permesso di fargli visita, Cucchi morì all' Ospedale Pertini dopo una terribile agonia. Diventata un caso nazionale grazie anche all'ostinata battaglia legale e mediatica condotta dalla sorella maggiore Ilaria, la vicenda  ebbe alterni  seguiti giudiziari. Leggo ora che  proprio in questi giorni, in appello, uno dei tre carabinieri rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale, avrebbe ammesso, dopo nove anni,  le proprie responsabilità ed accusato gli altri due di aver preso parte alla  gratuita e violentissima  "punizione ". Deciderà la magistratura , nella speranza che anche questo non resti uno di quegli episodi opachi di cui, da troppo tempo,  è costellata la storia del nostro paese.

Il grande merito del film, ciò che lo distingue meritoriamente da tanto cinema "militante " in voga negli anni '70 dello scorso secolo, è di non sposare alcuna pregiudiziale visceralmente antitetica alle forze dell'ordine. Con onestà Cremonini, autore egualmente della sceneggiatura, ci mostra anche  dei carabinieri, delle guardie di pubblica sicurezza, degli agenti di polizia penitenziaria non necessariamente inclini al sopruso, anzi sostanzialmente  corretti, che intuiscono il dramma di Cucchi e vorrebbero magari intervenire. Se non vanno fino in fondo è per possibile timore dei loro colleghi, a volte per quieto vivere,quando non per malintesa solidarietà tra " tutori dell'ordine " istituzionalmente contrapposti ai " coatti ", avversi per definizione a  tutti coloro, buoni e cattivi, che incorrano nei rigori della legge. Ciò che sorprende positivamente è ancora, nel film,  l' obiettività nell' esporre i fatti, ricostruiti attraverso i verbali di polizia, quelli del processo di primo grado, le inchieste giornalistiche.  Non solo cioè attraverso le testimonianze di parte dei familiari di Cucchi, che peraltro si intuisce  sia gran brava gente, onesta, quasi stordita dalla tragedia che gli è caduta di colpo sulla testa. Non viene nascosto così che Cucchi stesso aveva trascorsi come consumatore di droghe pesanti, come del resto la circostanza che successive perquisizioni nella casa di sua proprietà rinvennero poi ingenti quantità di stupefacenti ivi stoccate (suffragando l'iniziale ipotesi poliziesca che egli potesse essere anche uno spacciatore ).Ammirevole, va ricordato infine tra i pregi di " Sulla mia pelle ", l'equilibrio, la sobrietà, diremmo quasi l'autocontrollo con cui viene ripercorsa la " via crucis " del giovane geometra romano, dalla serata del suo arresto fino alle ultime ore di vita. Nessun tono sopra le righe , alcun intento declamatorio  ( bastano le immagini, seppur pudiche, a raccontare l'atrocità alla quale stiamo assistendo ) mai la violenza viene mostrata nella sua dinamica , anche per rispetto ad una verità processuale ancora tutta da scrivere. Moderazione, sobrietà, oggettività, non vogliono però dire  "neutralità ". Cremonini sa bene come i detenuti ed i loro sostenitori non abbiano voce , soffocati come sono da un apparato ben più potente ed insidioso. Ed il film giustamente ci indigna per questa disparità ed i troppi sospetti che gravano su  taluni rappresentanti delle forze dell'ordine, ma che peraltro non riescono quasi mai a tradursi in indagini puntuali e soprattutto tempestive. Forze dell'ordine che rimangono in massima parte sane ma in cui è difficile individuare con sicurezza le mele marce. 

Non sono programmaticamente laudativo del cinema italiano di questi ultimi anni. Troppi cascami di un malinteso " realismo " semidocumentaristico ( le varie " suburre " e  " romanzi criminali " campano-laziali, una  sorta di arcadia dell'emarginazione ben lontana dalla corrusca, sincera poesia di Pasolini). Troppi ritagli di " commedie all' italiana " privi dei "tempi"  comici dettati dai magistrali sceneggiatori di una volta e scarnificati ormai dall'assenza di un' autentica capacità di indignazione. Ho esitato prima di andare a vedere questo " Sulla mia pelle ", temendo di incorrere in una nuova delusione. Tutt'altro, posso dire ora con soddisfazione. Si tratta di un film bellissimo che spero avrà quei riconoscimenti, anche internazionali , che assolutamente merita. Un film che fa onore alla nostra cinematografia  rivelandoci un regista non più giovanissimo, appena alla sua seconda prova nel lungometraggio e che già attendiamo con impazienza per un'ulteriore conferma. Guardate come sono scarne ma efficaci le sue inquadrature nel restituirci una Roma, specie notturna, di sorprendente verità negli scorci dei quartieri semiperiferici, così come nel rendere gli interni, siano essi di una abitazione di piccola borghesia oppure di un carcere o di una caserma di carabinieri, veritieri ed emblematici allo stesso tempo. Un vero film realistico , che parte da un frammento di cronaca per aprirsi ad uno sguardo più ampio e doloroso sull'intera condizione umana. Vorrei sottolineare ancora un particolare, prima di terminare . La recitazione è, cosa non più comune nel nostro cinema,  degna di ogni lode, mai troppo colorita eppure del tutto credibile. Due gli  interpreti che mette conto di ricordare, scusandomi con i comprimari egualmente bravissimi  che non cito. Il primo è Alessandro Borghese, uno Stefano Cucchi di eccezionale aderenza al personaggio, con il suo perfetto dominio nell'uso del " romanetto ", cioè l'eloquio neo-romanesco così lontano da quello classico di Belli e di Trilussa.  La seconda è Jasmine Trinca, sempre bella ma assai maturata dai tempi di " Manuale d' amore ", la quale rende magnificamente, nei pochi minuti a disposizione, la forza morale e la dignità della sorella Ilaria . Sono uscito dal cinema ( il nuovo " Cinemino ", già grande qui a Milano ) indignato per ciò che mi è stato mostrato ma anche convinto che , da noi, ci sono ancora tante persone per bene. Ed è una sensazione, credetemi, che dà tanta speranza. 

martedì 2 ottobre 2018

Quattro film da Venezia

Mentre la stagione cinematografica stenta ancora a decollare ( avrete visto, spero, almeno il bellissimo " Un affare di famiglia ", vincitore quest'anno a Cannes della Palma d'oro ) vorrei darvi conto degli altri quattro film che ho potuto  personalmente valutare tra quelli arrivati a Milano, grazie alla  rassegna " Le vie del cinema  " , direttamente dalla " Mostra " di Venezia, senza cioè essere stati ancora immessi nel circuito commerciale. Prevedo comunque che tutti e quattro, anche se non ne conosco le date, arriveranno presto da noi. Dico questo per tranquillizzarvi e per non darvi l'impressione di ...perdere il vostro tempo leggendo recensioni di film che tanto non potrete mai vedere ! 
Il primo - lo dico subito per farvelo memorizzare fin d'ora - è un' autentica gemma che ci arriva dalla Cina, terra prodiga da almeno trent'anni a questa parte di grandi registi e di opere di grande interesse anche per chi , come me, conosce poco della cultura orientale. Si tratta dell'ultimo film di Zhang Yimou, uno dei migliori e stilisticamente originali autori che in questo periodo si sono divisi tra Pechino ed Hong Kong, cioè  i due poli cinematografici  della Cina continentale ( ci sono poi grandi registi a Taiwan che egualmente tengono alta la reputazione del cinema cinese  ). Zhang  Yimou aveva già vinto il Leone d'oro a Venezia nel 1999 con il commovente " Non uno di meno " ed è l'autore del celebre " Lanterne rosse " nonchè dell'intenso " Lettere di uno sconosciuto ", visto tre anni or sono, che precede proprio questo " L'ombra ", proiettato adesso a Venezia. Non so se sia  solo una mia congettura ma il penultimo film del regista ( " Lettere... " , appena citato ) con la sua vicenda  ambientata negli anni della " rivoluzione culturale "  e perciò delicatissima, non deve essere troppo piaciuto negli ambienti ufficiali e quindi questa volta egli ha preferito  collocare  la storia al centro de " L'ombra " in un'epoca imprecisata , a metà tra un medioevo molto stilizzato e un mondo favolistico atemporale,  consono alla cultura tradizionale del suo Paese.
La distanziazione operata da Zhang Yimou rispetto alla contemporaneità non toglie tuttavia che il film possa essere letto ancora una volta come un apologo sul potere totalitario e sulle basi su cui questo poggia: la violenza, l'inganno e la sopraffazione. Ma c'è molto altro in un film che pur durando due ore non annoia neanche un minuto, anzi sorprende continuamente in un caleidoscopio di immagini folgoranti, ora cruente, ora sensuali, ora piene di corrusca bellezza. Impossibile riassumere la trama di un film che è senza dubbio, a tratti, fin troppo " carico " e ricco di spunti figurativi suscettibili di dar vita ad almeno altre tre opere ma che riesce a mantenere, senza pericolosi cedimenti all'elemento puramente decorativo, una superba tensione interna fino allo scioglimento finale. Merito della regia, stilisticamente perfetta, sapiente ma fresca al tempo stesso. Un gran bel film , insomma, da non " sciupare ", voglio augurarmi, con un doppiaggio italiano che altererebbe il suono genuino e la musicalità del dialogo originale.

Tutt'altro discorso invece per un film che  era egualmente molto atteso e che a Venezia aveva pur avuto i suoi estimatori. Parlo di " Les estivants " ( I villeggianti ) della franco-italiana ( o piuttosto italo-francese ) Valeria Bruni Tedeschi. Sì, la sorella maggiore di Carlà, già in Sarkozy, da tempo attrice di successo in Francia, dove vive da quando era adolescente,e saltuariamente anche in Italia ( " La balia " di Marco Bellocchio, " La pazza gioia " di Paolo Virzì ).  Transitata dietro la macchina da presa (aspirazione di ogni interprete moderatamente ambizioso ) ha girato due o tre  film di discreta fattura prima di questo, scrivendoli personalmente o aiutata, come in questo caso, dall'amica Noémie Lvoskj, anch'essa attrice, sceneggiatrice e regista. Detto che Valeria ( chiamiamola così ) è senza dubbio un esempio di intelligenza e di sensibilità, qualità messe più volte alla prova come attrice, occorrerà peraltro rilevare che le mancano la modestia ed il senso della misura che si addicono ad un regista ( quasi ) esordiente. Questo "Les estivants " , infatti, largamente e scopertamente autobiografico, sarebbe risultato sicuramente migliore tra qualche anno e soprattutto dopo qualche altro film di un maggiore spessore. Voglio dire che  Fellini girò " Otto e mezzo " ( allora , come oggi nel film di Valeria , una " messa a nudo " di un regista che si interroga su sè stesso e sulla propria arte ) dopo " La strada " e " La Dolce vita ". Anche Woody Allen, per venire un pò più vicino ai nostri tempi, fece " Stardust memories "  (film di riflessione sul cinema e sulle sensazioni e i ricordi che questo può evocare in chi ne fa la propria professione ) dopo " Annie Hall " e " Manhattan ", cioè due delle sue cose migliori. Valeria , invece, di strada ne deve fare ancora tanta e incominciare ora a raccontarsi e a meditare sul proprio cammino artistico ed esistenziale, anche se a 54 anni non è più una ragazzina, appare un tantino presuntuoso ed intempestivo. Tenuto conto, soprattutto, del fatto che le sue sensazioni, in definitiva il suo " privato ", rimane desolantemente tale per tre quarti del film, senza mai assurgere  ad un significato che arrivi ad abbracciare non solo la sua esistenza ma, contemporaneamente, quella di chi la sta guardando ed ascoltando.Sembrano solo fatti suoi, si direbbe, che suscitano un blando interesse per le troppe allusioni alla sua vita personale di donna e di cineasta e , quel che più grave, non inducono quasi mai ad una immedesimazione o almeno un'empatia da parte dello spettatore. Peccato per lo sfoggio di attori impiegati in questo film ( da Pierre Arditi, peraltro terribilmente invecchiato e imbolsito, a Valeria Golino, qui goffa, imbruttita , l'ombra della bella e brava attrice che sappiamo, dalla stessa Noémie Lvoskj, sconciamente ingrassata, a Riccardo Scamarcio mai così afono ed insulso ). Tutti strumenti, in questa " sonata da camera " ambientata sulla Costa Azzurra, che non riescono ad accordarsi tra di loro e a produrre una musica armoniosa e gradevole.  E peccato , anche, per le qualità e la simpatia del "personaggio " Bruni Tedeschi che Valeria ( sempre lei ... ) dovrebbe, come regista, porre saggiamente al servizio di qualche progetto più consistente ed articolato. Rimandata, quindi, alla prossima occasione.

Grandissima curiosità ed attesa vi era poi, a Milano come a Venezia, per una autentica chicca per cinefili incalliti. Parlo di " The other side of the wind " ( L'altro lato del vento ), l'ultimo film girato - ma rimasto incompiuto - da Orson Welles e mai montato e mostrato in pubblico sino ad oggi. Di esso si avevano  scarse notizie e solo la pazienza di alcuni  appassionati  ha permesso di recuperarlo dove giaceva dimenticato e di consentire, tra il tanto materiale girato da Welles  a partire dall'agosto del 1970, di tirarne  fuori una versione  abbastanza coerente anche se non sappiamo quanto fedele allo spirito con cui egli si era accinto all'impresa. Di fatto il film risulta un documento di un certo interesse sull'evoluzione che avrebbe probabilmente avuto il cinema di Welles se, dopo " Falstaff " ( che è del 1966 ) questi fosse riuscito a portare a termine almeno uno dei tanti progetti cui si dedicò in seguito, sino alla sua scomparsa. Ma è da chiedersi se, a parte i cinefili di cui si è detto e gli studiosi di Welles in particolare, il film possa realmente piacere ad un pubblico più vasto ed avere così una decorosa carriera commerciale. La risposta è probabilmente negativa ed è , a mio avviso, una ulteriore prova di quanto ho sempre sostenuto. Il cinema, a differenza delle arti figurative e della letteratura - dove l'abbozzo, il tentativo non portato a termine, la prima versione, può avere la stessa dignità estetica di un'opera compiuta e definitiva -  necessita di " prodotti " ( non è una brutta parola, tutt'altro ) che possiedano il crisma, anche solo apparente, della finitezza. Abbiano cioè un inizio e una conclusione  e siano tali, indipendentemente dal loro valore artistico, da essere mostrati con qualche speranza di successo economico ad un pubblico di media intelligenza che voglia trascorrere un paio d'ore a gustarne la vicenda, lo stile  ed il significato. Piegare il cinema ad essere altra cosa da quella per cui è stato concepito mi sembra esercizio temerario e privo di reale godimento. Così, questo " The other side of the wind ", storia in bianco e nero del  "tournage"  e successiva proiezione per un pubblico di hollywoodiani " addetti ai lavori " di un film a colori  che in realtà risulta appena abbozzato e che, anche nella finzione, nessuno vedrà per il semplice motivo che non è mai stato terminato, può piacere ed interessare solo a tratti e per motivi che non coincidono necessariamente con le intenzioni dell'autore ( che del resto non sono esplicite ). Piace comunque, come testimonianza dell'epoca, la descrizione quasi documentaria del variopinto mondo dei cineasti che ruotano intorno al film  ( dal regista John Huston che impersona Welles, al regista e critico Peter Bogdanovich che fa l'assistente- segretario di quest'ultimo, ad altri personaggi del cinema di Hollywood più o meno celebri ). Piace e sorprende favorevolmente soprattutto il materiale a colori di cui è fatto lo spezzone di film mostrato ai cineasti , dove le geniali inquadrature, il continuo giocare a rimpiattino tra verità e illusione e la splendida apparizione "nature " di Oja Kadar, l'ultima compagna di Welles, fanno immaginare con rimpianto un tutt'altro film qualora Welles fosse riuscito a girarlo veramente nella sua interezza. In sintesi, giusto mostrarlo in una " Mostra di arte cinematografica " quale si autodefinisce Venezia. Ma quanto a vederlo  proiettato ed apprezzato nelle sale, nutro qualche  dubbio.

Infine, una menzione , con speranza di tornarvi più diffusamente quando - è certo- arriverà nelle sale italiane, al bel film di Julian Schnabel sugli ultimi mesi di vita di Van Gogh, " At the etenity's gate " ( Alle porte dell'eternità ) che ha chiuso la rassegna milanese. Di film sul grande pittore olandese, padre con Matisse della pittura contemporanea,ce ne sono almeno altri tre ( uno con Kirk Douglas, " Brama di vivere ", girato da Minnelli negli anni '50, uno di Altman del 1990 ed uno di Maurice Pialat l'anno successivo ) ma questo è specialissimo perchè adotta un punto di vista diverso da quello delle  classiche biografie filmate. Del resto l'autore è lui stesso un artista , conosciuto ed apprezzato negli Stati Uniti ( di cui è cittadino ) come in Europa, e si capisce che ciò che l'interessa nella figura di Van Gogh non sono le nude vicende del binomio " genio e sregolatezza " su cui hanno puntato un pò tutti  i suoi biografi, ma piuttosto l'itinerario spirituale ed estetico che lo ha portato ad una fine tanto scontata quanto emblematica. Ecco dunque Van Gogh raffigurato come un Cristo ( l'attore William Defoe che lo impersona era proprio stato Gesù nel film di Scorsese " The last temptation of Christ " ) che, ci verrebbe quasi da dire, " deve " morire per affermare il mistero, la sacralità dell'arte che  mira a " redimere " l'umanità dalla propria pesantezza ed ignoranza. Ma quello che colpisce di più, nel film, è la continua ricerca di un convincente equivalente cinematografico dello stile pittorico di Van Gogh, tale da restituire  la stessa emozione estetica. Ecco allora- e non piacerà a chi preferisce un approccio cinematografico meno convulso e spezzettato- le scene all'aperto girate da Schnabel con la macchina da presa in spalla che salta e giravolta affondando nell'erba alta e nei campi di grano,cercando di rendere l'entusiasmo panico di un artista affascinato e turbato dalla natura, così come dagli oggetti e dalle persone che raffigurava nei suoi interni egualmente carichi, contrassegnati dalla stessa pennellata robusta e " grassa ". Un bel film di un artista su di un altro artista. E molto merito della riuscita del film va riconosciuto all'attore Defoe, che ha giustamente ottenuto a Venezia la " Coppa Volpi " per la migliore interpretazione maschile.









lunedì 24 settembre 2018

" DOUBLES VIES " di Olivier Assayas ( Francia,2018 ) / "FRERES ENNEMIS" di David Oelhoffen ( Francia, Belgio , 2018 )

E' in corso in questi giorni a Milano la tradizionale rassegna " Le vie del cinema " che ospita un certo numero di film presentati  alla Mostra di Venezia nonchè in qualche evento cinematografico minore , sempre degli ultimi mesi. Una splendida occasione per vedere in anteprima opere non ancore immesse nel circuito commerciale ( nella migliore delle ipotesi) oppure che in Italia non vedremo mai ( ed è il caso, a volte, di alcune di non  secondario valore ma che i distributori giudicano di scarsa attrattiva per il grande pubblico ) . Una iniziativa che attira, nella decina di giorni in cui si sviluppa, non pochi appassionati ma anche occasionali spettatori mossi dalla curiosità di vedere un film appena trasmigrato da un evento mediatico di forte impatto come è un festival internazionale. Il cinema di qualità, lodevolmente, esce così dai luoghi per " addetti ai lavori"  come sono spesso le sedi di queste prestigiose rassegne, per approdare nelle normali sale cinematografiche ed incontrare così un pubblico più vario, meno specializzato ma egualmente speranzoso di godere della visione di un buon film o almeno di uno non banale e scontato, quali sono quelli puramente "digestivi " ( ammesso  che  la visione di opere di quest' ultimo tipo concili tale importante funzione... ).

La rassegna milanese si è aperta, quest'anno, nel migliore dei modi. " Doubles vies " , scritto e diretto dal francese Olivier Assayas, è infatti un ottimo film , ben congegnato nel suo progetto artistico, benissimo interpretato e con al centro un argomento molto moderno ed appassionante : il crescente uso dei nuovi mezzi e supporti di comunicazione sociale, da Internet agli e-book, dagli smartphone ai " social " come Facebook, Twitter, e via discorrendo, che tanto devastante impatto finiscono a volte con l'avere sulle nostre vite, alterandole e piegandole ad una crescente , disumana " virtualità ". Ma procediamo con ordine, dicendo prima, giacchè è importante per capire "  il perchè " di  questo film, chi è l'autore, Olivier Assayas. Dapprima critico cinematografico per i prestigiosi " Cahiers du Cinéma ", poi sceneggiatore ed infine passato alla regia all'incirca trent'anni fa, non ha legato in passato il suo nome a nessun'opera fondamentale ma si è sempre segnalato per la  lucida intelligenza delle trame e per il raziocinio delle  messe in scena. Inevitabile , diremmo quasi, che prima o poi affrontasse un tema di così palpitante attualità e fascino intellettuale. I personaggi  del film potrebbero essere, infatti,  i suoi stessi amici o sodali : benestanti borghesi parigini, attivi nel mondo della comunicazione, scrittori, editori, teorici delle nuove frontiere della cibernetica. Consapevoli ( chi con entusiasmo e chi con rassegnazione ) che il mondo viaggia inarrestabilmente verso la fine della parola scritta e stampata a vantaggio del messaggio informatico e del supporto digitale,essi  si muovono in  un ambiente in cui tutti si conoscono, si incontrano nelle rispettive abitazioni , discutono, fanno sfoggio delle loro convinzioni, articolando esistenze in qualche modo artificiali, rivolte all'arzigogolo cerebrale più che alla pienezza dei sentimenti e delle sensazioni. Anche se , come capirà chi vedrà il film, i personaggi hanno reciprocamente qualcosa da nascondersi, le " doppie vite " del titolo non sono quelle caratterizzate dai banali tradimenti o dalle piccole bugie cui essi  si piegano, bensì il fenomeno dell'insorgere, accanto alla realtà, di esistenze da questa dissociate, rivolte più ad obiettivi di successo e di dominio scollegati da genuine pulsioni umane : come se i  " media " che ci offre la nostra quotidianità ci stessero piano piano trasformando, con il loro particolare linguaggio  e la velocità di diffusione dei dati,  in superficiali fruitori di piaceri e di emozioni tanto fugaci quanto inconsistenti. Finchè , e lo spettatore lo scoprirà nell'ultima sequenza, la vera vita, ancora così riconfortante nella sua calda, protettrice semplicità , non arrivi a reintrodurre, provvisoriamente o meno, un briciolo di verità e di poesia.
  Molto parlato- e non potrebbe essere altrimenti, stante il soggetto - il film è tutt'altro che statico o noioso. La trama , lo si capisce subito, non è di  quelle che definiremmo corpose . Lo chiamerei, in estrema sintesi, più un film " di situazioni "  che di evoluzione o di sviluppo di una storia  che parta dalla caratterizzazione dei personaggi. Stilisticamente coerente con la scarna architettura narrativa è anche  la regia : pochi movimenti di macchina, scarsità di inquadrature particolarmente ricche di dettagli, lo spazio cinematografico è creato continuamente dai dialoghi che, in un certo modo, è come se dessero vita o rilanciassero  l'azione , assecondandola o facendole da contrappunto in sequenze sempre piuttosto brevi, scandite da un ritmo inappuntabile.   Scintillanti, gustosissime, ricche di continua inventiva, le battute che si scambiano i personaggi sono un autentico gioiello, pur non dando mai la sensazione che l'autore vi indulga per eludere in qualche modo la necessità di " raccontare per immagini " , che è poi - come sappiamo -  la vera essenza  del cinema. Se il film non dà mai l'impressione fastidiosa di un  " teatro filmato ", ingenerata da tanti film impreziositi ( o aggravati)  da un dialogo  ricco quando non  addirittura ridondante, il merito è proprio di Assayas, uomo di cinema fino alla radice dei capelli, ben consapevole che i grandi dialoghisti della settima arte ( Lubitsch e Rohmer su tutti )  usano la parola non perchè sostituisca in qualche modo l'immagine, ma anzi, in un certo senso, la anticipi, dando ad essa ancora maggiore significato e vigore. Essenziale, in un film del genere, la recitazione , il carisma degli attori sui quali incombe la necessità di  essere realistici ed emblematici allo stesso tempo. E' quanto è riuscito perfettamente a Guillaume Canet, che impersona il direttore di una antica e prestigiosa impresa editoriale : misurato ma intenso, elegante ed ironico, ecco un personaggio perfettamente e  dolorosamente calato nella sua duplice, nevrotica esistenza. Accanto a lui, l'evergreen Juliette Binoche ( sua moglie nella finzione ) finalmente restituita ad uno di quei personaggi brillanti e un pò folli che in fondo le si attagliano meglio di quelli lugubri e drammatici. Ma la vera rivelazione del film è la coppia (sempre nella vicenda ) Vincent Macaigne (il romanziere... compulsivamente autobiografico)  e  Nora Hamzawi ( l'assistente dell'uomo politico ). Ecco due attori di estrazione televisiva che mi sono sembrati assolutamente geniali nelle loro perfette caratterizzazioni. Una buona notizia , infine , per coloro che hanno avuto la costanza di seguirmi fin qui . Il film,  con il sorprendente titolo di " Non fiction "  (? ) uscirà in Italia il 28 novembre . Non ve lo perdete ! E non dimenticatevi che sotto mentite spoglie viaggia dunque, nel nostro Paese,  questo intelligente " Doubles vies " che caldamente raccomando.

Discorso dimetralmente diverso, purtroppo , per il secondo dei film che ho visto nella rassegna milanese, " Frères ennemis " ( fratelli nemici ) di un autore francese, David Oelhoffen, che ha già cinquant'anni e poco alle spalle, includendovi un lungometraggio , " Loin des hommes " , che aveva avuto qualche successo di stima quattro anni fa a Venezia in una sezione parallela a quella del " Concorso " e che non credo  sia mai stato proiettato da noi. Ma il motivo per cui sono andato a vedere il suo film , quest'anno addirittura in lizza per il Leone d'oro, era il fatto che si tratta di un " polar ", come i francesi chiamano i film polizieschi, ambientato in una delle tante " cités " che formano la grande banlieue parigina. Insomma, echi di bei film visti in passato, da  " Un profeta " di Michel Audiard ai classici film di Melville con Alain Delon e Jean-Paul Belmondo. Nulla di tutto questo , ahimè, in un film piatto, scontatissimo, senza un guizzo di ingegno , una riflessione sociologica che non sia di terza mano, un qualunque richiamo alla grande , autentica tradizione gallica del film " noir ". In questa vicenda assai poco originale di due amici cresciuti insieme in un quartiere " difficile " e diventati l'uno ( Manuel , di origine etnica incerta, forse gitana ) capobanda nel traffico di droga e l'altro ( Driss, di origine nordafricana ) poliziotto della squadra speciale antidroga, non vi è un solo accento di verità, che verrebbe comunque  irrimediabilmente soffocato da una sceneggiatura piena di smagliature, zoppicante ed asfittica. Nè l'interpretazione è migliore. Mathias Schoenaarts, attore belga che si crede l'erede di James Dean, rende il personaggio di Manuel ancora più inconsistente di come sia nello " script " e Reta Kaled, francoalgerino distintosi in passato  per qualche  parte secondaria , qui nel ruolo di Driss, è volenteroso e a tratti simpatico ma piuttosto monocorde ed impacciato. La regia pensa di supplire alla scarsità di idee con ampi movimenti di macchina , zoom a profusione e molte scene notturne di difficile  lettura estetica. Insomma , un gran pasticcio che non si capisce proprio come possa essere arrivato a Venezia , addirittura tra i ventuno  film in concorso . Che , anche qui , ci siano le raccomandazioni ? Misteri della laguna su cui è meglio sorvolare... Per il momento , fortunatamente, non si parla di una sua uscita in Italia.

mercoledì 12 settembre 2018

Qualche consiglio per la nuova stagione e due vecchi film sempre nuovi ( "Tutti a casa" e " Mano pericolosa " )

Tornare al cinema, tornare qui a parlare di cinema, è un pò come iniziare un nuovo anno scolastico. Si è pieni di buoni propositi, corroborati dalla pausa estiva ma anche leggermente intimoriti da  ciò che ci aspetta , dai lunghi mesi davanti a noi. Ci saranno sempre nuovi film interessanti su cui soffermarsi ? Gli amici cinefili o semplici appassionati o anche solo desiderosi di vedere ogni tanto qualcosa di bello saranno ancora propensi a seguire questa rubrichetta ? Come fare per renderla più attraente ? Mentre per il primo di questi tre interrogativi obiettivamente non posso fare molto ma solo augurarmi che il cinema di qualità resista impavido ai ripetuti assalti delle cattive immagini, televisive e non, da cui siamo quotidianamente assediati, per il secondo e per il terzo prometto che cercherò di fare il possibile, chiedendo scusa fin d'ora se questo, per i lettori,magari non sarà abbastanza.
Dunque, venendo a noi, cioè a ciò che è possibile vedere oggi sugli schermi italiani, la situazione è ancora poco chiara. La " stagione " 2018-2019, quella che ci porterà agli Oscar  di febbraio-marzo e si concluderà poi a maggio-giugno con il Festival di Cannes, stenta a decollare. A chi mi chiede cosa andare a vedere, consiglio, con riserva, due soli film che , credo, sono ora in circolazione. Il primo non è un grande film ma si regge interamente sulla interpretazione, l'ultima prima di morire, di un eccezionale attore americano, Henry Dean Stanton. Lo ricorderete , forse, trent'anni fa, in " Paris, Texas " del tedesco Wim Wenders, iconico personaggio dal volto scavato e dalla figura allampanata. Il film si chiama " Lucky " ed è in giro già da un paio di settimane. Da consigliare, insomma, ai nostalgici del " the way we were " e ai " fans " di Stanton.
Il secondo film  di un qualche pregio è " Don't worry ", di Gus Van Sant, con il bravissimo Joaquim Phoenix. Non il miglior film di Van Sant, è un onesto " biopic " ( biografia cinematografica ) con qualche pretesa ma si può vedere.
Piuttosto, e qui gettiamo lo sguardo ai film che stanno per approdare ( finalmente ! ) sui nostri schermi dopo una piccola " quarantena " da parte dei distributori , non vi perdete assolutamente il film giapponese vincitore della Palma d'oro , quest'anno, a Cannes. I più diligenti dei miei venticinque lettori ricorderanno che gli ho già dedicato un'intera puntata, il 18 giugno scorso, dicendone tutto il bene che ne penso.Ma, attenzione, uscito da Cannes con il titolo "internazionale "  di " Shoplifters " ( i taccheggiatori ) nel frattempo è tornato al titolo che mi dicono sia più conforme all'originale nipponico di " Un affare di famiglia ". Quindi cercatelo sotto questa denominazione, consapevoli però che la sua critica l'ho già ampiamente fatta  quando si chiamava in quell'altro modo e che, di massima, non  tornerò a parlarvene. Aggiungo solo che il massimo premio è parso a tutti ben meritato e che regia ed interpretazione sono di gran classe. Anche doppiato in italiano non dovrebbe perdere il suo fascino sottile.
E poi, per concludere questa prima parte, occhio non solo ai film di Cannes che ancora in Italia non sono entrati nel normale circuito e che , spero, man mano vedremo, ma anche a quelli della Mostra di Venezia, appena conclusasi. Per gli amici di Roma e di Milano ricordo che un certo numero di essi verrà presentato nelle due città in una, ormai tradizionale, mini-rassegna  proprio in questi giorni . Sicuramente ne parlerò. E poi qualcuno di essi potrebbe già  andare nelle sale se i distributori ( bontà loro ) lo riterranno opportuno.


Per non perdere la mano, intanto, mi sono dedicato all'analisi critica di due film del passato che vi consiglio di vedere o di rivedere perchè sono due esempi della cinematografia del periodo d'oro, quella degli anni cinquanta e sessanta, quando non solo si facevano bei film ma anche masse cospicue di spettatori affollavano quotidianamente le sale per vederli.
Il primo in ordine di realizzazione ( siamo nel 1953 ) si chiama in Italia " Mano pericolosa " (debbo dire che allora i titoli venivano tradotti-traditi con maggiore inventiva di oggi ) ed è stato scritto e diretto dal talentuoso Samuel Fuller, uno dei maggiori sceneggiatori e registi di Hollywood, l'autore di quel " Quaranta pistole " di cui l'anno scorso vi dissi quanto io lo reputi uno dei più emozionanti film che abbia mai avuto la ventura di vedere. Il titolo originale del film , " Pick up on South Street ",dà subito l'idea dell'argomento. Un borseggiatore appena uscito di galera ( Richard Widmark ) torna a "lavorare" sulla metropolitana newyorchese e sottrae il borsellino di  una giovane e piacente passeggera ( Jean Peters ). Dentro non  vi è denaro ma un microfilm che ,una volta sviluppato dall'incuriosito ladruncolo, si rivela per una misteriosa formula , non si capisce se fisica o chimica. Scopriremo che è un segreto militare che agenti comunisti stavano cercando di trafugare al di là della cortina di ferro .Di qui una serie di vicende, nelle quali si inserisce perfino una fulminea lovestory tra borseggiatore e derubata, con continui  interventi di spioni filosovietici ed agguerriti rappresentanti delle forze dell'ordine. Una sceneggiatura solidissima ( come sempre nei film di Fuller ) spiana la via ad una regia vibrante e serrata al tempo stesso. Sfido chi lo conosce o lo vedrà ( ordinare il DVD in Francia perchè non si trova in Italia ) ad indicarmi una sola scena , che dico, una sola inquadratura che non sia essenziale, che non sia significante nell'uso costante dell'alternanza tra primipiani e campi lunghi, che accrescono la drammaticità , la tensione e la pregnanza di ogni immagine. In breve una gioia per gli occhi ed il cuore dello spettatore,ma soprattutto una autentica lezione di cinema da imporre con la forza a tutti i realizzatori scialbi e perditempo ( da notare che il film dura solo 80 minuti, altro che le due ore e passa diventate ormai la regola, ma non sembra certo che, nella sua breve durata, abbia omesso di dirci qualcosa di importante ) . Un'ultima, curiosa  notazione per chi già non la conosca. Uscito in piena guerra fredda, i distributori europei ebbero paura che il film potesse avere , per il suo contenuto anticomunista, brutte accoglienze da parte di quei pubblici locali che  simpatizzavano per i partiti di estrema sinistra e camuffarono quindi arditamente nel doppiaggio ,almeno per la distribuzione in Italia e in Francia, le spie filosovietiche in non meglio precisati...trafficanti di stupefacenti ( Il film  oltr'Alpe assunse addirittura il titolo fantasioso di " Il porto della droga " ! ).

L'altro film di cui vorrei parlarvi , girato sette anni dopo quello di Fuller ( siamo dunque nel 1960 ) è una delle più celebri - e giustamente celebrate - " commedie all'italiana ". Quel filone, protrattosi ancora per buona parte degli anni '70, che propose un cinema dai contenuti non solo sanamente ridanciani o leggeri ma densi al tempo stesso di valori umani e sociali di assoluta rilevanza. Un fortunato mix che indusse gli spettatori dell'epoca non solo a ridere o sorridere dei nostri vizi, dei nostri costumi personali o collettivi. Ma anche a riflettere su aspetti della nostra società non tutti degni di elogio e su controverse pagine-chiave della nostra storia recente o recentissima. Come in questo " Tutti a casa " di Luigi Comencini che ha come fulcro della narrazione le convulse giornate che seguirono l' 8 settembre del 1943. L'armistizio ( sciaguratamente mal negoziato e peggio implementato ) che segnò , secondo alcuni storici cui non saprei dare completamente torto,  " la morte della Patria " o almeno il repentino collasso delle istituzioni pubbliche  del tempo, a cominciare da forze armate lasciate totalmente allo sbando. E' storia ovviamente troppo conosciuta perchè ci si torni sopra in questa sede. Dico solo che il cinema , in sede di ricostruzione  di quella particolare temperie attraverso le vicissitudini di un piccolo ufficiale di complemento  (Alberto Sordi ) costretto ad attraversare l' Italia con mezzi di fortuna per far ritorno dal padre ( Eduardo De Filippo ) è riuscito mirabilmente a fondere l'umana vicenda dei personaggi di finzione con il dramma storico di tutto un popolo costretto, dopo le ubriacature di vent'anni di regime e gli infingimenti successivi alla caduta del fascismo, a fare nuovamente i conti con la realtà e a prendere perfino delle decisioni coraggiose ( l'ultima sequenza mostra Sordi che si unisce ad un gruppo di insorti nelle " quattro giornate di Napoli ", ormai consapevole di quale sia la posta in gioco ). Bellissimo film, recitato benissimo ( quelli erano gli anni in cui Sordi cercava con successo di liberarsi dall'odioso cliché  di cinico amorale che gli era stato imposto almeno fino a " La grande guerra " , che è di un anno prima di " Tutti a casa " ) con un gruppo di caratteristi formidabili - citerei almeno Carla Gravina, Nino Castelnuovo e l'apparizione del grande Serge Reggiani- ed una sceneggiatura di lusso ( Age e  Scarpelli con Marcello Fondato e lo stesso Comencini ). Un film da rivedere, commentare e meditare qualche giorno fa, in occasione del 75 ° anniversario dell' 8 settembre, quasi un doveroso omaggio alle sofferenze ed al riscatto di un popolo, quello cui apparteniamo tutti anche se spesso, colpevolmente, ce ne dimentichiamo. Quando il cinema , riuscendo ad appassionarci e commuoverci, fa anche opera di intelligente recupero di un tassello così importante della nostra vicenda collettiva, non resta che inchinarci e applaudire.