lunedì 23 ottobre 2017

" DUE GIORNI E UNA NOTTE " di Jean-Pierre e Luc Dardenne ( Belgio, 2014 )

Perdura in questi giorni, a mio umile avviso, la penuria di nuovi film che meritino  la nostra  abituale visita ad una sala cinematografica. Quel che passa il convento , almeno sugli schermi milanesi, non mi convince molto. Forse dovrei andare a vedere il film del cileno Sebastian Lelio, " Una donna fantastica ", ma sento odore di " politically correct " nella trama e quindi - almeno per ora - mi astengo. Oppure non dovrei lasciarmi sfuggire un film slovacco su cui ho scarse referenze, presentato da noi col bislacco titolo in inglese di " The Teacher ", giudicando dal fatto che, sia pure in un cinemino semiperiferico, resiste qui  da più di un mese.
 Sarà, ma nell'incertezza preferisco- come ho detto altre volte - rifugiarmi nella visione di un bel DVD con un film del passato. Che poi " passato " non vuol dire necessariamente epoche lontanissime e quindi vicende in scarsa sintonia con la nostra. Questo che vi propongo oggi- e che alcuni di voi potrebbero aver visto a suo tempo - non ha che tre anni di vita ed è sempre attualissimo. Scritto e diretto dalla coppia di registi belgi che ci ha dato, in poco più di un ventennio, alcuni tra i film più sinceri ed intensi che sia capitato di vedere  (ricorderete, nella scorsa stagione, " La ragazza senza nome " ) questo " Due giorni e una notte " si vede sempre con grande emozione ed un genuino piacere estetico . Il cinema dei fratelli Dardenne  (les frères ", come vengono chiamati con semplicità e rispetto dai cineasti e dai cinefili ) non tradisce mai le nostre aspettative. Appaga sempre la nostra sete di verità, la verità dei sentimenti, e libera il gioco delle nostre reazioni emotive : pietà, tristezza, affetto e speranza per  personaggi  ordinari  ma emblematici della vita d'oggigiorno.


Il punto di partenza , cioè il quadro ambientale da cui prende le mosse la vicenda, è ben conosciuto dai fedelissimi dei Dardenne perchè , ad ogni loro film, è sempre lo stesso. Siamo a Seraing, località che fa parte dell'agglomerazione di  Liegi, nella parte francofona del Belgio. Zone un tempo piuttosto fortunate dal punto di vista economico per la presenza di importanti giacimenti di carbone (tutte le miniere sono ormai chiuse ) e di una connessa attività siderurgica di considerevole ampiezza,oggi in gravissima crisi. Zone quindi socialmente depresse, come tante altre in Europa e dove la nascita di nuove piccole attività economiche non è ancora in grado di assorbire la disoccupazione o il sottoimpiego venutisi a creare. Ed è qui, in questi centri urbani topograficamente abbastanza confusi, distesi  in modo irregolare lungo la  Mosa, il grande fiume della regione, in questi anonimi quartieri di abitazioni modeste ma ancora dignitose, senza un vero centro, con scarsi luoghi di aggregazione che i Dardenne - che hanno sempre vissuto lì - ambientano le loro vicende.  Vicende esemplari di una condizione umana chiusa spesso nel guscio dell'indifferenza, senza vera interazione tra le persone o i gruppi familiari, a volte poco solidale negli stessi  ambienti di lavoro. I personaggi dei loro film, piccoli artigiani, giovani in cerca di occupazione, immigrati,persone che con difficoltà sbarcano il lunario, si muovono su questo ristretto palcoscenico. Cambiano di nome di film in  film ( ma gli attori , tutti fedelissimi dei " frères ", sono spesso gli stessi, riconoscibilissimi ) vivono vicende sempre diverse ma accomunate da una situazione di malessere esistenziale prima ancora che economico e ambientale. Il fatto è che i due autori non sono tanto interessati agli aspetti politici e sociali delle vicende che vengono messe in scena- pur precisi e presenti, mai edulcorati - quanto alla dimensione umana , alle risonanze " interne " dei personaggi, potremmo dire,  che quelle vicende sono chiamati a vivere. Cinema eminentemente " umanistico ", quindi , perchè incentrato sulle persone semplici, sui loro sentimenti, le loro paure, le loro modeste aspettative . Che pone in evidenza situazioni di disagio, talvolta anche di grande difficoltà, ma senza cadere nella disperazione. Anzi, dotato sempre di un cauto , provvidenziale ottimismo che deriva proprio dalla fede nella condizione umana, fragile e sorprendentemente forte al tempo stesso.

Possiamo, oltretutto in un difficile momento dell'esistenza,  vedere il nostro destino lavorativo messo in gioco in un referendum tra i nostri colleghi in cui questi siano chiamati a scegliere tra, da un lato,  il mantenimento del nostro posto di lavoro e, dall'altro, l'ottenimento di un " bonus " , cioè un premio "una tantum " di un migliaio di euro ( collegato , però, al nostro automatico licenziamento ) ?  Scelta tremenda quella che- nell'intento di ridurre il personale e forse anche di liberarsi di un elemento ritenuto meno valido - viene proposta dalla direzione ai dipendenti della fabbrichetta di pannelli solari nella quale lavora Sandra, la protagonista del film e la "nominata" per la fatale estromissione. All'inizio del film, è un venerdì sera, Sandra apprende che il referendum ha dato una schiacciante maggioranza all'ipotesi del " bonus " e quindi, indirettamente, a favore del suo licenziamento. Per una donna giovane ma sposata ( il marito fa il pizzaiolo in un caffè e non deve nuotare nell'oro ) con due figli ancora piccoli e che, soprattutto, esce da una grave depressione che l'aveva costretta a restare a casa per lungo tempo, non precisamente una bella notizia. Ma c'è ancora una speranza, come le dicono subito una collega di lavoro ed il marito. Quella , avendo ottenuto che il direttore consenta la ripetizione del voto il lunedì successivo, di convincere nel frattempo una parte di coloro che avevano votato a favore del premio in danaro a cambiare orientamento e a pronunciarsi, questa volta, per la continuazione del rapporto di lavoro di Sandra ( rinunciando, s'intende in questo caso al "bonus" ). Per raggiungere questo ( non facile ) obiettivo mancano solo, quindi, due giorni. Due giorni ( più una notte ) che Sandra impiegherà, sostenuta dal marito, a contattare una buona parte dei colleghi di lavoro andandoli a cercare a casa loro durante il fine settimana. Non vi racconterò, ovviamente, come va a finire questa vicenda così drammatica. Ma, senza tradire la consegna che mi sono dato, vi dirò almeno che le peregrinazioni di Sandra non assumono un significato solo ai fini dello scioglimento del nodo narrativo al centro del film  quanto anche della  crescita personale del personaggio, dei contatti che stabilisce con colleghi di lavoro con i quali, prima, scambiava forse solo un rapido saluto. Una storia " di formazione ", insomma, come tutte quelle dei fratelli Dardenne.

" Due giorni e una notte " ha quindi  come nucleo centrale - voi vedete -  un tema nobilissimo. Muovendo da una situazione purtroppo molto comune, l' odierna precarietà del posto di lavoro a fronte dei bisogni  alla cui soddisfazione , per converso, diventa sempre più difficile rinunciare , ad essere esplorati in questo film  sono la condizione umana, il rapporto con sè stessi di maggiore o minore autostima, le relazioni con gli altri, l'empatia e la solidarietà che ne derivano. Ma, come ho ricordato prima, è vero che  il viluppo dei sentimenti, il dolore , l'angoscia, costituiscono il sostrato delle vicende solitamente proposte dai due autori. Ma l'acuta, sensibile osservazione delle tipologie umane  (che qui compone una straordinaria " galleria " di figure di contorno, ma non per questo meno importanti )  e il costante anelito dei personaggi a liberarsi dal peso  dei condizionamenti che impediscono loro di assurgere ad una rinnovata positività, in breve alla consapevolezza di ciò che è  "giusto" fare e , quindi ad una speranza di rigenerazione, sono il contrappeso che fa dei loro film tutt'altro che delle opere tristi e pessimistiche. E tutt'altro che triste è il risultato figurativo di  "Due giorni e una notte ".Questo è un film  splendido dal punto di vista anche formale. Difficile rimanere insensibili alle sequenze degli incontri di Sandra  con i colleghi di lavoro o alle scene di vita familiare, tutte filmate con scioltezza del ritmo espositivo e solidità della costruzione drammatica. Ecco spiegato perchè i  " frères " ci offrono solo un film ogni  due- tre anni . Tale è infatti la loro cura nella preparazione di un nuovo titolo ( l'impostazione degli attori, le numerosissime prove prima di incominciare a girare , la scelta dei luoghi dove ambientare la vicenda , in particolare gli interni, tutti grondanti di verità ) che i normali tempi di produzione vengono necessariamente dilatati.
Marion Cotillard ( sì, proprio lei, l'interprete di tanti film " patinati " di stampo semi-hollywoodiano) è in scena sempre  e risulta qui di una assoluta, sconvolgente autenticità. Accanto agli altri interpreti minori, una menzione particolare va fatta almeno per l'attore che interpreta il marito, il bravo e misurato Fabrizio Rangione ( che, con il suo nome italianissimo, ci ricorda il contributo storicamente rilevante dato al Belgio dai nostri connazionali immigrati ). Quanto sono commoventi e convincenti i fratelli Dardenne con il loro neo-neorealismo ! E, soprattutto, quanto sono bravi ( nella sceneggiatura così come nella regia ) nel non far emergere  troppo la loro bravura ! Nella francescana semplicità, voglio dire, di " nascondersi " interamente dietro le loro storie ed i loro personaggi, dietro la nuda verità delle une e degli altri.

  


domenica 15 ottobre 2017

"Il COLORE NASCOSTO DELLE COSE " di Silvio Soldini ( Italia, 2017 )

Vi piacciono , al cinema, le storie romantiche ? L' amore che nasce tra due esseri che si sono appena conosciuti, le piccole e grandi difficoltà cui costoro vanno inevitabilmente incontro per le differenze che sempre esistono nella natura umana ? Temi che sembrano ormai frusti, abusati, visti mille volte, letti o ascoltati fino alla noia. Eppure, ogni volta ( almeno certe  volte ) capaci ancora di destare in noi un sentimento, un'emozione particolare. Come se quella storia fosse la nostra. Come se fossimo ancora pronti ad  innamorarci ed a mettere in gioco la nostra stessa esistenza per raggiungere la felicità...
Se, come credo, la risposta è sì, allora andate a vedere di corsa - prima che sparisca dalla ordinaria programmazione - questo " Il colore nascosto delle cose ", uscito sugli schermi ai primi di settembre senza troppo rumore pubblicitario. Per la verità era stato presentato, negli stessi giorni, a Venezia in occasione del Festival. Ma, come si dice, fuori concorso e quindi non destinato ad attirare su di sè l'attenzione della critica. Peccato perchè , dell'intera gamma italiana,  era probabilmente la cosa migliore ed almeno un premio per l'interpretazione femminile lo avrebbe francamente meritato. Il titolo, per la verità, può sembrare un pò concettoso. Ma il suo significato si chiarisce subito quando ci si rende conto, dalle prime inquadrature, che il personaggio femminile è una cieca e quindi  persona ricca di sensibilità e  capace di " vedere ", di intuire ciò che è dietro la superficie delle cose, appunto.  Non però un personaggio dotato di particolari poteri sensoriali, una specie di superdonna in grado di far fronte a biechi od astuti lestofanti che cercano di profittare della sua minorazione. Ricordate Audrey Hepburn in  " Gli occhi della notte " oppure Mia Farrow in " Terrore cieco " ? No, qui abbiamo una semplice non vedente, come purtroppo  altre come lei,  che conduce una esistenza normale, ha una professione (fa l'osteopata ) e non  si trova implicata in vicende particolarmente spettacolari o drammatiche.


Devo fare un passo indietro. Il film è italiano, italianissimo per regia, sceneggiatura, interpretazione. Si svolge in Italia, anzi a Roma (anche se l'aspetto localistico, a differenza della maggior parte di quelli ambientati nella capitale, non è mai particolarmente marcato ). Io non amo troppo, anzi non li amo quasi mai, i prodotti della cinematografia italiana d'oggi.  Sappiamo che i  "maestri" -  come del resto un pò dappertutto nel mondo -  non ci sono più ( qui da noi sopravvivono Bellocchio, Olmi, i fratelli Taviani ). Ma non sono stati rimpiazzati, come in Francia o negli Stati Uniti, da nuove schiere di buoni autori, accompagnati talvolta da ottimi attori . Orfano di " mostri sacri " o di grandi divi, il cinema italiano è per di più quasi sempre asfittico, ripiegato su sè stesso, privo di idee. Non riflette , a a differenza delle  due fortunate epoche che ha attraversato negli ultimi decenni ( il neorealismo e gli anni '60 ) la nostra società, i fermenti che la agitano. Anche i film che trattano problematiche lontane da quelle "civili", ad esempio le vicende di coppia o le trame familiari, hanno in sé, spesso, qualcosa di artefatto,  di lontano dalla realtà che ci circonda. D'accordo , sappiamo che il cinema è finzione Ma nel senso di trasfigurazione, non di fuga dal vero. Ecco , i film italiani - perfino quelli programmaticamente  più realistici, i molti che trattano vicende di malavita e di conflittualità urbana, ce n'è oggi una folta compagine, un 'arcadia quasi  di storie drammatiche ambientate nelle zone più disastrate del Paese - danno l'impressione a tratti  di un cattivo fumetto, di una raffigurazione arbitraria, esteticamente piatta. Manca  la spontaneità, la verità delle cose. Manca, in parole povere, la divina semplicità, quella che il poeta racchiude nella rima fiore-amore ,"...la più antica e la più difficile di tutte ".


Non così, fortunatamente, in questo " Colore nascosto delle cose ". Sono andato a vederlo  in extremis  ( stava lì ad aspettarmi da quattro settimane ) e convinto solo, alla fine, dal fatto che è l'ultima fatica di Silvio Soldini. Un regista milanese ( dunque uno di casa... ) ma che non ha remore nell'ambientare i suoi film anche altrove, autore diseguale di una decina di film tra cui vanno ricordati almeno " Le acrobate " e  " Pane e tulipani ". Un regista onesto, che non delude mai. Uno dei non molti, nello spento panorama nazionale, che sappia descrivere con pochi tocchi, con delicatezza ricca di profondità , i sentimenti, le gioie e le difficoltà del vivere quotidiano. E poi , un altro motivo che mi ha spinto è stata  la presenza di Valeria Golino che avevo lasciato, due anni fa, meravigliosa protagonista di " Per amor vostro ", un film coraggioso ma riuscito a metà che le dette allora la Coppa Volpi a Venezia per la migliore interpretazione femminile. Straordinaria attrice, cresciuta tantissimo negli ultimi anni, ed oggi a 52 anni -  possiamo dirlo perchè non li dimostra per niente  -  di gran lunga la migliore attrice del nostro cinema ( forse  solo Claudia Gerini e Margherita Buy possono starle vicino, ma un gradino più sotto ). E l'unica, soprattutto, per la propria esperienza internazionale, ad essere esportabile all'estero a cercare di rinverdire i  fasti delle nostre interpreti drammatiche migliori, da Anna Magnani a Monica Vitti.  E Soldini e Golino ( già insieme nel ricordato " Le acrobate " , che però risale  più di vent'anni fa ) non tradiscono  le nostre  tenui speranze, dandoci un film chiaro , lineare, " italiano " ma non bozzettistico, sincero anche quando - occorre dirlo - non convince sempre pienamente . Ma se questo accade non è per imperizia o mancanza di ispirazione. Una volta di più il problema sta nella sceneggiatura - troppo ricca di personaggi secondari non sempre necessarissimi -  e in una lunghezza un tantino eccessiva : quasi due ore. A quando il ritorno alla buona abitudine di contenere i film nei canonici novanta minuti di una volta ?


Il film  parte da una situazione  classica, al cinema e in qualunque forma di narrazione: l'incontro tra due persone, spesso molto lontane tra di loro per carattere ed inclinazioni.Teo, un pubblicitario "creativo " quarantenne , tutto teso a godere della semplice superficie, dell' involucro delle persone e delle cose in cui si imbatte, ed Emma, una cieca della stessa età, indipendente, che ha saputo coraggiosamente vincere le mille costrizioni della sua condizione esistenziale, si incontrano per caso in un luogo dove i visitatori " normali " , guidati da volenterosi non vedenti, fanno l'esperienza di muoversi nel buio totale, senza punti di riferimento, per comprendere meglio cosa significhi una condizione così estrema. Teo, abituato a mordere , a consumare in fretta qualunque cosa senza particolari scrupoli, "punta"  in realtà Emma- che è molto carina - alla ricerca di una semplice avventura, una sorte di  "trofeo " da esibire agli amici , vista l' " eccezionalità " della preda. Emma, ricca di emotività, fragile sotto una scorza di apparente saldezza, si innamora realmente di Teo, senza sospettare che  questi ha una compagna fissa oltre ad una seconda amante saltuaria e non disdegna - come abbiamo visto -  qualche storia passeggera . Dal canto suo Teo, a contatto con un mondo totalmente nuovo che gli si schiude dinnanzi ( la sensibilità, la dolcezza, la profondità dei sentimenti di Emma ) a poco per volta si apre e riscopre, come se fosse stato lui  il vero " cieco " di questa vicenda, una gamma di sensazioni che, complice una dolorosa esperienza da adolescente, credeva di avere ormai sepolto in in angolino buio del proprio cuore.Purtroppo il destino sembra avere in serbo per lui nuove sorprese, nuovi ostacoli... Basta, non dirò di più per permettervi di scoprire da soli come andrà a finire. Occhio solo ( o meglio orecchio, e capirete perchè ... ) all'ultima , incantevole sequenza che chiude un film dalla trama molto semplice ma in realtà di un grande spessore contenutistico.Vorrei aggiungere, per permettervi di apprezzare meglio le situazioni in cui è in scena Emma, la cieca, che il regista-sceneggiatore Soldini ha studiato a lungo la condizione dei non vedenti, traendone anche, qualche anno fa, un bel documentario. Ma questo film , naturalmente, pur innestandosi su tale precedente esperienza, si spinge poi su altre piste, su altre ricerche morali ed estetiche.


Dicevo della sceneggiatura. Coesa, finalmente coerente ( il che vuol dire , semplificando, che il racconto sceglie la strada più breve e più logica per andare dal punto a al punto b ) costruisce una vicenda , diremmo , tutta in punto di merletto, delicata, fatta di stati d'animo e di una lente evoluzione di uno dei due personaggi principali, con sequenze brevi che si succedono con un ritmo sostenuto (delicatezza e descrizione dei moti dell'anima non debbono tradursi necessariamente, al cinema, in noia e scarsa incisività... ). Mi interrogo solo se il personaggio della giovane studentessa cieca , che Emma aiuta nei suoi primi difficili passi, dovesse avere necessariamente il rilievo e lo spazio che gli è stato dato. E lo stesso mi chiederei a proposito dell'amica ipovedente di Emma, anche se è  un personaggio secondario abbastanza gustoso. Con qualche aggiustamento, a mio avviso, la sceneggiatura sarebbe stata ancora più coesa e il film sarebbe durato di meno...
Soldini regista , comunque , è bravissimo. Finissimo nel renderci le più piccole sfumature dei suoi personaggi e della loro traiettoria emozionale, ha un vigore plastico nel descrivere i corpi, i particolari anatomici , le mani che si toccano, gli occhi che si incontrano. Come i migliori registi, non muove sullo schermo semplici ombre prive di spessore ma crea autentiche " forme " che occupano lo spazio . Con lui la più semplice o banale delle situazioni acquista una particolare risonanza interna che scuote la coscienza dello spettatore, senza far ricorso a quei lenocini artistici cui la presenza di un personaggio " estremo " come una cieca si sarebbe facilmente prestato.
Di Valeria Golino, implicitamente ho già detto. Non recita Emma , " è " lei. Incantevole, commovente interpretazione che la consacra definitivamente- se ancora qualcuno non ne fosse convinto - come la migliore attrice italiana degli ultimi venti- venticinque anni. La sua  capacità espressiva ( pensate che qui , per esigenze di copione, non può ovviamente avvalersi dei suoi occhi ) è davvero notevole, grazie anche a una forte presenza scenica e ad una voce straordinaria,  roca e sensuale quanto basta. Di fronte a lei, un attore meno famoso ma molto duttile e che interpreta con  bravura il non facile personaggio di Teo: Adriano Giannini , figlio di Giancarlo, un volto molto espressivo e che tiene testa con successo al " mostro sacro " Golino. A posto gli altri, come si diceva nelle recensioni di una volta. Buona la musica e ottima la fotografia, così nelle scene cittadine, specie quelle notturne, come negli interni sempre molto ben studiati che Soldini predilige.
Che dire di più ? Confesso che questo film mi ha colpito nel profondo, mi ha commosso ( forse sto invecchiando )e, effetto collaterale che non intendo trascurare, mi ha indotto a non considerare completamente spento l'orizzonte del nostro cinema. Come dicono qui a Milano, " sperém " ( speriamo ).




giovedì 5 ottobre 2017

" " L'INSULTO " di Ziad Doueiri ( Libano, 2017 ) " LES BIENHEUREUX " di Sofia Djama ( Algeria, 2017 ) " LE FIDELE " di Michael Roskam ( Belgio , 2017 )

Tre film della imperdibile rassegna  milanese " Le vie del cinema ", visti la settimana scorsa,  mi inducono a qualche riflessione sulla qualità di alcune cinematografie " marginali ", tali cioè rispetto a quelle imperanti sul  mercato ( voglio dire l'americana,  la francese  e, visto che siamo in Italia, quella di casa nostra ). Sono tutte e tre opere che si giovano  di capitali e, talvolta,  di contributi tecnici di una cinematografia maggiore,  in questo caso la francese. Ma sono,in massima parte, frutto di  idee, di esperienze di vita vissuta e di contesti artistici  genuinamente autoctoni. Libano, Algeria , Belgio. Ecco tre Paesi, tre situazioni ambientali non prive di problemi. A cominciare da quelli linguistici e di " identità " nazionale , relativamente al primo e all'ultimo. Per andare poi a quelli politici, religiosi e di sicurezza interna , prevalenti nella ancor giovane repubblica magrebina. Sulla carta, sono  tutte situazioni quanto mai interessanti.
Il cinema, lo abbiamo sostenuto altre volte, ha il diritto di affrontare o anche solo sfiorare temi di una maggiore consistenza " civile " o francamente politica che non quelli più "personali ", ad esempio i classici rapporti di coppia o di ambito familiare ( tutt'altro  che trascurabili, questo va da sé,  per i loro potenziali connotati drammatici e che ci hanno spesso dato opere memorabili ) . Deve farlo però non da semplice " comiziante ", se mi permettete il termine un tantino desueto ma che spero renda l'idea. Piuttosto da artista, preoccupandosi cioè di rivestire le proprie idee - condivisibili o meno , giuste o sbagliate che possano sembrarci - di una forma autenticamente " cinematografica ". Che soddisfi cioè i nostri sensi, non solo la nostra mente, e giustifichi quindi il fatto di essere andati al cinema invece di essere rimasti a casa a leggere un libro o un articolo di giornale.  Con questo voglio dire che un film, come qualunque opera d'arte, può avere un contenuto, di per sè,  intellettualmente attraente e stimolante quanto si vuole. Ma poi bisogna saper fornire a questo contenuto una veste consona al mezzo con il quale vogliamo trasmetterlo all'esterno. E che, sempre nel caso del cinema, arte eminentemente visiva, richiede maturità espressiva e capacità di dare vita ad una creazione che si regga sulle proprie gambe grazie alle cose che " mostra " e non solo a quelle che " dice ".

Fortunatamente per noi spettatori è, proprio in pieno, il caso dei primi due film in argomento, il libanese e l'algerino.  Diretti da registi che per varie ragioni, personali ed artistiche, passano entrambi buona parte della loro esistenza all'estero, in particolare in Francia, ma non per questo non riflettono fedelmente lo stato delle cose dei loro rispettivi Paesi di origine. Direi anzi che, come succede talvolta per molti " esiliati ", volontari o meno, il loro coinvolgimento spirituale negli ambienti e nelle situazioni da cui sono fisicamente lontani è ancora più forte di quello di chi ci vive in mezzo tutto il tempo.
" L'insulto " è scritto e diretto da Ziad Doueiri. Non più giovanissimo ( 53 anni ) ha già al suo attivo almeno due o tre lungometraggi, visti nei festival ma che hanno circolato poco nel circuito commerciale. Il suo modo di fare cinema è  influenzato, con tutta evidenza,  dai film d'azione americani. Diplomato in California, assistente e operatore  in passato di Quentin Tarantino , Kubrick  è per lui un'altra fonte di ispirazione , considerando il vigore polemico del suo approccio all'argomento trattato e la forza delle immagini cui fa ricorso. Ma chissà che non abbia visto, per venire ad influenze più mediterranee, anche i film di Costa- Gavras sulla Grecia dei colonnelli e quelli del nostro Francesco Rosi degli anni '60-70 ( " Le mani sulla città ", " Lucky Luciano " , " Il caso Mattei " ).  Il suo, insomma, è cinema sanguigno ma politicamente avvertito, improntato a valori di mutuo rispetto e di solidarietà contro tutti i settarismi, religiosi e politici, che da sempre minano la pace e i delicati equilibri di una tormentata regione come il Medio Oriente. Mussulmano di origine, ha sempre contestato - tra l'altro - la situazione di non guerra e non pace del proprio Paese nei confronti di Israele, posizione abbastanza scomoda e invisa all'ufficialità del Libano. Nel settembre di quest'anno è stato perfino brevemente arrestato ( poi rilasciato ) al ritorno in patria da Venezia per aver girato il suo precedente film proprio in Israele contravvenendo così al divieto per i cittadini libanesi di viaggiare  in quel Paese. Situazioni che per noi possono sembrare difficili da accettare ma che in quella regione sono purtroppo all'ordine del giorno.

La trama è molto semplice. Il punto di partenza è un banale litigio di strada come  ne potrebbero avvenire dovunque ( insulti e percosse ) tra un focoso meccanico e un capomastro che, sotto casa sua,  stava eseguendo certi lavori  per conto del comune. Il litigio finisce addirittura per due volte in tribunale tra l'imbarazzo dei giudici che non sanno bene,nella circostanza, come dividere la ragione dal torto. Già, anche perchè siamo nel Libano che ancora sconta la tragedia di una guerra civile quasi ventennale tra milizie " cristiane " da un lato, mussulmani e palestinesi dall'altro. E perchè si da il caso che il meccanico sia un fervente sostenitore del partito cristiano ed il suo antagonista un  orgoglioso rifugiato palestinese. Materia incandescente, capirete bene, per un ambiente così facile al continuo rinnovarsi degli odi settari. Ci si mettono quindi anche la politica ed i media a cavalcare le emozioni delle due opposte fazioni, fino alla decisione finale dei giudici che qui non vi dirò. Mi rendo conto che così riassunto il film può lasciare un tantino dubbioso un potenziale spettatore occidentale abituato a sapori più forti e a vicende più sottili ed articolate. Sarebbe però un vero peccato tralasciare un film che non solo vi fa capire in poco più di novanta minuti quali sono le passioni che agitano quella bella e sfortunata regione meglio di tanti saggi che potreste aver letto in argomento. Ma che , soprattutto, è una vera lezione di cinema. Drammatico, teso, girato con mano esperta da un regista che sa il fatto suo, autore anche della sceneggiatura ( finalmente una che sia  convincente nello sviluppo narrativo) " L'insulto " è interpretato da attori sorprendenti per tipologia umana e capacità recitativa, a cominciare  da Kamel El Basha che interpreta il palestinese e che, per questo,  ha avuto il premio a Venezia. Ma sono tutti bravi. Menzione particolare per l'istrionico attore che interpreta l'avvocato difensore del meccanico e per la bellissima  Rita Hayek che fa ( con apprezzabile intensità ) la parte della moglie del meccanico. A questa flessuosa bruna mediterranea, già celebre in Libano, sembra facile- tra l'altro - pronosticare una bella carriera anche all'estero.

Con  " Les Bienheureux " ( titolo evidentemente ironico, che noi potremmo tradurre con " Beati e contenti " ) Sofia Djama ci trasferisce in Algeria . Dal Medio Oriente al Magreb, dunque, un salto di qualche migliaio di kilometri. Ma la situazione politica presenta qualche analogia con quella descritta ne " L'insulto ". Traumatizzate da una  sanguinosa rivolta terroristica a sfondo islamico-integralista durata più di quindici anni e che ha richiesto una repressione altrettanto violenta, le autorità - un tempo fiere della struttura laica del loro Stato - non sembrano oggi contrastare a sufficienza una nuova e strisciante deriva a sfondo religioso della società algerina. Persistente autoritarismo pubblico e perdurare di una arretrata mentalità  nei rapporti familiari creano un'atmosfera soffocante che induce alcuni, giovani e meno giovani, a prendere in considerazione la "fuga " all'estero come unica soluzione. Un paese un tempo orgoglioso di essersi liberato da solo del giogo coloniale, imbevuto di ideali solidaristici, dubita ormai di sè stesso e sembra bloccato nel suo sviluppo civile e sociale. Questa la tela di fondo sulla quale  la regista ( qui anche autrice di una sceneggiatura nel complesso coesa e coerente )  colloca la vicenda del film . Vicenda attraversata da tensioni ed incomprensioni familiari e interpersonali ma anche da momenti di tenerezza, di abbandono, di speranza venata da sconforto per un passato che non può tornare e da timore per un futuro ricco di incognite. Questo registro così vario e ricco di sfumature, difficile da modulare con piena padronanza per una regista esordiente ( Djama è al suo primo film ) viene invece utilizzato con maestria , senso del ritmo cinematografico, giustezza di accenti. Ne esce non solo un ritratto interessante di un Paese in fondo poco conosciuto ma anche uno " spaccato " familiare e sociale molto accattivante nella sua convincente descrizione e che si guarda con piacere e sincera partecipazione emotiva. Grande merito va, anche qui, non solo alla regista ma ai bravissimi interpreti, tutti molto espressivi. Menzione particolare alle due interpreti femminili ( le donne sono la vera speranza del mondo arabo, suprema ironia per un mondo ancora in gran parte maschilista... ) e cioè la giovanissima Lyna Koudri ( la ragazza amica del poliziotto ) e la splendida, solare Nadia Kaci ( la moglie del medico ). Davvero un film che emoziona e fa riflettere al tempo stesso. Libano, Algeria : sono davvero così lontani dalla nostra prospettiva o quelle storie e quei personaggi non hanno forse qualcosa da dire anche a chi abita sulla sponda opposta del Mediterraneo?

Situazione completamente diversa per " Le fidèle " di Michael Roskam, l'ultimo film di cui parliamo oggi.Qui siamo in Belgio, il ricco, gaudente Belgio che nuota ancora spesso nel benessere, la spensieratezza, il soddisfacimento dei sensi. Ma Anche il Belgio del malessere sociale crescente, dell'ipocrisia e del crimine. Un Paese molto meno scontato di come ce lo presentano i dépliants turistici e che, in fondo,  aspetta ancora il suo Bunuel o il suo Losey per essere raffigurato al cinema con  tutte le sue luci e le sue ombre. Un Paese che tutti conosciamo almeno attraverso la capitale, Bruxelles. Tra l'altro una città " cinematografica " come poche, con la sua particolare atmosfera, le case sofisticate, l'abbondanza di parchi e di giardini.  Ero andato  a vedere il film sperando di rivedere almeno tutto questo, dopo tanto mondo arabo di oggi splendidamente reso sullo schermo. Niente di ciò, purtroppo : amara delusione quindi per un film che , ancorchè ambientato a Bruxelles e immediati dintorni, potrebbe esserlo sulla luna senza che avessimo a stupircene. Trama e personaggi sembrano collocati in uno spazio asettico, privo di connotati di immediata riconoscibilità, tanto da suffragare la tesi un pò cattiva di chi sostiene che il Belgio, alla fin fine , è solo "un grande incrocio autostradale". Non sto a raccontarvi la trama per non deprimervi. Siamo in pieno nel fumetto ( quello alla " Diabolik", ma lì almeno i disegni erano migliori ) anche se il regista , autonobilitandosi, preferisce parlare di " melodramma ", credo senza capire di cosa stia  parlando.  Cafoni arricchiti, corse automobilistiche ( che ci regalano sequenze stucchevoli e risapute, senza alcuna valenza ai fini della vicenda ) delinquenti dal cuore tenero, ragazze disinibite e sventatelle, sparatorie e grandi lacrime. Il tutto senza coerenza narrativa ( ahi quei registi che non sanno scrivere i loro film ! ) e scarsa preoccupazione estetica ( l'uso troppo frequente dei primi piani e dei piani ravvicinati è per lo più sbagliato o inespressivo ). Insomma , un pasticcio incredibile che regala a " Le fidèle " ( " fedele " non so a chi, " infedele"  però al cinema appena decente e ai diritti degli spettatori ) la palma di peggior film del 2017 tra quelli che mi è capitato di vedere. Peccato davvero. Se questo fosse un esempio probante di "cinematografia belga " ci sarebbe da che essere preoccupati per il destino artistico del Reame ( per fortuna qualche discreto regista, fiammingo o vallone , esiste ). Pensando ad una delle caratteristiche che più colpiscono il visitatore quando mette piede per la prima volta a Bruxelles, cioè il bilinguismo quasi paritario ( in una città peraltro per più di due terzi assolutamente francofona ) c'è un solo momento simpatico in tutto il film .  Quello quando il rapinatore in banca , prima di impartire i suoi perentori ordini alla spaventata cassiera, si informa, " politically correct, " in quale delle due lingue  preferisce ascoltarli : "francais ou flamand ? " ( " francese o fiammingo " ? ). Un briciolo di forse involontario umorismo che è anche la spia della circostanza che no, non siamo sulla luna ma in Belgio, anno di grazia 2017. Pasticciata la regia, poco credibile la sceneggiatura, anche l'interpretazione è scarsa . Matthias Schoonaerts  mi è sembrato non all'altezza di un personaggio che dovrebbe essere il fulcro della vicenda . Adèle Exarchopoulos, strappata alle vicende pruriginose de " La vita di Adele ", è solo una bambinona inespressiva e leggermente sovrappeso. Temo che il film , visto che c'è un pò di sesso e un pò di violenza, non faticherà troppo, qui da noi, a trovare un distributore. E " L'insulto " e i " Bienheureux " ( qualunque sia il titolo che vorranno dargli)  ce la faranno ad arrivare sui nostri schermi ? Chi vivrà vedrà.