lunedì 4 febbraio 2019

" GREEN BOOK " di Peter Farrelly ( USA, 2018 )

 " Green book ", il bel film di Peter Farrelly da pochissimi giorni nelle nostre sale dopo essere uscito negli Usa l'autunno scorso, aver vinto un paio di " Golden globe awards " e risultare candidato a cinque Oscar ( consegna dei premi il 24 del mese, segnatevi la data ! ) conferma un convincimento ben radicato nell'esperienza di chi ama il cinema. Raccontare  una storia divertente, scrivere e dirigere una commedia, è molto meno facile di quanto, incautamente,  verrebbe fatto di pensare. Occorre  senso del ritmo, equilibrio nella costruzione della vicenda ( non si può infilare semplicemente una battuta dopo l'altra ) gusto per situazioni e personaggi che si prestino ad una garbata presa in giro (ogni eccesso, alla lunga, è controproducente) e soprattutto tanta, tanta inventiva per sorprendere  gradevolmente lo spettatore. Una ricetta  abbastanza complicata di cui sembrano depositari, al giorno d'oggi, specialmente  i cineasti americani. Sarà la quantità di " sit-com " che si producono lì da decenni per il piccolo schermo, c'entrerà  pure un pò di quella gloriosa tradizione che da Frank Capra a Woody Allen ha arricchito il cinema USA di una lunga serie di commedie godibilissime. Fatto sta che il segreto per fare film piacevoli ma non necessariamente stupidi, capaci di strapparci un'onesta risata o un franco sorriso e di allietarci il cuore - capacità che, ricordiamocelo, una volta avevamo anche noi in Italia - sembra appannaggio ora, prevalentemente, di registi e sceneggiatori d' Oltreoceano.

Questo Peter Farrelly - un nome che a me non diceva molto sino ad oggi - è un onesto artigiano del piccolo e grande schermo ( il suo film d'esordio, " Dumb and Dumber" del 1994, da noi  "Scemo & più scemo ", è stato un grande successo di cassetta ) spesso in coppia con il fratello più giovane, Bob. Con il tempo il suo stile si è affinato, depurandosi - almeno a giudicare da quest'ultima fatica - da certe intemperanze ed eccessi di una comicità troppo facilona che, pare, lo contraddistinguessero un tempo. In definitiva ne è uscita una gran bella commedia,  divertente e commovente al tempo stesso come si deve. In più,  come dice la scritta che appare in sovraimpressione sulla prima immagine, " tratta da una storia vera ". Che è sempre un inizio accattivante  perchè ci da subito la sensazione, puerile ma autentica,  che nessuno ci stia mistificando inventandosi ogni cosa ma anzi ci voglia far rivivere momenti di una vita realmente  vissuta da personaggi reali e non fittizi raffigurati sullo schermo, accarezzando così quel nostro non tanto nascosto desiderio di intrufolarci nei fatti di altri esseri umani, celebri o meno celebri che siano questi ultimi. Qui la vicenda, raccontata dal figlio del protagonista- che ha scritto il film unitamente allo stesso Farrelly ed un altro sceneggiatore - è quella di un autista e uomo di fiducia italoamericano dai mille mestieri, tal Tony " Lip " Vallelunga che, nel 1962, accettò l'incarico di accompagnare in una " tournée " di due mesi nel profondo Sud degli States il grande pianista eclettico afroamericano Don Shirley. Un viaggio niente affatto semplice se poniamo mente alla circostanza che a quell'epoca  (ben cento anni dopo l'abolizione della schiavitù !) negli stati della vecchia " Dixieland " secessionista un nero , non importa se famoso e perfettamente " à la page ", poteva avere  un sacco di problemi : non bastassero le possibili violenze o vessazioni a suo danno di razzisti e suprematisti  esaltati,  c'erano i divieti perfettamente legali che, come una grande ragnatela, intrappolavano localmente la popolazione di colore impedendole di frequentare gli stessi luoghi dei bianchi, hotels, ristoranti, clubs, perfino luoghi di decenza. Tanto è vero - di qui il titolo del film - che una speciale guida ( " the green book " ) indicava al visitatore dalla pelle un pò...abbronzata dove potesse andare e dove no, fornendogli una serie di indirizzi " giusti ", a scanso di equivoci.

Tony " Lip " ( "labbro " perchè , dice lui stesso con orgoglio, è un gran raccontatore di balle )  rozzo ed istintivo, divoratore di cibo spazzatura, non ama particolarmente i neri, tantopiù  se raffinati  pianisti di formazione classica, esteti e plurilaureati, dal linguaggio flautato e dalle buone  maniere come " il dottor " Shirley. Ma, pressato da improcrastinabili esigenze pecuniarie (ha perso il lavoro e, come si dice, tiene famiglia) accetta di chaperonare il ricco e famoso artista in una discesa al Sud che, come apprenderà poi, ha soprattutto un valore di testimonianza tesa a mostrare a quei bianchi segregazionisti che gli afroamericani possono essere come e meglio di loro. Nel viaggio, condito da episodi in cui Tony deve intervenire talvolta a trarre  d'impaccio il suo nuovo " boss " ed altri in cui è piuttosto quest'ultimo ad insegnargli qualcosa, tra l'autista-guardia del corpo  ed il musicista, rotto il diaframma della reciproca diffidenza, si stabilisce piano piano un bel rapporto, fatto di stima, di comprensione e infine di autentica amicizia. Ciascuno dei due, in definitiva, ha trovato il suo " doppio " : fondamentalmente diverso, agli antipodi  per estrazione sociale, cultura ed aspirazioni, eppure simile per afflato umano, desiderio di integrazione, amore per la libertà. C'è da scommettere che Tony e il dottor Shirley si ritroveranno entrambi nella " nuova frontiera " kennediana ( Dallas è ancora lontana ) e negli ideali di una America senza discriminazioni razziali, forte dei diritti civili rivendicati per tutti i cittadini. Una sorta di " paradiso perduto ", vista retrospettivamente, che in quegli anni ispirò l'ultima grande ondata di progresso civile nell' intera nazione.

Rendere tutto questo cinematograficamente, tenendosi saggiamente in equilibrio tra " road movie " con aspirazioni storico-sociologiche e racconto più intimistico di formazione ( o piuttosto di trasformazione ) di due personaggi così lontani tra di loro, non era da poco. Il rischio ( evitato quasi sempre ) di eccessiva semplificazione manichea o, per converso, di sentimentalismo un pò buonista era sempre dietro l'angolo. Ha aiutato molto, in questo senso, una sceneggiatura originale inventiva e ben congegnata, con la giusta dose di momenti leggeri e quasi comici ( la gustosa descrizione, nelle scene iniziali, degli ambienti italoamericani newyorchesi, le prime scaramucce tra Tony e il dottor Shirley ) ed altri meno epidermici e più riflessivi ( l'impatto con il "profondo" Sud , fino alla suggestiva sequenza, verso la fine, del " pub " tutto di neri in cui il pianista, rifiutato dai bianchi, riscopre l'identificazione con  i suoi confratelli ). Certo, un regista di maggiore respiro di Farrelly avrebbe potuto conferire ulteriore spessore figurativo ad una bella storia come questa: manca un pò a tratti, nel film, qualcuna di quelle sequenze o anche semplici inquadrature che dicono molto di più di tanti bei discorsi e che danno al cinema la propria ragion d'essere.
Interpretazione sontuosa ( e scusate se è poco ) da parte dei due interpreti principali. Se  Maharshala Ali ( Doctor Don Shirley ) ci da con pochi tocchi sapienti un' immagine  ben definita dell'artista nero prigioniero delle stesse contraddizioni insite nella  sua condizione esistenziale ( benestante ed accettato dall' élite bianca, è in fondo estraneo alla misera condizione dei propri confratelli meno fortunati  se non quando viene forzatamente assimilato ad essi dagli assurdi divieti della società bianca e conservatrice  ) il Tony " Lip " di Viggo Mortensen è assolutamente strepitoso. Utilizzato prevalentemente in passato nel registro drammatico, egli si rivela qui un attore di commedia con i tempi giusti, l' esatta dose di sfacciataggine  necessaria, la presenza fisica  straripante come si richiede alla parte. Un  possibile Oscar, in lizza fino al momento della proclamazione, a mio avviso.


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