lunedì 27 febbraio 2017

Gli Oscar 2017- Una postilla

Il dado , dunque,  è tratto . Stamattina, appena sveglio  ( non ho avuto il coraggio di stare alzato fino all'alba per godermi la diretta ) ho preso visione dei vincitori degli Oscar 2017 nelle varie categorie. Vi interessa la mia opinione ?  Dico subito che poteva andare peggio. Siamo purtroppo abituati alle ingiustizie , alle sviste , quando non agli errori madornali di questo tipo di tornei ( festival cinematografici naturalmente inclusi ). Basterebbe andare indietro col ricordo per vedere quante cervellotici riconoscimenti- ma soprattutto quante dimenticanze - si sono registrate in passato. Del resto , come dicono gli sfigati, il tempo poi si incaricherà di ristabilire le giuste proporzioni...
Poteva andare peggio, innanzitutto, perché il  super-sopravvalutato " LA La Land " avrebbe potuto conquistare ben più delle sei statuette che gli sono state elargite ( ricorderete che era candidato ...in quattordici categorie ). A sorpresa ha vinto un film uscito da pochi giorni in Italia,   "Moonlight" ( ancora una storia di neri diretta da un nero , quest'anno ce ne sono almeno tre o quattro in circolazione ) che pochi qui  hanno già visto ( confesso che  io l'avevo per il momento accantonato ). Ma che ora farà probabilmente registrare una qualche impennata al " box office ". Non voglio passare per  eccessivamente sospettoso ma questa statuetta ( addirittura " miglior film " di fronte a grossi calibri come " Manchester by the sea ", " Arrival " e , se proprio vogliamo, "La La Land " ) sa un po' di " riparazione " per le polemiche dello scorso anno, quando qualcuno lamentò che gli Oscar ignorassero totalmente il cinema afro-americano. Il fatto che entrambi i premi agli interpreti  non  protagonisti siano egualmente andati, stavolta, a due neri ( uno  sempre per  " Moonlight " e l'altro per " Barriere " ) corrobora questa impressione ( forse poco " politically correct ", capisco, ma ormai l'ho condivisa  con voi e Dio sa se, a me che ho passato quattro felici anni della mia vita in Africa, piacciano  o meno i miei fratelli neri ! )
Sono contento per i due Oscar agli interpreti principali, maschile e femminile ( che, ricorderete, avevo addirittura previsto ). Casey Affleck è un ottimo interprete e la sua difficile parte in " Manchester by the sea " è recitata in modo superlativo. Emma Stone - che mi ostino a considerare tutto meno che una bella donna, come alcuni sostengono, ma non ha qui ovviamente importanza - offre il meglio che potesse darci " La La Land " ed è destinata a diventare una nuova Bette Davis se non sprecherà il suo talento.
Del premio alla regia a Damien Chazelle ( 32 anni ! ) dirò che ispira tenerezza. Ma è ingiusto che sia stato soffiato a Kenneth Lonergan ( " Manchester by the sea " ). Almeno ( sottile nemesi ) lo stesso Lonergan ha ( strameritatamente ) scippato l' Oscar per la migliore sceneggiatura originale  proprio a " La La Land "( di cui ricorderete certo lo script zoppicante ed anemico ). " La La Land " infine si è, meritatamente questa volta, conquistato il massimo riconoscimento per la migliore canzone , la fotografia, e quant'altro di tecnico-formale potesse arraffare.
Ultima osservazione. Gli alti lai della stampa nostrana per l'eliminazione di " Fuocammare " ( categoria lungometraggi documentari ) ed i gridolini di gioia per l' Oscar... al trucco ( andato a due nostri onesti artigiani del settore ) occultano la gravissima crisi del cinema italiano ( testimoniata , lo scorso anno , dall'assenza di film  dalla competizione nel principale festival mondiale , quello di Cannes, e dal progressivo inaridirsi dell'ispirazione che fin qui aveva sorretto la nostra gloriosa cinematografia ). Verrebbe voglia di commentare, con Nanni Moretti 1977, " vi piace Alberto Sordi ? Ebbè, mò ve lo tenete Alberto Sordi ! ". Basta sostituire al povero Albertone  gli aedi del qualunquismo odierno ( Muccino , Tornatore, ormai lo stesso Sorrentino ) e , oplà, il gioco è fatto.  Ma tra poco siamo in Quaresima : avremo modo  di espiare...

" Jackie " di Pablo Larraìn ( USA, Cile, Francia, 2016 )

" Dove eravate il giorno in cui uccisero Kennedy " ? Ecco una domanda che penso si possa rivolgere a tutti coloro che quel 22 novembre 1963 avevano  almeno l'età della ragione, certi di ricavarne una reazione. E che mi sono fatto anch'io naturalmente, ricordando benissimo - come succede per le grandi date della Storia che ci è accaduto di vivere - dove mi trovassi e cosa facessi in  quel momento. Rammento lo stupore e la tristezza all'annuncio di  un avvenimento così drammatico e , almeno nelle prime ore ,  di incerta lettura ai fini del mantenimento dei delicati equilibri internazionali dell'epoca ( solo un anno prima si era sfiorata la catastrofe nucleare con la crisi determinata dal posizionamento dei missili sovietici a Cuba ). Quella data, con la improvvisa interruzione di una presidenza USA che aveva destato tante speranze ed emozioni, sembrò segnare la fine di un'era. Come se l'orologio della Storia si fosse per un attimo improvvisamente fermato. John Fitzgerald Kennedy - oggi lo possiamo dire tranquillamente - è stato un presidente controverso, non solo per la sua azione di governo  ma anche per le vicende private venute successivamente alla luce. Quanto alla prima, se pesa sul suo mandato il clamoroso errore dello sbarco nella " baia dei porci "( il maldestro tentativo di innescare una reazione popolare al regime castrista da poco al potere a Cuba ) proprio la successiva  gestione della crisi missilistica in politica estera, la promozione dei diritti civili e la " nuova frontiera " in politica interna,  ne fanno uno statista abile e coraggioso. Capace soprattutto di legare il proprio nome ad un periodo storico  breve ma di straordinaria intensità,  caratterizzato da una particolare temperie politica  altrettanto che da una irripetibile atmosfera positiva nella sfera del progresso sociale e culturale,  del desiderio di libertà e di cambiamento.
 
Dai giorni immediatamente successivi all'assassinio prende le mosse questo nuovo film del regista cileno Pablo Larraìn, autore lo scorso anno, quasi in contemporanea, di un interessante e riuscito  "Neruda " ( presentato a Cannes , mentre " Jackie " ha avuto la sua prima mondiale a Venezia ). Larrain, quarantenne, aveva esplorato  fin qui la storia politica del proprio paese nel  travagliato passaggio da una gracile democrazia alla dittatura militare prima ed al superamento poi di quest'ultima. L'odierna ed  inattesa incursione nella storia americana moderna ne conferma l'interesse per i nodi più drammatici delle vicende politiche del Novecento, l' originalità dell'approccio ed il sicuro talento nel descrivere personaggi complessi ed ambigui. Aggettivi, questi ultimi, che si attagliano perfettamente alla vedova di Kennedy.  Quella Jacqueline Bouvier, bella, colta ed elegante, regina delle cronache mondane, che fu di grande aiuto per il marito nella sua vittoriosa campagna elettorale  prima e, poi, nel  contribuire ad affermare l'immagine di una coppia quasi regale e di una " Atene sul Potomac " capace di rinverdire il mito della presidenza americana. Al tempo stesso, secondo i suoi biografi più imparziali, una donna ambiziosa, sedotta dal potere, tesa a prolungare  artificialmente il ricordo di una  "Camelot" senza più il suo re Artù. Ma anche, più semplicemente, una donna  cui , nel fiore degli anni, era stato strappato il coniuge nelle circostanze tragiche che sappiamo. Un personaggio, dunque , la cui " verità " non può essere colta da una sola angolazione e che, proprio per questo, richiede nell'essere descritto una grande attenzione alle sfumature, delicatezza di tono ma anche tratto robusto e sicuro. Un compito non facile  sia per il regista, che ha utilizzato una sceneggiatura originale non sua ma in gran parte rimaneggiata su suo consiglio, sia per l'interprete della mitica Jacqueline - " Jackie ", appunto - che qui è una intelligente e sensibile Nicole Portman ( in lizza anch'essa per l'Oscar 2017, se la dovrà probabilmente vedere con la Emma Stone di " La La Land " ).


Il film inizia ( e si chiude ) con la celebre intervista per il settimanale " Life " che Jackie rilasciò a sorpresa , appena una settimana dopo il tragico attentato, al  giornalista e politologo Theodore H. White ( sì, proprio l'autore dell' appassionante " Come si fa un presidente " , scritto due anni prima per raccontare l'ascesa di Kennedy alla Casa Bianca ). Desiderosa di raccontare la " sua " verità sul tragico evento  ma anche sull'irripetibile saga della coppia presidenziale, Jackie si abbandona ad una sorta di seduta psicanalitica in cui libera i suoi ricordi, sé stessa, le sue ansie e le sue paure. Ne esce, dall' intervista e dal film, uno straordinario ritratto di donna fragile e forte al tempo stesso, certamente ambiziosa e convinta di essere predestinata al successo, sconfitta dal destino ma disperatamente tesa nell'apologia di un sogno bruscamente interrotto. Procedendo nella narrazione per frammenti apparentemente slegati  e  continui salti all'indietro  il film  si incentra sull'attentato e sui giorni immediatamente successivi. Andiamo così dall'arrivo a Dallas e da quel maledetto corteo di macchine in cui Kennedy fu assassinato al cordoglio, in gran parte di facciata, che circondò la vedova dopo il tragico evento e al sostanziale e per certi versi inevitabile isolamento che le fu riservato dal nuovo " team " presidenziale. Il film diviene così una radiografia accattivante ( anche se non nuovissima) del potere in America e, soprattutto, del clamore mediatico che già allora circondava i personaggi resi celebri dall' immaginario collettivo. Convinta di aver dato inizio quasi ad una nuova era in cui potessero trionfare solo la bellezza , l'eleganza, lo stile, Jackie è riportata  dall'emozione del tragico istante,  dal sordo rumore degli spari e dal sangue del marito che le sporca il volto ed il vestito ( il celebre  vestitino Chanel rosa visto  centinaia di volte ) alla  ordinaria tragedia di una povera donna cui è stato strappato il suo uomo. Stremata, percossa  dal tumultuoso accadimento ma anche incredula dinnanzi alla rapidità con cui avviene il necessario " cambio della guardia ", praticamente espulsa dalla dimora presidenziale che aveva arredata lei stessa con tanto gusto e dispendio di mezzi, Jackie non vuole che , con la morte di Kennedy, scompaia bruscamente il suo mito. E si affatica a perpetuarne la memoria facendo appello a quel mito dei cavalieri della Tavola rotonda che, ripensando alla dubbia schiera di personaggi che per la verità circondavano un presidente dalla vita quantomeno  opaca e discutibile, appare oggi tutto sommato sottile e posticcio. Un mito che, sia detto per inciso, la stessa vicenda personale di Jacqueline Kennedy negli anni successivi ( il  sorprendente sodalizio con Onassis e la sua trasformazione in personaggio del " jet set ") si incaricò poi di affievolire sempre di più. Ma con questo siamo  già fuori dal film.

Larraìn si conferma con questa opera un regista dalla mano sicura e di discreta inventiva. La sua prima discesa in una storia " yankee " ( prevedo che non sarà l'ultima ) ne rivela la singolare capacità di adattamento, di  assorbimento  quasi, più che di determinati valori,  di uno stile narrativo, di un punto di vista  che  è tributario in certo modo del grande cinema americano,  per metà di inchiesta e per metà affabulatorio, da Welles a Kazan. Ma senza dimenticare  intenzioni e vigore  ideologico addirittura europei ( gli straordinari film di Francesco Rosi su Giuliano, Mattei, Luciano, che Larraìn deve sicuramente conoscere ). Film "americano " che più non si può nel ritmo sostenuto, nel nervoso susseguirsi delle inquadrature, " Jackie " ha tutte le ambizioni contenutistiche di un perfetto film  "politico " all'europea o almeno alla sudamericana : ambiguo, ricco di sfaccettature, affascinato e respinto al tempo stesso dal suo personaggio così contraddittorio, emblematico di un mondo cui ( ci scommettereste ? ) il regista guarda con  malcelato sospetto. Il risultato è un film certamente godibile, sorretto da un piglio sicuro e da una cruda densità espressiva ( quelle scene dell'omicidio, con il corpo di Kennedy riverso  tra le braccia della moglie nella limousine presidenziale, i tesi confronti tra il fratello Robert e  l'entourage del neo-presidente Johnson sulle disposizioni per i funerali di Stato ). Ma anche un film in parte irrisolto, in cui le molte contraddizioni del suo personaggio principale non riescono a fondersi ( a differenza che in Rosi ) in una visione da parte degli autori  lucida e a suo modo " definitiva " della vicenda narrata, delle sue origini, del suo significato. Voglio dire che ciò che resta nell'animo dello spettatore è la sensazione di aver assistito, tutto sommato,  ad un abile melodramma. Con i suoi quarti di nobiltà cinematografica , certo , ma in qualche modo lezioso ( ah quegli arredi dell'appartamento privato dei Kennedy alla White House, quei meravigliosi abiti e quelle acconciature di capelli così anni '60 ... ) e privo dello sguardo autenticamente ispirato che ne avrebbe fatto  altrimenti un piccolo capolavoro. Della Portman ho detto : è praticamente in tutte le inquadrature ed il film riposa spesso sulle sue gracili spalle, confortando così l'ostinazione del regista di ottenere a tutti i costi che interpretasse la parte. Bene anche gli altri, non troppo  fisicamente somiglianti agli " originali " - non lo ritengo una grave colpa, i film storici non sono un museo delle cere - ma tutti aderenti al loro personaggio. Fotografia , come spesso ormai accade, assolutamente pregevole. Per chi come me, e penso diversi tra i miei lettori, ricorda bene quei tempi, una festa per gli occhi ed una stretta al cuore nel rivivere avvenimenti tanto drammatici eppure così pregni di vita.
 
 
 



lunedì 20 febbraio 2017

" Manchester by the sea " di Kenneth Lonergan ( Usa, 2016 )

Manchester  ( by the sea ) è il nome di una graziosa cittadina a trenta miglia da Boston , Massachusets. Località vocata alla pesca e al turismo, non si distingue a prima vista dai tanti altri insediamenti urbani di taglia medio-piccola che, negli anni,  il cinema americano ci ha fatto conoscere nel bene e nel male che  talvolta racchiudono . Se  stavolta  dà addirittura  il titolo al film , mi vien fatto di pensare, è perché l'indicazione geografica non rappresenta più soltanto la " tela di fondo " della vicenda ma l'autentico catalizzatore dei sentimenti e delle memorie, nonchè del percorso personale dei personaggi principali, quindi l'argomento stesso dell'opera. Il luogo, insomma, che ospita i ricordi , lo scrigno dei segreti,  il ricettacolo di un passato che continua nel presente..Ma anche il territorio della speranza, degli affetti familiari, di un possibile riscatto come individui proficuamente inseriti in un tessuto sociale. Non più quindi costretti a fuggire e  ad annullare -attraverso il senso di colpa ed un sordo rancore verso i propri simili - la natura propria  degli esseri umani ( animali socievoli, secondo  i più ). Esseri umani che debbono essere capaci, alla fine, di assumere il peso dei ricordi,  di accettare sé stessi e gli altri, cioè in sostanza di tornare a vivere. Manchester by the sea : perché questo  ( od un altro, non importa ) è  il palcoscenico dove la vita ci ghermisce, qualunque sia la nostra storia o  personale condizione, questo il perimetro delle nostre emozioni, il teatro della nostra vicenda terrena. Ed anche chi  ha radici poco salde, perchè è stato magari costretto presto a spostarsi e non ha avuto in sorte di restare sempre là dove è cresciuto , ha dentro di sé una città, un paese, una casa,  che rappresentano idealmente il luogo dove tornare, sempre.

Con Lee, il protagonista, facciamo conoscenza all'inizio del film. Custode e  uomo tutto fare di un piccolo condominio dei suburbi residenziali bostoniani, è un gran lavoratore che non si tira mai indietro ( lo vediamo  eliminare i rifiuti, spalare la neve , fungere occasionalmente da idraulico o da elettricista  anche se , osserva con pacata rassegnazione , "ciò sarebbe contro le regole " ). Ma quel che ci colpisce è la sua incapacità di comunicare , di entrare in effettiva relazione col prossimo, diremmo la mancanza di empatia. Perfino quando - in fondo è giovane e potrebbe passare, come si dice , per un bel ragazzo -  qualche inquilina bianca o  di colore, giovane o meno, ci fa su più di un  pensiero . Ma lui, ce ne rendiamo  conto, sembra non accorgersene affatto, sfugge sempre al contatto e  alle semplici schermaglie,  anche quelle amorose,  con gli altri esseri umani. Depresso lo deve essere certamente, ma qual è la causa ? Scopriamo presto che il suo  retroterra non è Boston  ( dove è emigrato da qualche anno ) ma la piccola Manchester , dove l'improvvisa morte del fratello maggiore lo costringe al ritorno. E dove il film - nelle prime inquadrature ancora esitante e sonnacchioso - si impenna improvvisamente ed incomincia a dipanarsi sotto i nostri occhi con una evidenza ed un vigore narrativo davvero apprezzabili da chi ancora vada al cinema  convinto di trovarvi soggetto, verbo e complemento oggetto : cioè una storia, possibilmente interessante e raccontata bene. Condizione che qui, diciamolo subito, viene compiutamente soddisfatta. Kenneth Lonergan , un regista sulla quarantina alla sua terza prova , è anche un apprezzato sceneggiatore ( tra i film da lui scritti menzionerei almeno i due con un  Robert De Niro boss della mala e  bisognoso di cure psicanalitiche, gli intelligenti e garbati " Analize This" e " Analize that").  Anche questo film lo ha scritto interamente da sé ed è, credetemi, la migliore sceneggiatura originale dell'anno appena trascorso, almeno negli Stati Uniti ( candidato all' Oscar in questa categoria ha , come principale rivale - non ci posso credere - quel " La La Land " che sarà pure un discreto  "divertissement " ma , quanto a " script ", ne ha uno lacunoso e tutt'altro che solido).

Alle corte. Lee scopre che il fratello, facendo testamento , ha disposto che egli diventi il tutore del figlio ancora sedicenne ( la madre, alcoolizzata, se ne è andata da tempo ). Dopo aver cercato invano di scansare l'incarico, Lee incomincia con riluttanza ad assumere l'inattesa funzione. A poco a poco la frequentazione di un essere umano tanto diverso da lui ( il nipote è sicuro di sé , estroverso, diretto, gli piacciono le ragazze e tiene spesso testa allo zio)  sembra riavvicinarlo ad una visione meno  catatonica dell' esistenza,  ad una diversa prospettiva con cui guardare gli altri, anche coloro, magari, che non sono pronti ad accettarci per come siamo o crediamo di essere. Il finale - come è giusto e naturale che sia - non ci dice esplicitamente se la misantropia di cui soffre Lee ( e che ha origine in un tragico episodio della sua vita ) è stata finalmente debellata. Del resto, non è questo il punto. La vita è quella che è, fatta di tanti momenti tristi ed a volte, per alcuni, anche di qualche autentica disavventura. Mitigata, per nostra fortuna, da tanti altri momenti più sereni . Forse la chiave , sembra dirci il film, è nell'accettazione di ciò che ci accade, nell' affidarci al corso degli eventi e  nell' accogliere questi ultimi per l'insegnamento, la capacità di crescita che possono offrirci,  nel vivere l'attimo insomma. Questo, almeno, è quello che penso possa trarsi da un racconto tutt'altro che  povero nel suo sviluppo narrativo e visivo, con personaggi a tutto tondo, tosti e  variegati come da tempo non se ne vedevano. Ma anche momenti di estrema, insostenibile e tagliente drammaticità giustapposti, invece,a scene di sapore intimistico, di serena contemplazione quando non, addirittura francamente comici. Come la vita, appunto, a ben guardare.

" Manchester by the sea " - meglio mettere subito in guardia - non ha un andamento cronologico, dall'istante  "a", per intenderci, a quello "b" e poi allo "c" e via via  in  una rigida successione temporale. Si affida - il cinema può farlo e spesso vi ricorre - a continui salti all'indietro, flashback, che ci portano a rivivere momenti del passato di Lee. Poiché si tratta di un passato abbastanza recente, direi ad occhio sette-otto anni prima della vicenda che si svolge sotto i nostri occhi,  non è subito agevole accorgersene. I personaggi, infatti,  non sono molto cambiati nel loro aspetto esteriore ,con l'eccezione del nipote, allora ancora bambino ed infatti interpretato da un altro attore . Il racconto , la sceneggiatura, lungi dall'apparire in tal modo spezzettati - in certi film l'uso del flashback costituisce un salto non sempre giustificato ed un  semplice espediente per accorciare i tempi della narrazione - ne guadagnano in fluidità ed in rigore espositivo. Quei " lampi del passato " servono ad introdurre il tema del ricordo , della persistenza di quest'ultimo nel determinare i nostri comportamenti,  contribuiscono a spiegare come le nostre azioni si  atteggino ed in quale direzione esse si dirigano. Il passato, ci fa capire Lonergan, vive nel nostro presente. Anzi, forse, è l'unica vera " realtà " che ci è dato di mettere a fuoco con sufficiente esattezza, sedimentata com'è nei nostri ricordi e nelle  nostre emozioni più vere. Passato e presente si intersecano quindi continuamente , in un andamento ellittico che accresce la forte suggestione che il film esercita sullo spettatore. Così come si alternano nel film momenti altamente drammatici, altri elegiaci, altri francamente umoristici , senza che l'esposizione abbia a soffrirne. Anzi, la capacità di passare da un registro all'altro con scioltezza, senza forzature né arbitrio, costituisce uno dei punti di forza di " Manchester by the sea ", tale da conferirgli una leggerezza ed una fluidità che lo fanno seguire  sempre con grande interesse e partecipazione.

Chiariti in tal modo i meriti di Lonergan sceneggiatore, veniamo a quelli come regista che non sono francamente da meno ( anche qui ha ottenuto una " nomination " per gli Oscar di domenica prossima ). Si è detto dell'andamento fluido del film, che non va accreditato solo ad una storia finalmente di spessore adeguato ma anche ad una macchina da presa costantemente " sul pezzo ", come si dice. Le inquadrature ( spesso in piano ravvicinato, quasi volessero braccare i personaggi, costringerli a rivelarci la loro verità ) sono sempre precise, tempestive, e contribuiscono a determinare un'atmosfera tesa e vibrante cui non è estraneo l'uso sapiente del colore e delle luci in una fotografia mai gratuita e  di bell'impatto visivo. L'interpretazione di Casey Affleck nella parte di Lee è di assoluto rilievo ( Oscar in arrivo anche qui ? ). Raramente ritratto di depresso, di " umiliato e offeso " , sento di poter dire, fu altrettanto sincero ed azzeccato. E il giovanotto che interpreta il nipote ( Lucas Hedges ) sono certo che farà una bella carriera anche lui. A posto gli altri ,come si diceva una volta nelle recensioni teatrali .In definitiva un bellissimo film, come non se ne fanno più tanti ai giorni nostri. Un film che, nonostante i tragici avvenimenti che racchiude e la conseguente situazione di chiusura verso gli altri del protagonista, rasserena ed induce all'ottimismo o almeno ad una visione equilibrata della vita. Mentre nella cronaca e nell'attualità, che ogni giorno la stampa e la televisione  ci propongono con assillante frequenza, ammazzamenti e turpitudini la fanno da padroni, questo piccolo gioiello si incarica di ristabilire le giuste proporzioni e ci ricorda che la vita è degna di essere vissuta di per sé più ancora che per i valori che essa sottende. Ci fosse un Oscar per il film  più sereno e " paziente", penso che questo vincerebbe a mani basse.

 
 
 

mercoledì 15 febbraio 2017

" Silence " di Martin Scorsese ( USA, 2016 )

Ci sono film, a volte, che ti spiazzano. Eri andato al cinema pensando di vedere una certa cosa -  nel caso di specie una sorta di " western " ambientato nel Giappone del XVII ° secolo, magari con i missionari cattolici nella veste dei "nostri" e gli "indigeni" come nemici  -  e te ne ritrovi improvvisamente una tutta diversa. Diciamo subito che " Silence " , l'ultima fatica di Martin Scorsese - e qui il termine  "fatica " ci sta tutto per il dispendio di energia, di ingegno e di appassionata partecipazione profuso dal regista - è un gran bel film. E che il suo assunto, il suo significato, la sua ragion d'essere , vanno  al di là del semplice racconto di avventure o del film storico,  anche se queste due categorie sono qui egualmente ben rappresentate . In realtà mi è apparsa come un'opera di alto sentire , di tormentata riflessione sui problemi della Fede, della Grazia e della Misericordia, quale non avevo  letto né visto  dai tempi di Bernanos e di Bresson. Due nomi che non faccio a sproposito : li ha evocati o almeno non li ha respinti, quasi ad  indicare le proprie credenziali, lo stesso Scorsese in una lunga ed esemplare intervista con i gesuiti de " La civiltà cattolica " che, se avrete tempo, vi invito a leggere nella sua versione " breve " sul web ( laciviltàcattolica.it, 9 dicembre 2016 ). Film  "religioso",  dunque. O, meglio, " sulla " religione . In tempi e circostanze , oggi,  piuttosto lontani da una prospettiva ultramondana, un film  tale da spiazzare veramente,  da prendere lo spettatore non prevenuto a contropelo, da lasciarlo per ben due ore e venti in balia delle proprie emozioni , dei propri sentimenti profondi, delle riflessioni che sorgono spontanee mentre scorrono le immagini sullo schermo. Sensazioni ed introspezione che si fanno più vive ed acute a proiezione terminata quando, senza più quella boa di salvataggio che in fondo è il film  nel suo oggettivo dipanarsi,  si è lasciati soli a  decantare ciò che si è visto, ciò che si è sentito. E se questo accade, se questo lavorio interno lo avvertiamo, possiamo essere sicuri di aver  assistito ad una opera non effimera ma destinata ancora a vivere in  noi.
 
Veniamo alla vicenda. Due giovani gesuiti portoghesi - siamo nel 1633 - Padre Garrupe ( Adam Driver ) e Padre Rodríguez (Andrew Garfield ) ottengono, vincendo la riluttanza dei superiori, di essere inviati in Giappone sulle tracce della loro guida spirituale, Padre Ferreira . Questi, partito per convertire le popolazioni locali alcuni anni prima, non ha da tempo più dato notizie di sè. Potrebbe essere morto, forse ucciso dalle autorità di quel paese, vivamente ostili alla penetrazione del Cristianesimo. Ma si vocifera anche che egli, per qualche ignota ragione, abbia abiurato la propria fede e viva ora completamente integrato nell'ambiente e nella cultura giapponese. Già questo inizio, confesso, mi è subito piaciuto ed ho ammirato la sceneggiatura ( cui ha lavorato lo stesso Scorsese, traendolo da un romanzo giapponese apparso nel 1966 ) per darci subito, fin dalla prima scena, il  "plot ", l'essenza stessa della trama. Senza troppi passaggi a vuoto, senza quei tentennamenti iniziali che spesso si notano nei film di oggi, esitanti ad entrare in argomento , quasi "si cercassero" - come si suol dire - o fossero piuttosto tristemente alla ricerca di una storia ( la storia che sono supposti raccontarci e che purtroppo o non c'è o è debole , sfilacciata, talvolta esangue ). E poi, ammetterete, quella intrigante analogia con  il nucleo centrale di " Cuore di tenebra " di Conrad ( che al cinema, ricorderete, ha ispirato " Apocalypse Now "  ) con il mistero di Kurz scomparso nel fondo dell'Africa mi è subito piaciuta ed ha aguzzato i miei sensi. Dunque, i due gesuiti giungono fortunosamente in un isola del Giappone, prendono contatto con i pochi abitanti cristianizzati e per questo ferocemente perseguitati dalle autorità locali. Costretti a vivere la vita grama e semiclandestina dei poveri contadini che li stanno aiutando  a ritrovare l'amico Ferreira , i due religiosi incominciano - tra il continuo rischio di essere scoperti  e la difficoltà di orizzontarsi in un mondo così diverso - ad interrogarsi sulla profondità della loro fede e sulle loro possibili reazioni di fronte ai pericoli mortali ai quali si sono volontariamente esposti .  Il successivo incontro  con le forze incaricate di reprimere la diffusione del cristianesimo, la loro cattura da parte di queste ultime, la prospettiva di ritrovare in qualche modo le tracce del gesuita scomparso, conducono i due protagonisti  ( e lo spettatore ) ad un diapason di emozioni e sospingono il film verso il suo nucleo centrale. Fedele alla consegna  che mi sono data, non andrò più oltre nel raccontarvi la vicenda.

Del resto - anche se " Silence " , vi assicuro, riserva fino alla fine ancora molte sorprese ed ingegnosi passaggi narrativi - qui incomincia  ( o piuttosto si irrobustisce, perché in fondo si può dire che sia stata presente fin dall'inizio ) la  sua dimensione filosofico- spirituale. Fino a che punto la nostra fede, sembra chiedersi Scorsese, deve prevalere su qualunque  necessità con cui entri in occasionale conflitto , fosse pure la salvaguardia di altre vite umane ? E' lecito , per affermare la nostra adesione ad un " credo " ( badate bene, esso potrebbe anche non essere puramente religioso ) porre a repentaglio altri valori e disconoscere, soprattutto, le specificità, noi diremmo " le ragioni " di un paese , di una cultura  completamente diversa e refrattaria a quel credo ? Esistono valori assoluti, questo è vero ( pensiamo, anche, in un altro registro, alla libertà e alla giustizia ) ma se l'altra parte non li riconosce come tali  possiamo in casi di forza maggiore  dismetterli pubblicamente e , conservandoli nel nostro foro interiore, preservare quei valori per tempi migliori e salvare al tempo stesso la nostra anima ? Interrogativi possenti ed ai quali non credo sia facile rispondere con sicurezza. E che potrebbero dare l'impressione, così come io sto cercando di esporli, di un film che dopo una prima parte movimentata , avventurosa , a tratti  picaresca, viri  improvvidamente verso un film statico e verboso. Nulla di tutto questo, vorrei rassicurarvi. Tutti questi interrogativi nascono sempre  da situazioni altamente drammatiche e tutte " visive ", cinematografiche fino al midollo, rese da splendide immagini,  condotte con grande sapienza, ed appaiono  assolutamente funzionali allo sviluppo narrativo del film stesso. Le " idee ", in buona sostanza, sono il carburante di cui si alimenta la storia raccontata e , al tempo stesso, il punto di arrivo di una vicenda esposta con una chiarezza, un nitore espressivo che davvero ci riporta a Bresson. O, forse, senza varcare l' Oceano, ci ricollega idealmente ai  migliori film proprio di Scorsese. E qui viene subito in mente   "L'ultima tentazione di Cristo"  ( 1988 ) cioè l'opera più marcatamente rivolta a quella tematica che , sia pure in forme diverse, costituisce oggetto dell' odierno " Silence ". Ed anche, direi,  il meno lontano " Kundun ", in un registro anch'esso " asiatico-religioso ".

Ma, a ben guardare , è tutto il cinema di Scorsese - almeno nelle opere principali -  a trovare ispirazione negli stessi temi. Fin dai film ambientati nel microcosmo italo-americano di New York ( da cui Scorsese proviene ) il regista si è posto il problema del peccato. della colpa e della  redenzione  , della responsabilità verso gli altri, tutte tematiche intrise dei valori propri di un cattolicesimo ancestrale al quale egli  aveva appartenuto e  da cui , per sua propria ammissione, non è mai uscito anche quando non era più né praticante né, in un determinato periodo della sua vita, intimamente credente. Letti così , " Mean Streets " , " Taxi Driver " e " Toro scatenato " acquistano una dimensione non più soltanto storico-sociologica ma anche  mistico-filosofica, connaturata del resto alla natura e alle predilezioni dell'uomo e dell'artista Scorsese.  In " Silence "  ( un " silenzio " che può stare ad indicare quel silenzio che è in noi ,cioè l'incapacità di udire la voce della nostra coscienza che ci guida verso il Bene, ma anche - più desolantemente - il " silenzio di Dio "  ,ovvero l'impossibilità di dialogare con una divinità dai disegni imperscrutabili  ) a questi temi si unisce il concetto della Grazia, il bene di Dio che si effonde a volte sull'uomo e ne guida il cammino ( quella grazia che nel film, probabilmente,  induce Padre Gutierrez alla decisione destinata a  cambiare il corso della sua vita  ). Ed ecco ancora, ad informare di sé l'intera ultima parte della vicenda, il concetto di Misericordia : quella di Dio verso gli uomini, di cui è specchio l' amore che dobbiamo avere verso i nostri simili che ci induce ad anteporre ai nostri stessi ideali il valore supremo della vita. Sicchè, in una conclusione quasi circolare del film stesso, partiti da un atto di affetto verso " una " persona ( il Padre Ferreira scomparso che i due gesuiti decidono di ritrovare) approdiamo ad una conclusione che rappresenta una più ampia manifestazione di amore verso una intera comunità ( quella dei contadini cristianizzati ). E, aggiungerei, verso gli stessi " persecutori" giapponesi.

Giacchè il film - mi sembra doveroso precisarlo per coloro che, a questo punto, possono pensare che si tratti di un film " schierato ", di pura propaganda religiosa - non sposa programmaticamente la dottrina cattolica né si pone in una visuale unilaterale ( gesuiti e cristiani " buoni " , funzionari giapponesi " cattivi " ). Gli uni e gli altri hanno solide, obiettive motivazioni per fare ciò che fanno e se questo sia un bene od un male solo la misericordia divina ( e, aggiungerei " laicamente ", la nostra coscienza ) potranno dirlo. Si dirà , con queste premesse,  che  sembra un film difficile, scabro, di argomento troppo elevato per un po' più di due ore di spettacolo. Sarebbe un peccato se questi timori trattenessero gli amanti del cinema dall'andarlo a vedere. Gli argomenti religiosi ( ma pensate per un momento che invece di gesuiti portoghesi del Milleseicento il film parli di rivoluzionari sudamericani, un Che Guevara in Bolivia, venuto per  sollevare i poveri campesinos e catturato dalle autorità... ) sono distillati in un contenitore ( lo spazio filmico ) di assoluta suggestione, dinamicità e ritmo ,  tipici dei più bei film  di Scorsese, accanto ai quali non sfigura. Detto che il film ha solo qualche momento di stanchezza e di ( innocua ) ripetitività nell'ultima parte ed un lieve eccesso di brutalità e di violenza ( ma si sa che anche questi sono temi che da sempre affascinano il regista ) per il resto non posso che tesserne le lodi. Il " décor " è del grande Dante Ferretti ( almeno una gloria nazionale ! ), la fotografia è splendida, la musica ( dell'altrettanto grande Miklos Rozsa ) sublime, la recitazione più che corretta. La regia mi ha fatto nuovamente catturare dal fascino di Martin Scorsese. Un regista che , negli ultimi tempi, mi era sembrato troppo diseguale. E che ora , a settantadue anni suonati, mi pare più giovane e più saldo in sella di tanti altri che da poco si sono accostati alla macchina da presa. Uscito dal cinema, nella pioggia e nel vento dei giorni scorsi a Milano, ho continuato a lungo a pensarvi. Se non sembrassi blasfemo, e spero che anche i non credenti mi perdoneranno, ho pensato che un lieve tocco  di Grazia sia sceso su Scorsese, questa volta, ed anche su di noi spettatori.  

lunedì 6 febbraio 2017

" Lumière ! " di Thierry Frémaux ( Francia, 2017 )

Quando nasce il cinema ? Tutti ci ricordiamo, probabilmente,  che gli inventori del cinematografo sono stati dei francesi alla fine del diciannovesimo secolo,  cioè del secolo delle grandi scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche che hanno plasmato la nostra esistenza quotidiana. Penso che siamo in parecchi, anche , a ricordarci che questi francesi rispondevano al nome di Lumière ( Louis, l'inventore propriamente detto ed il primo " cineoperatore " della storia, ed il fratello Auguste ). Forse non tanti, invece, hanno visto i primi film della storia del cinema, girati dai due Lumière e dagli altri loro associati che essi inviarono in giro per il mondo a riprendere scene di vita quotidiana  e a far conoscere la loro straordinaria invenzione. Tra il marzo 1895 - data in cui fu mostrata  in pubblico il primo film in assoluto, " L'uscita degli impiegati dalla Fabbrica Lumière " -  ed il 1900, più di 400 pellicole ( lunghe ciascuna una bobina, circa sedici metri,  della durata di cinquanta secondi ) furono concepite, realizzate ed esibite in pubblica visione a cura dei fratelli Lumière. Questa eccezionale attività, prima che in altri paesi europei nascessero vere e proprie case di produzione e  negli Stati Uniti si consolidasse la potentissima industria  ancora oggi  dominante nel panorama cinematografico mondiale, rappresentò la più cospicua produzione dell'epoca nel campo dell' immagine in movimento. Ed, in tal modo,  una impareggiabile fonte di conoscenza e di intrattenimento per i pubblici di Europa e di Oltreoceano. Nato come spettacolo schiettamente popolare , lontano quindi da ogni intellettualismo, il cinema si manifestò sin dall' inizio come uno straordinario mezzo di espressione e di comunicazione. Ma soprattutto dette vita ad un nuovo linguaggio, capace di superare le diversità culturali e di interessare, appassionare e commuovere , popoli tra loro geograficamente distanti  e strati sociali  tra loro diversissimi.

 

Una cospicua parte di queste 400 pellicole sono state salvate dall'usura del tempo, restaurate e conservate adeguatamente ad opera di alcuni studiosi ed appassionati di cinema ed in particolare dall ' " Institut Lumière " di Lione, cioè della stessa città di cui erano originari i Lumière. Quella Lione in cui il padre dei due fratelli , Antoine , aveva creato una fabbrica di apparati fotografici, antesignani dell'invenzione del cinematografo ed in cui furono girati  diversi di quei primi film . Attivissimo direttore dell' Institut ( e nel contempo alla testa del prestigioso " Festival del cinema " di Cannes ) è da qualche anno il critico cinematografico ed organizzatore di eventi artistici Thierry Frémaux. Questi, in associazione con il regista e critico Bertrand Tavernier, anch'egli lionese, ha raccolto un centinaio di queste pellicole  riversandole in un film della durata " canonica " di novanta minuti, intitolato per l'appunto " Lumière  ! " e con sottotitolo quanto mai esatto, " Incomincia l'avventura" ( L'aventure commence " ).Un film che,  dopo la presentazione nell'ultima parte dello scorso anno in qualche festival, è stato immesso finalmente nel circuito commerciale francese due settimane fa e che ho potuto vedere a Parigi pochi giorni or sono. Autentica gloria transalpina, i fratelli Lumière è un " marchio di fabbrica " conosciuto da tutti ed è immaginabile che l'opera attragga un discreto pubblico. Il cinema inteso come frequentazione delle sale cinematografiche è infatti  un fenomeno ancora cospicuo in Francia , soprattutto ma non esclusivamente nella capitale, e il pubblico francese ama e segue le cose più interessanti che gli vengono proposte . Speriamo che , sulla scia colà di un possibile successo, "Lumière ! " sia acquistato da un distributore nostrano  e, anche qui da noi,  si ritagli uno spazio nella presentazione dei film di questa stagione cinematografica.
 
Alcuni dei " filmini " dei Lumière inclusi in questa sorta di antologia sono abbastanza noti. A cominciare proprio dal capostipite, quell'emblematica " Sortie des employés des Usines Lumière " in cui la cinepresa riprende, in campio medio, la frettolosa anche se ordinata fuoriuscita del personale. Attraente per il soggetto ( la tipologia umana rappresentata è interessante e variopinta , alla fine , compare anche un cane che attraversa tranquillamente lo schermo ) la pellicola costituisce, in certo modo, il primo spot pubblicitario della storia, considerato che gli stabilimenti Lumière producevano per un non trascurabile pubblico potenziale di fotografi professionali ed amatori.
"L'arrivo del treno alla stazione di La Ciotat "- altrettanto celebre - introduce sullo schermo la prospettiva ed il movimento, cioè la componente dinamica di ogni film : una locomotiva che traina un certo numero di vagoni, dapprima lontana e quindi piccola piccola, si avvicina sempre più massiccia,   invade progressivamente in diagonale una buona parte dello schermo uscendo poi dall'inquadratura sulla sinistra dello spettatore. Sembra che i primi spettatori, vedendolo, urlassero dalla paura, convinti che la locomotiva sarebbe furiusciuscita dallo schermo e li avrebbe investiti... Potenza del realismo dell'immagine cinematografica !
"La colazione del bebè " e "L'innaffiatore innaffiato " sono altri due filmini di cui avrete se non altro sentito parlare, se non li avete già visti . Il primo è un quadretto molto delicato in cui si vedono i coniugi Auguste Lumière imboccare il loro figlioletto sul seggiolone: una situazione familiare ripresa con tenerezza e spirito di osservazione , l'antesignano di quel cinema intimista, delle piccole cose,  su cui  la " decima musa " è tornato tante volte con costante successo. L'altro  è molto importante perché, se i primissimi film avevano un intento quasi documentario, questo lo si può definire a buon diritto il primo film di " fiction " in assoluto, cioè con una " storia " , qui stante la breve durata quasi una barzelletta : un ragazzetto dispettoso si diverte a schiacciare con un piede la pompa manovrata da un giardiniere che pensa così che  non arrivi più acqua, quando questi prende la pompa e la dirige verso di sé per esaminarla con cura il ragazzetto interrompe la pressione col piede e un violento schizzo d'acqua investe improvvisamente il volto dell'ignaro giardiniere.Il cinema comico  ( e sappiamo quale ruolo ha giocato nella storia del cinema ) era decisamente nato !
 
Altri film dell' antologia sono meno noti o addirittura inediti per i nostri tempi. Piccoli , straordinari documenti della Francia laboriosa . Falegnami , fabbri, spaccatori di pietre , vetturali, operaie tessili, spazzini : tutto un mondo di lavoratori che costituivano il nerbo della  comunità nazionale produttiva in grado di darci un puntuale ritratto di una intera epoca storica. E che ci restituisce un quadro anche umano ( quei volti , quei corpi indaffarati, piegati nelle varie attività )  di singolare bellezza plastica. Se da un punto di vista della tecnica cinematografica i film dei Lumière appaiono di sorprendente "modernità ", è da quello dei contenuti ( e delle forme che li rivestono ) che essi ci colpiscono e ci commuovono. Fuor di dubbio che la bellezza delle immagini , il sapiente collocarsi della macchina da presa, la profondità di campo, perfino i primi timidi  "carrelli " laterali e in avanti, rappresentino conquiste - in pochi metri di pellicola -  davvero anticipatrici di tanta parte dell'armamentario tecnico su cui poi il cinema è andato sempre più progredendo e che, qui, è già presente nella sua essenzialità. Ma quel che più stupisce ( e fa giustizia dell'errato assioma secondo cui i Lumière sarebbero solo dei "documentaristi " ) è la loro capacità di partire dal dato reale ( la vita colta nell'attimo in cui essa si svolge sotto i nostri occhi ) per transitare alla " messa in scena " ( la realtà ricostruita sotto un particolare angolo di visuale che riflette il giudizio " morale " dell'autore ) ed approdare infine alla " verità " , che è lo scopo ultimo di ogni arte : l'uomo colto nei suoi momenti di gioia e di tristezza, a tu per tu con i suoi sentimenti, con la propria dimensione individuale e sociale. Quei volti e corpi  di marinai che remano in senso contrario al moto ondoso su di una navicella sbattuta dai flutti ( uno dei più bei filmini dei Lumière ) non solo sono uno straordinario documento visivo , di limpido tecnicismo, ma anche uno stupefacente studio dell'uomo, indomito anche se inerme di fronte alla natura . C'è già Flaherty, Ford , Welles, in quella sequenza così meravigliosamente anticipatrice di tanta parte del cinema occidentale, " da Lumière a Godard ", come sottotitolava la sua raccolta di studi cinematografici ( " Visione privata " ) il compianto critico Francesco Savio.
L' avventura del cinema incomincia davvero con i Lumière, fin dai Lumière. E , per nostra fortuna , non si è ancora conclusa.