sabato 27 ottobre 2018

" GIRL " di Lukas Dhont ( Belgio, 2018 )

Lara è un'adolescente di quindici anni che vive in Belgio ed ha due desideri : imparare a danzare sulle punte come le ballerine classiche, e diventare femmina. Già, perchè Lara in realtà, all'anagrafe,  si chiama Victor ed è, per il momento, un maschio a tutti gli effetti. Ma osservandolo non si direbbe proprio, tanto questi si configura esternamente come una giovane donna : lunghi e fluenti capelli biondi,  volto e corpo perfettamente glabro, abbigliamento come quello delle sue (vere) compagne di classe. Insomma, lo si prenderebbe tranquillamente per una ragazza  se non ci  fosse  quel particolare anatomico a ricordare impietosamente la sua condizione di " transgender " che ha appena iniziato un lungo e difficile percorso terapeutico  a base di ormoni femminili al termine del quale ci sarà la tanto sospirata operazione che gli farà finalmente cambiare sesso. Ecco, in estrema sintesi, come potrebbe essere raccontato questo primo lungometraggio di un giovane sceneggiatore  e regista belga, Lukas Dhont, presentato quest'anno con grande successo di critica e di pubblico al Festival di Cannes e vincitore della " Caméra d'or " , il massimo riconoscimento della sezione " Un certain régard"  nella quale concorreva. Ma sbaglierebbe chi pensasse, visto l'argomento, ad un film sensazionalistico, volto in fondo a sfruttare un tema di cui si incomincia a parlare e che può indurre più a pensieri pruriginosi o ridicolizzanti che ad uno sforzo di immedesimarsi senza preconcetti in una realtà così delicata e complessa. Ambientato a Gand (dove esiste la più grande ed affidabile clinica europea specializzata nei cambiamenti di sesso ) il film è di un rigore quasi documentaristico nel descrivere la difficile situazione di Lara (chiamiamola ormai così) e di un estremo pudore, fin dove l'esigenza drammatica lo consente, nel tratteggiarne gli aspetti psicologici e comportamentali. Un film " serio " , quindi, che evita con successo molti prevedibili tranelli nei quali avrebbe potuto andare a parare. Un film che cattura con intelligenza la nostra attenzione e che, personalmente, mi ha emozionato e commosso.

Contrariamente a quello che sarebbe stato lecito attendersi - pensiamo a più di un film , per analogia di situazioni, che abbia descritto la ricerca in età giovanile di una controversa identità sessuale -  " Girl " non ci mostra  la nostra protagonista in contrasto con la famiglia e l'ambiente circostanrte. Il padre, forse divorziato visto che non vediamo mai una madre,  non osteggia il progetto di cambiamento di sesso anzi lo sostiene, avendo accolto pienamente la vera ed insopprimibile natura di Lara. Ha accettato, per venire a stabilirsi a Gand dove  questa può seguire il trattamento medico più idoneo e studiare nel frattempo danza classica, di trasferirsi dal luogo dove la famiglia risiedeva in precedenza  (con loro  c'è anche un fratellino minore ) e di rifarsi con fatica un'esistenza personale e  professionale. La sua preoccupazione è solo quella che Lara trovi la forza e la pazienza di attendere il momento in cui potrà sostenere l'operazione sopportando nel frattempo l'ibrida, scomodissima fase di passaggio ad una piena condizione femminile. Anche l'ambiente scolastico - che ci appare perfettamente a conoscenza della situazione - non si dimostra predisposto negativamente od ostile nella realtà di tutti i giorni ( Lara condivide lo spogliatoio delle ragazze ) salvo qualche piccola, inevitabile curiosità di alcune compagne di classe. I medici poi che la hanno in cura sono gentili, solleciti, le danno spiegazioni esaurienti e tranquillizzanti. Ma le cose non sono così semplici, nè potrebbero esserlo.

Il vero nucleo drammatico del film , quello che fa la sua forza e a sua bellezza, sta infatti nella lotta , sorda , accanita, implacabile, che Lara conduce contro il suo corpo, dunque contro sè stessa. O meglio, quel corpo e quella essenza maschile che essa sente, quasi con rancore,  come estranei ormai alla sua autentica vocazione identitaria. Di qui il continuo scrutarsi nello specchio alla ricerca anche di quelle minime trasformazioni cui la cura ormonale dovrebbe  dar luogo. La meticolosità con cui Lara compie la sua complessa vestizione mattutina, volta a nascondere il più piccolo indizio di una condizione fisica diversa da quella di cui si sente ora partecipe. Il disappunto nel constatare che le cose non vanno così in fretta come vorrebbe, mentre le urgenze puberali ed i primi innamoramenti mettono alla prova la sua ancora imperfetta geografia amorosa. Anche la dura, inflessibile disciplina fisica cui Lara si assoggetta per imparare a danzare sulle punte ( con piedi evidentemente non adatti ad un tale " barbaro " esercizio ) sta a significare la sua indefettibile volontà di aver ragione ad ogni costo  degli ostacoli che si frappongono ai disegni che essa persegue. Esercizio di complicato dominio dei propri muscoli e dei propri tendini, continuo controllo del proprio equilibrio e del proprio slancio in uno spazio predelimitato, la danza cui si dedica con passione, ma anche con il  dolore fisico che prelude ad un possibile fallimento, rappresenta plasticamente la ricerca, il costante anelito evidenziati nel suo faticoso itinerario. Traiettoria verso ciò che è visto come una liberazione, un traguardo finale, una porta  tentatrice che può spalancarsi su di una vita diversa, ma anche tanto sconosciuta e non priva di insidie. In questo senso Lara, come tutti i personaggi della creazione artistica, simboleggia in sostanza un sentimento universale : l'aspirazione alla felicità che , nella condizione umana, non può disgiungersi dalla consapevolezza delle difficoltà che vi si frappongono e dal timore di non essere in grado di farvi fronte fino in fondo. Ineluttabile conflitto, questo, tra la nostra forza di volontà ed il senso di sconforto che spesso ci assale e ci riconduce prepotentemente alla miseria della nostra fragile condizione esistenziale. 

Ma tutto ciò che ho detto, lungi dal risultare sullo schermo astratto od artificioso  come potrebbe anche succedere, trova qui una forma cinematografica ( quindi concreta,fatta di carne e di sangue ) di assoluta coerenza ed una resa estetica di grande bellezza. Merito certamente dello sceneggiatore - regista Dhont ( il quale , per rendere ancora più veritieri certi stati d'animo della sua creatura, non ha esitato, nella scrittura, a farsi aiutare da un'autentica " transgender " ) e della sua abilità ellittica, della discrezione che non va mai a discapito, peraltro, della chiarezza espositiva. Guardate come ogni sequenza, nel film,  si arresta dove non è più necessario proseguire perchè tutto è appena stato detto ed ogni insistenza suonerebbe falsa ed inutile. Non conosco molti altri giovani registi che abbiano questo senso della misura accoppiato al vigore espressivo che nel cinema è egualmente indispensabile. Raccontare per immagini, cioè l'essenza del linguaggio cinematografico, è la forza stessa di un film come " Girl ", dove anche il dialogo e quel continuo pendolo sonoro tra il francese di Lara e dei suoi familiari ed il fiammingo dell'ambiente circostante hanno pure, si badi, un fascino ed una valenza tutt'altro che trascurabili. Se Lara ci sembra di averla sempre conosciuta e l'affettuosa  partecipazione con cui seguiamo la sua vicenda cresce man mano con il progredire del suo dramma personale, molto è egualmente dovuto alla mirabile interpretazione del protagonista, un giovane quindicenne belga che studia ( anche lui ! )  come ballerino e che si è calato nel personaggio con l' " aplomb " di un veterano. Victor Polster, questo è il suo nome, recita benissimo, rende credibile e terribilmente vicino a noi un personaggio " scomodo ", con le cui motivazioni , stati d'animo e comportamenti non è sempre facile cioè andare d'accordo.
Un gran bel film , dunque, che lascia bene sperare per un rinnovamento del cinema europeo, a corto negli ultimi tempi di " monstres sacrés " capaci di attirare nelle sale il grande pubblico, ma  ben fornito per fortuna di tanti giovani di talento  in grado di farci dire che la settima arte è ancora viva e non se la passa poi tanto male.




venerdì 12 ottobre 2018

" SULLA MIA PELLE " di Alessio Cremonini ( Italia, 2018 )

Quando una persona viene posta in stato di detenzione, colpevole o innocente che sia, deve poterne uscire nelle condizioni fisiche in cui vi è entrata. Se non sempre è  così (e le alcune centinaia di morti o di lesioni gravi  nelle carceri o nella camere di sicurezza italiane stanno a testimoniarlo ) è un fatto molto serio, che richiede ogni volta di essere indagato a fondo. Durante la custodia delle persone, di breve o di  lunga durata, consentita o imposta dalle nostre leggi, continuano a sussistere infatti il diritto all'integrità fisica e, aggiungerei, il diritto al rispetto, anche da parte dei propri custodi, che è uno dei valori fondanti di uno stato che ambisca a definirsi civile ed osservante dei diritti umani. Anzi, proprio il trattamento riservato agli arrestati e ai detenuti, non solo sulla carta ma nella realtà pratica, dovrebbe essere uno dei tratti distintivi di un autentico stato di diritto rispetto ai regimi che si basano sull'arbitrio e sul disprezzo dei diritti degli individui.
Sono le prime, spontanee riflessioni che sorgono a caldo, insieme ad una grande pena per una giovane vita stroncata dalla malvagità e dall'incuria da chi aveva il dovere di proteggerla, dopo la visione del film " Sulla mia pelle ", presentato alla fine di agosto alla "Mostra" di Venezia, ora in programmazione nelle sale e visibile anche,apprendo e riferisco,  sulla piattaforma di "Netflix" che lo ha prodotto. Dirò subito che il film, ancorchè chiaro ed esauriente  nel ricostruire il caso di Stefano Cucchi , il giovane geometra romano deceduto mentre era in custodia cautelare - siamo nell'ottobre del 2009 - in attesa di essere processato per spaccio e detenzione di droga, va ben al di là del semplice fatto di cronaca. Esso tocca in realtà aspetti molto delicati e sensibili, praticamente universali, del rapporto tra dominanti e dominati , autorità e cittadino, in cui al legittimo esercizio di un potere si uniscono talvolta  evidenti istinti di sopraffazione quando non vere e proprie pulsioni di distruzione e di morte. E non si pensi , alzando le spalle , che tanto a noi, cittadini onesti e rispettosi delle leggi, questo non potrà mai capitare. I terribili casi di errori giudiziari ( si pensi ad Enzo Tortora ) o i semplici episodi di fermi, arbitrari o non come nella vicenda  del povero Cucchi, da parte delle forze dell'ordine sono lì a ricordarci che tutti possiamo un giorno incappare in una brutta avventura. Questa volta è toccato a me , " sulla mia pelle ", sembra ricordarci il protagonista di questa tragedia. Ma è anche sulla "tua", caro lettore, anzi sulla "nostra" pelle che tutto quanto accade nella vita di ogni giorno, e viene oggi mostrato sullo schermo, profondamente incide. Anche se non ne siamo direttamente colpiti, ogni ingiustizia , ogni lesione del patto di civile convivenza sottoscritto tra i cittadini, turba il quadro sociale e giuridico nel quale si svolge la nostra esistenza. E' una ferita che si unisce alle altre . Non può, in definitiva, lasciarci indifferenti. 

Il film, prendendo le mosse dalla morte di Cucchi, ripercorre quella terribile settimana intercorsa tra l'inizio della sua sfortunatissima vicenda ed il decesso in carcere. Assistiamo così a quanto occorso quella sera di inizio autunno quando il giovane,con qualche piccolo precedente penale alle spalle e un passaggio in una comunità terapeutica, fu fermato per un controllo dai carabinieri che lo sospettavano di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti ed entrò,  apparentemente sano, in una  camera di sicurezza di una stazione dell' Arma. Ne uscì, come vediamo sullo schermo, la mattina dopo in evidente stato di sofferenza fisica, il volto vistosamente tumefatto e fortissimi dolori alla schiena. Condotto in tribunale a Piazzale Clodio , il suo arresto fu convalidato frettolosamente senza che giudice e pubblico ministero facessero mostra di stupirsi delle sue infermità  e ritenessero di promuovere un'inchiesta volta a rinvenirne la cagione. Tradotto quindi a Regina Coeli in attesa di un processo che si sarebbe celebrato di lì ad un mese, venne  trasferito in infermeria quando le sue condizioni si aggravarono in conseguenza delle numerose fratture e dei danni renali riportati in quello che avrebbe dovuto apparire subito come un brutale pestaggio. Senza che i familiari, impediti dalle lungaggini burocratiche, ottenessero il permesso di fargli visita, Cucchi morì all' Ospedale Pertini dopo una terribile agonia. Diventata un caso nazionale grazie anche all'ostinata battaglia legale e mediatica condotta dalla sorella maggiore Ilaria, la vicenda  ebbe alterni  seguiti giudiziari. Leggo ora che  proprio in questi giorni, in appello, uno dei tre carabinieri rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale, avrebbe ammesso, dopo nove anni,  le proprie responsabilità ed accusato gli altri due di aver preso parte alla  gratuita e violentissima  "punizione ". Deciderà la magistratura , nella speranza che anche questo non resti uno di quegli episodi opachi di cui, da troppo tempo,  è costellata la storia del nostro paese.

Il grande merito del film, ciò che lo distingue meritoriamente da tanto cinema "militante " in voga negli anni '70 dello scorso secolo, è di non sposare alcuna pregiudiziale visceralmente antitetica alle forze dell'ordine. Con onestà Cremonini, autore egualmente della sceneggiatura, ci mostra anche  dei carabinieri, delle guardie di pubblica sicurezza, degli agenti di polizia penitenziaria non necessariamente inclini al sopruso, anzi sostanzialmente  corretti, che intuiscono il dramma di Cucchi e vorrebbero magari intervenire. Se non vanno fino in fondo è per possibile timore dei loro colleghi, a volte per quieto vivere,quando non per malintesa solidarietà tra " tutori dell'ordine " istituzionalmente contrapposti ai " coatti ", avversi per definizione a  tutti coloro, buoni e cattivi, che incorrano nei rigori della legge. Ciò che sorprende positivamente è ancora, nel film,  l' obiettività nell' esporre i fatti, ricostruiti attraverso i verbali di polizia, quelli del processo di primo grado, le inchieste giornalistiche.  Non solo cioè attraverso le testimonianze di parte dei familiari di Cucchi, che peraltro si intuisce  sia gran brava gente, onesta, quasi stordita dalla tragedia che gli è caduta di colpo sulla testa. Non viene nascosto così che Cucchi stesso aveva trascorsi come consumatore di droghe pesanti, come del resto la circostanza che successive perquisizioni nella casa di sua proprietà rinvennero poi ingenti quantità di stupefacenti ivi stoccate (suffragando l'iniziale ipotesi poliziesca che egli potesse essere anche uno spacciatore ).Ammirevole, va ricordato infine tra i pregi di " Sulla mia pelle ", l'equilibrio, la sobrietà, diremmo quasi l'autocontrollo con cui viene ripercorsa la " via crucis " del giovane geometra romano, dalla serata del suo arresto fino alle ultime ore di vita. Nessun tono sopra le righe , alcun intento declamatorio  ( bastano le immagini, seppur pudiche, a raccontare l'atrocità alla quale stiamo assistendo ) mai la violenza viene mostrata nella sua dinamica , anche per rispetto ad una verità processuale ancora tutta da scrivere. Moderazione, sobrietà, oggettività, non vogliono però dire  "neutralità ". Cremonini sa bene come i detenuti ed i loro sostenitori non abbiano voce , soffocati come sono da un apparato ben più potente ed insidioso. Ed il film giustamente ci indigna per questa disparità ed i troppi sospetti che gravano su  taluni rappresentanti delle forze dell'ordine, ma che peraltro non riescono quasi mai a tradursi in indagini puntuali e soprattutto tempestive. Forze dell'ordine che rimangono in massima parte sane ma in cui è difficile individuare con sicurezza le mele marce. 

Non sono programmaticamente laudativo del cinema italiano di questi ultimi anni. Troppi cascami di un malinteso " realismo " semidocumentaristico ( le varie " suburre " e  " romanzi criminali " campano-laziali, una  sorta di arcadia dell'emarginazione ben lontana dalla corrusca, sincera poesia di Pasolini). Troppi ritagli di " commedie all' italiana " privi dei "tempi"  comici dettati dai magistrali sceneggiatori di una volta e scarnificati ormai dall'assenza di un' autentica capacità di indignazione. Ho esitato prima di andare a vedere questo " Sulla mia pelle ", temendo di incorrere in una nuova delusione. Tutt'altro, posso dire ora con soddisfazione. Si tratta di un film bellissimo che spero avrà quei riconoscimenti, anche internazionali , che assolutamente merita. Un film che fa onore alla nostra cinematografia  rivelandoci un regista non più giovanissimo, appena alla sua seconda prova nel lungometraggio e che già attendiamo con impazienza per un'ulteriore conferma. Guardate come sono scarne ma efficaci le sue inquadrature nel restituirci una Roma, specie notturna, di sorprendente verità negli scorci dei quartieri semiperiferici, così come nel rendere gli interni, siano essi di una abitazione di piccola borghesia oppure di un carcere o di una caserma di carabinieri, veritieri ed emblematici allo stesso tempo. Un vero film realistico , che parte da un frammento di cronaca per aprirsi ad uno sguardo più ampio e doloroso sull'intera condizione umana. Vorrei sottolineare ancora un particolare, prima di terminare . La recitazione è, cosa non più comune nel nostro cinema,  degna di ogni lode, mai troppo colorita eppure del tutto credibile. Due gli  interpreti che mette conto di ricordare, scusandomi con i comprimari egualmente bravissimi  che non cito. Il primo è Alessandro Borghese, uno Stefano Cucchi di eccezionale aderenza al personaggio, con il suo perfetto dominio nell'uso del " romanetto ", cioè l'eloquio neo-romanesco così lontano da quello classico di Belli e di Trilussa.  La seconda è Jasmine Trinca, sempre bella ma assai maturata dai tempi di " Manuale d' amore ", la quale rende magnificamente, nei pochi minuti a disposizione, la forza morale e la dignità della sorella Ilaria . Sono uscito dal cinema ( il nuovo " Cinemino ", già grande qui a Milano ) indignato per ciò che mi è stato mostrato ma anche convinto che , da noi, ci sono ancora tante persone per bene. Ed è una sensazione, credetemi, che dà tanta speranza. 

martedì 2 ottobre 2018

Quattro film da Venezia

Mentre la stagione cinematografica stenta ancora a decollare ( avrete visto, spero, almeno il bellissimo " Un affare di famiglia ", vincitore quest'anno a Cannes della Palma d'oro ) vorrei darvi conto degli altri quattro film che ho potuto  personalmente valutare tra quelli arrivati a Milano, grazie alla  rassegna " Le vie del cinema  " , direttamente dalla " Mostra " di Venezia, senza cioè essere stati ancora immessi nel circuito commerciale. Prevedo comunque che tutti e quattro, anche se non ne conosco le date, arriveranno presto da noi. Dico questo per tranquillizzarvi e per non darvi l'impressione di ...perdere il vostro tempo leggendo recensioni di film che tanto non potrete mai vedere ! 
Il primo - lo dico subito per farvelo memorizzare fin d'ora - è un' autentica gemma che ci arriva dalla Cina, terra prodiga da almeno trent'anni a questa parte di grandi registi e di opere di grande interesse anche per chi , come me, conosce poco della cultura orientale. Si tratta dell'ultimo film di Zhang Yimou, uno dei migliori e stilisticamente originali autori che in questo periodo si sono divisi tra Pechino ed Hong Kong, cioè  i due poli cinematografici  della Cina continentale ( ci sono poi grandi registi a Taiwan che egualmente tengono alta la reputazione del cinema cinese  ). Zhang  Yimou aveva già vinto il Leone d'oro a Venezia nel 1999 con il commovente " Non uno di meno " ed è l'autore del celebre " Lanterne rosse " nonchè dell'intenso " Lettere di uno sconosciuto ", visto tre anni or sono, che precede proprio questo " L'ombra ", proiettato adesso a Venezia. Non so se sia  solo una mia congettura ma il penultimo film del regista ( " Lettere... " , appena citato ) con la sua vicenda  ambientata negli anni della " rivoluzione culturale "  e perciò delicatissima, non deve essere troppo piaciuto negli ambienti ufficiali e quindi questa volta egli ha preferito  collocare  la storia al centro de " L'ombra " in un'epoca imprecisata , a metà tra un medioevo molto stilizzato e un mondo favolistico atemporale,  consono alla cultura tradizionale del suo Paese.
La distanziazione operata da Zhang Yimou rispetto alla contemporaneità non toglie tuttavia che il film possa essere letto ancora una volta come un apologo sul potere totalitario e sulle basi su cui questo poggia: la violenza, l'inganno e la sopraffazione. Ma c'è molto altro in un film che pur durando due ore non annoia neanche un minuto, anzi sorprende continuamente in un caleidoscopio di immagini folgoranti, ora cruente, ora sensuali, ora piene di corrusca bellezza. Impossibile riassumere la trama di un film che è senza dubbio, a tratti, fin troppo " carico " e ricco di spunti figurativi suscettibili di dar vita ad almeno altre tre opere ma che riesce a mantenere, senza pericolosi cedimenti all'elemento puramente decorativo, una superba tensione interna fino allo scioglimento finale. Merito della regia, stilisticamente perfetta, sapiente ma fresca al tempo stesso. Un gran bel film , insomma, da non " sciupare ", voglio augurarmi, con un doppiaggio italiano che altererebbe il suono genuino e la musicalità del dialogo originale.

Tutt'altro discorso invece per un film che  era egualmente molto atteso e che a Venezia aveva pur avuto i suoi estimatori. Parlo di " Les estivants " ( I villeggianti ) della franco-italiana ( o piuttosto italo-francese ) Valeria Bruni Tedeschi. Sì, la sorella maggiore di Carlà, già in Sarkozy, da tempo attrice di successo in Francia, dove vive da quando era adolescente,e saltuariamente anche in Italia ( " La balia " di Marco Bellocchio, " La pazza gioia " di Paolo Virzì ).  Transitata dietro la macchina da presa (aspirazione di ogni interprete moderatamente ambizioso ) ha girato due o tre  film di discreta fattura prima di questo, scrivendoli personalmente o aiutata, come in questo caso, dall'amica Noémie Lvoskj, anch'essa attrice, sceneggiatrice e regista. Detto che Valeria ( chiamiamola così ) è senza dubbio un esempio di intelligenza e di sensibilità, qualità messe più volte alla prova come attrice, occorrerà peraltro rilevare che le mancano la modestia ed il senso della misura che si addicono ad un regista ( quasi ) esordiente. Questo "Les estivants " , infatti, largamente e scopertamente autobiografico, sarebbe risultato sicuramente migliore tra qualche anno e soprattutto dopo qualche altro film di un maggiore spessore. Voglio dire che  Fellini girò " Otto e mezzo " ( allora , come oggi nel film di Valeria , una " messa a nudo " di un regista che si interroga su sè stesso e sulla propria arte ) dopo " La strada " e " La Dolce vita ". Anche Woody Allen, per venire un pò più vicino ai nostri tempi, fece " Stardust memories "  (film di riflessione sul cinema e sulle sensazioni e i ricordi che questo può evocare in chi ne fa la propria professione ) dopo " Annie Hall " e " Manhattan ", cioè due delle sue cose migliori. Valeria , invece, di strada ne deve fare ancora tanta e incominciare ora a raccontarsi e a meditare sul proprio cammino artistico ed esistenziale, anche se a 54 anni non è più una ragazzina, appare un tantino presuntuoso ed intempestivo. Tenuto conto, soprattutto, del fatto che le sue sensazioni, in definitiva il suo " privato ", rimane desolantemente tale per tre quarti del film, senza mai assurgere  ad un significato che arrivi ad abbracciare non solo la sua esistenza ma, contemporaneamente, quella di chi la sta guardando ed ascoltando.Sembrano solo fatti suoi, si direbbe, che suscitano un blando interesse per le troppe allusioni alla sua vita personale di donna e di cineasta e , quel che più grave, non inducono quasi mai ad una immedesimazione o almeno un'empatia da parte dello spettatore. Peccato per lo sfoggio di attori impiegati in questo film ( da Pierre Arditi, peraltro terribilmente invecchiato e imbolsito, a Valeria Golino, qui goffa, imbruttita , l'ombra della bella e brava attrice che sappiamo, dalla stessa Noémie Lvoskj, sconciamente ingrassata, a Riccardo Scamarcio mai così afono ed insulso ). Tutti strumenti, in questa " sonata da camera " ambientata sulla Costa Azzurra, che non riescono ad accordarsi tra di loro e a produrre una musica armoniosa e gradevole.  E peccato , anche, per le qualità e la simpatia del "personaggio " Bruni Tedeschi che Valeria ( sempre lei ... ) dovrebbe, come regista, porre saggiamente al servizio di qualche progetto più consistente ed articolato. Rimandata, quindi, alla prossima occasione.

Grandissima curiosità ed attesa vi era poi, a Milano come a Venezia, per una autentica chicca per cinefili incalliti. Parlo di " The other side of the wind " ( L'altro lato del vento ), l'ultimo film girato - ma rimasto incompiuto - da Orson Welles e mai montato e mostrato in pubblico sino ad oggi. Di esso si avevano  scarse notizie e solo la pazienza di alcuni  appassionati  ha permesso di recuperarlo dove giaceva dimenticato e di consentire, tra il tanto materiale girato da Welles  a partire dall'agosto del 1970, di tirarne  fuori una versione  abbastanza coerente anche se non sappiamo quanto fedele allo spirito con cui egli si era accinto all'impresa. Di fatto il film risulta un documento di un certo interesse sull'evoluzione che avrebbe probabilmente avuto il cinema di Welles se, dopo " Falstaff " ( che è del 1966 ) questi fosse riuscito a portare a termine almeno uno dei tanti progetti cui si dedicò in seguito, sino alla sua scomparsa. Ma è da chiedersi se, a parte i cinefili di cui si è detto e gli studiosi di Welles in particolare, il film possa realmente piacere ad un pubblico più vasto ed avere così una decorosa carriera commerciale. La risposta è probabilmente negativa ed è , a mio avviso, una ulteriore prova di quanto ho sempre sostenuto. Il cinema, a differenza delle arti figurative e della letteratura - dove l'abbozzo, il tentativo non portato a termine, la prima versione, può avere la stessa dignità estetica di un'opera compiuta e definitiva -  necessita di " prodotti " ( non è una brutta parola, tutt'altro ) che possiedano il crisma, anche solo apparente, della finitezza. Abbiano cioè un inizio e una conclusione  e siano tali, indipendentemente dal loro valore artistico, da essere mostrati con qualche speranza di successo economico ad un pubblico di media intelligenza che voglia trascorrere un paio d'ore a gustarne la vicenda, lo stile  ed il significato. Piegare il cinema ad essere altra cosa da quella per cui è stato concepito mi sembra esercizio temerario e privo di reale godimento. Così, questo " The other side of the wind ", storia in bianco e nero del  "tournage"  e successiva proiezione per un pubblico di hollywoodiani " addetti ai lavori " di un film a colori  che in realtà risulta appena abbozzato e che, anche nella finzione, nessuno vedrà per il semplice motivo che non è mai stato terminato, può piacere ed interessare solo a tratti e per motivi che non coincidono necessariamente con le intenzioni dell'autore ( che del resto non sono esplicite ). Piace comunque, come testimonianza dell'epoca, la descrizione quasi documentaria del variopinto mondo dei cineasti che ruotano intorno al film  ( dal regista John Huston che impersona Welles, al regista e critico Peter Bogdanovich che fa l'assistente- segretario di quest'ultimo, ad altri personaggi del cinema di Hollywood più o meno celebri ). Piace e sorprende favorevolmente soprattutto il materiale a colori di cui è fatto lo spezzone di film mostrato ai cineasti , dove le geniali inquadrature, il continuo giocare a rimpiattino tra verità e illusione e la splendida apparizione "nature " di Oja Kadar, l'ultima compagna di Welles, fanno immaginare con rimpianto un tutt'altro film qualora Welles fosse riuscito a girarlo veramente nella sua interezza. In sintesi, giusto mostrarlo in una " Mostra di arte cinematografica " quale si autodefinisce Venezia. Ma quanto a vederlo  proiettato ed apprezzato nelle sale, nutro qualche  dubbio.

Infine, una menzione , con speranza di tornarvi più diffusamente quando - è certo- arriverà nelle sale italiane, al bel film di Julian Schnabel sugli ultimi mesi di vita di Van Gogh, " At the etenity's gate " ( Alle porte dell'eternità ) che ha chiuso la rassegna milanese. Di film sul grande pittore olandese, padre con Matisse della pittura contemporanea,ce ne sono almeno altri tre ( uno con Kirk Douglas, " Brama di vivere ", girato da Minnelli negli anni '50, uno di Altman del 1990 ed uno di Maurice Pialat l'anno successivo ) ma questo è specialissimo perchè adotta un punto di vista diverso da quello delle  classiche biografie filmate. Del resto l'autore è lui stesso un artista , conosciuto ed apprezzato negli Stati Uniti ( di cui è cittadino ) come in Europa, e si capisce che ciò che l'interessa nella figura di Van Gogh non sono le nude vicende del binomio " genio e sregolatezza " su cui hanno puntato un pò tutti  i suoi biografi, ma piuttosto l'itinerario spirituale ed estetico che lo ha portato ad una fine tanto scontata quanto emblematica. Ecco dunque Van Gogh raffigurato come un Cristo ( l'attore William Defoe che lo impersona era proprio stato Gesù nel film di Scorsese " The last temptation of Christ " ) che, ci verrebbe quasi da dire, " deve " morire per affermare il mistero, la sacralità dell'arte che  mira a " redimere " l'umanità dalla propria pesantezza ed ignoranza. Ma quello che colpisce di più, nel film, è la continua ricerca di un convincente equivalente cinematografico dello stile pittorico di Van Gogh, tale da restituire  la stessa emozione estetica. Ecco allora- e non piacerà a chi preferisce un approccio cinematografico meno convulso e spezzettato- le scene all'aperto girate da Schnabel con la macchina da presa in spalla che salta e giravolta affondando nell'erba alta e nei campi di grano,cercando di rendere l'entusiasmo panico di un artista affascinato e turbato dalla natura, così come dagli oggetti e dalle persone che raffigurava nei suoi interni egualmente carichi, contrassegnati dalla stessa pennellata robusta e " grassa ". Un bel film di un artista su di un altro artista. E molto merito della riuscita del film va riconosciuto all'attore Defoe, che ha giustamente ottenuto a Venezia la " Coppa Volpi " per la migliore interpretazione maschile.