domenica 28 gennaio 2018

" CHIAMAMI COL TUO NOME " di Luca Guadagnino ( Italia/ Francia / USA , 2017 )

" Da qualche parte nell' Italia del Nord ", così avverte genericamente la didascalia apposta sul fotogramma iniziale del film, ad evidente beneficio dei pubblici stranieri. Perchè ci si immagina invece che  gli spettatori  di casa nostra possano individuare  con maggiore approssimazione quel pezzettino di pianura padana in cui si svolge la vicenda, visto che vengono menzionate  Crema e Bergamo. L'anno è quello di grazia del 1983 : nascita del pentapartito e Bettino Craxi presidente del consiglio ( citati entrambi ). Elio, virgulto diciassettenne di una ricca famiglia ebrea altoborghese italo-franco-americana, sembra annoiarsi passabilmente nella splendida villa secentesca di proprietà familiare immersa nella calura estiva. Letture eterogenee, sonate al pianoforte o alla chitarra classica, qualche goffo approccio con le giovinette localmente disponibili, con condimento di partitelle a pallavolo e di gite al fiume. Tutto ciò fino al momento in cui arriva Oliver, un assai piacente studente americano ventiquattrenne che deve completare in Italia la sua tesi di laurea in archeologia  e che è ospitato dal padre di Elio, professore universitario e sua guida nell'impresa. Da certi sguardi che si lanciano i due giovani fin dal primo incontro e dagli orientamenti amorosi ancora incerti di Elio capiamo subito che lì gatta ci cova. Non manca molto, infatti, perchè tra i due nasca una forte attrazione e poi una vera e propria  relazione omofila che ha tutti i tratti di una autentica passione, destinata peraltro a finire con la fine delle vacanze e  il ritorno di Oliver negli States. Ad Elio resterà una ferita nel cuore, la nostalgia dettata dal ricordo dell'amico ed una probabile crescita personale derivante da una esperienza così coinvolgente.

Dico subito che la storia alla base  di " Chiamami con il tuo nome ", ancorchè prevedibile nei suoi principali snodi narrativi, non è affatto male. I racconti " di formazione ", le vicende di giovani alle prese con le loro pulsioni ed i loro interrogativi esistenziali sono quasi sempre interessanti.Un pò  perchè ci rammentano  qualcosa del nostro passato e un pò perchè ci piace analizzare la traiettoria di un cuore alle sue prime esperienze sentimentali.  Il soggetto del film non è originale poichè deriva da un romanzo di un certo André Anciman che risale ad una decina di anni fa.Perchè  sia ambientato negli anni '80 non saprei dirvi, fatto sta che il film rispetta questa datazione. Ma cambia la " location " : non più la Liguria, bensì le rive del Serio ( affluente di sinistra del Po ). Anche qui non saprei darvi una spiegazione.
Ciò che conta, purtroppo, è il fatto che - romanzo o no - il modo con cui, nel film , è raccontata la vicenda e vengono tratteggiati i personaggi è assai poco convincente. Passi per i due protagonisti, Elio ed Oliver, in fondo più che personaggi reali, archetipi della bellezza giovanile maschile. E giustamente attraenti , poichè tutto il film è prima di tutto una esaltazione della bellezza : dei volti, dei corpi, ma anche degli oggetti, dei luoghi. Dalla bellezza, sembra dire Guadagnino, nasce e si alimenta il desiderio. Come facciano i brutti, i poveri di spirito ( e di risorse economiche ) ad amare ed a provare dei sentimenti " forti " , l'autore non ce lo dice. Ma , si sa , questi film  elitisti, concepiti su e per gli " happy few ", non possono porsi questi interrogativi di sociologia spicciola. E invece farebbero bene a farlo, ogni tanto , se vogliono evitare di rendersi inattendibili   come purtroppo , a tratti , mi è sembrato questo " Chiamami col tuo nome ". Situazioni al limite dell' inverosimile, personaggi secondari ( perfino i genitori di Elio, importanti nell'economia narrativa ) posticci, non un dialogo che non sappia di cattiva letteratura. La stessa ambientazione d'epoca ( non un elemento trascurabile , debbo presumere , se si è mantenuta quella del romanzo ) è molto carente. Forse , come ha rivelato Guadagnino in una intervista, il budget del film era troppo modesto. Ma possibile che le canzoni trasmesse dalle radioline sembrino tutte più anni '90 che '80 ? E perchè tutto quell'insistere sulle auto d'epoca, sbagliando peraltro assai ( la " Giulia " prima serie che si vede parcheggiata in una inquadratura, quella col cuneo sul portabagagli, era uscita di produzione dieci anni prima del 1983 ed è improbabile che ne girassero di così smaglianti ancora tanti anni dopo ). Ed è possibile mai  che la produzione non si sia pagata un buon consulente " storico " che avrebbe ricordato come , sempre nel 1983, erano già diffusi da tempo i poggiatesta sui sedili anteriori delle autovetture nonchè le cinture per i passeggeri ( qui totalmente assenti su tutti i modelli )? Sembrano inezie e forse lo sono. Ma sono anche la spia di quella che mi è sembrata una operazione raffazzonata, un progetto produttivo ed artistico intrapreso senza troppa convinzione, tanto per puntare sulla presunta scabrosità della trama e , ripeto, sulla bellezza dei luoghi e dei due interpreti principali. Ripeto,  il soggetto è valido e non credo che , al giorno d'oggi possa più offendere qualcuno. La passione è passione indipendentemente dal genere di chi, e per chi, la si prova. No, i problemi  ( non pochi ) del film stanno altrove ed attengono alla sceneggiatura, al dialogo, alla  scelta degli interpreti, perfino all'infelice doppiaggio dell'edizione italiana.

L'attrazione-esitazione iniziale di Elio per Oliver ed il giocare di quest'ultimo come il gatto col topo sono momenti del film troppo lunghi e noiosi ( diciamo che il film diventa interessante solo nella seconda metà del suo troppo lungo svolgimento, due ore e dieci per l'esattezza ). Qui il principale responsabile di tanto girare a vuoto mi è sembrato- e non temo di sbagliarmi - l'autore della sceneggiatura,cioè niente di meno che James Ivory: sì, il regista di  " Camera con vista " e " Quel che resta del giorno ", ormai novantenne ma sempre il solito freddo formalista privo del minimo, autentico slancio. E lo  si vede nel suo disperato tentativo di dare un senso, una direzione a tanto inutile " splendore ".  Dicevamo dei personaggi minori , ma non meno importanti nel film  e dei dialoghi  che sono costretti a recitare, che a volte lasciano letteralmente senza fiato. Penso al padre di Elio, improbabile archeologo ( non si capisce mai in che cosa consista esattamente il suo lavoro ) cui viene fatta pronunciare, con l'aria di stare enfaticamente insegnando qualcosa a qualcuno, un'affermazione del genere : " Prassitele, il più grande scultore dell'antichità classica", mentre dialoga con il laureando Oliver. Una banalità simile, roba da Bignami o da " Reader's Digest", un vero docente universitario non la direbbe mai e per giunta ad un " postgraduate " che non credo possa essere del tutto ignaro di una figura così fondamentale nella storia dell'arte.
La scelta degli attori non mi è parsa molto felice, anche qui- sospetto- per ragioni di risparmio e di coproduzione. Passi per il protagonista ,Timothée Chalamet : bravino, ancorchè abbastanza monocorde, la circostanza che sia candidato per l'Oscar però è incommentabile. Oliver è l'attore americano emergente, Armie Hammer. Bello lo è senz'altro  ma non mi pare fornito di memorabile arte recitativa ( ovviamente, per la serie "tanto peggio tanto meglio", anche lui, quest'anno, è candidato all'Oscar nella categoria attori non protagonisti ). L'interprete del padre,di cui qui non ricordo il nome, è francamente al di sotto del cosiddetto minimo sindacale. Fuori parte, poi,  l'attrice francese Esther Garrel che interpreta la fidanzatina mancata del giovane Elio. Non aiuta infine , questa volta, il doppiaggio italiano : voci ( ancora il personaggio del padre... ) al limite del ridicolo. E poi quel lasciare invece i personaggi popolari ( la serva ed i suoi assistenti ) confinati nel loro duro ed incomprensibile dialetto cremasco ha l'effetto- spero involontario -  di emarginarli ancora di più, a sottolinearne quasi, si direbbe, l'esclusione da piaceri tanto intellettualmente raffinati.

Freddo e formalistico per buona parte delle sue pur pregevoli inquadrature,  " Chiamami col tuo nome " si infiamma improvvisamente con l'erompere della passione amorosa tra i due giovani. E qui sa trovare, talvolta , accenti di verità e di rigore estetico. Più che le riprese notturne nella villa o la canzoncina ruffianesca che fa da leit motiv ai momenti di maggiore esaltazione ( ci credereste ? Candidata all' Oscar anche lei... ) mi sono parse suggestive e convincenti le geometrie degli sguardi e dei corpi che si cercano. Non più, finalmente, semplici figurine di una sorta di arcadico erotismo " soft " ( penso alle lesbicheggianti "jeunes filles en fleur "  riprese da David Hamilton  negli anni '70 ) Elio ed Oliver vengono improvvisamente restituiti alla loro realtà corporea, alla dura tenzone che si apre nell'incontro tra due esseri che si desiderano. Fosse stato tutto così, provvisto di coraggio ed umiltà, oggi parleremmo di un film diverso : penso ad  un inquietante, mal riuscito ma autentico film erotico come " Corps à coeur " del francese Paul Vecchiali ( 1979 ) che rimane per me una delle migliori declinazioni del tema amoroso.
In fin dei conti, quello  che salverei del film è proprio la regia.  Guadagnino, al suo terzo o quarto lungometraggio, rivela di saper stare con sicurezza dietro la macchina da presa. Buone inquadrature, senso del ritmo ( sceneggiatura sfilacciata permettendo ... ) la capacità di darci, un giorno, un buon film ce l'ha sicuramente. Se dovessi dargli un consiglio gli direi di lasciar perdere le storie troppo lambiccate, i " trattamenti " troppo asfittici, e soprattutto quella " globalizzazione " di sceneggiatori, attori, luoghi di ambientazione, che non fa certo la forza del suo cinema , come è evidente in questo film. Lui che è un bravo documentarista - e certi scorci della Padania, il paesaggio fluviale, i piccoli caffè, la gente semplice, lo dimostrano anche in " Chiamami col tuo nome " - esca di casa, ricominci a guardarsi attorno, a filmare quello che conosce. Il cinema è giusto che si sprovincializzi, che un film sia commerciabile in altri paesi e non solo in quello in cui è stato realizzato. Ma sempre partendo da una realtà ben precisa, semplice e forte quale quella che ci circonda. Il meglio dell'opera di Rossellini, De Sica, Visconti, Fellini, Antonioni, lo dimostra ampiamente.





lunedì 22 gennaio 2018

" L'ORA PIU' BUIA " di Joe Wright ( Regno Unito, 2017 )

Nel Maggio del 1940, ricorderete, Hitler sembrava sul punto di vincere la guerra e di impadronirsi di una buona fetta di Europa. Sconfitta e smembrata la Polonia, invase Danimarca e Norvegia, travolti Belgio e Olanda, la Francia in procinto di abbandonare ogni resistenza , l' obiettivo successivo era diventata verosimilmente la stessa Gran Bretagna. Qui il primo ministro conservatore  Chamberlain (" l'uomo di Monaco " che tante illusioni aveva generato nell'opinione pubblica internazionale ) era sul punto di cadere, travolto non solo dalle critiche dell'opposizione ma anche e soprattutto dalla fronda interna al suo stesso partito che affettava di  rendersi interprete dello sconcerto della popolazione per la debole condotta della guerra.
Nominato da Re Giorgio, dopo le dimissioni di Chamberlain, Primo Ministro di un governo di unità nazionale tra partito conservatore e partito laburista, Winston Churchill, allora sessantacinquenne, si trovò così  di fronte ad un compito difficilissimo. Ed è questo l'inizio de " L'ora più buia ", da pochi giorni sugli schermi britannici e , in contemporanea, sui nostri. Negli Stati Uniti invece, vale la pena di segnalare,  ne è stata assicurata la diffusione fin dallo scorso novembre perchè fosse in grado di partecipare all'assegnazione dei  " Golden Globes " e, in prospettiva, degli Oscar.
Dirò subito che il film mi è parso molto bello, una riuscita totale. Innanzitutto per la sceneggiatura, capace di rendere appassionante come un " thriller " una pagina fondamentale della storia dell' Europa contemporanea : un punto di svolta che impedì  ( o  se non altro concorse ad impedire ) quella possibile vittoria del totalitarismo  germanico che tanto male avrebbe arrecato  al mondo intero. Poi per la recitazione, davvero degna della migliore tradizione britannica. Gary Oldman ( Churchill ) un attore poco noto al grande pubblico, abbonato a parti secondarie e da ultimo autoconfinatosi a piccoli film indipendenti di sua personale scelta, trova qui quello che si può definire il " ruolo della vita ", l'interpretazione cioè che verrà a lungo ricordata e che è capace di cambiare o almeno di dare un senso ad una intera carriera artistica. E , desidero aggiungere subito, tutti gli altri attori sono egualmente bravi, con menzione speciale per le due interpreti femminili. Da un lato Kristin Scott Thomas nella parte di Lay Clementine, la moglie di Churchill , sobria ancorchè vibrante in un personaggio di donna essenziale per l'equilibrio del bizzarro e difficilissimo consorte. Dall'altro la assai graziosa Lily James nel ruolo di Miss Layton, la segretaria personale del primo ministro britannico, ricca di talento e di spirito di sacrificio, efficientissima e saggia, una interpretazione che proietta questa giovane speranza del cinema e della televisione ( è stata Lady Rose in " Downton Abbey " ) verso ancor più elevati traguardi.

Il film " storico ", quando è  rievocativo di epoche a noi ancora abbastanza vicine, è sempre un genere insidioso, al cinema. Il rischio per il registaè quello  di soffermarsi troppo sulle scenografie, sui costumi, sulla ricostruzione insomma di un mondo che alcuni di noi hanno perfino fatto in tempo a vedere con i loro occhi e che anche gli altri conoscono benissimo per il tantissimo materiale iconografico che abbiamo a disposizione ( inclusi i non pochi film rievocativi di episodi del conflitto mondiale). Il regista Joe Wright mi pare che abbia evitato brillantemente questo pericolo . Non tanto perchè ricostruzione di ambienti e sfoggio di abbigliamento dell'epoca qui siano del tutto trascurabili, che anzi  sono ben calibrati e funzionali alla vicenda narrata. Quanto perchè non prendono mai il sopravvento. Non è un film " retro ", voglio dire, di quelli dove il particolare ( quell'autovettura, quell'abito, quella acconciatura ) campeggiano in primo piano a detrimento del discorso complessivo che il film vorrebbe, o potrebbe , svolgere. No, qui il regista - pur precisissimo e piacevole nella ricostruzione ambientale - non cincischia con i "memorabilia"  d'epoca e va dritto allo scopo . Che è quello di raccontarci come Churchill, un personaggio fino ad allora molto discusso per il carattere ondivago e collerico ed  i " record " della sua azione militare e di governo non precisamente impeccabili ( l'insuccesso di Gallipoli è continuamente evocato dai suoi avversari politici ) diventi improvvisamente... Winston Churchill. Cioè il più grande primo ministro inglese del Novecento ( ma anche Mrs. Thatcher non era male, a mio avviso ) e colui che è passato alla storia, più di Stalin o di Roosevelt, come il vero trionfatore di Hitler, l'uomo che lo ha combattuto dall'inizio alla fine.
Che Churchill, ad un certo punto, abbia avvertito l'esigenza di lasciarsi una porta aperta alle spalle e , anche lui, abbia preso in qualche considerazione, nelle retrovie della propria mente, l'ipotesi di una trattativa con Hitler, è una verità storica che mi sembra assodata. Il film - tutt'altro che un'agiografia dell'uomo-  non lo nasconde. E forse, in quel momento, di fronte all'ipotesi di un annientamento dell' impero  e di una umiliante occupazione del suolo bitannico accompagnata da vaste distruzioni e molte perdite di vite umane, anche il più battagliero degli statisti ci avrebbe fatto un pensiero. Ma il coraggio dell'uomo, la sua indefettibile " britishness " e l'avversione profonda per la tirannide nazista ebbero poi il sopravvento ed il suo " never " , mai !, divenne il grido e la professione di fede di tutto un popolo.

Sagace ma anche fortunato snodo dei drammatici eventi di quel maggio di quasi ottant'anni fa fu certamente il salvataggio del grosso dell'esercito britannico impegnato sul continente, stretto nella sacca di Dunkerque e probabile vittima del definitivo attacco tedesco se la tenacia del primo ministro non ne avesse assicurato con successo il tempestivo rimpatrio. L'operazione " Dynamo ",come ci ha ricordato quest'anno il " Dunkirk " di Christopher Nolan, grazie alla mobilitazione di migliaia di imbarcazioni private, ottenne  di mantenere intatto il capitale umano che, una volta riarmato ed impiegato nei nuovi teatri di operazione, permise al leone britannico di tornare a ruggire vittoriosamente. 
" L' ora più buia " ripercorre con un ritmo incalzante, senza mai un abbassamento della tensione drammatica , quelle frenetiche giornate di maggio tra la nomina di Churchill, le manovre dei suoi oppositori all'interno del partito per provocarne la caduta, l'accantonamento dell'idea di un negoziato esplorativo con Hitler tramite i buoni uffici dell' Italia ancora neutrale e, dopo l'esodo da Dunkerque, il consolidamento della posizione del primo ministro ed il crescente appoggio popolare alla sua idea di resistere a tutti i costi. Molte scene mostrano i serrati, spesso tesissimi dibattiti in seno al " War cabinet " presieduto da Churchill, con i ripetuti tentativi di Lord Halifax,  il ministro degli esteri, spalleggiato dall'ex premier Chamberlain, di dimostrare l'ineluttabilità di una soluzione negoziale a fronte del rischio di una invasione dell' isola, nonchè  i dubbi e le esitazioni degli alti comandi militari. Ad un certo punto Churchill, disperatamente solo, sta per cedere. Ma l'incontro - una splendida invenzione dello sceneggiatore Anthony McCarten - con un gruppo di comuni cittadini in un convoglio della metropolitana londinese, tutti opposti a qualunque resa ingloriosa, lo convince ad andare avanti, a sconfiggere i suoi avversari interni ed a continuare la lotta che , cinque anni dopo, condurrà alla definitiva sconfitta del nazismo.
Se dei meriti della interpretazione e della  sceneggiatura ( seconda in questa stagione solo a quella, letteralmente di ferro, di " Tre manifesti ad Ebbing , Missouri " ) abbiamo detto, molto delle ragioni della splendida riuscita del film risiedono nella regia . Joe Wright, regista inglese di mezza età , autore di trasposizioni cinematografiche di   romanzi antichi e moderni ( " Orgoglio e pregiudizio ", " Anna Karenina ", " Espiazione " ) non ha remore nel dichiararsi un ammiratore di David Lean, il più classico ed equilibrato dei registi inglesi di sempre. Il suo cinema , anche qui ne " L'ora più buia ", non è privo di raffinate invenzioni, di un serrato  , modernissimo alternarsi di inquadrature.  Ma, al tempo stesso,  risponde sempre ad un canone estetico di grande armonia compositiva e ad una " felicità " di flusso narrativo che ricordano, appunto , la grande tradizione dei Powell e Pressburger, dei Carol Reed, e naturalmente del già ricordato David Lean. Fotografia, scenografie e musica sono  di grande impatto ancorchè non travalicanti mai  l'equilibrio complessivo dei vari elementi di cui si compone il film . Un film , certo, a tratti retorico ( del resto retorico era lo stesso Churchill, grande istrione ed abile manipolatore ) ma mai lezioso od inutile. Una bella lezione di storia, senza dubbio. Ma anche una modesta  ma utile lezione di cinema per tutti coloro che, seguaci di una opposta tendenza, ritengono sia del poeta ( in questo caso cinematografico )   " il fin la maraviglia ".


martedì 16 gennaio 2018

" TRE MANIFESTI AD EBBING, MISSOURI " di Martin McDonagh ( Usa, 2017) / " MORTO STALIN SE NE FA UN ALTRO " di Armando Iannucci ( Regno Unito, 2017 )

Il grottesco è un genere difficile ,nel cinematografo più ancora che nella letteratura o a teatro. La dismisura,  l'eccesso programmaticamente ricercato per significare l'assurdità di certi aspetti della nostra vita, come l'ingiustizia o il predominio del caos, non riesce  a calarsi facilmente nelle immagini e nei dialoghi di un film . Occorre, paradossalmente, molto equilibrio e molta misura nella mente dell'artista che voglia percorrere una strada che  per lui presenta almeno due rischi. Da un lato quello di cadere nel ridicolo, cioè di risultare enfatico e ridondante, quindi poco credibile sul piano narrativo. Dall'altro quello di perdere di vista il proprio assunto iniziale (la critica di un certo tipo di mentalità o di costume) e di  indugiare troppo sulla superficie delle cose, senza menare l'affondo con il necessario vigore.  A ciò aggiungeteci la circostanza che in alcuni Paesi, ed il nostro è uno di questi, premere il pedale del grottesco al cinema per  provocare effetti drammatici e comici al tempo stesso (una specialità anglosassone e dell' Europa centro orientale) non incontra spesso particolare favore. A noi, insomma, piace il dramma, quello senza tante intromissioni di segno diverso. Se non addirittura il melodramma, genere  che  ovviamente rifugge dal grottesco pena la rottura di quell'incantesimo da cui trae la sua forza. Oppure, al lato opposto, ci attira il comico  puro e semplice, quello che suscita il riso anche se poi, nelle sue espressioni migliori ( da Totò a Jerry Lewis) riesce talvolta a farci riflettere. Come eccezione alla regola potrei citare alcuni titoli della "commedia all'italiana ", ad esempio " I mostri " ( 1963 ) che sul grottesco insisteva non poco.  Ma che il pubblico a suo tempo accolse con favore più  per i suoi aspetti irresistibilmente ludici, senza troppo soffermarsi sulla graffiante, dolorosa satira di costume suggerita da  quelle immagini, a tratti così violente e  deformate della realtà.

Due film visti a Milano la settimana scorsa mi inducono a questa riflessione. Ed il fatto che uno , il più bello  ( " Tre manifesti... " ) sia stato accolto bene dalla critica nostrana ma giudicato per lo più un film drammatico senza cogliervi  la presenza di una componente volutamente grottesca , e l'altro ( " Morto Stalin ...") che più apertamente utilizza quel registro non abbia avuto grandi accoglienze, mi corroborano nel convincimento che ho appena enunciato. No, l'Italia non ama questo modo di raccontare al cinema. E quindi facciamocene una ragione. Voi però che mi seguite ed un poco mi fate fiducia non fatevi scoraggiare. Andate a vedere due film intelligenti come questi. Forse , ancora una volta, non saranno due capolavori ( la mente , qui, prevale sul cuore per  tutti e due i rispettivi sceneggiatori-registi e voi sapete come io deplori, nell'arte, la scissione tra questi due elementi ) ma essi battono di gran lunga tutto il resto che è appena entrato in programmazione .
Veniamo al primo, quello che è destinato comunque a restare più a lungo, io credo, sui nostri schermi. E che ha vinto, pochi giorni or sono, il prestigioso " Golden Globe ", cioè il premio per il miglior film drammatico del 2017 in lingua inglese, che è un pò, negli USA,  l'anticamera degli Oscar del prossimo Marzo ( vedremo adesso, a partire dalle " nominations ", come si piazzerà ma tutti dicono che è accreditato per la vittoria anche lì). Il  suo regista e sceneggiatore, anche se è appena al terzo film  in più di dieci anni, non è uno sconosciuto. Martin Mc Donagh, inglese di origine irlandese, è soprattutto un ottimo commediografo e lo si capisce subito per le battute fulminanti, al vetriolo, di cui è costellato questo film. Ma è anche un eccellente sceneggiatore e le sue storie non fanno una grinza, ben costruite e  perfettamente funzionanti ( tant'è che a Venezia , dove " Tre manifesti ... " era stato presentato in concorso, ha vinto il " Leone d'oro " proprio in quella  categoria ).  Come regista, infine, ha al suo attivo un film bizzarro,  che non  sarebbe dispiaciuto ad Harold Pinter, il drammaturgo inglese del teatro dell'assurdo e della minaccia incombente , " In Bruges ", storia di due sicari persi nelle nebbie e nei canali di quella città.

Alle corte. La vicenda di " Tre manifesti ... " può anche apparire drammatica ( ed a tratti sinceramente lo è ) mettendo in scena una " mater dolorosa " cui hanno ucciso barbaramente la figlia. Stufa della scarsa solerzia della polizia che, dopo mesi, non ha trovato il più piccolo indizio per risalire all'autore di quel terribile omicidio , la madre in questione decide di dare una scossa alle indagini affittando tre giganteschi cartelloni pubblicitari appena furi della città sui quali affigge manifesti che stigmatizzano in pochi  ma incisivi interrogativi l'indolenza degli investigatori. Di qui le reazioni, per lo più negative, di questi ultimi e dell'intera , conformista cittadina ( non cercate Ebbing sulle carte geografiche perchè ovviamente non esiste... ).La vicenda, grazie al'inventiva e alla bravura di Mc Donagh, corre a perdifiato con scoppi improvvisi di violenza e frequenti colpi di scena, come un cavallo imbizzarrito ma teso a raggiungere egualmente il traguardo : nel nostro caso un epilogo sornione e beffardo che è anche però una attestazione, dopo tanto odio e rancore, della superorità dell'amore  e della reciproca " pietas " tra gli esseri umani. Un finale che un critico buontempone milanese ha definito ( scusatemi ) " una paraculaggine ".  Ma  che invece, a mio avviso,è semplicemente un ingegnoso e convincente snodo narrativo. Altrimenti, seguendo il singolare ordine di idee di quel mio collega blogger,  anche Shakespeare e Dickens, maestri  nell'imprimere svolte improvvise nelle storie che raccontano, finirebbero nella simpatica schiera dei "mistificatori " alla McDonagh ...

Se la storia raccontata da "Tre manifesti... " è drammatica ( le aggressioni, i tentativi di giustizia sommaria, la violenza verbale sembrano farla da padroni lungo tutto il film  ) non meno evidente mi sembra  il grottesco di tante situazioni, dei personaggi e dei dialoghi. La comicità si unisce spesso alle situazioni più tese, " dinamitandole " dall'interno, rivelando l'assurdità ed il disordine del finto perbenismo di una sonnacchiosa cittadina alla periferia dell' impero americano nonchè , più in generale , la caducità  dei " miti " su cui si è costruita la  fortuna  stessa del cinema americano. Ecco allora, brevemente rivisitati nel film, i generi classici delle " motion pictures " : dal poliziesco, al noir, al western, al film di denuncia politico-sociale. Altrettanti petali di stile narrativo che Mc Donagh, da europeo critico ma che rispetta, pur non amandola, la grande tradizione di Hollywood, sfoglia con ironico ma partecipe affetto. Ne viene fuori un gran bel film , pieno di echi e di dissonanze , bizzarro ed intelligente come certe opere  dei fratelli Coen( non a caso Frances McDormand, l'interprete principale, è la moglie proprio di uno di costoro ).
Se la sceneggiatura- come già ricordato- è di prim'ordine, anche la regia non scherza : ritmo teso, susseguirsi di inquadrature particolarmente suggestive, di taglio sempre molto indovinato, immagini a tutto tondo. Di solida fattura la  fotografia ed il sobrio, ma incisivo, commento musicale. Veniamo all'interpretazione , la parte più difficile per i continui cambi di registro- dal drammatico all'ironico e comico e viceversa - a volte  dello stesso personaggio nella stessa scena. Frances McDormand è semplicemente superlativa ( sicura finalista agli Oscar, ha appena vinto anche lei un " Golden Globe " ). Bella donna vicina ai sessanta, è ancora viva e guizzante, strepitosamente calata nel non facile ruolo della madre. Tra gli altri, tutti bravissimi, da citare almeno il poliziotto psicopatico ( Sam Rockwell ) che è una creazione veramente di alto profilo. Film da vedere, da meditare, da discutere, non lascia indifferente lo spettatore.

" Morto Stalin se ne fa un altro " ( cervellotica traduzione del sobrio  titolo originale " La morte di Stalin " ) il registro del grottesco, invece, lo cavalca in pieno. E per questo rischia, da noi,  il disfavore di una parte della critica e del pubblico.Come , d'altra parte,  non essere tentati di descrivere la crudele dittatura staliniana , assurda, ingiusta ed oltraggiosa, proprio attraverso la chiave di lettura del  genere grottesco, come se fosse uno di quei brutti sogni senza capo nè coda,  in cui notazioni tragiche si intrecciano con elementi  farseschi ? Ci provò, con l'hitlerismo, tanti anni fa , il grande Lubitsch ( " Vogliamo vivere ", cioè " To be or not to be" ) e gli andò da grande. Questo film , scritto e diretto da Armando Iannucci, britannico di ascendenza italo-scozzese , noto fin qui per alcune serie televisive di successo, non vale quanto quello di Lubitsch. Ma è solido, ben scritto. Gli episodi susseguenti alla morte del dittatore georgiano e la lotta per la successione che arrise al furbo Kruscev aderiscono abbastanza alla verità dei fatti, almeno per quanto mi ricordi. Soprattutto ha ritmo, almeno quasi sempre, ed interpretazioni di grande bravura ( su tutte quella di Steve Buscemi nella parte proprio di Kruscev, di grande finezza )  Talvolta queste possono sembrare un pò troppo sopra le righe, ma il grottesco lo impone  : esemplare in questo il personaggio Beria, temuto capo della polizia, divenuto poi ministro dell'interno, burattinaio  di tante vicende oscure ma , a sua volta, patetica ancorchè buffonesca vittima delle sue stesse macchinazioni .
Ne consiglio la visione, in barba ai critici nostrani che lo hanno piuttosto maltrattato, a coloro che amano divertirsi in modo intelligente e che non disdegnano, come più volte ricordato, la commistione di elementi diversi e dissonanti tra loro.  Ma non è questa poi, alla fin fine, la caratteristica principe della nostra stessa  esistenza ? Si ride e si piange, si lotta per raggiungere un qualunque obiettivo senza pensare al " dopo "... Grottesco, non vi pare ?







domenica 7 gennaio 2018

" CORPO ED ANIMA " di Ildiko' Enyedi ( Ungheria, 2017 )

Innanzitutto, lasciatemelo dire, che bel titolo ! Lo so , i film ,come i libri,  non si giudicano " a priori " da quella che è solo  una etichetta esterna, una pura enunciazione del loro contenuto  o della loro ispirazione ( spesse volte poi nemmeno frutto della mente dell'autore ma consigliata da sapienti esperti di " marketing " allo scopo di risultare più allettante per il pubblico dei " fruitori " ). Eppure, nel caso di questa timida eppure impavida signora ungherese di 62 anni  che ne è la regista, Ildikò Enyedi - di cui, giuro, nulla mi era noto fin ad oggi - sono sicuro che è stata lei a sceglierlo. Tanto esso è perfettamente aderente alla tematica di questa creazione così  singolare e suggestiva di cui ha , da sola , scritto anche la sceneggiatura ( e bene hanno fatto,qui, i distributori dei vari Paesi a  limitarsi a tradurre il titolo originale). 
Corpo ed anima . Una chiara  antitesi, diremmo a prima vista,  tra quanto di concreto, materico , immediatamente conoscibile è nella nostra natura e l'elemento aereo, sottile, che del primo  è in un certo senso prigioniero ma che ognuno di noi, pur senza averne una evidenza altrettanto palese, sa che esiste  e di cui avverte, a tratti, l'incoercibile immanenza. Materialità e spiritualità dunque, spesso in  drammatico conflitto ( ed è il tema, visitatissimo, di tanta arte dal Medio Evo ad oggi ). Ma anche il binomio che racchiude le due componenti inscindibili della persona umana e  che occorre pur riconciliare per ritrovarne l'armoniosa interezza. Un argomento, come si vede,  certo non nuovo ma che qui viene coniugato in un modo così originale ed intelligente da risultare fresco e  rigenerante come l'acqua del ruscello di cui, in alcune belle sequenze oniriche del film, si dissetano gli animali nella foresta innevata.

La presenza, la preponderanza quasi assoluta dei corpi è ben evidenziata fin dalle prime inquadrature del film. Siamo in un mattatoio pubblico e , in sequenze di sapore quasi documentaristico, assistiamo all'uccisione  sistematica e cruenta dei bovini che verranno trasformati immediatamente in grossi pezzi di carne pronti per il consumo. Sequenze che, a parte la repulsione anzi l'orrore che possono destare in alcuni, ci introducono in un mondo dove gli animali ( anche gli esseri umani, ci vien fatto di pensare...) assunti nella loro pura sostanza e  pesantezza corporea, appaiono inevitabilmente destinati ad una fine che ne cancella la stessa identità. Trasformazione materica rituale ed obbligata cui fa riscontro l'opacità e l'indifferenza del contesto ambientale. Un microcosmo, non tanto poi diverso da un qualunque  altro luogo di lavoro, che ci viene descritto in pochi ma significativi tratti come popolato da impiegati e operai dediti alle tante piccole preoccupazioni ed ipocrisie che segnano la vita di tutte le comunità umane : desideri palesi o repressi,  incontri e scontri dettati da invidie, gelosie, attrazioni ed oscure avversioni, la necessità di nutrirsi. Insomma il corpo, sempre lui , con la sua incoercibile urgenza , con lo stesso ritmo fatale che conduce alla sua distruzione.
Su questo sfondo realistico ( e , mi rendo conto, grave anche se ingentilito da un  sottile umorismo così tipicamente ungherese ) si innesta una bellissima vicenda che dà senso al titolo del film . Una vicenda umanissima, una storia d'amore come tante eppure insolita,dai tratti quasi magici e fantastici. Come magico e fantastico è il nostro mondo interiore, quell'anima  appunto che  è dentro l'involucro corporeo e anela ad una vita propria che sembra volersi sottrarre , a volte , alle stesse leggi del  luogo in cui abita. Ma che con il corpo, come è naturale che sia, occorre  che alla fine  si riconcili ed unisca nella pienezza dei sentimenti e  delle emozioni, di quanto cioè rende fragile e forte al tempo stesso la persona umana. Una vicenda di cui non desidero , qui, dire di più . Perchè mi pare giusto che quanti (e spero non siano pochi ) andranno a vedere il film la scoprano da soli e da soli ne percorrano il filo conduttore, così intelligentemente dipanato da Ildikò Enyedi. Progressione a tratti lenta, in altri concitata, ma sempre di  forte  impatto emotivo sullo spettatore che abbia avuto l'accortezza di abbandonarsi fiducioso allo scorrere delle immagini e dei dialoghi.

Merito non secondario del film mi pare sia quello di essere  in larga parte decontestualizzato dal punto di vista temporale e geografico. Nulla, a parte i nomi dei personaggi, ungheresi perchè ungherese è l'autrice, ci dice dove e quando si svolga la vicenda . Vicenda, certo, ambientata ai nostri giorni, ma in una mera e contingente contemporaneità con la sua fruizione da parte degli spettatori di oggi, senza che ciò assuma un significato " storico " qualunque. Come la stessa circostanza che sia ( presumibilmente ) localizzata in Ungheria - i riferimenti visivi che corroborino questa sensazione sono peraltro molto scarsi - non le conferisce alcuna " tipicità " ambientale . Fedele ad un cinema , quello  magiaro, spesso avulso da precisi riferimenti spaziotemporali ( si pensi a certi film di Jancso, di  Istvan Gaal o, per venire ai giorni nostri , di Mandruzsko e, in ultima analisi, allo stesso lodatissimo " Il figlio di Saul "  sullo sterminio degli ebrei) " Corpo ed anima " prescinde vittoriosamente da ogni pesantezza sociologica. La vicenda che ci viene esposta, i personaggi che ci vengono tratteggiati, acquistano così ancora maggiore forza , maggiore esemplarità, finendo - non tanto paradossalmente - con l'apparire ancora più veri e credibili. Ad accrescere questa sensazione di " spaesamento " contribuiscono le molte inquadrature in primo o primissimo piano che la Enyedi sembra prediligere. Sguardi, occhi, particolari dei corpi,umani ed animali, oggetti filmati da vicino o vicinissimo per far acquisire ad essi una " metafisicità " funzionale al significato del film , cioè per dargli una pregnanza che vada ben al di là del semplice dato materico e che gli conferisca un valore emblematico. Ed in questo mi pare di poter dire che il cinema di questa regista non più giovanissima sia esemplarmente " femminile ", cioè intuitivo, significante, tenero e crudele al tempo stesso, come- per citare la prima donna regista che mi viene in mente - il cinema dell'australiana Jane Campion  ("La lezione di piano ", " In the cut " ).Cinema ( giustamente ) inquietante, fatto per scuotere le coscienze, per emozionarci .

Se grandi sono i meriti della Enyadi regista , il contributo della sua sceneggiatura alla riuscita del film è innegabile. Il punto di partenza , l'assunto narrativo, lo sviluppo drammatico della vicenda, il modo in cui vengono caratterizzati i personaggi, anche quelli minori, mi è parso senza difetti ( salvo qualche trascurabile indulgenza in alcuni dettagli narrativi, e ognuno potrà scoprire da sè dove siano i punti nella trama di maggiore debolezza ). I due personaggi principali sono peraltro di assoluta forza filmica per come sono stati concepiti e sviluppati, specie quello dell'uomo, meno prevedibile della giovane donna che gli è contrapposta, anche se quest'ultima riesce a prendersi sulle spalle il maggior peso di una storia così pura e lineare ma che rischierebbe, in altre mani, di cadere nel patetico o addirittura nel risibile .
La fotografia, di bellissima evidenza quasi astratta nelle scene girate nelle abitazioni dei due protagonisti, le sequenze " oniriche ", forse realizzate con gli odierni prodigi del digitale ma comunque magnificamente orchestrate, la musica sobria ed efficace, la scenografia di grande gusto ed impatto visivo, tutto testimonia dell'altissimo grado di capacità tecnica raggiunto dal cinema ungherese ( si sa che non pochi film " hollywoodiani " sono girati oggi, almeno in parte, sulle sponde del Danubio... ). Ho lasciato da ultimo la recitazione nel film , affidata ad attori per me sconosciuti o poco riconoscibili ( manco dall' Ungheria da quasi dieci anni ) non perchè sia la parte più trascurabile. Ma perchè, non avendo potuto vedere il film in versione originale ancorchè , fortunatamente, sottotitolata, non posso giudicare- almeno dal punto di vista  del sonoro - quanto siano bravi e carismatici gli interpreti. Ma i loro volti, la loro espressività, il loro modo di muoversi nello spazio, mi sono sembrati eccellenti e completano certamente un cast di primissimo rilievo.
Il film , al pari di " The square " e di " Loveless ", di cui qui vi ho già parlato, è candidato all' Oscar di quest' anno per il miglior film di lingua non inglese. Chiunque vinca, sarà anche quest'anno ( nel 2017 prevalse giustamente l'iraniano " Il cliente " ) un grande vincitore.