martedì 28 maggio 2019

"L' UOMO FEDELE " di Louis Garrel ( Francia,2019 ) / " DOLOR Y GLORIA " di Pedro Almodovar ( Spagna,2019 )

Ecco due film, usciti di recente, che potremmo chiamare " da camera ", in analogia con quelle composizioni musicali affidate a pochi strumenti ed in cui la sonorità è lieve, ora triste, ora scherzosa, ma mai ponderosa e  magniloquente come nelle sinfonie o nei concerti per orchestra. Se il film cinese recensito l'ultima volta ( " I figli del fiume giallo " ) aveva delle tonalità possenti, drammatiche, estreme diremmo quasi, che potevano apparentarlo in campo musicale ad un'ampia e fluente sinfonia in più " movimenti ", queste  due operine - francese la prima e spagnola la seconda - assomigliano  a delle delicate ed ariose  "sonate"  scritte per  soli pianoforte, violino, violoncello, senza i più poderosi o incisivi strumenti a fiato o a percussione che contraddistinguono le formazioni musicali a pieno organico. Non che dicano cose meno gravi ed emozionanti. Al contrario. Tutti e due i film di cui mi appresto a parlare esprimono in verità  situazioni, stati d'animo, sentimenti di eguale od anche maggiore spessore ed intensità. Preferiscono farlo però, senza che questo vada  a scapito dell'efficacia o della vivacità, in modo più sommesso, con discrezione ed estrema semplicità di mezzi. Raggiungendo in definitiva gli stessi risultati in tema di vigore drammatico e di pathos. A riprova che il cinema, come la musica , la letteratura, le altre arti insomma, ha la possibilità di giocare su più registri, di percorrere vie diverse ma che conducono allo stesso soddisfacente risultato. " Cinema da camera ", dunque - di cui esistono  nel passato numerosi ed illustri esempi -  e che , come unica chiave per accedervi pienamente,  richiede una libera disposizione d'animo ( prevenuti astenersi ! ) e  un fiducioso abbandono al suo fascino sottile.

"L'Homme fidèle " è il secondo film di Louis Garrel, decisamente più conosciuto fin qui come attore di bell'aspetto e  marito ( che fortuna ! ) di Laetitia Casta. Figlio del prolifico regista Philippe Garrel, la tentazione di passare dall'altra parte della macchina da presa era troppo irresistibile e così alla fine ci si è messo anche lui. Non conosco il suo primo lungometraggio, del resto da noi mai arrivato, ma questo è davvero interessante e più di una semplice promessa. Siamo in presenza, mi sembra di poter dire, di una vera , forte personalità di cineasta. Se per la sceneggiatura ed i dialoghi egli  ha avuto l'accortezza di farsi aiutare da un veterano come Jean Claude Carrière (88 primavere ! ) la messa in scena, vivacissima e felpata al tempo stesso, è interamente farina del suo sacco e di ottima qualità. Il modo di disporre la macchina da presa, il taglio delle inquadrature, la successione delle varie sequenze, testimoniano infatti  di un sicuro talento, a mezza strada tra il Truffaut cui fanno riferimento tanti giovani d'oggi e ( per rimanere in zona ) il Rohmer che molti invece hanno un po' dimenticato. Grandi maestri insomma , come è inevitabile per un autore ancora alle prime prove. Ma anche tanta sicurezza ed autonomia di sguardo da non far gridare al plagio. E, rispetto ai due citati, una personalità forse un tantino più originale e bizzarra, tale da stimolare continuamente la nostra attenzione e la nostra curiosità.

La trama non può essere raccontata perchè è bene andarlo a vedere senza saperne granchè, se si vuole gustare il modo con cui i fili della vicenda si avviluppano e vengono via via dipanati. Siamo, banalissimo ma non scontato punto di partenza , in una sorta di triangolo amoroso, con  un lui ( lo stesso Garrel, ingenuo e tracotante quanto basta ) e due donzelle ( la polposa Casta ed una più snella " jeune fille en fleur ", la deliziosa Lily -Rose Depp ). E poi c'è un inquietante ragazzino ( il figlio, nel film , della Casta ) che è quasi il motore di buona parte della vicenda,più sviluppato mentalmente ed emotivamente della sua età, a meno che i ragazzini di oggi non siano tutti molto diversi da come eravamo noi e quelli prima di noi. Sbaglierebbe però chi pensasse, andando a vedere il film , di assistere ad un semplice " marivaudage " fatto di schermaglie erotico-sentimentali, di malintesi e di ripicche come in tante commediole di ieri e di oggi. No, qui c' è l'autenticità del sentimento amoroso ed una intelligente esplorazione della caducità ed, insieme, della sorprendente resilienza di quest'ultimo. Ma chi è " l'uomo fedele " di cui al titolo ? Ognuno può trovare la risposta che preferisce. Ma, attenzione alle false piste ed alle giravolte inattese di una vicenda davvero molto ben esposta. Ed ancora, personaggi e situazioni che riescono ad essere salvati dal bozzettismo caro, purtroppo, a tanto cinema d'oggi senza mai cadere nel sociologismo o nella tentazione di dipingere per forza un ritratto della odierna società della libertà dei costumi. Personaggi, in un certo senso, fuori di " un " tempo ben preciso, e quindi ancora più forti ed autentici nella loro pura e semplice essenza di uomini e donne.

Discorso analogo, e nello stesso tempo ben diverso, per  " Dolor y gloria ", l'ultima fatica del grande, geniale regista spagnolo Pedro Almodovar. Presentato pochi giorni fa a Cannes in competizione per la " Palma d'oro ",il film  è tornato dalla " Croisette " a mani vuote se si eccettua il pur meritatissimo premio per l'interpretazione maschile andato ad Antonio Banderas. Ma  ben altri avrebbero potuto legittimamente essere i suoi riconoscimenti, a cominciare dalla regia e dalla sceneggiatura. Almeno possiamo vederlo ora sui nostri schermi ed il consiglio che do è quello di non perderlo per nessun motivo perchè non solo è il miglior film di Almodovar degli ultimi dieci-quindici anni ma anche un'opera quanto mai toccante, sensibile ed esteticamente superlativa. Analogo a " L'homme fidèle "  per ispirazione ed andamento delicati e sommessi ( " da camera " appunto ) raggiunge peraltro una intensità emotiva e drammatica ben più elevata, consustanziale del resto alle caratteristiche di un autore " latino " e dalla sensitività , e sensualità, letteralmente a fior di pelle. In verità dovremmo definirlo un " melodramma " per la materia narrativa che ne è alla base. Se non fosse che l'equilibrio e la maggiore moderazione raggiunti oggi dall'autore, insieme all'ironia e alla capacità demistificatoria che ha sempre nutrito, lo sollevano sul piano di una superiore, dolente eppur serena  constatazione dell'ineluttabilità del tempo che passa e ci lascia con i nostri dolori e le nostre ferite ( anche con la " gloria " del titolo, certamente, pur se questa risulta alla fine effimera e ingannevole ).

Il protagonista del film ( davvero un Banderas in stato di grazia ) è un regista in difetto di ispirazione, invecchiato, malato, volontariamente segregato per non dover rivivere ogni giorno il proprio passato . Una raffigurazione , trasparentissima, dello stesso Almodovar. Ed anche qui, un punto di partenza non nuovo al cinema : immediato il riferimento al Fellini di " Otto e mezzo" o , in un certo senso, al Woody Allen di " Stardust memories ". Ma poi lo sviluppo del personaggio e del suo doloroso eppur salvifico errare con la memoria alla riscoperta della sua infanzia e alle radici della sua natura omoerotica e della sua ispirazione di artista, sono di ben diversa natura e non si esauriscono certo in un problema di semplice e momentaneo arresto creativo. Andiamo, qui,  più da vicino nell'analisi di come la nostra infanzia marchi il nostro destino, o meglio sia il rivelatore delle nostre caratteristiche più autentiche. E ci spingiamo nella rilevazione di come i grandi momenti della nostra vita ( il legame amoroso , in primis ) la condizionino a volte totalmente, lasciandoci, come residuo,  il rimpianto delle occasioni perdute e l'agrodolce delle gioie e delle sofferenze che abbiamo vissuto. Tutto questo genialmente raccontato ( la sceneggiatura è come sempre sua ) e splendidamente raffigurato da un Almodovar ora  affettuosamente ironico nel descrivere il proprio passato, ora sfrontatamente onesto nel mostrarci lo stato di decadenza prodotto dal momento presente. Un'autoanalisi dell'artista " da vecchio " che non cade mai nel patetico perchè continuamente riscattata dal coraggio e dalla passione per la vita e per l'arte. Sontuose le immagini , come sempre coloratissime, davvero esteticamente eccitanti, fluida ed articolata la successione delle inquadrature. Tra gli altri attori, va menzionata almeno Penelope Cruz (la madre del regista da giovane ) che sapevamo brava e bella ma che ora scopriamo anche un' autentica icona dell'immaginario creativo dell'autore. Hola, Pedro !


giovedì 16 maggio 2019

" I FIGLI DEL FIUME GIALLO " di Jia Zhangke ( Cina, 2018 )

Il cinema cinese- come tutto quello orientale in genere -  non ha mai potuto eludere l'obiettivo di conciliare modi e tempi tipici della propria tradizione culturale, del proprio modo  di affrontare il problema della rappresentazione della realtà, con le " ragioni " del cinema occidentale, cioè del prodotto di una cultura e di una esperienza di vita che hanno  radici ed orizzonti assai diversi. Voglio dire, con questo, che anche il più " moderno " dei film orientali ( cinese , giapponese , coreano, non importa ) deve fare i conti con l'eredità di un passato culturalmente ricchissimo, insopprimibile e per noi forzatamente lontano. Dando vita, quindi, ad un esperimento tanto più interessante quanto sottende una sorta di lotta o se preferite di dialettica, più o meno consapevole, tra il patrimonio "genetico" da cui forzatamente prende le mosse e la direzione , a volte modernissima, nella quale la personalità dei cineasti autoctoni tende avventurosamente a spingersi . Connubio di classicismo e di modernità, i film cinesi degli ultimi quarant'anni ( dal tramonto di quel maoismo che aveva completamente demonizzato ll mondo occidentale ad un oggi , ancora politicamente ambiguo, ma in cui si sono -per così dire - rotti gli argini che separavano la loro dalla nostra civiltà ) non finiscono di stupirci per il modo con cui essi riescono ad integrare, in ultima analisi, sia il peso delle origini che le esigenze di una cinematografia più aderente alle preoccupazioni odierne e al modo di dar conto di queste sul terreno della " finzione ".

Jia Zhangke ( " Still life "  che fu vincitore a Venezia nel 2006, " Il tocco del peccato " , " Al di là delle montagne " ) è un regista ancora relativamente giovane ( 48 anni ) ma che ha ormai conquistato uno statura internazionale. Il suo ultimo film , presentato a Cannes proprio un anno fa ma solo ora distribuito commercialmente in Europa, è un ottimo esempio di quanto dicevo prima. Impossibile non scorgere infatti, nella  sceneggiatura opera dello stesso Jia o nella recitazione degli attori o ancora nella particolare durata di alcune inquadrature , l'influenza di una lunga e ricca tradizione originaria, fatta di attese, di apparenti tempi morti, di atteggiamenti ieratici. Al tempo stesso, l'attrazione evidente che egli avverte per il " canone " occidentale ne fa un autore di inquieta, modernissima sensibilità, corposo ed articolato quanto basta e quindi particolarmente godibile per noi spettatori di questa parte dell'emisfero. La storia è quella di un " amour fou " ma sostanzialmente a senso unico di una donna, Qiao,nata in un ambiente modesto di minatori  di una regione del nord della Cina , per un uomo, Bin, che da capo della piccola ma fruttuosa malavita locale si trova a precipitare, per colpa dell'avversa fortuna, in una condizione di povero sciancato appena compatito e sopportato da tutti. Non così però  per Qiao, che continua pervicacemente ad amarlo e ad aiutarlo anche quando Bin si sottrae, si nasconde, tenta di sfuggire all'amore assoluto della sua compagna. Sullo sfondo della vicenda - ma vera protagonista essa stessa - la realtà cinese degli ultimi dieci-quindici anni : i tumultuosi cambiamenti che hanno visto la forzata modernizzazione del paese, la crescente marginalizzazione di vecchie comunità locali impegnate in settori economici obsoleti, l'irrompere sulla scena di una piccola e media borghesia avida di benessere, il rigore delle istituzioni e il lassismo crescente dei legami sociali.

Ed è questa, senza dubbio, la componente del film che salta maggiormente ai nostri occhi e che ci spinge a più di un " oh " di meraviglia quando vediamo cose ( le pacchiane discoteche che scimmiottano quelle di casa nostra, la licenziosità dei costumi, l'invadente ed inarrestabile occidentalizzazione dell'ambiente circostante ) che avrebbero fatto rabbrividire il " Grande Timoniere " se solo avesse potuto immaginarle sovrapposte alla Cina frugale, morigerata ed egualitaria dei suoi sogni totalitari. Il proliferare delle piccole e grandi sette mafiose, la corruzione e il vortice di " mazzette " per ogni cosa, la violenza e la maleducazione della popolazione specie giovanile , sembrano farla da padrone in un contesto socioeconomico mobilissimo e senza più punti di riferimento, salvo quello di una autorità statuale la quale, per continuare ad avere in pugno la situazione ed evitare l'anarchia totale, è costretta a tenere le briglie sciolte e a colpire a caso ogni tanto. A persone poco familiari, quale io sono, dell'odierna realtà  cinese, questo melodramma di Qiao e Bin, esteso sull'arco di più di quindici anni di vicende private e pubbliche, fa l'impressione di un film americano degli anni quaranta-cinquanta. Un pò Howard Hawks per la descrizione nervosa, puntuale, dei maneggi e degli andirivieni delle tante formichine impazzite che si muovono nella realtà del paese. Un pò Douglas Sirk per la sorniona ma ariosa descrizione dei tormenti psicologici e comportamentali  dei personaggi.

Il film, al di là dell'interesse quasi documentaristico che inevitabilmente finisce con l'assumere per noi occidentali, si raccomanda per la capacità di articolare la vicenda su di un esteso arco temporale , facendo ricorso ad un procedimento ellittico quanto mai efficace ( si veda il passaggio, in poche ma significative inquadrature dall' aggressione ai dinni di Bin al viaggio di Qiao per ritrovare l'amato dopo ben cinque anni di forzata interruzione del rapporto ).Il regista cerca, con tutta evidenza, di creare figure solide, di conferire al suo cinema uno spessore  che lo sottragga alla semplice descrizione anedottica per approdare all'olimpo della grande "narrativa" figurativa , quella per intenderci dei Welles e dei Rossellini, dei Renoir e dei Wilder. E ci riesce quasi sempre, sposando  moduli  tipici della rappresentazione orientale (ad esempio lunghe inquadrature sul volto dei personaggi principali ) con ritmi espositivi più fluidi e tali da imprimere al film  una salutare scorrevolezza. Nella storia di Qiao e di Bin si sente un respiro vasto che è quello della Cina, con la sua storia millenaria, con il sacrificio di centinaia di milioni de suoi abitanti, con il senso profondo di un fato che avvolge ed indirizza inesorabilmente l'esistenza di ogni uomo e di ogni donna. E per rendere tutto questo in modo appropriato necessitavano grandi attori. Cito solo la bella e brava Zhao Tao, che interpreta la magnetica Qiao , perchè moglie ed attrice preferita di Jia oltre che "star " di rinomanza continentale.Unico difetto del film, anche qui ( e non mi stancherò mai di farvi riferimento ) è la durata oltre le due ore canoniche , sforate  di ben sedici minuti senza che tale " extra time " aggiunga realmente qualcosa ad una vicenda che -pur facendo la tara alla sua forzata dilatazione dovuta al gusto orientale - si sarebbe probabilmente avvantaggiata di qualche taglio od almeno profonda limatura. Ma accontentiamoci, giacchè  vale la pena di ammirare l'opera anche così com'è.

giovedì 9 maggio 2019

" LA DONNA ELETTRICA " di Benedikt Erlingsson ( Islanda, 2018 ) / " VINCITORI E VINTI " di Stanley Kramer ( USA, 1961 )

Halla ( questo il nome del personaggio femminile de " La donna elettrica " ) è sulla cinquantina , splendidamente portata, e vive a Reykjavik in Islanda. Direttrice di un coro amatoriale alla luce del sole - tantissima in estate a quelle latitudini - si dedica, di notte o quando nessuno è nei paraggi, a danneggiare sistematicamente, con primitivi arco e frecce o più spesso con  banali ma efficaci esplosivi, i tralicci dell'alta tensione che conducono l'energia ad un nuovo impianto siderurgico situato nei dintorni della capitale. Da buona militante ambientalista, essa ritiene infatti che quella produzione vada contrastata perchè, con le sue scorie ed emissioni, altera il delicato equilibrio ecologico del paese e contribuisce così a quei pericolosi cambiamenti climatici che, a lungo andare, sembrano destinati a modificare irrimediabilmente le condizioni di vita sul nostro pianeta. Ispirandosi a Gandhi e a Mandela , i cui poster fanno bella mostra nell'ordinato salottino di casa sua( ma nè l'uno nè l'altro, detto per inciso, ci sembra incoraggiassero forme di " resistenza " tanto drastiche ) diventa una specie di ignota "primula rossa " cui la polizia dà la caccia senza successo e che tenta di conquistare alla giusta causa, con il proprio muscoloso esempio,  la bonaria ed inerte popolazione dell'isola. Fino al giorno in cui, appreso che una sua domanda di adozione di una bambina ucraina è stata dopo alcuni anni finalmente accolta, messo a segno l'ultima impresa ecoterroristica, parte per la disastrata regione del Donbass , prende con sè la piccola orfana destinata altrimenti ad un incerto futuro e si appresta, tornando a casa, ad un nuovo impegno civile ed umano ( ma è da scommettere che non metterà del tutto in soffitta la propria spericolata passione ambientalista... ).

Ho riassunto la trama del film - in verità molto più ricca di accadimenti e di  colpi di scena -  per mettere in risalto come si tratti di un film che,  pur prendendo le mosse da una tesi   ben precisa, oggi largamente diffusa e descrivendo con tratti semidocumentaristici l' odierna società irlandese e la quasi-incontaminata natura nella quale è immersa, assume in definitiva toni volutamente irreali e a tratti quasi fiabeschi. Toni che danno al film una cartterizzazione piuttosto accattivante per lo spettatore stanco di film che, nella loro pretesa totale aderenza al " reale ", sembrano piatti e prevedibili reportage televisivi. E che conferiscono all'intera vicenda una dimensione quasi allegorica, da apologo del XXI° secolo, tale da renderla simpatica e degna di essere seguita anche  da chi, magari non è del tutto convinto che i cambiamenti climatici siano massimamente imputabili alle attività umane. Perchè poi non è qui il punto : se cioè realmente le cose stiano come le vede Halla e se sia quindi giusto ricorrere alla violenza per evitare un pericolo tanto maggiore. Ciò che conta è, indipendentemente dalla verosimiglianza di personaggi e situazioni, questo bellissimo ritratto di donna " unidimensionale " ( che vive , ama e lotta  in tutte le sue manifestazioni per uno stesso ideale umanitario e sociale ) che il film ci offre e  persegue, qui sta il suo principale merito, con grande coerenza contenutistica e formale. Lungi dall'apparire un rifugiarsi nel " privato ", la scelta finale di Halla di liberarsi dalla stretta delle autorità del suo paese che l' hanno ormai individuata e di dedicarsi alla piccola orfana ucraina appare infatti come un orgoglioso e consapevole nuovo " engagement " che la porta ancora una volta a dedicarsi a qualcosa di utile e di appagante, soprattutto di non rinviabile e non delegabile: " qui ed ora ", verrebbe fatto di dire come monito per ognuno di noi. 

L'ultima sequenza, con Hanna, la bambina e gli altri viaggiatori dello scassatissimo pulmino ucraino diretto all'aeroporto, costretti a scendere e a proseguire a piedi sulle strade completamente inondate per le abbondanti piogge fuori stagione, non solo riporta lo spettatore alla minaccia ambientalista globale contro cui ha combattuto la " donna elettrica " e che aveva aperto il film. Ma , nell'inquadratura finale degli stessi viaggiatori che stringendosi gli uni agli altri si danno la mano procedendo titubanti nel paesaggio quasi apocalittico, ci restituisce l'immagine di una umanità che si salverà- se vorrà farlo - soltanto attraverso uno sforzo collettivo e solidale che la sollevi dalle tante miserie e delusioni che l'affliggono. Bel modo davvero di concludere un film che dice cose gravi e degne di attenzione ( non importa  poi quanto completamente condivisibili  ) e le dice, si badi, senza mai venir meno all'imperativo categorico di non annoiare lo spettatore, non volergli imporre una tesi preconcetta che non trovi nella rappresentazione , nelle immagini stesse prima ancora che nelle parole o nelle idee, la propria consistenza e la propria intima ragion d'essere,. Drammatico ma anche apertamente sentimentale, "politico" ma facendo appello più all'emozione che alla ragione, brillante nella propria  ricca e variegata sceneggiatura, " La donna elettrica " appassiona e, se non convince sempre, almeno commuove. Ben diretto con mano sicura e grande senso degli spazi, ritmo sostenuto ed incalzante, si raccomanda per la magnifica interpretazione di Halla, affidata ad un'attrice islandese dal nome impossibile a memorizzarsi ma bella, intensa, un grande omaggio alla componente femminile del genere umano. Occhio alla musica ( un accompagnamento dai suoni  nordici bizzari ed a tratti ironici , doppiati da un coretto di tre ragazze ucraine in costume tipico e che allude, strizzando l'occhio, alla " fuga " della protagonista nel Dombass ). Musica e " vocals ", però, non fuori inquadratura come in un normale film , ma  simpaticamente visibili al suo interno, sorta di quasi onnipresente " coro greco " chiamato, brechtianamente se volete, a commentare  azione e stato d'animo del personaggio principale. Dimenticavo, presentato a Cannes la primavera scorso anno in una sezione parallela con buon riscontro di pubblico e di critica, gira in Italia dal mese di dicembre ( principalmente, ahimè, nei cineclub ) ed il suo titolo internazionale è - per chi interessato a conoscerlo - "Woman at war ".

Nell'autunno del 1961 uscì in Italia " Vincitori e vinti ", ovvero " Judgement at Nurenberg ", di Stanley Kramer, il produttore-regista americano che l'anno prima ci aveva dato il " pamphlet" antinucleare " L'ultima spiaggia " ed ancora dirigerà fino alla fine degli anni settanta. Scarsamente amato dalla critica internazionale  per il suo procedere contrapponendo sempre i buoni-buoni ai cattivi-cattivi, senza cioè sfumature di sorta ( un critico francese lo definì " cineasta fatto  di cemento armato") viene oggi cautamente rivalutato per il suo afflato sinceramente " liberal ", in una Hollywood che si stava appena riavendo dalle emozioni della " caccia alle streghe " maccartista, e per la capacità di dar vita a superproduzioni  di impeccabile fattura e con grandi attori al loro meglio. Questo " Vincitori e vinti ", che non mette in scena il " grande" processo di Norimberga intentato subito alla fine del secondo conflitto mondiale ai capi del nazismo , bensì uno dei tanti processi " minori " ( ma non meno significativi ) celebrati dai vincitori negli anni immediatamente successivi ( qui siamo nel 1948 ) a carico di categorie di funzionari, militari, magistrati che pur eseguendo ordini impartiti attraverso la catena gerarchica si resero responsabili di crimini contro l'umanità. Il "giudizio " cui sono chiamati qui, nella celebre aula del Tribunale di Norimberga, i "vinti " della Storia, prima ancora che della guerra, riguarda quattro alti magistrati tedeschi che avevano anteposto la loro cieca fede in Hitler e  nel partito nazista al principio di legalità e di un equo processo attraverso le pesantissime condanne da essi inflitte ad ebrei ed oppositori del regime. Impossibile dar conto qui, anche succintamente, della quantità di interrogativi, di dubbi e di certezze ( almeno provvisorie ) cui dette luogo quel processo e che il film fa sue con grande abilità drammatica e, come è stato riconosciuto , " non senza sottigliezza ". Rivisto dopo quasi sessant'anni grazie ad una benemerita proiezione pubblica organizzata in ambito extraccademico dall' Università Cattolica di Milano ( in un'abile versione antologica, stante la lunghezza di tre ore dell'intero film ) il film mantiene tutta la sua potenza narrativa ( è giustamente considerato uno dei migliori "court movies " di sempre ) mentre emerge con forza il suo contenuto " politico " che non ha perso, purtroppo, nulla della sua tragica immanenza alla luce dei troppi crimini contro l'umanità che continuano a perpetrarsi nel mondo. Se vi capita, vi consiglio di vederlo : come si dice, "cibo per il vostro intelletto ".