lunedì 26 febbraio 2018

" LA FORMA DELL' ACQUA " di Guillermo Del Toro ( USA, 2017 )

Ci sono film che, mentre li vedi, fatichi un pò ad entrare nella vicenda , ad appassionarti a quello che succede sullo schermo. Magari, in un secondo tempo, ci ripensi a mente fredda e riesci,allora, a capire cosa volessero dire sceneggiatore e regista. A ricostruire insomma il mosaico di sentimenti, emozioni , idee che volevano trasmetterci. E non è detto che questi di cui parlo siano film brutti o insignificanti, che abbiano assolto male il loro dovere di "intrattenerci", che è sempre il fine ultimo, nobilissimo, cui deve tendere qualunque arte che abbia rispetto del proprio pubblico. No, più semplicemente,  sono opere spesso molto dignitose, magari da rivedere e da approfondire per gustarne allora tutto il sapore che non possono schiuderci di colpo ( io li chiamo "film freddi " ) la prima volta che assistiamo alla loro proiezione. Ognuno può, ripensandoci, trovare film che rientrano in questa tipologia sulla base della propria esperienza di spettatore. A mio avviso, senza togliere nulla alla loro grandezza, il cinema di Antonioni e , spesso, quello di Ingmar Bergman sono così.
Poi ci sono invece i film che ti prendono subito, che riconosci dopo pochi minuti come fossero vecchi amici che non vedevi da tempo e ti chiedi perchè ci abbiano messo così tanto a venire di nuovo a trovarti. Personaggi , vicenda , atmosfera che vogliono creare gli autori, significato che vuoi dargli tu : tutto è lì fin dalle prime inquadrature, chiaro, lampante, si impone alla tua mente e al tuo cuore ( soprattutto a quest'ultimo ) con una evidenza fuori discussione. Ti senti rapito, portato via nell'empireo ( ah quanto ristretto... ) in cui i tuoi sogni, i tuoi ideali, trovano nel film che stai guardando una compiuta identificazione. E sono, queste, le opere che non hanno bisogno di particolari interpretazioni, alle quali certamente tornerai dopo col pensiero ma che fin dal primo momento ti hanno detto tutto, di getto, con meravigliosa immediatezza.

A questa seconda, fortunata , categoria appartiene di diritto " La forma dell'acqua ". Vedendolo mi sono sentito subito attratto,  non tanto o non solo dalla storia e dai personaggi, quanto dalla raffinata semplicità con cui Guillermo Del Toro, sceneggiatore e regista, ci immette subito nel mondo così particolare cui intende dar vita con il suo film, al tempo stesso fiaba moderna e ricostruzione d'epoca. Fiaba che rinverdisce , in un certo senso, il mito della bella e la bestia ( o piuttosto, più in assoluto, quello dell'interazione tra l' essere umano e la dimensione a lui " altra " ed  esterna) immergendolo -  è il caso di dire visto che si parla di acqua - nel contesto di un ipotetico episodio di guerra fredda negli " States " dei primi anni '60 descritto con sarcastico distacco. Ecco, la " cifra " narrativa di Del Toro si manifesta subito come un felicissimo incrocio di elementi fantastici e di gustose notazioni satiriche, di invenzione comica e di sfrenata, visionaria effusione dei sentimenti. Davvero il film si muove su più piani stilistici, senza che l'uno prevalga sull'altro, fusi o giustapposti che siano in armonioso equilibrio espositivo. Anche l'elemento sociopolitico- sul quale molto ha insistito la critica nostrana e che pur c'è nel film, anche se a mio avviso non in misura così cospicua - non prende fortunatamente mai il sopravvento su quella che è la componente lirico-favolistica che dà a " La forma dell'acqua" il suo tono più interessante ed autentico. Film " militante ", certo, ma in nome innanzitutto dell'amore e della libertà degli esseri umani, libertà dello spirito, ed infine libertà della creazione artistica.

In un laboratorio segreto del Pentagono, situato nella periferia di Baltimora, diretto dal Colonnello Strickland ( il vero  prototipo del "white male chauvinist pig " ) viene trasportato un "mostro", una specie di umanoide con la forma di un grosso ed unghiuto lucertolone dalle paurose sembianze che Strickland stesso è andato a scovare nella jungla del Brasile e che potrebbe tornare utile, sembra di capire, per un imprecisato esperimento parascientifico, la  messa in orbita nello spazio o qualunque altra diavoleria in funzione antisovietica ( siamo nei primi anni '60, in piena guerra fredda e la psicosi del " sorpasso " tecnologico-militare tra le due superpotenze è al suo acme ). Elisa, una povera ragazza muta impegnata nelle pulizie del laboratorio ed annessi "gabinetti di decenza" è l'unica che, intravedendolo,  sia attratta dal mostro riconoscendo in lui quella scintilla di spiritualità- diremmo qui addirittura di umanità - che qualunque entità vivente possiede. Un elemento che lo accomuna, nel suo venire disprezzato e maltrattato da tutti, agli esseri  considerati inferiori, i " paria " della società di quei tempi : cioè come la stessa Elisa o  il suo amico e confidente Giles - un timido ed inoffensivo omosessuale -  o la collega pulitrice nera, o un  modesto ricercatore del laboratorio a cui nessuno dà soverchia importanza. Di qui le fantasiose ma toccanti vicende narrate nel film e che sollevano quest'ultimo, anche per la plastica presenza del simpaticissimo mostro, da semplice abbozzo, sia pure gustoso, di un  tentativo di rivolta degli " ultimi " nella scala sociale contro un  " establishment " crudele ed insensibile, al regno della pura immaginazione, del sogno liberatore ed infine, come si vedrà, della compassione e soprattutto dell'amore, quello spirituale come quello fisico: in definitiva, di quei valori umani che non vanno certo negati ai " diversi " e che tutti ci accomunano nella nostra faticosa ma esaltante esistenza.

Guillermo Del Toro, un eclettico regista e sceneggiatore messicano che molto ha operato in patria, in Spagna ( " Il labirinto del fauno " ) e soprattutto negli Stati Uniti,non disdegnando i film " di serie B " del genere fantastico ed  horror, ci dà qui senza dubbio il suo film più importante. Vincitore del Leone d' oro lo scorso anno a Venezia, ha conseguito da poco il "Golden Globe " e non ci sarebbe da stupirsi se ( meritatamente ) tra di meno di una settimana  " La forma dell'acqua " conquistasse anche l' Oscar in più di una categoria. La sua sceneggiatura è ricca di inventiva, compatta e viaggia diritta come un fuso fin dalle primissime sequenze. La regia è semplicemente superlativa, con una fluidità di inquadrature e di movimenti di macchina che danno al film un andamento sciolto, brillante, sempre sorprendente. Occhio, per chi non lo ha ancora visto, alla splendida sequenza onirica in bianco e nero ( tutto il resto del film è a colori ) in cui - omaggio alla grande commedia musicale di Hollywood- Elisa ed il mostro ballano come se fossero Ginger Rogers e Fred Astaire. In un film come questo il contributo dei collaboratori tecnici è di capitale importanza. La fotografia, così,  accentua sapientemente la diversità degli stili e dei piani narrativi attribuendo particolari e distintive tonalità alle varie ambientazioni. La musica, il suono ( mirabili i " versi " emessi dal mostro ) , le scenografie ed i costumi sono un elegante, intelligente, a tratti fastoso apporto ad un film che va ammirato in tutte le sue parti. Da ultimo ho voluto lasciare l'interpretazione perchè essa corona perfettamente un progetto tecnico-artistico di grandissima qualità. Se Il Colonnello Strickland di Michael Shannon è un personaggio di perfetta e  sinistra ubiquità, appena sopra le righe, l' Elisa dell'attrice inglese Sally Hawkins ( forse la ricorderete con Cate Blanchett in " Blue Jasmine" di Woody Allen, qualche anno fa ) fa amare incondizionatamente e rende credibile il suo non facile personaggio. In predicato anche lei per l' Oscar, ha già vinto ampiamente, almeno ai miei occhi, quello della simpatia.







domenica 18 febbraio 2018

" SONO TORNATO " di Luca Miniero ( Italia, 2018 )

Dopo " Attacco al treno " di Clint Eastwood, ecco un altro film che sta facendo discutere. Occorre dire che il cinema italiano da troppi anni a questa parte evita quasi sempre di parlare un pò meno superficialmente di noi, della nostra società, delle idee(o dell'assenza di idee) che ci contraddistinguono. Non si tratta di tornare ad un cinema militante , schierato, per carità. Ne abbiamo avuto fin troppo negli anni settanta del secolo scorso per desiderare che torni nuovamente in campo. Ma qualche opera , o anche operina, che ogni tanto scavi con sagacia nel nostro immaginario quotidiano, fuori dai sentieri  troppo battuti della commediola all'italiana, quella l'accetteremmo con piacere.
E' fortunatamente il caso, da pochi giorni in sala, di questo " Sono tornato " che non ha paura di confrontarsi con  il più famoso uomo politico italiano del Novecento. Sì, quello che  "è tornato", lo avrete capito, è lui , il cavalier Benito Mussolini, duce del fascismo. Ma l'azione non è posta negli anni- giudicati ormai dalla storia - in cui condizionava i destini del nostro Paese. Piuttosto, questa volta , si immagina un " ritorno " di un Mussolini magicamente redivivo nell' Italia di oggi, anno di grazia 2018, con le elezioni legislative ad un passo. Insomma, roba nostra, fresca di giornata. Anche se il film- lo hanno rilevato tutti - è un libero  rifacimento di un film tedesco ( " Lui è tornato " ) che descriveva in chiave satirica le reazioni  ad  una sorprendente  ricomparsa in patria del dittatore nazista, non mi sembra che questo ne  limiti il valore, come pur alcuni hanno detto, od implichi di analizzare per forza quale delle due opere sia la meglio riuscita o la più significativa. Diversi i due personaggi storici, diverse evidentemente le conseguenze sull'opinione pubblica che il loro inopinato ricomparire sulla scena sarebbe capace di  determinare. E differente, quindi, l'approccio del mezzo filmico a due ipotesi , in fondo, piuttosto diverse . 

" Risorto " a Roma, con tanto di divisa gallonata, all' Esquilino, in pieno quartiere multiculturale, le prime battute di Mussolini ( " Ma siamo a Roma o ad Addis Abeba ? ", " Ci sono troppi invertiti " o giù di lì ) sono , non tanto sorprendentemente, le stesse frasi che si possono sentire ogni giorno a spasso per le nostre città. Creduto un attore così profondamente immedesimato nella parte del Duce da non abbandonare mai il suo personaggio, Mussolini ( che intanto, da grande conoscitore degli italiani quale ritiene di essere, si è convinto della fattibilità di un piano di riconquista  di un Paese " liquido " e policentrico come gli appare l' Italia di oggi ) visita, " chaperonato " da un timido autore di documentari televisivi, varie zone della penisola per saggiare le reazioni dell' opinione pubblica.  Favorevolmente colpito dall'esistenza di straordinari strumenti di comunicazione di massa sconosciuti ai suoi tempi quali televisione, computer, smartphone, decide che la sua azione politica si svilupperà proprio attraverso quei potenti mezzi di condizionamento dell'opinione pubblica. A partire da questo momento il film si dipana tra alterne vicende che portano Mussolini a capire, sulla base dell'accoglienza ricevuta, come gli italiani, che nella schiacciante maggioranza non lo hanno mai conosciuto e che sul personaggio storico hanno le idee quantomai confuse, potrebbero perfino acclamarlo nuovamente quale supremo punto di riferimento. Questa volta, magari,  nei panni di una " superstar " televisiva se non più come un  leader politico vero e proprio . Ma, sapendo quanto siano labili le frontiere tra queste due figure, un brivido incomincia già  a scenderci per la schiena. Non dirò oltre per non guastarvi il piacere di seguire da voi cosa succede nei ripetuti incontri tra Mussolini e i nostri connazionali di oggi e quali sono le reazioni e le alterne fortune cui egli va incontro nel film. Reazioni certo immaginarie ma non credo lontane dalla verosimiglianza, a giudicare da ciò che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, laddove il caso davvero si ponesse.

" Io non ho creato il fascismo ma mi sono limitato a tirarlo fuori dalla coscienza degli italiani".  E' questa, se non ricordo male, una frase che il vero Mussolini ebbe a pronunciare. E potrebbe essere la cifra interpretativa seguita dal regista Luca Miniero ( autore, con Domenico Guaglianone , anche della sceneggiatura ). Una conclusione che può apparire molto malinconica se pensiamo al nostro bello e grande Paese che  ci lludevamo immunizzato  per sempre, con l'avvento della democrazia, dalle tentazioni autoritarie, dall'intolleranza e dalla rabbia aggressiva che ne avevano contrassegnato le trascorse vicende. E che invece , magari in una chiave diversa ma non meno insidiosa, sono più vive che mai. Fin troppo facile scomodare il populismo e i rigurgiti razzisti dei nostri tempi, l'ignoranza e la protervia di tante , troppe realtà che ci circondano. Certo, possiamo , anzi dobbiamo condannare gli uni e le altre. Ma dovremmo anche scovare ed esorcizzare  quel tanto di " fascismo " che è in noi e che non ha , purtroppo, un unico colore politico. Il " fascismo quotidiano ", quello fatto di facili schemi, di idee preconcette, di vecchie e nuove chiusure. Può un piccolo film come questo contribuire, sia pure in minima parte, ad un compito così difficile ? E non ci sarà il rischio che la figura di Mussolini, resa così sorprendentemente attuale e ribaldamente accattivante da una interpretazione magistrale dall'attore che lo impersona , riesca perfino "simpatica " ad una parte, almeno, del pubblico  ( che magari, senza dirle , pensa esattamente le stesse cose sull' Italia di oggi ) ? Confesso che non ho la risposta. Ma il film , in verità, e potrete vederlo da voi, è piuttosto attento ad evitare questo pericolo e ci riesce ( quasi ) del tutto. Senza peraltro diventare un noioso "pamphlet " banalmente antifascista, ma anzi giocando continuamente  con arguta leggerezza ( per quanto la materia possa consentirlo ) sul parallelismo tra " fabbrica del consenso " di mussoliniana memoria e ricerca, a tutti i costi,  del " successo di immagine " di odierna impronta televisiva ed informatica.Per il resto,come sempre, se ne deve incaricare proprio la nostra coscienza a farci riflettere, ad indicarci la via migliore nella nostra travagliata esistenza di individui e di comunità nazionale. Il film , allora, sarà pago di averci almeno offerto lo spunto per una piccola, ma non trascurabile, autoanalisi. 

Elogiato il film per il modo intelligente ed equilibrato con cui affronta una materia per altri versi incandescente, dirò anche che offre un ritrattino dell' Italia di oggi- aperta allo sguardo avido ed astuto del Mussolini redivivo - forse non originalissimo ma spesso aderente alla realtà ancorchè poi, in qualche momento di maggiore stanchezza, leggermente edulcorato e un tantino ripetitivo. Merito di una singolare figura di cineasta e creatore di immagini quale è Luca Miniero, cinquantenne napoletano che ha fatto praticamente di tutto nella sua non lunghissima carriera, dal lungometraggio al corto pubblicitario, dal documentario alla fiction televisiva. Speriamo che il successo di " Sono tornato " gli offra spazio, in avvenire,  per prove ancora più impegnative. Visivamente il film non è affatto male, con quel misto di finzione vera e propria e di " docufilm ", forse non perfettamente dominato ma almeno lontano dall'estetismo patinato e perfettino di tanti film nostrani nettamente insignificanti.
Commetterei una grossa ingiustizia se non dicessi che buona  parte del felice esito complessivo del film  vada riconosciuta alla interpretazione davvero superlativa di Massimo Popolizio. Il suo Mussolini non è solo  aderente alla verità " storica " del personaggio ma va addirittura oltre,acquistando dimensione iperrealista, quasi una compiuta incarnazione del " carattere nazionale ". Merito di un modo di catturare il personaggio davvero encomiabile e che molto deve alla cospicua esperienza teatrale dell'interprete. Lodata l'interpretazione di  Stefania Rocca e di Gioele Dix ( i due produttori televisivi in aperta competizione ) e quella di Frank Matano ( il timido documentarista ) mi sia consentito di dedicare una menzione particolare ad Emanuela Belcamino, la giovane speranza del nostro cinema che interpreta Francesca. Molto graziosa davvero, ha uno sguardo tra il malizioso e l'ingenuo di cui si erano perse le tracce  ed è facile per lei pronosticare un luminoso avvenire.

domenica 11 febbraio 2018

"15:17 ATTACCO AL TRENO " di Clint Eastwood ( USA, 2017 )

So, o meglio lo sento, che questo film rischia di non piacere a molti. Già il suo regista, Clint Eastwood ( l'interprete, un tempo, degli spaghetti-western e poi dell'ispettore Callaghan ) non sta simpatico ad alcuni per il lato " macho ", iperamericano, guerrafondaio e chi ne ha più ne metta, di certe storie e di certi personaggi. Metteteci in più che in questa ultima fatica egli fa addirittura l'elogio della forza bruta - così tipicamente yankee - sia pure applicata ad evitare un ( probabile ) bagno di sangue terroristico nella vecchia ed imbelle Europa, ed avrete il quadro completo di una situazione cinematograficamente " sgradevole". Tale, insomma , da  squalificare  il film, da allontanarlo dai salotti buoni del " politically correct ", inducendo (ecco la sottile vendetta di chi non ne condivide l'ideologia ) a giudicarlo un'operina mal riuscita, tutt'al più un film minore nella filmografia di un autore di cui peraltro non si può poi arrivare a disconoscere, complessivamente, la centralità e la grandezza. Ed invece no, non sono d'accordo neanche su questo, scorgendo nella severità del giudizio estetico di alcuni critici il rigurgito moralistico di chi proprio non la manda giù quando si arriva a celebrare certe invise virtù, proprie dell'animo degli americani. In realtà, ancorchè non così riuscito come "Gran Torino " o come " Invictus " ( per citare solo due dei suoi recenti successi  di analogo assunto)  " Attacco al treno " è un altro pregevole capitolo dell'epico romanzo cinematografico che, film dopo film, Eastwood sta scrivendo per esaltare l'ottimismo , la determinazione e lo spirito di sacrificio dei suoi "eroi quotidiani " ( ricordate, nel suo penultimo film , il pilota dell'aereo di linea che compie un ardito atterraggio di fortuna  a New York in pieno fiume semigelato ? )

Eroi, questa volta, che - verosimilmente - più ordinari e banali non si può. Tre ragazzoni americani, un nero un tantino più mingherlino e due bianchi, due autentici " armadi " ipernutriti e  palestrati  (entrambi hanno avuto esperienze militari, uno è stato per un certo tempo in Afghanistan ). Amici tutti e tre per la pelle fin dai tempi della scuola elementare, laggiù in California, si sono poi separati dopo il liceo ma si sono sempre mantenuti in contatto grazie ai moderni mezzi di comunicazione fino al giorno in cui decidono di fare un viaggio insieme in Europa  per rafforzare, meno virtualmente,  i loro legami di amicizia e riandare col ricordo ai vecchi tempi. Deviando dal percorso programmato in partenza, dopo l' Italia e la Germania  decidono di visitare l'Olanda e da Amsterdam si dirigono poi su Parigi imbarcandosi sul treno ad alta velocità " Thalys " che collega Amsterdam con la capitale francese.E' il 21 agosto del 2015 e su quel rapido, quello delle 15 :17, nella sosta a Bruxelles sale uno strano personaggio con un borsone che, appena il treno si rimette in moto, si chiude in una toilette, si cambia ed estrae un vero arsenale di armi da fuoco.E' un terrorista islamico che, armato fino ai denti, aveva pianificato proprio per quel giorno un attacco al treno internazionale ,verosimilmente per  compiere una strage dei viaggiatori a sostegno della strategia  d'odio e di violenza distruttrice messa in opera in Europa dal sedicente Stato Islamico. Come certamente ricorderete si tratta di una storia vera, terribilmente vera, e solo altrettanta coraggiosa determinazione e violenza fisica di impressionante intensità dispiegata da uno dei tre viaggiatori americani  protagonisti del film, efficacemente coadiuvato dai  suoi due compagni, permise allora di aver ragione del forsennato e pericolosissimo  guerrigliero, salvando tutti i passeggeri - incluso un ferito grave - da una sorte certamente orribile.

Per sottolineare l'assoluta " normalità " dei tre amici americani Eastwood ha indotto questi ultimi ad impersonare sé stessi, lasciando a veri attori gli altri ruoli, tutti personaggi autentici, del film. Il fatto che i protagonisti non siano attori professionisti, magari noti, restituisce la vicenda più che ad una puntigliosa " veridicità " ( il cinema , come tutta l'arte, non è " riproduzione " ma interpretazione della realtà) ad una  dimensione ordinaria ed emblematica al tempo stesso. Siamo di fronte a tre persone come tante in America ( forse, vista la crescente globalizzazione dei costumi, tante - almeno esteriormente - anche in Europa ). Non particolarmente intelligenti, a scuola allievi mediocri, dediti ai passatempi che gli intellettuali  solitamente deprecano, come passare un sacco di ore tra telefonini e computer, indefessi spettatori di sport alla televisione, capaci di ingurgitare quantità industriali di alcool, il loro approccio alla vita sembra dei più ripugnantemente banali . Dialoghi di una povertà assoluta, quel semidistratto girovagare in Europa tra vestigia del passato ormai decontestualizzate dal turismo selvaggio, quelle discoteche e quelle birrerie dove l'espressione " ammazzare il tempo " acquista uno spessore di inquietante verità. Cosi' come la descrizione della vita adolescenziale nei sobborghi residenziali di Sacramento, tra giochi guerreschi  ed una educazione religiosa e scolastica apparentemente delle più anodine. Tutto rinvia, insomma, ad esistenze come tante altre, paradigmatiche della omogeneizzazione dei gusti e dei comportamenti che incombe sui tempi che viviamo, specie relativamente alle più giovani generazioni. Ma, anche qui, l'eccezionalità di una situazione che può mettere a repentaglio la nostra vita e quella degli altri ( l'attacco terroristico ) richiama , quasi per reazione, gli anticorpi che il retaggio familiare, i buoni esempi ricevuti, l'addestramento militare o la formazione nel mondo del lavoro, ci hanno inculcato e che- questo è l'assunto del film - ci consentono nel momento giusto quegli atti di coraggio e di altruistico dono di noi stessi capace di dare un senso ad una intera vita. La " banalità del bene ", è stato detto . E concordo pienamente, a tale proposito, con la trattenuta ma commovente retorica con cui, lo vedrete, si chiude un film dalla vicenda così esemplare.

Vedendo il film per la prima volta ed assistendo per due terzi circa del suo svolgimento alla descrizione dell'antefatto, cioè la vita dei  giovani amici prima di salire a bordo del treno, avevo provato una sensazione di lieve sconcerto, se non disappunto, per la banalità, appunto, delle situazioni mostrate e per quella che avvertivo come una apparente " staticità " dei personaggi ( nè buoni nè cattivi, non sembravano andare nè avanti nè indietro nella loro progressiva formazione ). Tutto questo, ovviamente, fino all'ultima mezz 'ora, quella in cui Eastwood ci mostra , da par suo, l'attentato terroristico e la reazione dei tre americani. Si tratta, non esagero, di un grande pezzo di cinema, non so se girato in studio , giustapponendo inquadrature prese da diverse angolazioni dell'interno ricostruito di un vagone  oppure ( e sarebbe allora un autentico prodigio di tecnica) nel ristrettissimo spazio di una vera carrozza ferroviaria, quindi in tal caso con una macchina da ripresa mobile, probabilmente a spalla. In un caso o nell'altro, una sequenza drammaticissima , difficile  e delicata perchè deve dare un senso compiuto all'intero film, facendoci capire che tutto il resto non era che necessaria preparazione, un addestramento per la vita, per la salvaguardia della vita e dei suoi valori, proprio  contro il disvalore del disprezzo della vita umana veicolato invece dal terrorismo. Ecco spiegato, mi auguro , perchè il film ( che pure avrebbe necessitato, nella prima parte, qualche taglio di sceneggiatura ed un andamento più serrato ) è tutt'altro che un film " minore ". Alla regia , ispirata come sempre, di Eastwood, si affiancano fotografia  e musica di tradizionale , solida efficacia. L'interpretazione dei tre autentici protagonisti appare sciolta, anzi quasi disinvolta. Difficile indovinare quali sentimenti, quali emozioni, abbiano provato ripercorrendo passo passo la loro storia. Di certo, conoscendo come andava a finire, si saranno sentiti comprensibilmente più leggeri.





lunedì 5 febbraio 2018

" THE POST " di Steven Spielberg ( USA, 2017 )

La libertà di stampa e i suoi limiti . Il ruolo di un giornale in una società pluralista. I media, in generale, tra doverosa funzione sociale e ricerca di un profitto sempre più necessario per alleggerirne la  dipendenza dai finanziamenti esterni. Ecco tre bei temi, scottanti e niente affatto superati pur nel  mutare delle tecnologie e dei gusti del pubblico . Tutto il dibattito attuale, che parte dal possesso dei mezzi di comunicazione di massa e arriva al dilagare dei " social " e alle " fake news ", sta lì a dimostrarlo.  E' vero che i quotidiani hanno perso molti lettori e che  la loro capacità di influenzare l'opinione pubblica è andata via via scemando. Non per questo l'informazione ( con sua sorella gemella, la... disinformazione ) è diminuita di importanza, ciò va da sé. E' cambiato il medium, il contenitore, ma la sostanza ed il contenuto sono gli stessi ed assumono il medesimo rilievo per lo stato di salute delle nostre democrazie.
Sono queste le riflessioni che mi ronzavano nella mente prima e dopo la proiezione del bel film di Steven Spielberg, " The Post ", giunto finalmente sugli schermi italiani. "The Post ",  per antonomasia è chiamato così il " Washington Post ", ancora oggi un punto fermo nel variegato panorama informativo internazionale. Tra la fine degli anni '60 e l'inizio dei '70, cioè quando è ambientata la storia raccontata nel film, era un organo di stampa vicino o vicinissimo a fonti di informazione di prima mano ( la Presidenza e l' Amministrazione Usa, il Congresso ) e perciò  bene attrezzato ed autorevole al pari di altri quotidiani statiunitensi  ma ancora a  diffusione prevalentemente locale,  non capace di gareggiare quindi con un colosso come il " New York Times ". Un giornale " liberal ", destinato agli ambienti politico-amministrativi della capitale, aperto al nuovo ancorchè imbevuto della grande tradizione politico-ideale del Paese, teso spesso ad inseguire, al di là dell'informazione ufficiale, la verità dei fatti nel desiderio di soddisfare un pubblico  più colto della media, in gran parte giovane, o comunque al passo con i tempi. E che tempi, se pensiamo che da pochi anni l' America ( e, sulla sua scia, l' Europa ) stava conoscendo la più rapida rivoluzione nelle mentalità e nel costume dall' inizio della civiltà industriale.

La vicenda al centro del film necessita un rapido ripasso della situazione politica interna ed internazionale di quell'epoca. Sempre più impelagata nel conflitto vietnamita, costoso in termini di vite umane e di finanziamenti, l' Amministrazione repubblicana guidata dal Presidente Nixon nel giugno del 1971 deve far fronte alla improvvisa pubblicazione sul maggior quotidiano del Paese, il " New York Times ", di un rapporto segreto predisposto dal Ministero della Difesa sul coinvolgimento Usa  degli ultimi vent'anni nella penisola indocinese, trafugato da un funzionario " pentito " che ne assicurava la custodia.  Con grande imbarazzo della allora classe dirigente, ne emergeva una lunga sequela di tragici errori di valutazione ad opera delle autorità civili e militari, di  gravi e continuate violazioni del diritto internazionale e soprattutto - ciò che la società americana non era disposta a perdonare facilmente - di continui occultamenti della verità  a danno dell'opinione pubblica interna. L' Amministrazione, rivoltasi alla magistratura, ottiene in un primo momento il divieto
 di proseguirne la pubblicazione in nome dell'asserita inopportunità della divulgazione non autorizzata di un documento suscettibile di offuscare l'immagine degli Stati Uniti nel mondo e di metterne in pericolo la sicurezza esterna. A questo punto, impossibilitato il " Times " a continuare nell'iniziativa o a passare il rapporto ad un altro giornale, il " Post " decide di procurarselo per suo conto e di continuare a renderlo noto attraverso una serie di articoli dei suoi redattori Un nuovo processo ed un sollecito, definitivo verdetto di un giudice federale e poi, a ruota, della stessa Corte Suprema  ( da ammirare l' immediatezza del sistema giudiziario d'Oltreoceano...) sancisce, finalmente, la liceità della pubblicazione dei documenti in nome del buon diritto dell'opinione pubblica ad essere informata del comportamento dei  suoi governanti. Il " Post ", e con questo, i lettori, hanno vinto la loro battaglia. Il giornale , salito alla ribalta per la sua coraggiosa iniziativa, acquista da questo momento ancor maggiore visibilità ed autorevolezza.

Sbaglierebbe però chi pensasse che il film sia così solo  una specie di noioso documentario ( o  semplice "docufiction" ) sullo scandalo dei " Pentagon papers ", ormai semisepolto da una coltre di oblio. Non pochi degli scontri di idee di quei tempi finiti nelle aule dei tribunali e molti di quei personaggi pubblici ( Nixon, McNamara- l'amletico Segretario di Stato alla Difesa dell'epoca  ) non possono più avere , in effetti,  la stessa intensità e la stessa presa sul pubblico di oggi. No, pur puntuale e preciso nella obbligata rievocazione delle grandi linee fattuali dell' episodio e nel tratteggiarne il significato politico, " The Post " sceglie invece la via di una narrazione serrata, affascinante come un " thriller ", delle difficoltà finanziarie ed organizzative interne in cui si trovava allora il giornale e della genesi della coraggiosa - o temeraria , se preferite - decisione della proprietà e della redazione di raccogliere la sfida posta dal divieto di pubblicare i documenti segreti ed intraprenderne la pubblicazione interrotta dal " Times ". Una specie di " dietro le quinte " della grande Storia, convincente ed efficace. Ed i due personaggi che vengono posti al centro della vicenda, Katharine Graham- la proprietaria ed editrice del quotidiano - e Ben Bradlee - il caporedattore, sono il vero  motore dell'azione. Due persone molto diverse per censo, formazione e comportamento, trovatesi insieme di fronte ad una delle più difficili scelte della loro vita. Da un lato la ricca e raffinata Signora Graham, erede del giornale appartenuto tradizionalmente alla sua famiglia, una donna sola in un mondo - allora - prevalentemente maschile, dall'apparenza esitante e calcolatrice ma in realtà capace di assumere decisioni di importanza delicatissima . Dall'altra Ben , il capo della redazione, di cui si intuiscono le origini ed i gusti meno elitari, giornalista fino al midollo ( " sempre sul pezzo " , cioè sulla notizia, si dice nel film ). Sono i due volti, in un certo senso, dell' America di sempre. Fondata sulla giustapposizione , e sull'alleanza nei momenti migliori, della " upper class " detentrice delle ricchezze del Paese  e della classe media o medio-inferiore, che sgobba, portando il peso dello sforzo produttivo del paese. Due realtà  mosse spesso da obiettivi diversi ma fuse poi nell'intraprendere una via di giustizia e di progresso. In questo il film di Spielberg, oltre a riallacciarsi al suo stesso cinema "politico " ( da " La lista di Schindler " al recente " Il ponte delle spie " ) si ricollega idealmente alla tradizione del grande cinema democratico americano, quello per intenderci dei Ford, dei Capra, dei Vidor e dei Kazan.

Un tantino retorico, lo avrete capito, " The Post " lo è. Parliamoci chiaro. Le cose non stanno sempre come il film vorrebbe farci credere. Nixon non era probabilmente solo quel volgare bandito liberticida che una certa narrativa vorrebbe. La pubblicazione dei "Pentagon papers",  oltre a riaffermare la libertà di stampa ed il sacrosanto diritto dei governati di controllare i loro governanti , qualche danno all'immagine e alla credibilità degli USA nel mondo  forse lo causò veramente. Ma quel che conta nel film , e fa la sua bellezza, è lo spettacolo dello sforzo collettivo ( proprietà, sostenitori, giornalisti, maestranze ) che porta  alla sfida e al susseguente successo. Ancora la caccia alla " balena bianca ", che tanto ha segnato l'immaginario letterario ed artistico dei nostri amici americani, questa volta coronato dalla vittoria in una causa che, a conti fatti, lo meritava ampiamente. Un film " giusto " dunque e perfino commovente nel farci vedere come la determinazione di un pugno di persone può raggiungere uno scopo sormontando tutte le difficoltà.
Ben fatta la sceneggiatura, con il continuo saltare agilmente  e in parallelo da un ambiente all'altro, incalzante il suo ritmo espositivo. La regia di Spielberg ( ormai un " grande vecchio"   del cinema a stelle e strisce ) è solida, fluente, con qualche superba inquadratura che richiama passati, insuperabili modelli dei migliori film Usa sulla stampa ( da " Quarto potere " a " L'ultima minaccia " ). Da quando ha ritrovato tutti i suoi collaboratori abituali ( fotografia , musica, scenografia, costumi ) i suoi film sono molto belli solo da vedere, prodotti di alta qualità ( ricordarsi sempre che il cinema non è solo arte, cioè genio e sregolatezza, ma anche serrato lavoro di équipe e risultato, quindi, di un rispettabilissimo progetto produttivo senza il quale le migliori delle intenzioni resterebbero...tali ).
Interpretazione all'altezza delle ambizioni del film, che necessitava - è evidente- due grandi attori per i personaggi pricipali. Merryl Streep, liberatasi dai " cabotinages " visti e deprecati la scorsa stagione in " Florence ", è finalmente misurata e convincente. Tom Hanks ( un pò ingrassato e sempre più rassomigliante al William Holden degli ultimi film ) mi è parso molto a suo agio nella parte del collerico ma decisissimo caporedattore. Bene tutti gli altri ( Nixon , da vero " cattivo ", lo si vede solo di spalle o di tre quarti, ma la sua voce chioccia e leggermente isterica è molto somigliante, ovviamente nella versione originale e sottotitolata che caldamente vi consiglio, ove disponibile ).
Un'ultima notazione. Ho visto il film in una delle sette sale del nuovo cinema Anteo di " City Life " a Milano. Schermo gigantesco, qualità dell'immagine e del suono perfetta, poltrone supercomode, temperatura ambiente e grado di umidità finalmente ottimali. Se si vuole riconquistare il pubblico inducendolo ad uscire di casa e a pagare il prezzo di un biglietto, questa e non altra è la via da seguire.