domenica 15 aprile 2018

" TONYA " di Craig Gillespie ( USA, 2017 )

Uscito ieri sera dalla proiezione di " Tonya " , da due-tre settimane sui nostri schermi, mi sono chiesto come abbiano fatto i giurati degli Academy Awards ( cioè gli Oscar ) a trascurarlo  in modo tanto vistoso, il fatidico 4 di marzo, rispetto ad altri film che erano sicuramente molto meno interessanti. D'accordo , ha pur sempre avuto il premio per la " best supporting actress ", andato alla bravissima interprete della madre della protagonista. Ma non averne segnalato, neanche nelle candidature, la sceneggiatura ( tra le  originali non certo inferiore rispetto a quella di  " Tre manifesti ad Ebbing " o di " La forma dell'acqua " ) o almeno la regia ( palpitante, viva, ricca di invenzioni ) mi è parso, retrospettivamente, un tantino azzardato. E che dire dell' attrice pricipale, Margot Robbie, 27 anni splendidamente portati, che ci dà qui una interpretazione letteralmente mozzafiato per intensità e duttilità espressiva oltre che per la travolgente fisicità impressa al suo personaggio ? Ha avuto il " Golden globe " ( l' " antipasto " degli Oscar , in ordine di tempo ) ma, nella notte degli Oscar, ha  poi dovuto cedere il passo alla pur brava ( ma già pluripremiata ) Frances McDormand dei " Tre manifesti ". Mah,  se penso che l'anno scorso il premio principale andò alla Emma Stone di " La la land " che non valeva un'unghia della mia preferita di quest'anno....

Dunque, che cosa ha questo " Tonya " da essermi piaciuto tanto e da farmi recriminare, una volta di più , sui criteri di assegnazione dei massimi premi di Hollywood ? Innanzitutto ha il merito di farci passare due ore letteralmente catturati da una vicenda  abbastanza nota nelle sue grandi linee ( é una storia vera, finita a suo tempo su tutti giornali, anche da noi ) ma " destrutturata " e ricomposta, come dirò, in modo assai convincente ( prima regola aurea del cinema, tenere sempre  desta l'attenzione dello spettatore ). Poi , andando a considerare i moduli espressivi della regia,il film è articolato in una serie di scene che si succedono vertiginosamente, con sontuosi movimenti di macchina all'interno dei frequenti piani sequenza ( senza " stacco " cioè da una inquadratura all'altra  )  che " raccontano " meravigliosamente il rapido dipanarsi del filo della vicenda. L'interpretazione ( la protagonista e  non più di altri quattro - quattro di numero - personaggi collaterali ) è tesa, convincente sotto tutti i punti di vista , assolutamente funzionale a quel misto di commedia (nera)  e di dramma ( rosa ) che caratterizza " Tonya " dandogli un sapore inconfondibile. Se poi ci aggiungete un montaggio ( la " giunzione " tra una inquadratura e l'altra all'interno di una sequenza e il passaggio da una sequenza a quella successiva  ) dal ritmo assolutamente travolgente,  scene e  costumi di grande ricchezza formale e, infine, un
commento musicale che conferisce ulteriore suggestione ai diversi momenti, alle varie situazioni in cui si articola lo sviluppo narrativo, avrete un prodotto finale di non comune forza e raffinatezza al tempo stesso.

Tonia Harding ( la protagonista, personaggio realmente esistente ) è stata una grande pattinatrice sul ghiaccio americana, tra la seconda metà degli anni ottanta ed i primi anni novanta del secolo scorso. Prima atleta USA ad effettuare il " triplo axel " ( un salto acrobatico che , se lo fai bene , ti fa entrare nella Storia ma se lo fai male  rischi di romperti le ossa quando ricadi sulla pista ) Tonia vinse il campionato nazionale nel 1991 a soli vent'anni.  Si classificò quarta, ad un passo dal podio, ad una olimpiade nella quale aveva in realtà dominato e concluse la carriera nel 1994, soltanto ottava nella successiva edizione. Ma al suo definitivo insuccesso non fu estranea, lo stesso anno, la tensione determinatasi in seno alla rappresentativa nazionale americana a causa di un oscuro " incidente " che aveva rischiato di porre fuori combattimento l'astro nascente della squadra, quella Nancy Kerrigan che, lo stesso anno,ai giochi,  riuscì comunque ad aggiudicarsi la medaglia d'argento. Rivale ( e in un certo senso perfetta antitesi come immagine ) di Tonya, Nancy subì infatti un'aggressione, nello stadio di Detroit dove si allenava, ad opera di due balordi prezzolati che si scoprì presto essere stati inviati dall'ex marito della Harding il quale, con tutta evidenza, pensava di fare un favore a quest'ultima. La Kerrigan, come si è ricordato, però si riprese in tempo dai colpi che le erano stati inferti ad un ginocchio, riuscendo a  partecipare alle Olimpiadi invernali e a  salire addiritura sul podio. Anche Tonya fu sospettata, naturalmente, di aver complottato insieme agli altri imputati ai danni della collega. Nel processo, celebrato dopo la conclusione dei giochi olimpici, fu peraltro condannata solo ad una pena pecuniaria per  " ostruzione della giustizia ", cioè per non aver raccontato agli investigatori di aver orecchiato qualcosa dei preparativi della delittuosa faccenda ( senza tuttavia essersene resa responsabile ). Ma, quel che è più triste, ritenuta comunque colpevole dalla sua federazione di comportamento gravemente antisportivo, fu esclusa per sempre da ogni futura competizione e dovette ritirarsi dall'attività agonistica. Ancora adorata da molti suoi " fans " ed odiata con eguale intensità da coloro che non l'avevano mai potuta sopportare, si dette negli anni successivi ad alcune esibizioni di pugilato per continuare a guadagnarsi da  vivere finchè , divorziata, si è rifatta una vita risposandosi e formandosi una nuova famiglia.

L'intelligenza dell'abile e solida sceneggiatura di Steven Rogers  consiste nel raccontarci " Tonya " non secondo un lineare schema cronologico-espositivo ma attraverso il punto di vista soggettivo, e quindi diacronicamente libero, della stessa protagonista che - nel film -  è supposta, ventitrè anni dopo, rilasciare un'intervista sulla sua vita ( Il titolo originale , più pertinente di quello italiano, è infatti " I Tonya " , " Io Tonya ", a significare che la narrazione dei fatti è assolutamente " di parte " ). Ma il racconto, vero o influenzato da questo particolare angolo di osservazione, è poi intercalato da parallele interviste agli altri personaggi :  la terribile madre che la fà allenare a ritmi spietati fin  da piccola per farne una campionessa , il marito bamboccione e violento, una sedicente " guardia del corpo " psicopatica e pasticciona, una istruttrice di pattinaggio che ha sempre seguito Tonya rimanendone in qualche modo affascinata . Tutti costoro ( e la stessa Tonya ) anche se il contenuto delle interviste è autentico ed è stato veramente rilasciato oggi dai veri personaggi a mò di loro personale testimonianza, sono però sempre interpretati sullo schermo dagli stessi attori, opportunamente truccati per farli sembrare più vecchi. Ognuno dei personaggi collaterali racconta quindi la sua porzione di " verità ", non sempre , anzi quasi mai collimante con quella di Tonya e degli altri. Espediente, al cinema , certo non nuovissimo, ( da " Rashomon a " La contessa scalza " ) ma qui particolarmente efficace nel rendere la sostanziale solitudine del personaggio principale e la sua sensazione di non essere mai  stata capita  ( cioè amata ) da madre, marito e  personaggi di contorno, ma quasi sempre utilizzata per scaricare le loro pulsioni interne ( ambizione , frustrazione, addirittura odio ).

Una materia incandescente, come si vede, e anche non semplice da rappresentare per la continua alternanza degli stati d'animo della protagonista ( chiaramente a disagio negli " interni " familiari  ed euforica solo  in pista, negli sgargianti e un pò pacchiani costumi da esibizione sportiva ). Ma anche per la voluta, singolare, alternanza di toni, ora drammatici, ora sentimentali, ora grotteschi, ora violenti. Tutte cose che avrebbero rischiato di far deragliare il film ad ogni piè sospinto se non fosse intervenuta la mano sicura del regista ( un australiano trapiantato in America, con un lungo passato di regista pubblicitario e quattro o cinque lungometraggi di " fiction " ) nonchè la bravura degli interpreti, a cominciare dalla Robbie, autentica rivelazione. " Biopic " di natura particolarissima, " Tonya " riesce anche ad essere- ampliandone il significato- un ironico ma a tratti doloroso apologo della società americana, desiderosa di successo , di rispettabilità e di formale adesione ai valori di quella "correctness" che si suppone sia l' appannaggio delle classi medio-superiori. Ambienti questi che, proprio per la eccessiva genuinità popolaresca di una Tonya troppo sexy , cresciuta in  un contesto povero in tutti i sensi, poco raffinata, le preferivano in fondo quella Nancy Kerrigan, tutta aggiustatina, che rispondeva molto di più ai dettami socio-sportivi cari alle masse. Scene memorabili, in questo senso , l'inizio del film  quando la sboccata e spavalda madre di Tonya accompagna la figlia quattrenne per la sua prima lezione di pattinaggio o la delusione di questa, ormai adulta, quando si rende conto che il pregiudizio verso le sue origini sociali ed il proprio modo di compotarsi non le apriranno mai le porte di un grande , forse meritato successo.
Bel film , ripeto,  meritevole di essere visto, assaporato, meditato . Mi ha ricordato, in alcuni momenti, il cinema di Scorsese agli inizi ( " Mean streets ", " Alice non abita più qui ", fino a " Toro scatenato ") per la forza e la linearità con cui si impone allo spettatore. E non è poco.




  

sabato 7 aprile 2018

" QUELLO CHE NON SO DI LEI " di Roman Polanski ( Francia, 2017 ) / " VISAGES VILLAGES " di Agnes Varda ( Francia, 2017 )

Roman Polanski ci ha abituato da tempo - il suo primo lungometraggio, " Il coltello nell'acqua", risale al 1962 cioè a più di mezzo secolo fa - alle atmosfere tese e sottilmente inquietanti, alle apparenze che celano altre e meno confessabili verità. Nulla di più, nulla di meno anche in questa sua ultima opera. Arricchita certo, rispetto alle prime,  dalla cospicua esperienza tecnico-stilistica acquisita nel frattempo e che fa di lui un piccolo maestro della " suspense " e dell'ambiguità. Ecco, con l'aggettivo " piccolo " accanto all'appellativo di " maestro "- lecito per le ripetute ed onerevoli prove di valentia che ci ha offerto nel corso della sua carriera - ne abbiamo , credo, più appropriatamente circoscritto l'importanza relativa nel variegato patrimonio filmico che si è andato  nel frattempo accumulando davanti al nostro sguardo. Indubbiamente Polanski è bravo ( tecnicamente, sintatticamente ). Il suo mondo, le situazioni ed i personaggi cui egli dà vita sullo schermo, costituiscono una " cifra " narrativa accattivante, cui è lecito indulgere nel nostro non tanto segreto desiderio di andare al cinema per ricavarne quel brivido, quel briciolo di paura che , dal calduccio della nostra poltrona di spettatori, possa rassicurarci sulle nostre piatte ma meno pericolose esistenze. Poco a che fare insomma con altri , grandi ( questi sì ) creatori di ombre ben più inquietanti ed angosciose , anche quando rivestite dal velo dell'ironia. Penso a  Lang, a Welles, ad Hitchcock ( al quale ultimo, Polanski- non privo a sua volta di una buona dose di " humour "- è stato di tanto in tanto erroneamente accostato ) .Meno  profondo o tematicamente ricco, il cinema di questo giramondo - polacco di origine, ha vissuto e lavorato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti prima di accasarsi definitivamente in Francia più di trent'anni or sono - riflette purtuttavia le giustificate angosce di un esule, di un incorreggibile " outsider " che toccano  sentimenti diffusi, preoccuazioni e timori di una buona parte di noi. E lo fanno sempre, ripeto, con modalità e risultati di decoroso spessore.

Anche in questo film la protagonista, una scrittrice in debito di ossigeno creativo ed esistenziale, depressa e priva ormai di slancio vitale, a seguito di un fortuito incontro si trova  confrontata ad un misterioso personaggio femminile," Elle " ( " Lei " ) una sorta di " alter ego " che appare quasi sorto dal nulla e nel nulla è destinato a confluire alla fine del film . Volitiva, assertiva, piena di subdolo ma efficace spirito di iniziativa, Elle sembra  giocare a rimpiattino con la scrittrice, ora blandendola ora mettendone a repentaglio le poche,residue certezze, dandoci l'impressione di volerla soppiantare, plagiare impadronendosi della sua identità, in un crescendo di ambigua ed  elegante ferocia. Sospesa tra finzione e realtà ( il titolo originale " D'après une histoire vraie ", cioe " Basato su di una storia vera ", è una sardonica strizzatina d'occhio allo spettatore ) la vicenda raffigurata da Polanski è raccontata  , secondo il suo stile, attraverso situazioni, immagini, dialoghi ( la sceneggiatura è di Olivier Assayas, a sua volta oltre che sceneggiatore regista ) a volte semplicemente bizzarri a volte  più scopertamente inquietanti. " Elle " esiste veramente o è il frutto della fantasia malata di un' artista ( lo stesso Polanski ? ) e  lo specchio delle sue insufficienze e  della sua solitudine ?
Molto è affidato, come sempre , alla bravura degli interpreti ed alla loro capacità di calarsi  nei personaggi, conservando al tempo stesso quel tanto di distacco e d autoironia che è tipico  di Polanski e che conferisce alla sua maniera di " fare cinema " una genuinità ed una leggerezza che la rendono simpatica anche quando sfiora la ripetitività e l'artificio. Emmanuelle Seigner ( la scrittrice ) è ormai, oltre che la compagna di vita del regista e la sua ispiratrice, una attrice con i fiocchi e lo dimostra  ampiamente. Appesantita dagli anni ma sempre bellissima, assume la fragilità del suo personaggio sposandone le evidenti contraddizioni e impedendoci intelligentemente di identificarci con esso. Eva Green, attrice relativamente nuova ma già conosciuta, interpreta Elle con l'apparente perfidia che la storia le attribuisce. Affascinante anche lei, è anche molto abile nel dare corpo ad un personaggio di così problematica esistenza e contribuisce non poco a rendere il tutto saporito e piccante quanto basta. Certo, siamo di fronte ad un puro " divertissement ",  probabilmente non ad un'opera nata da una genuina " necessità " espressiva. Ma chi ha detto che l'artigianato non possa a volte sostituire l'arte con qualche probabilità di successo ?


Tutt'altro discorso occorrerebbe fare  per un' altro cineasta francese che ci ha dato in questa stagione un nuovo, bellissimo film . Si tratta di una donna ( purtroppo sono ancora troppo poche nella regia ) ed il suo nome è Agnès Varda. Se il suo secondo film ( " Cléo dalle cinque alle sette " ) rimane uno dei più raffinati e struggenti frutti di quella feconda stagione cinematografica che sono stati i primi anni ' 60 del secolo scorso, la decana del cinema d'oltralpe ( 88 anni pieni di saggezza e di voglia di vivere e di creare ! ) in tutti questi anni non ha mai smesso di cercare nuove vie, di sperimentare con la freschezza e la curiosità che la contraddistinguono. Oggi , dopo varie incursioni un pò in tutti i generi ma sempre infondendovi l'impronta della sua  singolarità di " autore " personalissimo e continuamente rinnovantesi, con " Visages, villages " torna al documentario, inteso come " non finzione ", opera cioè che desume la sua ispirazione e la materia prima di cui questa si alimenta direttamente dalla realtà, senza il filtro di una " storia " inventata. Ma noi sappiamo che l'arte è sempre finzione nella misura in cui riflette e riproduce quella particolare immagine della realtà che è vista con gli occhi dell'artista : singolare ed unica, non semplice decalcomania riproducibile all'infinito ma irripetibile visione del reale  e quindi artistico " infingimento ". Il " documentario " della Varda non è quindi tale se non nella misura in cui ne sposa le tecniche esteriori ( i luoghi dell'azione sono quelli ripresi oggi così come sono, quasi tutti in esterni, ed i personaggi sono persone " autentiche ", con nome e cognome , che interpretano sè stessi ). Per il resto, è la regista ( qui anche sceneggiatrice ) che, nel raffigurare lo scorcio di realtà che costituisce l'oggetto del film, lo " piega " per così dire  ad esprimere la " sua " visione delle cose o, meglio, coglie di esso quanto le abbisogna per dare corpo al suo mondo interiore ed esplicitare così la sua " posizione morale " di fronte alla vita (che è ,come sappiamo, l'imprescindibile essenza di ogni manifestazione artistica ).