martedì 26 febbraio 2019

LETTERA DA PARIGI ("UNE INTIME CONVICTION " , di Antoine Raimbault / " GRACE A DIEU " , di Francois Ozon )

Ricordo come Filippo Sacchi, critico cinematografico del settimanale " Epoca ", sintetizzasse sul finire degli anni '50 del secolo scorso la differenza che , a suo parere, esisteva tra il cinema  italiano e quello francese riferendosi ad una maggiore " presa diretta " con la realtà da parte  del primo rispetto al secondo. I film della " nouvelle vague " ( Truffaut, Chabrol, Malle e Godard ) sarebbero stati, insomma, più " evasivi " sulla situazione sociale della Francia di allora di quanto non fossero, nei confronti di quella italiana, le opere  che, negli stessi anni, vedevano la luce nel nostro Paese ( Visconti, Lattuada, Monicelli, Risi ed altri) . Dando per corretta la tesi di Sacchi, dobbiamo riconoscere che oggi  la situazione si è completamente rovesciata. Il cinema italiano, geneticamente più vicino  per le chiare influenze neo-realiste ad una descrizione puntuale della realtà nazionale, da almeno  venti-venticinque anni preferisce per lo più " parlare d'altro " ed ha perso quello smalto " civile " che lo fece grande un tempo. Sorprendentemente, invece, il cinema d' Oltralpe ha acquistato (o ritrovato, se si preferisce)  uno spessore sociologico ed una aderenza alle problematiche attuali che sembravano fargli difetto pur nel valore estetico di tante sue opere.
E' quanto mi sento di osservare alla luce dei film francesi delle ultime stagioni usciti anche in Italia e  di cui abbiamo, qui, abbozzato l'analisi. Ma soprattutto mi spingono ad una tale ipotesi due recentissime opere che ho visto in questi giorni a Parigi e che , confesso, da buon italiano mi hanno fatto molta invidia perchè temo che da noi, adesso,  nessuno sarebbe in grado di girarle con la stessa libertà di azione ed onestà intellettuale. Faccio salvo, relativamente a quanto si è prodotto in questa stagione, solo " Sulla mia pelle ", il coraggioso film di Cremonini sul  caso Cucchi  ( quello del giovane romano deceduto in stato di fermo giudiziario). Un film, quest'ultimo, che amaramente mi verrebbe fatto di definire " di ispirazione francese ", tanto ritengo che il nostro cinema , che pure ha avuto in passato una particolare propensione per l'indagine e la discussione relative a grandi temi  politico-sociali, è oggi, sotto tale punto di vista, obiettivamente carente rispetto a quello transalpino. Prevenendo l'obiezione di qualcuno, aggiungo subito che i vari epigoni di " Gomorra" con la loro scontata " arcadia " criminal-miserabile mi sembrano per la maggior parte deludenti ed insinceri.

" Une intime conviction " , sceneggiato e diretto da Antoine Raimbault, in questo momento sta avendo- e giustamente - un ottimo successo di pubblico in Francia. Non solo, direi, perchè parla di un celebre caso giudiziario riproducendo il processo in appello, a Tolosa, di un tal Viguier, accusato anni fa di aver ucciso la moglie. Assolto in primo grado per insufficienza di prove, nel secondo giudizio promosso dal locale " parquet "  questi rischiava di veder ribaltata la sentenza, a causa di un presidente di corte d'assise poco ben disposto in generale verso gli imputati e dall' indagine quanto meno tendenziosa svolta a suo tempo dalla polizia. Ma anche perchè, ed è questo che emoziona ed avvince lo spettatore, al centro della vicenda e del film, sta un tema fondamentale per una società fondata non sull'arbitrio ma sulla legalità e ,diremmo quasi, sul buon senso. In assenza di prove determinanti ( qui non era stato mai nemmeno assodato che la moglie di Viguier fosse stata uccisa , non essendoci un cadavere ) i " teoremi " dell'accusa e di una certa opinione pubblica debbono necessariamente lasciare il passo al convincimento che l' imputato sia innocente. " Giustizia ", in definitiva , non significa che qualcuno vada sempre in prigione . Quanto piuttosto che la presunzione di innocenza dell' imputato- da cui occorre sempre partire - venga smentita, "al di là di ogni ragionevole dubbio ", dall'evidenza addotta nel processo. In caso contrario, non ci può essere che l'assoluzione ed il riconoscimento del bene supremo della libertà. Il film è un ' opera prima  ma non risente minimamente dell' inesperienza dell'autore. Dopo un inizio leggermente faticoso, più per problemi di sceneggiatura che d'altro, esso trova quasi subito la giusta impostazione drammatica, non semplicissima perchè i film  " giudiziari " rischiano di risultare abbastanza risaputi. Evitando con sagacia gli scogli dello scontato contraddittorio tra accusa e difesa, preferisce soffermarsi sulla personalità del brillante e focoso avvocato difensore di Viguier (interpretato magistralmente dal bravissimo attore belga Olivier Gourmet ) e su quella di una amica di famiglia dell'imputato che si trasforma in assistente volontaria del legale per aiutarlo nello smontare l'impianto accusatorio (  Marina Fois, in una impersonificazione come sempre puntuale ed intelligente ). Diretto con mano sicura, fornito di una " suspense " che più che nell'esito scontato del processo risiede nella progressiva dimostrazione dell' innocenza dell' imputato, " Une intime conviction " mi è parso film abile e coraggioso per la giusta critica all'eccessiva facilità con cui- evidentemente in Francia - polizia e magistratura "fabbricano " colpevoli da dare in pasto al grande pubblico assetato di giustizialismo. Una lezione di cinema , ma anche di civiltà e di rispetto per l'uomo.

Ma la vera, bellissima sorpresa di un breve soggiorno parigino è stato senza dubbio l'ultimo film del talentuoso ed eclettico Francois Ozon, prolifico regista di una quindicina di film in meno di vent'anni, che già ci aveva dato prove evidenti della sua passione per la verità e per un cinematografo di ricerca e di scavo, sia psicologico che sociale. " Grace à Dieu ", che riproduce nel titolo una infelice espressione dell' arcivescovo di Lione , Monsignor Barbarin, pronunciata in una conferenza stampa sui casi di pedofilia avvenuti nella sua diocesi, è , ancor più di " Une intime conviction ", calcato direttamente sull' attualità. Una attualità particolarmente bruciante e, purtroppo, non limitata alla sola Francia : quella dei casi di pedofilia nella Chiesa Cattolica , per troppo tempo sottovalutati e coperti dalle gerarchie ecclesiastiche. Qui, prendendo le mosse da quanto successo a Lione negli anni ' 80 e '90 del Novecento e solo oggi emerso nella sua gravità ed approdato alle aule giudiziarie, Ozon ricostruisce ( con tanto di nomi e cognomi ) la vicenda di Monsignor Preynat , pedofilo confesso, chiamato in causa dalle sue antiche vittime in cerca di verità e giustizia prima ancora di risarcimenti o di privati pentimenti . Ed è sulle drammatiche conseguenze della violenza a suo tempo subita da tre delle vittime stesse che il film sofferma la sua attenzione, mostrando problematiche personali e familiari psicologicamente laceranti che debbono fronteggiare il muro , cortese ma fermo, opposto dalle gerarchie e l'incomprensione , a volte, dell' opinione pubblica.Se i tre personaggi principali ( interpretati da altrettanti attori memorabili, Melvil Poupaud, Denis Ménochet et Swann Arlaud , tutti sulla quarantina ) trovano la forza di andare fino in fondo , ritrovando l'audacia di una parola che non teme di incolpare persone ritenute, per definizione, intoccabili, è grazie all'associazione cui essi danno vita per rintracciare tutte le vittime del sacerdote ed offrire loro mutuo sostegno. Associazione che ,pertinentemente, si chiamerà proprio" La parola liberata ". Prescritti ( "grazie a Dio", secondo l'incauta uscita dell'arcivescovo ) buona parte dei reati confessati da Preynat, è lo stesso Monsignor Barbarin che si trova ancora oggi sotto processo ( sentenza attesa tra poche settimane ) per il reato di omessa denuncia e mancata assistenza a persone in pericolo. Si vedrà se la giustizia degli uomini saprà colpire ciò che la giustizia di Dio, forse, un giorno perdonerà. Ed è in questa dicotomia- inesistente per uno spirito laico ma ben presente nell'animo di chi è religioso - che risiede un ulteriore significato drammatico di fatti così riprovevoli e che  viene conferita al film un'eco, una risonanza che trascendono il semplice ancorchè dolorosissimo caso giudiziario. Condotta con molta freddezza ed un apprezzabile assenza di sensazionalismo, la vicenda ( " finzione basata su fatti veri e documentati " , dice pressapoco una didascalia iniziale ) si dipana con grandissima abilità drammatica. Con un ritmo incalzante, un respiro possente supportato da mezzi semplicissimi ( abbondanza di primi piani e di scene girate in interni ) il film arriva a cogliere quella parcella di dolorosa , straziante verità che è nella visione del Male opposto alle forze del Bene. Forze impari, queste ultime, ma sorrette vittoriosamente dalla fede e dal coraggio degli individui ( questo sì, possiamo dire senza blasfemia , " grazie a Dio " ).




venerdì 15 febbraio 2019

" Il CORRIERE " di Clint Eastwood ( USA, 2018 )

Earl Stone, il personaggio principale dell'ultimo film di Clint Eastwood ( titolo originale " The Mule " ) uscito in Italia da una settimana, è ispirato a Leo , il novantenne " corriere della droga " di cui raccontò molti anni fa un articolo del " New York Times " che fece scalpore. Rovinato finanziariamente dal declino del suo commercio  di fiori, spiazzato dagli ordinativi  passati con il ricorso ad internet ( che affetta di non sapere neanche cosa sia ) in rotta con moglie e figlia che lo considerano un egoista dimentico dei suoi più elementari doveri, Earl accetta per riguadagnare credito  l'offerta che gli viene fatta di essere remunerato con  un bel pò di soldi trasportando dei borsoni, delle valige misteriose ( ma non troppo ) all'interno del suo veloce " pick- up " da un punto all'altro degli Stati Uniti. Non  gli ci vorrà molto - ma il sospetto è che l'abbia sempre saputo - per capire che si tratta di droga, purissima droga "pesante" che vale centinaia di migliaia di dollari. E che gli frutta in poco tempo, grazie alla " tangente " che gli viene ogni volta versata dai suoi datori di lavoro, un bel gruzzoletto con il quale il nonagenario ( qui ad onor del vero derubricato a  baldo...ottantenne per non rendere inverosimili certi suoi passatempi ) si concederà ancora diversi sfizi personali ma compirà anche altrettante opere di bene. Senonché la DEA ( cioè l'agenzia per la repressione del traffico di droga ) incuriosita dalle voci che le sono giunte  su di un nuovo insospettabile corriere al soldo di un potente cartello della droga messicano gli sguinzaglia contro un team di investigatori capitanati da uno " special agent " che lo cerca in lungo e in largo come un novello Achab a caccia della mitica " balena bianca ".

Ho cercato di riassumere in poche linee la trama del film , invero uno dei meno complessi di Eastwood sotto questo profilo, ma sono alquanto imbarazzato nel darne una valutazione critica. Mi è piaciuto o no ? Come si colloca nella  filmografia ormai ridondante di Eastwood-regista ( con questo,fanno trentotto film in quarantasette anni di attività ) ? Vale la pena di andarlo a vedere ? A quest'ultimo interrogativo, per la verità,  un critico inglese che lo ha visto ha già spiritosamente risposto che ci sono senz'altro molti modi peggiori di passare due ore, affermazione che, per rompere il ghiaccio, faccio volentieri mia. Liquidare il vecchio Clint ( 88 anni portati in modo invidiabile ) con le usuali categorie " buono / cattivo " è però tutt'altro che agevole. Cerchiamo, in estrema sintesi, di farci aiutare anche questa volta dai due approcci che conosciamo per giudicare un film : quello etico e quello estetico. La posizione morale che esprime il film è la  ben nota di sempre per tutti i film di Eastwood: esaltazione dei valori americani - coraggio, spirito d'indipendenza, senso della responsabilità - disprezzo per chi  ad essi non  crede, un certo spirito " macho " appena ingentilito da una visione della donna come punto d'approdo per  il vagabondare dell' uomo, pietà per i deboli. Qui l'avanzata senescenza del regista ( rafforzata dal suo prestare coraggiosamente, dopo dieci anni, nuovamente volto e corpo al protagonista ) e l' attaccamento a questa sorta di personalissima " frontiera " idologica  affiorano molto più che nei film  immediatamente precedenti, facendo quasi pensare ad un film-testamento. E pur augurando lunga vita a questo  grandissimo artigiano cui il cinema americano post-fordiano deve tantissimo, c' è quasi da pensare che potrebbe  esserlo davvero. Eastwood che invecchia in un misto di fierezza per la sua personale vicenda ( giunto al successo  solo a quarant'anni di età e dopo una lunghissima gavetta ) e di rancoroso sarcasmo per tempi e modi di oggi nei quali egli  fatica ormai a riconoscersi, rincara  la dose e ci offre un " pastiche "in cui tutto viene preso di petto : i giovani che non rispettano gli anziani, lo strapotere del denaro, della forza bruta e del successo a tutti i costi rispetto ai valori fondamentali dell'individuo e del gruppo familiare, finanche la stupidità di chi ci amministra. Condito, per soprammercato, con un pizzico di razzismo paternalisticamente " incorrect " ed un sessismo a tratti francamente imbarazzante. Una ricetta non certo per stomaci deboli, poco equilibrata a mio avviso anche se dovrebbe essere riscattata da un finale all'insegna di un forte rispetto per gli affetti familiari, dell'assunzione finalmente delle proprie responsabilità e dell'incrollabile amore per la vita nelle sue manifestazioni più belle.

Passando all'aspetto estetico del film, ai suoi valori - come si dice - propriamente filmici, dirò subito che il fatto che Eastwood sia di nuovo attore al servizio di sé stesso regista aiuta non poco. Osservando infatti quel volto scavato, quelle smorfie di sofferenza, ma anche gli occhi ancora ironici e una prestanza fisica sorprendentemente ben mantenuta, viene fatto di provare simpatia ed immedesimazione in un personaggio  che di per sé sarebbe abbastanza scontato e , qualche volta, addirittura respingente. Ed è , a ben guardare, la stessa simpatia che avvertiamo per un vecchio, dignitoso signore del cinema, che a quest'ultimo ha dato molto e che merita , in fondo, la nostra indulgenza anche quando, come qui, esagera un pò e ci offre un film che , visivamente oltre che concettualmente, non può stare certo alla pari delle sue cose migliori. Eastwood ci aveva abituati a film generalmente ben curati, senza geniali " colpi " di regia ma sempre efficaci nelle inquadrature, significativi nel fraseggio tra un ' immagine e l'altra. Qui, invece, siamo in presenza di un mero  film " di genere " sostanzialmente decoroso ma abbastanza stanco e risaputo nel modo di filmare ( quel girovagare in macchina di Earl con il suo carico di droga ripreso ogni volta dall'alto e poi all' interno della cabina del veicolo, come nel più trito degli " spot " per la pubblicità delle automobili ) senza mai un soprassalto, un'invenzione, qualcosa che faccia pensare che il vecchio Clint sia ancora in grado di stupirci accarezzando i nostri sensi di incontentabili cinefili.
Discreta la fotografia, ma nulla di più. Buona la musica, se non altro abbastanza innovativa. La recitazione dei comprimari è piuttosto anodina, inclusa quella del troppo lodato Bradley Cooper. Non male, invece, i due " cammei " affidati ad altrettanti grandi attori di  trenta- quarant'anni fa : Diane Wiest nella parte della moglie di Leo e Andy Garcia in quella del capoclan mafioso messicano, Laton.
Ma, ripeto, difficile pur nel piacere di vedere che il nostro amico Clint è " back in business ", nascondersi un vago imbarazzo per una " rentrée " in parte deludente e che nulla aggiunge alla passata grandezza - rimasta intatta - di uno degli ultimi grandi registi americani. Che sia o meno il suo canto del cigno, mi parrebbe forse giunto il momento di tirare le somme, senza aggiungere al bilancio finale di una carriera ulteriori poste  della stessa , modesta levatura de " Il corriere ".


lunedì 11 febbraio 2019

" LE NOSTRE BATTAGLIE " di Guillaume Senez ( Belgio / Francia, 2018 )

Tempi difficili, quelli in cui siamo costretti a vivere oggi in diversi paesi d' Europa. Il lavoro che non c'è , e quando c'è,  precario e mal pagato, soggetto spesso a ritmi e condizioni impossibili.E poi una sensazione generalizzata di insicurezza che non favorisce certo, da parte dei più,  una visione serena ed ottimistica di una esperienza umana che pur sarebbe, di per sé, tutta da assaporare e da valorizzare. Ed il problematico quadro ambientale in cui ci muoviamo , il  deludente panorama economico sociale che abbiamo al nostro orizzonte, inducono a forti difficoltà relazionali tra gli individui, minando la loro autostima e la loro capacità di aprirsi agli altri in un fruttuoso rapporto sinergico. Vicende, stati d'animo, difficoltà e tormenti degli uomini di oggi che il cinema, meraviglioso strumento d'indagine e forma d'arte tra le più duttili, ha già saputo  esplorare in questi anni con alcune opere, forti e sincere, che resteranno un giorno come una splendida ancorchè dolorosa testimonianza di un'epoca confusa , incerta sulla via da seguire ma ricca anche di fermenti, di amore, di volontà di reagire. Eppure, meravigliosamente, nascono sempre nuove opere che sanno reinterpretare la dura realtà che ci circonda, descrivere con freschezza situazioni e personaggi  già visti altre volte, offrirci lo sguardo personalissimo di un autore che ha ancora voglia di emozionarci e di commuoverci. Giacchè i film di cui parliamo, ancorchè sapienti come struttura e svolgimento narrativo, filtrati indubbiamente nella loro costruzione da una mente acuta ed  attenta, sono quasi sempre - nè  potrebbe essere altrimenti - creazioni " di cuore ". Opere insomma che non possono che nascere da un vivo sentimento civile  e da un autentico afflato dell'animo, al di là dell'effettivo risultato estetico. E' questo il caso del bellissimo film di un regista franco-belga, Guillaume Senez, qui alla seconda prova nel lungometraggio, che potete trovare da pochissimi giorni- grazie ad un distributore intelligente, ce n'è ancora qualcuno - nelle sale cinematografiche. " Le nostre battaglie " ("Nos batailles " ) era stato presentato a Cannes la primavera scorsa riscuotendo oltretutto un buon successo di critica e , uscito in Francia in ottobre, si è comportato discretamente anche al botteghino. Segno che il pubblico, quando c'è, sa riconoscere cosa vale la pena di andare a vedere.

Olivier, il personaggio principale del film, operaio sulla quarantina di bell'aspetto e di grande sicurezza di modi , lavora in un magazzino dove, con cadenze infernali e pochi diritti per i dipendenti vista la crisi, si inscatolano e si smistano prodotti ( libri, DVD, giocattoli ) acquistati dai consumatori su internet.Gran lavoratore, sempre disponibile a rendere il massimo, è nondimeno pronto a dare una mano a tutti. Attento alle esigenze dei compagni, si impegna nel sindacato, finendo  col trascurare così la moglie ed i due figli ancora piccoli e bisognosi di una guida : parte presto al mattino, conduce i figli a scuola ma poi torna a casa la sera tardi quando tutti ciondolano dal sonno. " Metro, boulot, dodo " si diceva una volta con sintesi efficace. Qui , siamo in una cittadina francese di provincia, la  metro è sostituita dall'automobile ma  con la fatica dell'andare e venire ed il costo del carburante ( avete presenti i "gilets jaunes" ? )  il discorso sostanzialmente non cambia. Cambia invece la vita di Olivier quando, inopinatamente, la moglie Laura scompare abbandonando marito e figli, senza una spiegazione ( ma noi spettatori abbiamo visto che la situazione socio-economica in cui  essa vive  e lavora a sua volta nonchè, probabilmente, una certo logorio del rapporto coniugale, debbono averla spinta ad una fuga, forse momentanea, forse no ) . Rimasto improvvisamente solo con due figli da accudire ed il lavoro che non può certo rischiare di perdere, Olivier  si sente smarrito, senza punti di riferimento, costretto a  reinventare la sua esistenza , porsi delle domande, cercare delle risposte sul presente e sul futuro dei suoi rapporti umani e di quelli di lavoro. Riscoprirà dopo qualche prova non facile - non dirò come - la voglia di  ricominciare, di impegnarsi e di reagire che è in ognuno di noi, l'amore per la vita , per le persone che lo circondano , sarà chiamato a fare delle scelte, con intelligenza e con coraggio. Sono le nostre piccole e grandi battaglie. Quelle che viviamo ogni giorno nella società così come nella nostra cerchia familiare, fronteggiati dalle mille sfide cui non possiamo sottrarci. 

Una trama così, semplice eppure densa di sentimenti, di passioni, di speranze e di delusioni, rischiava facilmente di cadere nel melodramma. Registi ( e soprattutto sceneggiatori  ) meno avvertiti sarebbero potuti incorrere in qualche infortunio, esasperando troppo i toni, accentuando il lato patetico della vicenda ( che c'è naturalmente ma che l'accorto Senez riesce a tenere intelligentemente  a bada, senza che travalichi nell' esasperato o nel piagnucoloso). Qui gli accenti in verità sono dimessi, si versa qualche lagrima ma virilmente la si asciuga. L'atmosfera complessiva del racconto bagna più in una diffusa luce crepuscolare che in un chiaroscuro illuminato da lampi di violenza o di disperazione. Non ci sono buoni e cattivi, carnefici contrapposti alle vittime. Lavoratori che rischiano il posto e non ce la fanno più a sopportare questa esistenza, sindacalisti debordati dall'ampiezza e irresolvibilità dei problemi, familiari scossi da un avvenire sempre meno decifrabile,tutti sono egualmente compartecipi di una condizione umana che richiederebbe resilienza, empatia, forza d'animo , per essere compresa e superata. Come, in ultima analisi, farà Olivier appoggiandosi ai propri compagni di lavoro ed ai familiari superstiti. Equilibrato nel descrivere  senza  dargli mai eccessiva prevalenza gli aspetti sociali della vicenda ( il posto di lavoro, la tensione con la direzione dello stabilimento ) per non farla scivolare nel "politichese " ed  accurato nel contempo , sia pure per rapidi tocchi, nel tratteggiarci il "vissuto " familiare di Olivier, il film si mantiene costantemente in bilico tra il " personale " e il " politico " , proprio come queste due stesse facce dell'esperienza del protagonista abbisognano di venire ricongiunte, alla fine, per dare vita ad una autentica partenza verso una nuova tensione ideale.

Abile nella sceneggiatura ( opera dello stesso Senez e di Raphaelle Desplechin ) il film si avvale di una messa in scena decisamente ispirata. Senza grandi fronzoli, movimenti di macchina ed inquadrature sorprendenti, utilizzando spesso il piano-sequenza e, quando necessario, la macchina da presa a spalla per dare in alcune scene il senso della concitazione, la regia riesce a stare addosso ai  personaggi, a creare delle immagini sempre forti e ricche di contenuto " pathos " emozionale, senza esuberanze barocche e tentazioni di descrizione bozzettistica di persone e di luoghi. Una messa in scena, quindi, apparentemente dimessa ma funzionale e concreta. Aiuta moltissimo, con questa regia ed una vicenda che fa perno giustamente sui personaggi principali , la splendida recitazione di tutti gli attori. Romain Duris, fin qui confinato con qualche eccezione in personaggi non particolarmente approfonditi sul piano psicologico, trova il ruolo, come si dice , della  propria vita di attore e dona ad Olivier tutta la forza e la fragilità che occorre conferirgli perchè risulti emblematico ed attraente, confermandosi un interprete moderno e  dalle ricche potenzialità. I due bambini, cinque e nove anni, sembrerebbero autentici " mostri " di spontaneità se non immaginassimo quanta fatica ci sarà voluta ad addestrarli ed il risultato è davvero emozionante, Certi sguardi, certi movimenti del corpo dei due figli di Olivier sono più espressivi a volte di tanti lunghi discorsi ed il regista è pronto ad inquadrare convenientemente sullo schermo ogni più piccola traccia di questo luminoso linguaggio muto. Tra gli attori di contorno, tutti bravi e ben diretti da Senez, mette conto di segnalare almeno Laetitia Dosch ( già vista lo scorso anno in " Jeune femme ", di cui allora parlammo ). Interpretando la sorella di Olivier, Betty, la giovane attrice si conferma per intelligenza e perfetto dominio del personaggio una nuova , bella certezza del cinema transalpino. Insomma, tutto il film merita davvero un  sincero e caloroso elogio. 

lunedì 4 febbraio 2019

" GREEN BOOK " di Peter Farrelly ( USA, 2018 )

 " Green book ", il bel film di Peter Farrelly da pochissimi giorni nelle nostre sale dopo essere uscito negli Usa l'autunno scorso, aver vinto un paio di " Golden globe awards " e risultare candidato a cinque Oscar ( consegna dei premi il 24 del mese, segnatevi la data ! ) conferma un convincimento ben radicato nell'esperienza di chi ama il cinema. Raccontare  una storia divertente, scrivere e dirigere una commedia, è molto meno facile di quanto, incautamente,  verrebbe fatto di pensare. Occorre  senso del ritmo, equilibrio nella costruzione della vicenda ( non si può infilare semplicemente una battuta dopo l'altra ) gusto per situazioni e personaggi che si prestino ad una garbata presa in giro (ogni eccesso, alla lunga, è controproducente) e soprattutto tanta, tanta inventiva per sorprendere  gradevolmente lo spettatore. Una ricetta  abbastanza complicata di cui sembrano depositari, al giorno d'oggi, specialmente  i cineasti americani. Sarà la quantità di " sit-com " che si producono lì da decenni per il piccolo schermo, c'entrerà  pure un pò di quella gloriosa tradizione che da Frank Capra a Woody Allen ha arricchito il cinema USA di una lunga serie di commedie godibilissime. Fatto sta che il segreto per fare film piacevoli ma non necessariamente stupidi, capaci di strapparci un'onesta risata o un franco sorriso e di allietarci il cuore - capacità che, ricordiamocelo, una volta avevamo anche noi in Italia - sembra appannaggio ora, prevalentemente, di registi e sceneggiatori d' Oltreoceano.

Questo Peter Farrelly - un nome che a me non diceva molto sino ad oggi - è un onesto artigiano del piccolo e grande schermo ( il suo film d'esordio, " Dumb and Dumber" del 1994, da noi  "Scemo & più scemo ", è stato un grande successo di cassetta ) spesso in coppia con il fratello più giovane, Bob. Con il tempo il suo stile si è affinato, depurandosi - almeno a giudicare da quest'ultima fatica - da certe intemperanze ed eccessi di una comicità troppo facilona che, pare, lo contraddistinguessero un tempo. In definitiva ne è uscita una gran bella commedia,  divertente e commovente al tempo stesso come si deve. In più,  come dice la scritta che appare in sovraimpressione sulla prima immagine, " tratta da una storia vera ". Che è sempre un inizio accattivante  perchè ci da subito la sensazione, puerile ma autentica,  che nessuno ci stia mistificando inventandosi ogni cosa ma anzi ci voglia far rivivere momenti di una vita realmente  vissuta da personaggi reali e non fittizi raffigurati sullo schermo, accarezzando così quel nostro non tanto nascosto desiderio di intrufolarci nei fatti di altri esseri umani, celebri o meno celebri che siano questi ultimi. Qui la vicenda, raccontata dal figlio del protagonista- che ha scritto il film unitamente allo stesso Farrelly ed un altro sceneggiatore - è quella di un autista e uomo di fiducia italoamericano dai mille mestieri, tal Tony " Lip " Vallelunga che, nel 1962, accettò l'incarico di accompagnare in una " tournée " di due mesi nel profondo Sud degli States il grande pianista eclettico afroamericano Don Shirley. Un viaggio niente affatto semplice se poniamo mente alla circostanza che a quell'epoca  (ben cento anni dopo l'abolizione della schiavitù !) negli stati della vecchia " Dixieland " secessionista un nero , non importa se famoso e perfettamente " à la page ", poteva avere  un sacco di problemi : non bastassero le possibili violenze o vessazioni a suo danno di razzisti e suprematisti  esaltati,  c'erano i divieti perfettamente legali che, come una grande ragnatela, intrappolavano localmente la popolazione di colore impedendole di frequentare gli stessi luoghi dei bianchi, hotels, ristoranti, clubs, perfino luoghi di decenza. Tanto è vero - di qui il titolo del film - che una speciale guida ( " the green book " ) indicava al visitatore dalla pelle un pò...abbronzata dove potesse andare e dove no, fornendogli una serie di indirizzi " giusti ", a scanso di equivoci.

Tony " Lip " ( "labbro " perchè , dice lui stesso con orgoglio, è un gran raccontatore di balle )  rozzo ed istintivo, divoratore di cibo spazzatura, non ama particolarmente i neri, tantopiù  se raffinati  pianisti di formazione classica, esteti e plurilaureati, dal linguaggio flautato e dalle buone  maniere come " il dottor " Shirley. Ma, pressato da improcrastinabili esigenze pecuniarie (ha perso il lavoro e, come si dice, tiene famiglia) accetta di chaperonare il ricco e famoso artista in una discesa al Sud che, come apprenderà poi, ha soprattutto un valore di testimonianza tesa a mostrare a quei bianchi segregazionisti che gli afroamericani possono essere come e meglio di loro. Nel viaggio, condito da episodi in cui Tony deve intervenire talvolta a trarre  d'impaccio il suo nuovo " boss " ed altri in cui è piuttosto quest'ultimo ad insegnargli qualcosa, tra l'autista-guardia del corpo  ed il musicista, rotto il diaframma della reciproca diffidenza, si stabilisce piano piano un bel rapporto, fatto di stima, di comprensione e infine di autentica amicizia. Ciascuno dei due, in definitiva, ha trovato il suo " doppio " : fondamentalmente diverso, agli antipodi  per estrazione sociale, cultura ed aspirazioni, eppure simile per afflato umano, desiderio di integrazione, amore per la libertà. C'è da scommettere che Tony e il dottor Shirley si ritroveranno entrambi nella " nuova frontiera " kennediana ( Dallas è ancora lontana ) e negli ideali di una America senza discriminazioni razziali, forte dei diritti civili rivendicati per tutti i cittadini. Una sorta di " paradiso perduto ", vista retrospettivamente, che in quegli anni ispirò l'ultima grande ondata di progresso civile nell' intera nazione.

Rendere tutto questo cinematograficamente, tenendosi saggiamente in equilibrio tra " road movie " con aspirazioni storico-sociologiche e racconto più intimistico di formazione ( o piuttosto di trasformazione ) di due personaggi così lontani tra di loro, non era da poco. Il rischio ( evitato quasi sempre ) di eccessiva semplificazione manichea o, per converso, di sentimentalismo un pò buonista era sempre dietro l'angolo. Ha aiutato molto, in questo senso, una sceneggiatura originale inventiva e ben congegnata, con la giusta dose di momenti leggeri e quasi comici ( la gustosa descrizione, nelle scene iniziali, degli ambienti italoamericani newyorchesi, le prime scaramucce tra Tony e il dottor Shirley ) ed altri meno epidermici e più riflessivi ( l'impatto con il "profondo" Sud , fino alla suggestiva sequenza, verso la fine, del " pub " tutto di neri in cui il pianista, rifiutato dai bianchi, riscopre l'identificazione con  i suoi confratelli ). Certo, un regista di maggiore respiro di Farrelly avrebbe potuto conferire ulteriore spessore figurativo ad una bella storia come questa: manca un pò a tratti, nel film, qualcuna di quelle sequenze o anche semplici inquadrature che dicono molto di più di tanti bei discorsi e che danno al cinema la propria ragion d'essere.
Interpretazione sontuosa ( e scusate se è poco ) da parte dei due interpreti principali. Se  Maharshala Ali ( Doctor Don Shirley ) ci da con pochi tocchi sapienti un' immagine  ben definita dell'artista nero prigioniero delle stesse contraddizioni insite nella  sua condizione esistenziale ( benestante ed accettato dall' élite bianca, è in fondo estraneo alla misera condizione dei propri confratelli meno fortunati  se non quando viene forzatamente assimilato ad essi dagli assurdi divieti della società bianca e conservatrice  ) il Tony " Lip " di Viggo Mortensen è assolutamente strepitoso. Utilizzato prevalentemente in passato nel registro drammatico, egli si rivela qui un attore di commedia con i tempi giusti, l' esatta dose di sfacciataggine  necessaria, la presenza fisica  straripante come si richiede alla parte. Un  possibile Oscar, in lizza fino al momento della proclamazione, a mio avviso.