domenica 27 novembre 2016

"L'asso nella manica " di Billy Wilder ( USA , 1951 )


Ho già avuto modo in precedenza di esprimere tutta la mia ammirazione per Billy Wilder, il regista di Holliwood - tra i grandi del passato - che , con Hitchcock, mi è più congeniale.Con Wilder, che questi scriva e diriga commedie ( " L'appartamento " , " Baciami stupido " ) oppure drammi ( " Giorni perduti ", " Viale del tramonto " ) si va sempre sul sicuro. La sua onestà nei confronti dello spettatore, considerato non uno stupido da incantare con qualche giochino puramente formale ma un essere dotato di normale capacità di giudizio, ne fanno un costruttore di immagini , anzi di forme cinematografiche tra i più sinceri ed amati dal pubblico. Piace la forza e la dirittura morale del suo cinema, accoppiate ad un garbo- anche nella satira o nella critica più accesa- che tradisce la sua appartenenza ( era di origine austriaca ) a quella società mitteleuropea che, anche nella catastrofe, non è venuta meno ad un intenso amore per la vita e ad uno stile elegante e sottile.
Questa settimana non sono andato al cinema. Sbaglierò ( e chiedo scusa a quelli che la pensano diversamente ) ma non ho trovato film in uscita di un qualche interesse. Nè quelli ancora in programmazione e che non ho visto hanno saputo indurmi in tentazione. Andrà sicuramente meglio in dicembre , ho pensato, con l'arrivo, una dietro l'altra, delle ultime opere di Clint Eastwood, Xavier Dolan ( quello di " Mommy " , per intenderci ) e Stephen Frears. Sono stato quindi costretto - ma è tutt'altro che un ripiego- a guardarmi un DVD sul televisore di casa. E la scelta,per non commettere errori, non poteva che cadere su un vecchio film di Wilder. " L'asso nella manica ", uscito nel 1951, ebbe successo a suo tempo per l'interpretazione di Kirk Douglas e per un soggetto particolarmente " forte " : gli eccessi della stampa a sensazione di stampo americano a fronte della banalità delle tragedie a cui ci espone la nostra condizione umana. Non lo vedevo da parecchio tempo e una seconda analisi mi ha convinto, poche ore fa, che Wilder, anche quando non è in un vero stato di grazia, rimane sempre un valore sicuro sul quale rifugiarsi quando l'attualità cinematografica non ci appare particolarmente stimolante.
La pellicola, un rigoroso bianco e nero, è ambientata nello Stato del New Mexico , desertico in gran parte e - almeno pochi anni dopo la fine della guerra-senza particolari attrattive. Gente semplice, popolazione con forte presenza ispanica , qualche autoctono di origine indiana, insomma una America rurale che il progresso aveva appena sfiorato.La storia inizia, alla prima inquadratura, con l'arrivo nel capoluogo di un giornalista millantatore, molto sicuro di sè ( Douglas , appunto ) che , cacciato per le sue intemperanze dai principali quotidiani della costa orientale è costretto a cercarsi un impieguccio nel giornale locale ( L' " Albuquerque Sun ", e scusate se è poco ). Chuck Tatum, questo il nome del gazzettiere esiliato, morde il freno nella cronaca locale ( inaugurazioni di mostre floreali, caccia ai serpenti nel deserto e via di seguito ) e sogna di rilanciarsi nel circuito della stampa che conta ( New York, Boston , Chicago ). Perchè questo si avveri gli ci vorrebbe però uno " scoop " , come si dice, una grande esclusiva su un qualche fatto capace di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale, altro che i tranquilli lettori dell'organo che al momento lo impiega per poca pecunia.
La fortuna sembra assisterlo quando, in una sperduta località semidesertica dove è stato inviato dal giornale per coprire uno dei tanti fattarelli di cui è costretto ad occuparsi, si imbatte in quello che è , o almeno potrebbe diventare, un caso finalmente degno di nota. Un povero agricoltore mezzo messicano ,di nome Leo Minosa, proprietario di un piccolo posto di ristoro e di una pompa di benzina eternamente privi di clientela, è rimasto intrappolato da una frana in uno scavo abusivo da lui ricavato alla base di una modesta altura ( la " Montagna dei sette avvoltoi ", probabilmente un antico sepolcro indiano ) per permettergli di trafugare qualche modesta ceramica funeraria da rivendere agli scarsi turisti che si avventurano in quel luogo. Fiutando il colpo giornalistico , Tatum organizza le cose per benino. Conquistata la fiducia del disgraziato Leo, diventa una sorta di tramite obbligato tra questi ed il mondo " di fuori ", si fa raccontare tutta la sua storia e lo trasforma, inviando cronache molto pittoresche al suo giornale,in una sorta di " eroe quotidiano " che ben presto cattura l'interesse e la trepida ansia dei lettori per la sua sorte, sospesa- secondo quanto racconta il furbo giornalista- tra la vita e la morte. In realtà Leo potrebbe essere salvato molto presto con tempestivi interventi di rafforzamento della galleria in cui è rimasto prigioniero. Ma per creare un vero caso nazionale che tenga a lungo tutti col fiato sospeso ed attiri l'attenzione della grande stampa Tatum non esita a fare in modo che i soccorsi scelgano una strada più lunga e perigliosa ( un improbabile traforo a partire dal vertice dell'altura ).

Le cose, intanto, sembrano mettersi bene per l'audace e cinico giornalista, ormai sotto tutti i riflettori e nuovamente conteso dalle principali testate nazionali che gli offrono di lavorare con loro a suon di bigliettoni ( " voglio anche trovare sul mio tavolo di lavoro " - dice lo sfacciato al telefono, non contento, ad un direttore di giornale che a suo tempo l'aveva licenziato- " un mazzo di fiori ed un biglietto con scritto sopra bentornato ! " ). A questo punto non proseguo nel raccontarvi la storia ( che sceneggiatura di ferro, ricca di colpi di scena , coesa nello sviluppo della vicenda ! ) e vi lascio il compito di scoprire da voi, se già non lo sapete, come andrà a finire.Qui basti dire che le inquadrature che accompagnano il crescente interesse - forse sarebbe meglio dire l'attrazione morbosa - che esercita la storia del povero Leo su di una massa di persone facilmente influenzabile dai " persuasori " non tanto occulti dei media dell'epoca ( stampa, radio , la nascente televisione ) descrivono in modo magistrale la trasformazione del povero borgo dove è intrappolato il disgraziato agricoltore. Folle di gitanti con famiglie, accampati con tende e roulottes nell'attesa degli sviluppi della vicenda ( che non sospettano essere stati artatamente rallentati ) giornalisti senza scrupoli o rispetto verso il dramma che si sta svolgendo, speculatori di ogni genere , autorità locali preoccupate unicamente della pubblicità che possono ricavarne.Un coacervo di spietati traguardi personali, di brame fin troppo evidenti, alimentate- si diceva- da una stampa pronta a raccontare bugie e a tradire così quelli che dovrebbero essere i propri doveri verso l'opinione pubblica in una democrazia ben ordinata.
Critici troppo frettolosi e forse prevenuti verso Wilder hanno tratto spunto da queste inquadrature- forti, a volte quasi insostenibili - per rafforzare il loro convincimento di un regista de l' " Asso nella manica " solitamente cinico, volgare ,con poca empatia verso la gente comune, fortemente misogino ( qui la moglie del povero Leo ci fa una figura davvero molto, molto negativa ).Nulla di più falso, e vi invito a constatarlo voi stessi. Gli uomini - e le donne - sembra dirci il grande Billy , e più che " dircelo " ce lo mostra, come deve sempre fare il cinema , arte visiva per eccellenza- non sono nè buoni nè cattivi. Sono le circostanze che possono renderli tali , e soprattutto gli esempi, le ispirazioni che essi possono trarre dalle persone che ci guidano o ci influenzano ( la cattiva stampa, sensazionalistica e disonesta, appunto, " versus " gli organi di informazione che hanno scopi meno commerciali ed a cui si può prestar fede ).E quando ci mostra una donnetta che addolorata per il povero Leo diviene forse improvvisamente consapevole che il grande carnevale costruito intorno alla sua sorte è fasullo ed ingiusto, si stringe piangendo al marito anch'egli improvvisamente pensoso, Wilder ci regala immagini forti che ci fanno capire quanto egli creda in realtà negli esseri umani , i piccoli , gli umili, nella loro capacità di intuire dove sia la verità e la giustizia. Americano di adozione, egli non si fa illusioni su quanto di sbagliato e di pericoloso ci può essere nel " sogno " a stelle e strisce. Ma sente profondamente che una società libera e permeata da grandi valori ha gli anticorpi per poter resistere e , all'occorrenza, faticosamente trionfare.
Un film positivo, dunque, contrariamente a quanto potrebbe apparire, drammatico, acre nella critica verso i misfatti di una certa informazione ( forse il più violento atto di accusa , in questo senso, che si sia visto al cinema ) ma largamente ottimista sulle possibilità di redenzione dell'essere umano posto di fronte alle piccole e grandi tragedie della vita. Quello di Wilder, non mi stancherò di ripeterlo è un cinema umanistico , in definitiva, L' " Asso nella manica " è grande cinema , a dispetto del suo essere probabilmente inferiore ai capolavori del regista che ho ricordato all'inizio. Leggermente appesantito da una recitazione a tratti un pò istrionica da parte di Douglas ( la sua rimane peraltro una gran bella " performance " ) e da una scena finale un pò troppo melodrammatica, il film si raccomanda - oltre che per la sceneggiatura- per un ritmo serrato , inquadrature sempre efficaci ( vedasi la sequenza dell'arrivo di Tatum all' " Albuquerque Sun " ) e un dialogo pieno di sfumature e dal solido impianto narrativo. Insomma , un film da vedere ( e come " bonus ", almeno nel DVD che ho comprato io e che è appena uscito, una sontuosa intervista a Wilder, realizzata negli anni ' 70, dal critico francese MIchel Ciment ) . Qui a Milano l'inverno batte ormai alle porte . Cosa volere di più ?

lunedì 21 novembre 2016

"Sing Street " , di John Carney ( Irlanda, 2016 )

Cosa può fare un giovane irlandese quindicenne - nella Dublino della metà degli anni '80 che inizia a realizzare, con vent'anni di ritardo sul resto d' Europa, la rivoluzione economicosociale e quella dei costumi - per sfuggire ai pesanti condizionamenti dell'ambiente circostante ? Come riuscire a ritagliarsi un personale spazio di emancipazione che consenta di sognare un avvenire che non sia fatto solo di disoccupazione , asfittica vita familiare e prudente ossequio ai poteri costituiti ? La risposta ce la dà un piccolo film uscito da qualche giorno sui nostri schermi , costato poco perchè si affida saggiamente ad attori semiesordienti ed è stato girato senza molti mezzi, ma che è la vera e felicissima sorpresa di questo inizio di stagione.
Conan, il protagonista di questa storia, è angosciato da genitori in procinto di separarsi e quindi abbastanza assenti anche se apprensivi per l'educazione dei figli. Brava gente , per carità, ma - educati in una Irlanda ancora patriarcale ed immobile e quindi smarriti ed incerti agli albori delle grandi trasformazioni che stanno per investire la società locale - non molto preparati a fornire sostegno ad un adolescente timido ed inquieto . Mandato a studiare, in mancanza di adeguate risorse economiche, in una scuola religiosa non certo prestigiosa e che sembra avviarlo dritto dritto ad un futuro di marginalità e di frustrazioni, Conan anela di uscire da un mondo bigotto e conformistico, senza slanci e senza speranza di crescita. E poi egli è rimasto letteralmente folgorato, uscendo un giorno da scuola , dai rapinosi occhi e dalla ben proporzionata figuretta di Raphina, una ragazza di un anno più grande di lui, aspirante modella. Come fare, anche qui, per attirare la sua attenzione e sperare di farne la " sua " ragazza,dando così una lezione ai coetanei che lo giudicano una pappa molla , una mammoletta con la testa tra le nuvole ?
L'inizio del film è perfetto. I film sugli adolescenti, inseriti magari in contesti, come questo, poco propizi alla loro " liberazione ", sono tanti,si sa, come innumerevoli sono le opere di narrativa di cui sono protagonisti. Si pensi solo a quel capolavoro che è " Il giovane Holden ", il fortunato romanzo dell' americano Salinger. Qui il regista e sceneggiatore Carney ha la mano felicissima nel tratteggiare , con freschezza ed originalità, il personaggio e soprattutto nel dipingere l'ambiente che lo circonda . A parte i genitori di cui si è detto, una sorella ,un fratello " saggio " e strampalato al tempo stesso - l'unica persona in cui Conan può trovare un pò di ascolto - il sacerdote che dirige la scuola con disincantata e brutale fermezza, i compagni " al duolo " e qualche loro familiare. Tutto un microcosmo descritto con sensibilità, umorismo e senso della misura, lontano da quel deleterio bozzettismo che infesta tanto nostro cinema ( purtroppo ).Condotti quasi per mano dal bravissimo autore tra le speranze ed i timori del nostro giovane protagonista , ne seguiamo l'evoluzione con trepida partecipazione ed affettuosa indulgenza.
Al dunque. Conan, per uscire dalle secche di una esistenza che non lo soddisfa e stupire coloro che lo circondano, decide di costituire una " band ", a metà tra il rock melodico e quello duro, genere Duran Duran o Depeche Mode ( i gruppi, ricorderete, che andavano di moda a quei tempi ). Il problema è trovare gli altri componenti ( per sè egli si riserva il ruolo di cantante e di leader ). Ecco allora arrivare uno dopo l'altro , tra i compagni di scuola ed i ragazzi del quartiere , un dotatissimo e mite chitarrista, un batterista "afro" ( vera primizia nella Dublino ancora monoetnica ) due o tre altri musicisti in erba e addirittura un ragazzetto intraprendente che si propone come " manager " del gruppo ( un simpaticissimo " pelo di carota " dal sorriso sbarazzino ). In omaggio ai primi e popolarissimi " videoclip " di quegli anni, la "band " filma addirittura con fantasiosa abilità l'esecuzione dei propri brani musicali. E la fascinosa Raphina si presta con condiscendenza a fare da interprete femminile delle visionarie riprese dirette da Conan...
Non mi inoltrerò oltre nella vicenda perchè mi pare giusto- tanto questa è appassionante e ben narrata da Carney - che la scopriate andando a vedere il film. E vi divertiate e vi commuoviate ( sì, è la parola giusta ) seguendo le peripezie del giovane Conan , della sua famiglia , dei suoi amici , della misteriosa Raphina, di tutto un piccolo mondo che ha le sue caratteristiche particolari ma che poi, alla fin fine, ci riporta ai nostri ricordi, alle nostre stesse esperienze . Magari non abbiamo costituito un gruppo musicale,nè ci siamo innamorati di una modella, ma tutti - credo - ci siamo sentiti qualche volta incompresi e respinti da un mondo che sembrava non fosse fatto per noi. Ed abbiamo sognato di evadere, di veleggiare verso orizzonti più affascinanti, di diventare famosi o semplicemente di conseguire l'oggetto dei nostri desideri. L'adolescenza , la giovinezza. Passaggi - chiave, momenti cruciali della esistenza di ognuno.Al cinema, schermo dei nostri sogni,passaggi e momenti particolarmente cari e spunto di tanti bellissimi film.
Non so se " bellissimo " si possa definire anche questo " Sing Street". Il superlativo è particolarmente impegnativo e poi , qui, non aggiungerebbe molto. Si tratta, senza ombra di dubbio, di un'operina che non è pretenziosa, non ha la pretesa di dire qualcosa di definitivo sull'adolescenza nè sulla rivolta contro un ambiente repressivo. Non ne ha la pretesa perchè la sua " cifra " è diversa, più elegiaco-sentimentale che politico-ideologica. Ma non è detto che questo " piccolo " film non raggiunga egualmente le nostre coscienze, e non parli egualmente al nostro senso estetico. Solido nella sceneggiatura, intelligente ed abile nelle inquadrature, interpretato magnificamente dai giovani interpreti ( per l'attrice che interpreta Raphina pronostico facilmente un brillante avvenire ) si esce dalla sala sereni e contenti di avere partecipato, per poco più di cento minuti, ad una " emozione circolare" quale è il film ( e lo spettacolo in genere ), vero dialogo paritario tra gli autori e gli spettatori, tra ciò che viene proposto dagli uni con la loro arte e ciò che viene accolto dalla sensibilità e dalla comprensione degli altri. E " Sing Street " raggiunge, secondo me, la piena fusione tra la capacità artistica dell'autore e quel leggero, delicato sentimento che è la nostra fuggevole emozione

domenica 13 novembre 2016

" Fai bei sogni " , di Marco Bellocchio ( Italia, 2016 )

Conosco poco il giornalista Massimo Gramellini e non ho letto il libro ( con lo stesso titolo ) da cui è tratto questo film. E non so se arriverò a leggerlo mai, visto il terribile, incolmabile ritardo con tutte le letture che non ho ancora fatto e che dovrei fare. Ma la storia che racconta è bella , ha forza e si impone con l'evidenza delle sensazioni autentiche , quelle che ci portiamo dietro da quando eravamo piccoli e che continuano , che lo si voglia o no, ad ispirare la nostra vita nel bene e nel male. E Il film di Bellocchio , non posso giudicare quanto fedelmente al libro, ci prende sapientemente per mano alla scoperta di un dolore d'infanzia, una pena che prosegue nell'età adulta del protagonista e che solo verso la fine di questo percorso sembra sciogliersi, stemperandosi in una lucida accettazione.
Massimo, il protagonista, è un ragazzino dallo sguardo sensibile e intelligente che vive felicemente a Torino verso la metà degli anni sessanta. Felice lo è soprattutto quando è con la mamma, una bella donna giovane, piena di vita, dedita alla famiglia, molto vicina al bimbo . Il film si apre proprio con una sequenza breve ma intensa in cui madre e figlio, soli nel soggiorno di casa, ballano il twist sulla musica della radio, spensierati, nella magica ed intima simbiosi che li unisce. Ma presto le cose cambiano. La madre diventa sempre più malinconica , forse è malata , forse ha una grande pena nel cuore. Una terribile notte muore improvvisamente e Massimo, quando ciò gli viene rivelato dopo le prime pietose bugie del padre e degli altri familiari,non accetta la realtà, è come se si sentisse scacciato improvvisamente dal proprio paradiso terrestre, perdendo quella meravigliosa creatura che costituiva un tutt'uno con lui.
Crescendo solo col padre , impossibilitato a dargli quell'amore di cui ha un terribile desiderio, Massimo si rende confusamente conto che un mistero accompagna la scomparsa della madre, al di là delle laconiche spiegazioni che gli vengono fornite. Il suo rapporto con gli altri, con la scuola prima , con il mondo del lavoro poi ( nel frattempo è diventato un giornalista sempre più affermato ) risente sempre in qualche modo della lacerazione subita nell'infanzia , resa più dolorosa dalla impossibilità di introiettare il lutto , padroneggiarlo finalmente e farsene una ragione. Solo alla fine, quando il mistero viene svelato, Massimo ormai adulto è probabilmente in grado di venire a patti con il passato e di collocarlo nel bagaglio, lieto e triste, che ognuno di noi si porta appresso nella propria esistenza. E allora, forse , i sogni possono tornare ad essere belli o per lo meno non più angosciosi, come se una madre premurosa fosse sempre vicina a noi.
Questa la trama del film . E mi rendo conto che esposta così , nella sua concisa essenzialità,potrebbe sembrare perfino un pò zuccherosa ed insolita in una filmografia , quella di Bellocchio, tutt' altro che fatta di storie di questo tipo. Pensiamo non solo, come è ovvio, al film di esordio, quei " Pugni in tasca " ( !965 ) in cui i rapporti familiari avevano ben diversa e drammatica evidenza o alle opere successive, ricche di solforosa passione civile ( " La Cina è vicina " , " Salto nel vuoto " ecc. ). Anche i film girati a partire dagli anni ottanta, da " Gli occhi, la bocca " a " La balia ", da " Buongiorno notte " a " Vincere "- per non citare che i titoli che mi hanno colpito di più - in cui, dopo l'intervenuta , sofferta maturazione psichica del regista, il " furore " ideologico sembrava venir meno di fronte ad un approfondimento psicologico e sentimentale dei personaggi e delle loro vicende, non vi è mai stato posto per una storia così "edificante" come questa.Una storia che sembra quasi ispirarsi, almeno nella prima parte , a quel classico strappalacrime per l'infanzia che è l'ottocentesco " capolavoro per l'infanzia" di Florence Montgomery, " Incompreso ".
Ma si tratta di una impressione tutta superficiale. La vera emozione ( ed è tanta ) che il film suscita in noi è di diversa natura. Qui non ci si chiede tanto di intenerirci sul drammatico destino di un bambino posto prematuramente di fronte alla scomparsa di un genitore - e quindi privato di cure e di sicurezza affettiva- quanto di condividere la brusca interruzione di un percorso evolutivo , quell' "apprendistato " amoroso che è l'essenza- probabilmente inconsapevole ma ben presente nell'inconscio- del rapporto tra una madre e un figlio maschio. Massimo, e lo si vede , " adora " sua madre, ha bisogno del suo calore, del suo sguardo, delle sue carezze, Ciò che egli spera di ricevere dalla governante che il padre ha installato in casa dopo la morte della moglie ma che questa apertamente gli rivela di non essere in grado di dargli. Ciò che egli, adolescente, spia con invidia golosa,nel rapporto quasi precocemente incestuoso di un suo compagno di scuola con una madre molto bella, sensuale e vibrante (interpretata da una sontuosa Emanuelle Devos ) . Ciò che egli rivive costantemente, nel ricordo- mi pare di poter dire- non tanto dell' "immagine" , ma direi proprio del corpo , della " fisicità " della madre,di quella sensazione di benessere pieno ed immediato che solo un abbraccio o una carezza possono darci.
E proprio il rimpianto della madre , quella dolorosa sensazione di distacco e quella definitiva impossibilità di ricongiungersi a lei ( se non in un Paradiso troppo astratto per costituire una concreta promessa ) rappresenta l'ostacolo , il nodo irrisolto che il protagonista avverte nella sua professione e nel rapporto con le donne che conosce ( molto ben descritto l'incontro con la dottoressa del pronto soccorso, una sensibile ed intensa Bérénice Béjo ) e dal quale solo un tuffo deciso nei sentimenti, la coraggiosa liberazione da ogni intellettualismo, può liberarlo.Ecco allora Massimo conquistare l'affetto del pubblico con una rubrica di corrispondenza con i lettori in cui ha il coraggio di affidarsi alla immediatezza del proprio genuino mondo interiore. Oppure scatenarsi nella danza in una festa cui l'ha invitato la dottoressa, senza più inibizioni o sovrastrutture mentali ( una delle scene più vibranti del film ). Ancora una volta, in definitiva, Bellocchio ci rivela la sua natura " rivoluzionaria ". Rivoltoso non più in nome di un progetto ideologico, tutto " di testa ", ma di un non più procrastinabile ricorso al mondo dei sentimenti e delle sensazioni, l'unico in grado di riappacificarci con noi stessi, di ristabilire saldamente quell' unità tra di noi e l'ambiente che ci circonda . L'unico in grado di farci metabolizzare un grande dolore e di darci la forza di inserirlo armoniosamente nel nostro " vissuto ".
Il film , l'ho appena detto, commuove per la trasparenza del proposito dell'autore e , aggiungo, per la felice corrispondenza tra questo e le forme cinematografiche in cui si è calato . Sappiamo , infatti, che anche le migliori intenzioni possono inciampare talvolta in una messa in scena debole o poco congrua con l'assunto del film . Non qui, dove quasi dalla prima all'ultima sequenza si è posti di fronte ad un viluppo di sensazioni, di stati d'animo dei personaggi perfettamente chiari e condivisibili dallo spettatore, in un abile ma ispirato " crescendo ". Bellocchio, un veterano del cinema d'autore, il decano quasi dei nostri registi e certamente il migliore, sa perfettamente dove situare la macchina da presa , come "tagliare" le inquadrature, come suscitare la nostra adesione sentimentale ed estetica senza strafare, con la forza che gli deriva da una grande consapevolezza ( e modestia al tempo stesso ) dei propri mezzi espressivi .Un bel film , dunque , nello spento panorama del cinema di casa nostra. Ed uno dei migliori,penso, tra i suoi ultimi, anche se può sembrare a prima vista un'opera " su commissione " , dettata dall'imponente successo del libro da cui è tratta e dal tema schiettamente popolare che tocca. Ma Bellocchio, anche qui, mostra di non avere preconcetti e decide , nelle proprie scelte professionali, di affidarsi alle proprie sensazioni più autentiche.
Il film , a voler essere ipercritici, soffre solo di una qualche eccessiva lunghezza. Nel senso che alcune scene avrebbero potuto essere tagliate o addirittura eliminate ( penso alla lunga sequenza di Massimo impegnato come corrispondente di guerra in Bosnia, che poco aggiunge alla comprensione del personaggio ). Ma è un peccato che gli si perdona facilmente, surclassato dagli altri e preminenti meriti di cui si è detto. . L'interpretazione ( in parte l'abbiamo già accennato ) è perfetta. Molto bravo, toccante e simpatico il bimbo che impersona Massimo più piccolo. Bravo l'attore , di cui non ricordo il nome, che fa la parte del padre. Incisivo il contributo, in alcuni" cammei ", di interpreti del calibro di Piera degli Esposti, Roberto Herlitzka e Fabrizio Gifuni. E ho trovato molto a posto nella parte di Massimo adulto Valerio Mastandrea. In altri film, a volte, un pò sopra le righe , qui è diretto con mano ferma da Bellocchio e ci dà probabilmente la sua migliore interpretazione, sobria e toccante.
Sentimenti , stati d'animo, sensazioni. Altrettanti fantasmi che si agitano nella nostra coscienza e a cui la potenza espressiva del cinema sa dare, talvolta, evidenza plastica come a poche altre forme d'arte succede.

martedì 8 novembre 2016

" Il terrorista " di Gianfranco De Bosio ( Italia, 1963 )


Questa settimana , cari amici , non sono andato al cinema . Debbo dire che le "uscite" di nuovi film, almeno qui a Milano, erano poco allettanti . Colpa , secondo me,della distribuzione che finisce, involontariamente o no, col concentrare la presentazione di due-tre pellicole di un certo interesse in uno spazio di tempo ridottissimo ( "bruciandone " così le speranze di successo ) e poi invece ci lascia intere settimane con minuzzaglia priva di autentica sostanza . Così, tra qualche giorno avremo invece, uno dopo l'altro,tre film importanti : la riedizione su grande schermo de " La morte corre sul fiume " (il capolavoro assoluto di Charles Laughton, anno di grazia 1955 !) e le " prime " di "Fai bei sogni " di Marco Bellocchio e di " Sing Street ", un musical irlandese che sta avendo grande successo di qua e di là dell'oceano. Tra i film usciti comunque da poco ed ora in circolazione ricordo almeno " Io , Daniel Blake " di cui vi parlai inaugurando, nel settembre scorso, proprio questa rubrichetta . Non ve lo perdete e fatemi avere i vostri commenti, per favore ( magari in un raffronto con " La ragazza senza nome " : due opere simili per ambientazione e propositi, ma diverse nello stile e nel tono )
Non disponendo di film nuovi di cui parlarvi vi segnalo ( con inusitata brevità ... ) un bellissimo DVD appena uscito in commercio e che ho visto ieri a casa, con la riedizione ( per la prima volta in formato " home cinema ") di un film poco conosciuto di Gianfranco De Bosio , "Il terrorista " , presentato a Venezia al Festival del 1963 e poi, nei mesi successivi, distribuito nelle sale ( ricordo che non riuscii a vederlo perchè facevo il servizio militare e nello scarso tempo libero non ci veniva tanta voglia di chiuderci in un cinema... ), De Bosio era allora un apprezzato ed affermato regista teatrale : la sua messa in scena di " La resistibile ascesa di Arturo Ui" di Bertolt Brecht ,con il grande Franco Parenti come interprete principale , rimane uno degli spettacoli più interessanti che io abbia visto in quegli anni. Convinto a dirigere un film da una piccola compagnia di produzione indipendente ( sì, il cinema italiano di quell'epoca poteva anche permettersi questo ) De Bosio scelse di scrivere, con il collega ,regista e drammaturgo, Luigi Squarzina, una storia ambientata nel primo inverno della guerra civile del !943-45 , a Venezia, ricavandone un film assolutamente singolare nel panorama cinematografico italiano per propositi , stile e rigore formale.
L' " Ingegnere ": questo, nella vicenda,è il soprannome del protagonista, un "sovversivo ", interpretato da Gianmaria Volonté, il quale compie attentati contro i tedeschi che occupano la città lagunare ed i loro accoliti " repubblichini " senza uniformarsi ai più articolati disegni dei suoi referenti politici nella Resistenza . Mentre i rappresentanti dei partiti nel CNL ( Comitato di liberazione nazionale ) di Venezia vorrebbero infatti- dopo una coraggiosa e riuscita impresa partigiana- una momentanea sospensione degli attacchi ai nazifascisti per salvare la vita di un importante numero di ostaggi nelle mani del nemico, il " terrorista " Volontè predica ( e pratica ) l'azione , convinto che di fronte ai tatticismi della politica occorra cercare di risvegliare le coscienze dei cittadini con gesti eclatanti e che testimonino la volontà di riscatto di un popolo smarrito ed esitante dopo il clamoroso evento dell' 8 settembre. Si confrontano così( e si scontrano ideologicamente ) due diverse concezioni della vita e della prassi rivoluzionaria : da un lato l'attendismo , qualche volta timoroso ma spesso dettato dal desiderio di salvare i risultati ottenuti, più quelli che potrebbero ancora essere conseguiti con gradualità e prudenza, e dall'altro la continuità, anzi l'intensificazione degli atti insurrezionali destinati a non dare quartiere all'avversario.
Questo scontro dialettico, reso manifesto dal regista nelle sequenze iniziali , che descrivono minuziosamente la preparazione e l'esecuzione di un attentato partigiano e poi, in un lungo piano-sequenza con lenti e fluidi movimenti di macchina circolari ,la successiva riunione del CNL veneziano con le diverse prese di posizione dei cinque partiti che lo compongono è al cuore stesso del film, lo pervade , gli conferisce forza drammatica e giustificazione storica ed estetica. Lezione di storia nel senso nobile dell'espressione, il film è tutt'altro che didascalico o noioso. Certe scene ricordano il miglior cinema d'azione americano, secco, senza sbavature. La descrizione dei personaggi è precisa, sobria, scevra da eccessivi sentimentalismi. Servita da attori principalmente di teatro ( tra tutti Tino Carraro, Carlo Bagno, Giulio Bosetti, lo stesso Squarzina nella parte di un sacerdote ) la recitazione è vibrante ma mai sopra le righe. Incredibile come un regista di teatro abbia fatto, in fondo, un film assai poco teatrale, tutto calato in forme squisitamente cinematografiche.
Ma il vero protagonista del film è una Venezia spettrale nelle brume invernali, nel silenzio angoscioso delle sue calli, nel rigore geometrico dei suoi palazzi e dei suoi canali La fotografia della pellicola in bianco e nero, magnificamente travasata nel digitale, rende giustizia al mio sentimento che esistano città legate ad una particolare stagione . Come Milano, anche Venezia è città da vedere in chiaroscuro, in assenza di una luce troppo cruda , quando il bianco lattiginoso del cielo si confonde quasi con il grigio dei palazzi che si specchiano nella laguna. Credo che pochi altri film abbiano saputo renderci con altrettanta nuda evidenza la bellezza di un cielo così funzionale ad una vicenda avvolta in un'aura di disperata, malinconica ineluttabilità. La scenografia è di Miscia Scandella , nome notissimo nel teatro italiano di quegli anni. Gli " esterni " predominano qui, in realtà, sugli " interni " ma anche i primi hanno un nitore , una essenzialità che ci riportano alle grandi scenografie del teatro italiano degli anni '50-'60.
Che dire di più se non esprimere qualche sentimento di invidia per un cinema di casa nostra , allora, spesso coraggioso, innovatore, vincente ?