venerdì 30 dicembre 2016

" Florence " di Stephen Frears ( USA, 2016 ) - " Divorzio all'italiana " di Pietro Germi ( Italia, 1961 )


Vi è mai capitato di andare al cinema e sentirvi vagamente imbarazzati di fronte a vicende o personaggi che , come si dice, non "lievitano ",non vi catturano, non vi prendono insomma all'altezza del diaframma così come dovrebbe avvenire per un film che vi lasci invece  completamente soddisfatti ? Beh a me è capitato qualche volta ( poche volte, per fortuna ). Quest'anno, due o tre . Ed una di queste, spiace dirlo, è stata durante la proiezione dell'ultima fatica di Stephen Frears, questo " Florence " ( nell'originale " Florence Foster Jenkins " che è l'intero nome del personaggio principale, evidentemente tanto noto negli USA da indurre i produttori ad enunciare subito di che "Florence " si tratti ). Prodotto formalmente tutt'altro che disprezzabile, buona ricostruzione d'epoca, attori di primo piano ( una strepitosa ancorchè straripante Meryl Streep, uno Hugh Grant un tantino imbolsito ma sempre così " carino " ) ed un ottimo caratterista nella parte del pianista Cosmè Mc Moon, di cui ora non ricordo il nome . Ma privo delle due qualità o meglio delle due componenti che sono essenziali per la riuscita di un film: una idea del cinema e una idea del mondo , semplici l'una e l'altra - il cinema non è filosofia - ma immanenti, coerenti con le immagini che scorrono sullo schermo, facilmente identificabili. Ecco perchè mi dispiace. Perchè Stephen Frears non è un qualunque mestierante, ma un rispettabile signore inglese che fa cinema da trentacinque anni e che quelle due componenti altre volte ha tenuto ben presenti ( " My beautiful launderette ", " The drifters ", "Relazioni pericolose ", " The queen " per citare solo alcuni titoli della sua sostanziosa ed eterogenea filmografia ).
Sentite qui. Questa Florence ( Merryl Streep ) è una ricchissima signora newyorchese vissuta nella prima metà del ventesimo secolo, benefattrice e protettrice delle arti. Siamo nel 1944 - lei ha ormai più di settant'anni - la guerra insanguina il mondo ma , a casa, gli States godono di una invidiabile periodo di vivacità culturale ed anche di prosperità ( almeno per alcuni ). La signora ama particolarmente la musica - vedremo che conosce e frequenta Toscanini e Cole Porter - ed ha un solo vizio, se così si può dire : le piace cantare, cantare in pubblico voglio dire. Peccato che sia completamente stonata e , quando intona le melodie ed i brani d'opera che le piacciono tanto, faccia francamente ridere chi ha la ventura di ascoltarla. Ma lei procede imperterrita, incoraggiata e sostenuta dal marito ( Hugh Grant ) fino a decidere di esibirsi addirittura alla Carnegie Hall. Non più quindi, badate bene, di fronte ad un pubblico selezionato di altri ricchi che la conoscono bene, indulgenti di fronte ad una loro pari sia pure un tantino stravagante, ma a tremila persone che, nella stragrande maggioranza, con lei non hanno alcun collegamento " di classe " nè un particolare debito di riconoscenza. La vicenda ( non vi racconterò naturalmente la fine ) si snoda blandamente , mostrandoci vari personaggi di contorno : un pianista timido ma di buon cuore, la giovane amante del marito della signora, impresari teatrali, artisti spiantati, giornalisti malleabili ed altri un pò meno. Tutto un microcosmo che gravita intorno alla " upper class " cui appartiene la protagonista, ne assorbe la linfa che gli serve per sostentarsi ma a cui rimane sostanzialmente estraneo. E questa Florence potrebbe sembrare, in definitiva, quasi un " freak ", un fenomeno da baraccone spiegabile solo con la forza del denaro e con quella adamantina ingenuità che la contraddistingue e che la renderebbe, a tratti, perfino simpatica.
Come vedete, la carne al fuoco non manca . I personaggi, almeno sulla carta, ci sono e la vicenda ( probabilmente autentica, oltretutto ) potrebbe anche interessarci. Non adeguatamente supportato da una sceneggiatura piuttosto sfilacciata, il regista purtroppo non ci mette l'anima, diremmo quasi che diriga con la mano sinistra, distrattamente , senza credere fino in fondo nè agli uni nè all'altra. Peccato. Pensate a cosa avrebbero potuto fare di una storia del genere un Howard Hawks o un Billy Wilder : una commedia scoppiettante, un ritmo sostenuto, un pizzico di cinismo e una solida pittura d'ambiente. Lo stesso Frears ( penso al suo " Eroe per caso ", ben superiore a questo come descrizione dell' America ) aveva qualità, precedenti e ambizioni di critica sociale, sufficienti per darci un buon film , sincero e sufficientemente ispirato. Niente da fare, invece. Indeciso a premere più di tanto il pedale del grottesco, sfuggente nel giudizio sui suoi personaggi, il regista sembra aver puntato sulla fama e la simpatia di cui godono gli interpreti, lasciando loro ( troppe volte ) la briglia sul collo. Ne esce una rappresentazione, ripeto, formalmente corretta, ma esangue, a tratti insopportabilmente patetica ( tipo " anche i ricchi piangono " , non so se rendo l'idea ) priva di una logica cinematografica che non sia quella di regalarci qualche bella immagine " retro " e di offrirci qualche discreta battuta. E , con l'insoddisfazione dello spettatore che di questo non voglia accontentarsi, cresce il disappunto dell'estimatore di Frears. Il regista tira fuori le unghie, ormai forse troppo ben curate, solo con un paio di movimenti di macchina che cercano mollemente di gettare lo sguardo oltre una piccola vicenda come questa, allargandola ad una più ampia considerazione di una New York maggiormente " difficile " e problematica. Ed il personaggio di contorno di una soubrette , l'amica di un industriale, che è un  convinto " fan " di Florence, ci fa intuire - nelle scene in cui appare -  un film diverso che , muovendo dalla stessa storia, il regista avrebbe potuto darci, più capace di colpirci dal punto di vista emozionale ed estetico, continuando egualmente a divertirci.

Passando a tutt'altra faccenda, debbo alla solerte cortesia di un carissimo amico che mi ha " costretto " a rivederlo, lo stimolo per parlarvi di " Divorzio all' italiana ", il notissimo film di Pietro Germi uscito nel 1961. Un film che , collocato accanto a " Florence " ( li ho visionati a poche ore di distanza uno dall'altro ) vi fa capire quanto bene possa farci il cinema di qualità ma che non abbia paura di confrontarsi con il grande pubblico, di essere cioè autentico ed intelligente"spettacolo ", da seguire con divertimento e passione.
La storia raccontata dagli sceneggiatori ( De Concini, Giannetti e lo stesso Germi ) che per questo film ottennero addirittura l' Oscar, è troppo nota per tentare qui di riassumerla. Basterà porre mente, retrospettivamente, ad una Italia dove il divorzio poteva arrivare solo attraverso...l'omicidio del coniuge ( il famigerato " delitto d'onore" ) e dove i costumi - e la libertà delle donne e degli uomini - erano ben diversi da quelli odierni. Ma se lo sguardo del regista è ( giustamente ) risentito e mordace verso quel piccolo frammento di medioevo incrostato nella società italiana, con particolare ma non unico riferimento al Mezzogiorno, non per questo il film è noiosamente moraleggiante : il pericolo nel quale avrebbe potuto incorrere con cineasti meno abili ed ispirati. Tutt'altro, giacchè invece la vicenda è raccontata con grandissima capacità di coinvolgere lo spettatore con onestà e chiarezza di intenti, di incuriosirlo abilmente e di farlo sentire realmente partecipe di quello che gli si sta mostrando sullo schermo.
Come rimanere indifferenti , in effetti, di fronte a quella acutissima descrizione ambientale- certo, a volte al limite del grottesco ma mai falsa o impietosa - di una Sicilia che , prima ancora che una precisa e limitata realtà territoriale, è soprattutto un modo di essere e di comportarsi, quasi una dimensione dello spirito. " Signori " e "cafoni" , padroni e servi , familiari , amici , preti, mafiosi. Tutti accomunati dalla stessa " morale " , carnefici e vittime gli uni degli altri, ma tutti degni dello stesso sguardo umano , sorridente e pietoso al tempo stesso, con cui Germi ce li restituisce alla nostra divertita indulgenza. E l'interpretazione , senza soffocare vicenda e personaggi - come purtroppo avviene in " Florence " - ci appare in "Divorzio" perfetta : un necessario complemento della descrizione ambientale , capace di rendere esemplare la vicenda stessa, vicinissima alla realtà sociologica esposta nel film ma capace al tempo stesso di trascenderla e di sconfinare nella creazione di autentici archetipi più che semplici personaggi. Si pensi al magistrale, godibilissimo Barone " Fefè " di Mastroianni ( fatto di sguardi, di tic nervosi,di mezze frasi) o all' intenso rilievo che alla sfortunata Rosalia imprime la brava Daniela Rocca ( senza parlare della fresca e appetitosa Angela di Stefania Sandrelli, all'epoca appena quindicenne ).
Questo, signori, era il cinema italiano dei primi anni sessanta del secolo trascorso. Il migliore che abbiamo avuto, probabilmente ( il cinema intendo ) perchè onesto, intelligente e coraggioso: le qualità che si riconoscono in Pietro Germi, il valoroso artefice di tanti bei momenti trascorsi nelle sale cinematografiche di una volta e del quale, in altra circostanza, converrà tornare più ampiamente a discorrere.
Mi piace ,proprio con questa grande figura di artigiano e di artista, chiudere l'anno 2016 , farvi i migliori auguri per il Nuovo che sta arrivando e darvi appuntamento ad una nuova veste editoriale che, a partire da gennaio, assumerà progressivamente questa rubrichetta : da " Facebook " ad un vero " blog " di cui vi darò poi gli estremi . Naturalmente, facendo i conti con la mia scarsa dimestichezza con la tecnologia in generale.... Buon 2017 a tutti !

sabato 24 dicembre 2016

" Paterson " di Jim Jarmusch ( USA, 2016 )


L'inizio del film è molto calmo, sommesso. Mentre appare sullo schermo una scritta che ci informa che è lunedì, un giovane uomo, ripreso dall'alto mentre dorme abbracciato alla giovane sposa nel letto matrimoniale, si sveglia - un orologio indica le sei e un quarto del mattino - si alza , si veste, fa colazione ed esce di casa per dirigersi verso il proprio lavoro. Poche inquadrature situano il personaggio e ci danno qualche indizio su di lui, il suo retroterra, la sua attuale condizione sociale. Paterson , questo è il suo nome, fa l'autista nella compagnia dei trasporti pubblici della cittadina - ci credereste ? - di Paterson , New Jersey .Guida l'autobus dalla mattina alla sera, sempre lungo lo stesso percorso, torna a casa dopo il lavoro, cena con la moglie ( una graziosa donna di origine mediorientale ) e poi porta fuori il cane per una passeggiatina fermandosi in un pub a farsi una birra. E la mattina dopo la sua vita ricomincia con lo stesso identico schema , ogni giorno della settimana fino al sabato e alla domenica, quando è fuori servizio e può permettersi di oziare per casa o per le strade cittadine.La sua vita scorre su ritmi abbastanza tranquilli o almeno noi spettatori non assistiamo ad alcun fatto drammatico che alteri la sua esistenza se si eccettua un increscioso episodio al pub quando, una sera, è costretto a disarmare - ma con calma determinazione , senza tradire particolari emozioni - un conoscente che, respinto dalla donna che ama, perde la testa e brandisce una pistola ( che si rivelerà poi un' arma giocattolo ). Oppure un banale incidente col suo autobus che improvvisamente ha un guasto elettrico , non va più avanti e costringe tutti i passeggeri a scendere e ad aspettare un mezzo di rimpiazzo.
Raramente, credo , il cinema ci ha fatto assistere alla apparente banalità del quotidiano con altrettanta linearità, con altrettanto disincanto. Ma - badate bene- senza annoiarci, facendoci anzi progressivamente interessare al personaggio e rendendocelo più accattivante, intrigandoci con quella ripetitività di situazioni e di gesti tutt'altro che scontata. Giacchè molto presto il regista ( che è anche autore della sceneggiatura ) ci fa vedere come Paterson , un personaggio al di fuori grigio e senza storia, abbia in realtà una ricchissima vita interiore, una forte sensibilità ed un autentica empatia con il mondo. Qualità che lo spingono, nei ritagli di tempo, a scrivere poesie in un taccuino - il suo " quaderno segreto "- che non mostra a nessuno ( solo alla moglie, che sa della sua passione per la poesia, rivela ogni tanto qualche verso ).L' osservazione quotidiana delle piccole cose che lo circondano , delle persone che salgono sull'autobus e talvolte dialogano tra loro, la tranquilla bellezza dei luoghi in cui vive, tutto muove la sua ispirazione e si trasfigura in lui in veste poetica . I versi che scrive e che leggiamo sullo schermo sono semplici ma intensi, parlano di cose concrete, oggetti o fenomeni quotidiani ( ad esempio una scatola di fiammiferi, l' acqua, l'amore per una donna ). Una poesia minimalista, diremmo, sulla scia di tanta poesia americana ed europea del secolo scorso. E Paterson - ci viene ricordato- è la città in cui e vissuto e ha tratto ispirazione per un poema dallo stesso nome il grande scrittore americano William Carlos Williams ( 1883- 1963 ) che il nostro personaggio naturalmente conosce ed ama in particolar modo.
Illuminato,diremmo quasi confortato sul piano narrativo dal vivificante parallelismo tra la vita quotidiana del protagonista e il suo mondo poetico, il film, nonostante una trama così ridotta all'osso, si dipana per quasi due ore senza un cedimento, un momento di noia o di stanchezza. Diremmo che è un film che non alza mai la voce, Non la alza perchè la poesia non ha bisogno di farlo per farsi udire, visto che parla sommessa ai nostri cuori , alla nostre sensazioni. Il mistero della creazione poetica viene indagato qui con sottile intelligenza e attraverso sequenze semplici nella loro toccante nudità ma estremamente illuminanti. Così ,incontrata casualmente una ragazzina appena decenne che compone anche lei graziosi versi di ingenua freschezza e che lamenta però di " non sapere fare le rime ", Paterson le spiega che questo ha poca importanza. La vera poesia - egli sostiene - ha un'armonia interna che crea spontaneamente delle rispondenze tra le varie immagini evocate, quasi delle "rime " sotterranee insomma che, percepite, soddisfano egualmente l'orecchio ed imprimono ritmo adeguato alla composizione.
Direi che questo concetto è anche un pò la chiave stessa del film e ne aiuta l'interpretazione. La vita, il mondo che ci circonda e che osserviamo ogni giorno, sembra dirci il regista, " fa rima " con la nostra esistenza perchè anche noi ne facciamo parte e l'armonia tra le parole scritte o recitate - la " costruzione " poetica - risponde all'armonia del creato, alle sottili geometrie che uniscono le persone , gli animali, le cose che ci circondano . Se capiamo o, meglio, se sentiamo questo - anche se noi non siamo o non diverremo mai poeti - potremo sperare di comprendere meglio il mistero dell'esistenza ed avere in tal modo una vita più piena e soddisfacente . E non a caso Paterson , il protagonista, si chiama come il luogo in cui vive. Perchè egli " è ", in un certo senso, quel luogo, quegli abitanti , quella natura , quell'autobus che guida ogni giorno. Tutti elementi, pezzi sparsi della nostra umana esperienza che si compongono nella carne e nello spirito di ognuno trasformandoci in ciò che siamo. E la poesia " é " in noi, ci parla costantemente, anche se talvolta non riusciamo ad intenderla, sopraffatti dal rumore che è fuori e dentro di noi, dalle tante paure ed illusioni che inseguiamo e ci inseguono.
Se dovessi descrivere con un solo aggettivo un film come " Paterson"
direi che è un film " apollineo ", nell' accezione classica che - forse ricorderete - al termine davano i greci e i romani contrapponendolo a quello di "dionisiaco ", Se quest'ultimo stava infatti a rappresentare il disordine, lo scomposto pulsare dei sensi e dell'animo determinato da Diòniso ( il dio del vino e dell'esaltazione orgiastica ) il primo ( derivante da Apollo, il dio della composta bellezza ) identificava invece stati d'animo e comportamenti in cui prevale la calma, la serenità, la consapevole armonia dei propositi. Ecco, apollineo lo è "Paterson " nel suo pacato ( ma tutt'altro che dimesso ) svolgimento, come un lento fiume tranquillo le cui acque scorrono pacificamente e determinano in noi un'eco altrettanto serena e ordinata. Difficile infatti assistere alla proiezione del film - almeno , soggettivamente , questo è quanto ho provato - senza sperimentare una sensazione di progressivo benessere che si impadronisce dello spettatore , dapprima lievemente sconcertato dalla indubbia novità dell'approccio , e poi man mano sempre più conquistato. So che non tutti, magari, la penseranno come me. " Paterson " è un film che si può amare moltissimo ( come mi è accaduto ) ma che , se non si vuole, o non si può , entrare nel suo gioco - l'arte non è , in fondo, un gioco " a rimpiattino " con la sensibilità di chi ne fruisce ?- può lasciare anche delusi ed incerti. " Da maneggiare con cura : può nuocere ( o fare del bene ) al vostro equilibrio interiore ! ", andrebbe forse scritto sulle sue locandine.
Il film , va detto perchè non sembri comunque troppo serio o monotono , è tutt'altro che " penitenziale ". Siamo lontani qui dalle atmosfere - per esemplificare al massimo - del cinema di un Bresson o di un Rossellini ( quello dei " Fioretti di San Francesco ") che tanto poco concedono alla pigrizia dello spettatore, mettendone a dura prova , anche se in nome di un risultato spesso sublime, la normale capacità di resistenza .Jim Jarmusch, per chi non ha mai visto un suo film, è uno spirito bizzarro, un indipendente, anzi un " irregolare" del cinema americano. Se rifugge dagli schemi tradizionali, non cessa mai peraltro di stupire per le sue intelligenti notazioni, il suo umorismo, la sua calda umanità. I suoi non sono film che annoiano, l'abbiamo detto. Magari provocano o sconcertano, ma è tutt'altro discorso. Giunto alla non più verde età di 64 anni , dopo quasi quarant'anni di cinema , mi sembra pervenuto ad una prova particolarmente convincente. Non era facile dare veste cinematografica ad una " storia " come questa ( se di " storia " si possa propriamente parlare ). Far vivere Paterson sullo schermo come essere reale , in carne ed ossa, e non semplice fantasma della mente, quasi uno schema di comodo, richiede una "creazione artistica " particolarmente abile e convincente. Aiutato dalla prova maiuscola dell' interprete principale , Adam Driver, Jarmusch rende credibile, patetico e nobile il suo personaggio. Difficile non reagire positivamente a tanta sensibilità ed intelligenza, cui si accompagna uno stile cinematografico - in piena sintonia con l'assunto del film - composto, essenziale, senza sbavature e senza inutili virtuosismi ( menzione speciale per la splendida fotografia ). Un film da vedere per darci coraggio nel cinema e nella vita in generale, mi sento di poter dire .
Un " film di Natale " anche, vista la particolare epoca dell'anno in cui viene programmato in Europa e visto il suo ottimismo ed il messaggio di speranza che reca, per fettamente in sintonia con il significato profondo di questa ricorrenza. Mi sia dunque concesso, in calce a questa noterella, di rivolgere a tutti gli amici , ed in particolare a coloro che seguono con assiduità la " rubrichetta ", un affettuoso augurio che tutti li stringa al mio cuore.

martedì 20 dicembre 2016

" Aquarius " di Kleber Mendonca Filho ( Brasile, 2016 ) - " Le notti della luna piena " di Eric Rohmer ( Francia, 1984 )


Questa settimana vi parlerò di due film molto diversi tra loro ma entrambi interessanti e godibili per coloro ( non sono pochi ) che amano un cinema fatto di vicende ben costruite , personaggi che colpiscano l'immaginazione, finezza di analisi : insomma, qualcosa che meriti davvero di impegnare il nostro tempo per un paio d'ore o giù di lì. E non importa che il primo, comunque da vedere, non sia un film che resterà nella storia ( è un pò dispersivo , specie nella seconda parte, troppo lunga, e soffre quà e là di un eccesso di retorica ) mentre il secondo è gemma purissima, uno dei migliori del grande regista francese scomparso alcuni anni or sono. Il cinema che a noi piace è quello che ci regala momenti di perfetto equilibrio tra il nostro stato d'animo ( l'emozione estetica che ognuno personalmente avverte ) e il nostro atteggiamento verso gli altri ( quella sorta di " pietas ", oggi si direbbe di empatia, che dalla fruizione dell'opera d'arte non possiamo non ricavare nei confronti del mondo ). Ed entrambi i film - su due livelli diversi di valore e di intensità - si raccomandano per la loro capacità, oltre che di intrattenerci piacevolmente, di suscitare in noi quel duplice sentimento di cui abbiamo appena detto.
Di " Aquarius " , opera di un regista brasiliano di cui ignoro tutto ma che deve essere di buona reputazione se il film è stato invitato in concorso all' ultima Mostra di Venezia, dirò subito perchè mi è piaciuto . Anche se, come non vi ho celato, a mio avviso ha qualche difetto, tratteggia infatti con intelligenza ed amore un personaggio di anziana, raffinata signora con un passato più che soddisfacente ( è stata affermata critico musicale, ha vissuto intensamente la sua vita ) ed un presente più tormentato ed incerto ( rischia di perdere la graziosa abitazione in cui vive, perseguitata da rapaci "palazzinari" desiderosi di costruire al suo posto un orribile condominio ). Un personaggio , dato che lo vediamo sullo schermo praticamente senza interruzione, che necessita di una grande interprete, sensibile e carismatica. Ed è la migliore e più famosa attrice del cinema brasiliano, Sonia Braga ( la ricorderete forse, molto più giovane, in " Donna Flor e i suoi due mariti" ) ad assumersi l'onere di renderlo vivo e tremendamente simpatico anche nelle sue evidenti contraddizioni, facendone l'autentico punto focale del film.
Il film è abilmente costruito - in gran parte - proprio sul contrasto, da un lato, tra la dignità , la nobiltà d'animo ed il coraggio della protagonista e , dall'altro, l'incultura, i miseri obiettivi e l'elementarità dei comportamenti dei promotori immobiliari che vogliono per forza comprare il suo appartamento, l'ultimo rimasto abitato in quella casa, e poter così realizzare il loro progetto . Ma esso si raccomanda anche per una più sottile qualità. Mi riferisco all' approccio trepido e sereno ad un grande tema universale, il problema dell'invecchiamento dell'essere umano e della divaricazione che viene a crearsi ad un certo punto tra l'eterna fanciullezza del nostro "io " e la stanchezza del corpo che decade progressivamente. Il personaggio femminile del film, pur menomato da una grave malattia, mantiene freschezza di approccio alle situazioni e alle cose ed istintiva capacità di cogliere il profumo della vita, ricevendone la forza che le occorre per contrastare il peso degli anni ed opporsi con successo ai suoi rozzi interlocutori. Alla fine , sembrano dirci l'interprete ed il regista, non prevalgono il potere economico o la frettolosa sfacciataggine di chi pensa di essere sempre e comunque "nella corrente della storia ". Vince la nostra autenticità, la capacità- per quanto difficile- di sentirci liberi internamente, al di fuori del tumultuoso avanzare del tempo.
Con " Le notti della luna piena " invece ,rivisto in un DVD di pregevole e recente riedizione insieme agli altri film del ciclo " Commedie e proverbi ", realizzati da Rohmer tra il 1980 ed il 1987, torniamo a dubitare della possibilità di una vera libertà da parte del personaggio principale. Si tratta del secondo dei due film di cui vi ho parlato la volta scorsa ma sul quale , per ragioni di spazio, non avevo avuto modo di soffermarmi. Louise, la protagonista, lavora a Parigi ma vive nella banlieue con Rémi, il suo attuale compagno. Ma anela nello stesso tempo ad avere un suo spazio di libertà , a poter fare le cose che a lei piacciono ed al partner meno : chiacchierare con gli amici, uscire la sera, andare a ballare, flirtare perchè no.La soluzione ideale Louise ritiene di averla trovata quando decide di non affittare più il suo monolocale del centro di Parigi appena ristrutturato e di tenerlo per sè. Pensa di andarci ad abitare qualche sera, per non dover affrontare il lungo ritorno verso la casa di Rémi ma anche per sentirsi ancora autonoma, frequentare gli amici che non piacciono al fidanzato. Senza secondi fini, almeno in partenza.
L'esperimento non è così agevole, come rileverà chi , seguendo il mio consiglio, se già non lo conosce vorrà vedere il film . Louise ritiene- come in genere i personaggi delle " Commedie e proverbi " - di essere sempre in grado di realizzare le proprie strategie e di determinare liberamente il proprio presente ed il proprio futuro. Ma, dopo aver visto che il proverbio che fa da epigrafe a questo film è " chi ha due donne perde la propria anima , chi ha due case perde la propria ragione ", lo spettatore incomincia a dubitarne. Divisa tra la sana e morigerata esistenza che le propone Rémi nella periferia moderna ed asettica in cui risiede e la vita dispersiva ma intrigante rappresentata dalla propria abitazione parigina, la ragazza non sa scegliere. Pensa di poter conservare l'una e l'altra , cioè in sostanza di mantenere contemporaneamente due stili di vita , due modi diversi di pensare e di essere. Non dico - per chi non conosce il film - come andrà a finire ( anche se ciò che conta , nei film di Rohmer, è il percorso attraverso cui si arriva all'epilogo e non l'epilogo in sè stesso ) ma mi limito a segnalare che il regista ci dimostra appunto come la vera libertà non esista. Gli avvenimenti sfuggono al nostro controllo e noi stessi non siamo fino in fondo ciò che crediamo di essere.
Parlare, anche succintamente, del cinema di Rohmer ( uno dei più appassionanti insiemi di opere, dove non vi è film che possa essere considerato " minore " perchè tutti rigorosamente "necessari ", tesi cioè a completarsi vicendevolmente componendo la stessa visione della vita e del cinema ) prenderebbe ben più spazio di quello che posso dedicare a questa rubrichetta. Vi torneremo senz'altro perchè sto rivedendo tutti i suoi film e vorrei farvi condividere, a volte, l'entusiasmo che provo. Di " Le notti della luna piena " vorrei però sottolineare almeno l'assoluta rispondenza tra dialoghi ed immagini (Rohmer è considerato " un chiacchierone " dai suoi detrattori ma essi non sanno o non vogliono riconoscere che la parola in lui si fonde mirabilmente con l'immagine , finendo l'una e l'altra con l'assumere simultaneamente lo stesso valore semantico ). E poi la splendida interpretazione di attori che con lui riescono ad essere molto naturali, cogliendo perfettamente l' " aria dei tempi " , quasi stessimo assistendo ad un documentario sulla vita dei giovani francesi nell'anno di grazia 1984 e non ad una opera di fiction. Ma che , al tempo stesso, sotto l'attenta guida del regista, sanno essere anche "classici ", interpretare cioè i loro personaggi come se non appartenessero ad una epoca storica definita. Personaggi che recano con sè logiche e sentimenti di cui gli esseri umani vivono ed hanno sempre vissuto. Semplicemente da togliere il respiro, credetemi, di fronte a tanta bellezza e nobiltà di creazione artistica da parte del regista e dei suoi attori.

domenica 11 dicembre 2016

"E' solo la fine del mondo " di Xavier Dolan ( Canada / Francia, 2016)


Grande tema, quello della libertà. Libertà personale, non politica intendo ( anche se la seconda , è ovvio, entra nella prima per arricchirne i contenuti ). Voglio dire la possibilità di autodeterminarci, di decidere del nostro presente e del nostro futuro superando i condizionamenti- interni od esterni, strutturali od occasionali - che limitano o frenano il nostro sviluppo quali esseri creati, appunto, per essere liberi e indotti a scelte il più possibile autonome. L'esperienza , la nostra come quella degli altri, ci indica quanto questo sia difficile. Sicchè ogni discorso sulla libertà, anche dalla prospettiva che qui ci interessa , cioè quello della creazione artistica, finisce con l'evidenziare spesso traiettorie umane alla ricerca della libertà ma che finiscono, in ultima analisi, col rimanerne distanti.
Due film visti di recente- il primo sugli schermi in questi giorni, il secondo in un DVD anch'esso uscito da poco- parlano di libertà e, nel parlarne, ne mettono fortemente in dubbio l'esistenza.
Il personaggio principale di " E' solo la fine del mondo ", uno scrittore di successo sulla trentina ( Gaspard Ulliel ) decide di tornare a visitare i familiari, lasciati più di dieci anni prima, per annunciare loro la sua morte imminente. Ma si rende conto nelle poche ore trascorse con essi di quanto tutti, in fondo, siamo prigionieri del nostro " io " ed incapaci pertanto di aprirci verso gli altri. La sorella minore ( Léa Seydoux ) che pure lo ha mitizzato nei lunghi anni di assenza, non trova con lui un vero terreno di intesa, incapace di fuggire dai soffocanti condizionamenti familiari e di vivere, altrove, la vita autonoma alla quale aspira. Il fratello maggiore ( Vincent Cassel ) che ha verso di lui un evidente complesso di inferiorità derivante dal proprio fallimento professionale ed affettivo, sembra una mosca impazzita, prigioniera in un bicchiere , pieno di aggressività e di paura del futuro. La madre ( Natalie Baye ) ha l'apparenza di una creatura premurosa ,intenta a ricucire le lacerazioni della sua famiglia, affettuosa ed indulgente verso i figli. Ma in realtà è un personaggio ancora più negativo, manipolatrice e castrante, un' ape regina che tesse- inconsapevolmente ? - una trama sottile ma resistente per imprigionare sempre di più i propri familiari in una casa che ha tutta l'apparenza di una prigione. Solo la moglie del fratello maggiore, timida e sottomessa ( Marion Cotillard ) vorrebbe stabilire una comunicazione con il nuovo arrivato , forse per chiedergli aiuto, per riceverne una spinta ad affrancarsi, fuggire essa stessa. Ma i goffi, quasi afasici, tentativi da lei posti in essere non hanno sbocco e si infrangono sulle sue stesse paure.
Dopo un lungo, interminabile " pranzo di famiglia ", lo scrittore, giunto con l'intento, probabilmente, di ritrovare la propria infanzia e con essa un ultimo aggancio con la vita che lo sta abbandonando, comprende che il tentativo è fallito e, rinunciando al proposito iniziale di mettere gli altri al corrente della propria situazione, riparte definitivamente. Si è accorto- mi viene fatto di pensare- che anch'egli è in fondo un prigioniero : prigioniero dei propri ricordi d'infanzia e di adolescenza, delle tensioni e dei rapporti di forza all'interno della famiglia , della propria incapacità ad assumere pienamente quella dimensione autenticamente libera che un tempo aveva vagheggiato, prigioniero della propria chiusura verso l'esterno. Un vinto, come tutti. E a cui non rimane che la fuga, una fuga che ha solo il sapore derisorio della libertà ma che non lo affranca dai propri fantasmi interni.
Una storia così tesa e disperata, con poche o nessuna apertura non dico ottimistica ma almeno vagamente consolatoria, per essere raccontata al cinema in modo da giustificare il nostro interesse ed un eventuale piacere necessita, credo di poter dire, di due cose fondamentali. La prima è la recitazione, una interpretazione da parte degli attori capace di farci accostare positivamente a personaggi di cui finiamo col sapere in realtà molto poco e che sono, in definitiva, puramente dimostrativi della tesi sostenuta dal film, cioè ombre ancora più evanescenti di quelle cui lo schermo cinematografico ci ha reso adusi. Se ho voluto ricordare dianzi i nome dei cinque interpreti è per testimoniare tutta la mia ammirazione per il difficilissimo sforzo da essi compiuto, per la sottigliezza e la profondità conferita ai loro personaggi ( con una menzione speciale per le due più giovani attrici, Léa Seydoux e Marion Cotillard ).
La seconda condizione per apprezzare la visione di un film come questo è quella che dietro la macchina da presa vi sia un grande regista. Qui il francocanadese Xavier Dolan ( ventisette anni, beato lui, e già al suo quinto o sesto lungometraggio ! ) conferma di esserlo. Dirigere gli attori in ruoli, sulla carta, così poco accattivanti, farli muovere in un " décor " soffocante quale una casa di abitazione dalla quale non usciremo praticamente mai per tutta la durata del film, sfruttare quindi intelligentemente le scarne possibilità di creare in tal modo immagini che riescano ad imporsi con bella evidenza plastica, costruire una progressione drammatica coesa e coerente, non è uno sforzo da poco. Uno sforzo che richiede abilità, senso del ritmo, intelligenza e gusto non comuni. Uno sforzo che Dolan compie con scioltezza, giocando molto sui primi piani per evidenziare i tratti del volto dei suoi personaggi, le loro apparenti motivazioni, l'ambiguità che è sottesa alle loro parole. E la cinecamera, come in tutti i suoi film , sottolinea con i suoi frequenti movimenti la sensazione di precarietà e di impotenza di quanto ci viene mostrato.
Tuttavia " Juste la fin du monde " rappresenta a mio avviso un film riuscito solo a metà ed un passo indietro rispetto allo straordinario risultato della sua precedente opera , quel " Mommy " che era un vero pugno nello stomaco tanto ci sorprese con la sua straordinaria bellezza ed intensità.La storia sembra a tratti piuttosto cerebrale, costruita a tavolino, non sentita fino in fondo, forse, dal regista. Confesso, e credo conveniate che per uno spettatore questo sia un brutto segnale, che ho provato a tratti un sentimento di noia , di non adesione totale alle immagini che si inseguivano sullo schermo, pur riconoscendo la loro giustezza, la loro perfezione estetica. Insomma , al " movimento" delle immagini filmiche ( motion ) che rappresenta una sfida vinta da Dolan, non corrisponde il secondo elemento essenziale perchè un film ci piaccia, e cioè l'elemento "emozionale" ( emotion ). In buona sostanza, il film non cattura il nostro cuore e la nostra sensibilità più profonda , cosa che - è evidente - va al di là della ammirazione per i risultati massimamente formali.
La spiegazione di questa dicotomia sta in una considerazione molto semplice. " E' solo la fine del mondo " rappresenta la trasposizione filmica di un dramma dallo stesso titolo del francese Jean -Luc Lagarce, acclamato ed indubitabilmente ispirato autore e regista teatrale. Non ho visto quella " pièce " ma, vedendo il film di Dolan, penso che mi sarebbe piaciuta.Sono convinto che, sulla scena, la sensazione di angoscia e di paura che proviene dall'interagire dei cinque personaggi e dai dialoghi che essi pronunciano ( e dai loro inquietanti silenzi, a volte ) risulterebbe molto più efficace e percussiva di quanto non avvenga sullo schermo. Il teatro ha regole interne, tempi e pause di sospensione tutte diverse da quelle del cinema e "reinventare " tutto questo - come il regista canadese ha pur tentato di fare - non è impresa semplice. Lo provano le opere cinematografiche che, per non essere semplice teatro filmato, hanno dovuto appunto sfuggire, e lo hanno fatto con successo, alle convenzioni teatrali e hanno finito con il dare vita ad una creazione per molti versi autonoma ( penso ai film shakespeariani di Orson Welles ). Nè teatro filmato nè cinema autonomo ( giacchè il film non riesce sufficientemente ad evadere dall'impianto teatrale di un soffocante " huis clos " ) " Juste la fin du monde " resta una pausa interlocutoria - certamente di classe anche se minore - in una filmografia , quella di Dolan, destinata ancora a stupirci.
La lunghezza di questa noterella mi impedisce, per non annoiarvi troppo, di parlarvi del secondo film sul tema della libertà visto di recente. Prometto di farlo alla prima occasione utile ( cioè senza film recenti di un qualche interesse ). Per finire su di una nota meno grave, diciamo che non desidero privarvi, a mia volta, della vostra libertà...

domenica 4 dicembre 2016

"Sully" di Clint Eastwood ( USA, 2016 )

Sorprendente destino, quello di Clint Eastwood. Da attore di secondo piano negli anni a cavallo tra i ' 50 e i '60, a fortunato interprete pochi anni dopo degli " spaghetti western " di Sergio Leone e, infine, ad intelligente ed abile regista di tante opere che - fenomeno non comune - hanno spesso messo d'accordo, da più di quarant'anni, critica e pubblico. Merito di un artista dalla personalità a tutto tondo, profondo conoscitore degli ingranaggi del cinema, ispirato quanto basta, capace di riannodarsi ai momenti più felici dell'era hollywoodiana dei film " di genere " e dei grandi "studios ". Un uomo d'azione, certamente, ma anche un intellettuale, tutt'altro che intellettualistico. Il cinema, per lui, è innanzitutto emozione, spettacolo, lavoro di equipe e conseguente sforzo produttivo. Convinzione profonda, resa ampiamente manifesta nel corso degli anni, testimoniata da una serie di titoli che, non tutti certamente della stessa qualità, non hanno peraltro mai tradito le aspettative dei finanziatori, del variegato ambiente cinematografico e di noi spettatori.
" Sully ", la sua ultima fatica, arriva oggi sui nostri schermi dopo un buon successo in patria. Storia tipicamente, fortemente americana, ispirata ad un drammatico fatto di cronaca . Un volo interno della " United Airlines ", appena partito dall' aeroporto La Guardia di New York in una fredda mattina del gennaio 2009, ebbe un terribile incidente, di quelli che i frequentatori di aerei non vogliono immaginarsi neanche nei loro peggiori incubi. Un grosso stormo di uccelli, quando l'aereo era ancora a bassa quota sulla metropoli , mise fuori uso entrambi i reattori, impedendogli di prendere quota e ponendo a repentaglio la vita dei 155 passeggeri e dei membri dell'equipaggio. Fu solo grazie all'ardimento ed alla capacità del primo pilota , Chesley Sullenberger, " Sully " per tutti coloro che lo conoscevano bene, che quel giorno venne evitata una catastrofe. Venendo meno infatti ai " protocolli " che avrebbero optato per il tentativo di tornare al punto di partenza, impossibile in quelle condizioni, questi operò con successo una coraggiosa manovra di emergenza che fece posare l'aereo sul fiume Hudson. Dall' impatto con le acque,sapientemente governato dal comandante dell'aereo, tutti i passeggeri ed il personale di bordo uscirono praticamente indenni, condotti successivamente in salvo dai soccorritori. Un fatto che è ricordato come unico negli annali dell'aviazione civile e che emozionò per settimane l'opinione pubblica del paese.
Raccontato così il film potrebbe sembrare un epigono dei " film catastrofe " che andavano di moda , ricorderete , alcuni anni or sono, costruiti su eventi fortemente drammatici ( terremoti, incendi di grattacieli, dirottamenti di aerei e altri " orrori " ). Film che, con qualche concessione alle vicende dei personaggi coinvolti, puntavano soprattutto ad emozionarci attraverso scene a grande contenuto spettacolare, a sorprenderci con gli "effetti speciali " e in definitiva a titillare, attraverso la paura, quel prevalente e contrastante sentimento di sollievo e di sicurezza di chi assiste ,comodamente installato nella poltrona di un cinema o sul divano di casa sua, ad accadimenti di cui è semplice e distante spettatore. Nulla di meno vero per " Sully ", ed è qui che l'intelligenza e le ambizioni artistiche di Eastwood si dispiegano con successo. Esposto frammentariamente in brevi sequenze in " flash back " che, come lampi di memoria del protagonista, lo tratteggiano con scarna intensità, il drammatico evento dell'incidente dell'aereo e susseguente salvataggio rappresenta solo il congegno dal quale il regista prende le mosse. Il punto di partenza, cioè, per raccontarci una storia " esemplare ", quasi un " morality play " sul senso del dovere, l'assunzione di responsabilità, l'impegno , lo sforzo collettivo di tutto un gruppo che riesce a sormontare le tremende difficoltà cui è improvvisamente posto di fronte. Proprio come potrebbe capitare, in fondo, ad ognuno di noi.
Il salvataggio dell'aereo assurge così- nell' epica visione del regista - a cartina di tornasole di una società, quella americana, che nei suoi momenti migliori può dare grandi lezioni di civismo e di civiltà, basata su valori elementari ma essenziali, in quella continua lotta tra il Bene ed il Male che è il grande tema di tanta creazione artistica del " Nuovo Mondo ". Lotta in cui vincitori risultano i puri di cuore, gli onesti, coloro che antepongono il bene collettivo agli interessi individuali o almeno si adoperano perchè la naturale salvaguardia di questi ultimi si armonizzi con il senso di appartenenza ad una collettività , ad un gruppo. Caratteristica che richiede a volte forti dosi di solidarietà, coraggio e spirito di sacrificio. Sono i temi, questi, del grande cinema " civile " americano, quello che ci ha accompagnato lungo tutta l'evoluzione sul continente della " decima musa ", il cinema di Griffith, Ford, Capra, Walsh, al quale Eastwood palesemente si ispira .E il frequente insistere di " Sully " sugli affetti familiari,visti non solo come istintivo rifugio nelle bufere dell'esistenza ma come potente leva che può spingerci a bene operare per valori ed affetti anche più grandi,lo avvicina soprattutto a Ford, alla sua epica della quotidianità impegnata e solidale che ci ha dato capolavori come "Ombre rosse ", Alba di gloria ", " Furore " , " La prigioniera del deserto ".
" Non sono un eroe, ho fatto solo il mio dovere " - dichiara, cito a memoria, il protagonista al termine dell'inchiesta pubblica che, dopo le iniziali perplessità, perviene a giustificare ampiamente l'audace manovra di emergenza da lui posta in essere- " tutti siamo vincitori: io , il mio secondo pilota, gli addetti alla torre di controllo, i soccorritori, il personale di cabina che si è comportato altrettanto responsabilmente , finanche tutti i passeggeri che hanno dato prova, nella circostanza, di disciplina e di coraggio ". Una perfetta epigrafe, mi pare di poter dire, di un film corale, nonostante abbia come titolo( giustamente ) il nome del protagonista. Un film che rende omaggio a tutte le persone che si impegnarono duramente, in quella occasione, per evitare una probabile catastrofe ma che,nello stesso tempo, ricorda attraverso di esse l' " eroismo " quotidiano di quanti concorrono ogni giorno alla nostra sicurezza ed al nostro benessere di cittadini. Parole che possono sembrare retoriche o almeno un tantino fuori misura per un disincantato spettatore europeo. Ma che esprimono il meglio che può darci la società americana ed il sostrato di buona parte dei suoi valori culturali ( quanto al " peggio ", esso convive con quegli elementi positivi ed il grande cinema americano, come ampiamente dimostrato dallo stesso Eastwood, non lo ha mai sottaciuto ).
" Sully ", vorrei sottolinearlo, non è tra i " grandissimi " film di Eastwood ( " Gran Torino " , " Million dollar baby ", " Hereafter ",, per citare solo i più recenti ). In alcuni momenti, specie nella prima parte, una certa freddezza di costruzione drammatica, qualche scena non essenziale, gli nuocciono. Ma la bella e convincente progressione con cui si avvia all'epilogo, la recitazione sobria ed efficace di Tom Hanks ( finalmente un " Oscar " che non dovrebbe sfuggirgli ) le potenti inquadrature dell'aereo nel fiume e del salvataggio dei passeggeri , lo riscattano ampiamente. E soprattutto ne fanno un film solido, onesto, che mantiene le sue promesse e ci riappacifica con un cinema capace di catturare le emozioni degli spettatori, di convincerli e di commuoverli con delle storie che hanno il dono prezioso della semplicità e della verità. Uscendo dalla sala dove l'ho visto ieri pomeriggio mi sono sorpreso a riflettere su come dobbiamo essere grati ad uomini di cinema come Clint Eastwood che, alla non più verde età di ottantasei anni, hanno ancora tanto vigore e tanto ottimismo da aiutarci - sempre che il cinema,come qualcuno vorrebbe, possa renderci migliori - a contrastare la nostra paura del presente e ad infonderci un pò di speranza nel futuro che ci attende alla prova.

domenica 27 novembre 2016

"L'asso nella manica " di Billy Wilder ( USA , 1951 )


Ho già avuto modo in precedenza di esprimere tutta la mia ammirazione per Billy Wilder, il regista di Holliwood - tra i grandi del passato - che , con Hitchcock, mi è più congeniale.Con Wilder, che questi scriva e diriga commedie ( " L'appartamento " , " Baciami stupido " ) oppure drammi ( " Giorni perduti ", " Viale del tramonto " ) si va sempre sul sicuro. La sua onestà nei confronti dello spettatore, considerato non uno stupido da incantare con qualche giochino puramente formale ma un essere dotato di normale capacità di giudizio, ne fanno un costruttore di immagini , anzi di forme cinematografiche tra i più sinceri ed amati dal pubblico. Piace la forza e la dirittura morale del suo cinema, accoppiate ad un garbo- anche nella satira o nella critica più accesa- che tradisce la sua appartenenza ( era di origine austriaca ) a quella società mitteleuropea che, anche nella catastrofe, non è venuta meno ad un intenso amore per la vita e ad uno stile elegante e sottile.
Questa settimana non sono andato al cinema. Sbaglierò ( e chiedo scusa a quelli che la pensano diversamente ) ma non ho trovato film in uscita di un qualche interesse. Nè quelli ancora in programmazione e che non ho visto hanno saputo indurmi in tentazione. Andrà sicuramente meglio in dicembre , ho pensato, con l'arrivo, una dietro l'altra, delle ultime opere di Clint Eastwood, Xavier Dolan ( quello di " Mommy " , per intenderci ) e Stephen Frears. Sono stato quindi costretto - ma è tutt'altro che un ripiego- a guardarmi un DVD sul televisore di casa. E la scelta,per non commettere errori, non poteva che cadere su un vecchio film di Wilder. " L'asso nella manica ", uscito nel 1951, ebbe successo a suo tempo per l'interpretazione di Kirk Douglas e per un soggetto particolarmente " forte " : gli eccessi della stampa a sensazione di stampo americano a fronte della banalità delle tragedie a cui ci espone la nostra condizione umana. Non lo vedevo da parecchio tempo e una seconda analisi mi ha convinto, poche ore fa, che Wilder, anche quando non è in un vero stato di grazia, rimane sempre un valore sicuro sul quale rifugiarsi quando l'attualità cinematografica non ci appare particolarmente stimolante.
La pellicola, un rigoroso bianco e nero, è ambientata nello Stato del New Mexico , desertico in gran parte e - almeno pochi anni dopo la fine della guerra-senza particolari attrattive. Gente semplice, popolazione con forte presenza ispanica , qualche autoctono di origine indiana, insomma una America rurale che il progresso aveva appena sfiorato.La storia inizia, alla prima inquadratura, con l'arrivo nel capoluogo di un giornalista millantatore, molto sicuro di sè ( Douglas , appunto ) che , cacciato per le sue intemperanze dai principali quotidiani della costa orientale è costretto a cercarsi un impieguccio nel giornale locale ( L' " Albuquerque Sun ", e scusate se è poco ). Chuck Tatum, questo il nome del gazzettiere esiliato, morde il freno nella cronaca locale ( inaugurazioni di mostre floreali, caccia ai serpenti nel deserto e via di seguito ) e sogna di rilanciarsi nel circuito della stampa che conta ( New York, Boston , Chicago ). Perchè questo si avveri gli ci vorrebbe però uno " scoop " , come si dice, una grande esclusiva su un qualche fatto capace di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale, altro che i tranquilli lettori dell'organo che al momento lo impiega per poca pecunia.
La fortuna sembra assisterlo quando, in una sperduta località semidesertica dove è stato inviato dal giornale per coprire uno dei tanti fattarelli di cui è costretto ad occuparsi, si imbatte in quello che è , o almeno potrebbe diventare, un caso finalmente degno di nota. Un povero agricoltore mezzo messicano ,di nome Leo Minosa, proprietario di un piccolo posto di ristoro e di una pompa di benzina eternamente privi di clientela, è rimasto intrappolato da una frana in uno scavo abusivo da lui ricavato alla base di una modesta altura ( la " Montagna dei sette avvoltoi ", probabilmente un antico sepolcro indiano ) per permettergli di trafugare qualche modesta ceramica funeraria da rivendere agli scarsi turisti che si avventurano in quel luogo. Fiutando il colpo giornalistico , Tatum organizza le cose per benino. Conquistata la fiducia del disgraziato Leo, diventa una sorta di tramite obbligato tra questi ed il mondo " di fuori ", si fa raccontare tutta la sua storia e lo trasforma, inviando cronache molto pittoresche al suo giornale,in una sorta di " eroe quotidiano " che ben presto cattura l'interesse e la trepida ansia dei lettori per la sua sorte, sospesa- secondo quanto racconta il furbo giornalista- tra la vita e la morte. In realtà Leo potrebbe essere salvato molto presto con tempestivi interventi di rafforzamento della galleria in cui è rimasto prigioniero. Ma per creare un vero caso nazionale che tenga a lungo tutti col fiato sospeso ed attiri l'attenzione della grande stampa Tatum non esita a fare in modo che i soccorsi scelgano una strada più lunga e perigliosa ( un improbabile traforo a partire dal vertice dell'altura ).

Le cose, intanto, sembrano mettersi bene per l'audace e cinico giornalista, ormai sotto tutti i riflettori e nuovamente conteso dalle principali testate nazionali che gli offrono di lavorare con loro a suon di bigliettoni ( " voglio anche trovare sul mio tavolo di lavoro " - dice lo sfacciato al telefono, non contento, ad un direttore di giornale che a suo tempo l'aveva licenziato- " un mazzo di fiori ed un biglietto con scritto sopra bentornato ! " ). A questo punto non proseguo nel raccontarvi la storia ( che sceneggiatura di ferro, ricca di colpi di scena , coesa nello sviluppo della vicenda ! ) e vi lascio il compito di scoprire da voi, se già non lo sapete, come andrà a finire.Qui basti dire che le inquadrature che accompagnano il crescente interesse - forse sarebbe meglio dire l'attrazione morbosa - che esercita la storia del povero Leo su di una massa di persone facilmente influenzabile dai " persuasori " non tanto occulti dei media dell'epoca ( stampa, radio , la nascente televisione ) descrivono in modo magistrale la trasformazione del povero borgo dove è intrappolato il disgraziato agricoltore. Folle di gitanti con famiglie, accampati con tende e roulottes nell'attesa degli sviluppi della vicenda ( che non sospettano essere stati artatamente rallentati ) giornalisti senza scrupoli o rispetto verso il dramma che si sta svolgendo, speculatori di ogni genere , autorità locali preoccupate unicamente della pubblicità che possono ricavarne.Un coacervo di spietati traguardi personali, di brame fin troppo evidenti, alimentate- si diceva- da una stampa pronta a raccontare bugie e a tradire così quelli che dovrebbero essere i propri doveri verso l'opinione pubblica in una democrazia ben ordinata.
Critici troppo frettolosi e forse prevenuti verso Wilder hanno tratto spunto da queste inquadrature- forti, a volte quasi insostenibili - per rafforzare il loro convincimento di un regista de l' " Asso nella manica " solitamente cinico, volgare ,con poca empatia verso la gente comune, fortemente misogino ( qui la moglie del povero Leo ci fa una figura davvero molto, molto negativa ).Nulla di più falso, e vi invito a constatarlo voi stessi. Gli uomini - e le donne - sembra dirci il grande Billy , e più che " dircelo " ce lo mostra, come deve sempre fare il cinema , arte visiva per eccellenza- non sono nè buoni nè cattivi. Sono le circostanze che possono renderli tali , e soprattutto gli esempi, le ispirazioni che essi possono trarre dalle persone che ci guidano o ci influenzano ( la cattiva stampa, sensazionalistica e disonesta, appunto, " versus " gli organi di informazione che hanno scopi meno commerciali ed a cui si può prestar fede ).E quando ci mostra una donnetta che addolorata per il povero Leo diviene forse improvvisamente consapevole che il grande carnevale costruito intorno alla sua sorte è fasullo ed ingiusto, si stringe piangendo al marito anch'egli improvvisamente pensoso, Wilder ci regala immagini forti che ci fanno capire quanto egli creda in realtà negli esseri umani , i piccoli , gli umili, nella loro capacità di intuire dove sia la verità e la giustizia. Americano di adozione, egli non si fa illusioni su quanto di sbagliato e di pericoloso ci può essere nel " sogno " a stelle e strisce. Ma sente profondamente che una società libera e permeata da grandi valori ha gli anticorpi per poter resistere e , all'occorrenza, faticosamente trionfare.
Un film positivo, dunque, contrariamente a quanto potrebbe apparire, drammatico, acre nella critica verso i misfatti di una certa informazione ( forse il più violento atto di accusa , in questo senso, che si sia visto al cinema ) ma largamente ottimista sulle possibilità di redenzione dell'essere umano posto di fronte alle piccole e grandi tragedie della vita. Quello di Wilder, non mi stancherò di ripeterlo è un cinema umanistico , in definitiva, L' " Asso nella manica " è grande cinema , a dispetto del suo essere probabilmente inferiore ai capolavori del regista che ho ricordato all'inizio. Leggermente appesantito da una recitazione a tratti un pò istrionica da parte di Douglas ( la sua rimane peraltro una gran bella " performance " ) e da una scena finale un pò troppo melodrammatica, il film si raccomanda - oltre che per la sceneggiatura- per un ritmo serrato , inquadrature sempre efficaci ( vedasi la sequenza dell'arrivo di Tatum all' " Albuquerque Sun " ) e un dialogo pieno di sfumature e dal solido impianto narrativo. Insomma , un film da vedere ( e come " bonus ", almeno nel DVD che ho comprato io e che è appena uscito, una sontuosa intervista a Wilder, realizzata negli anni ' 70, dal critico francese MIchel Ciment ) . Qui a Milano l'inverno batte ormai alle porte . Cosa volere di più ?

lunedì 21 novembre 2016

"Sing Street " , di John Carney ( Irlanda, 2016 )

Cosa può fare un giovane irlandese quindicenne - nella Dublino della metà degli anni '80 che inizia a realizzare, con vent'anni di ritardo sul resto d' Europa, la rivoluzione economicosociale e quella dei costumi - per sfuggire ai pesanti condizionamenti dell'ambiente circostante ? Come riuscire a ritagliarsi un personale spazio di emancipazione che consenta di sognare un avvenire che non sia fatto solo di disoccupazione , asfittica vita familiare e prudente ossequio ai poteri costituiti ? La risposta ce la dà un piccolo film uscito da qualche giorno sui nostri schermi , costato poco perchè si affida saggiamente ad attori semiesordienti ed è stato girato senza molti mezzi, ma che è la vera e felicissima sorpresa di questo inizio di stagione.
Conan, il protagonista di questa storia, è angosciato da genitori in procinto di separarsi e quindi abbastanza assenti anche se apprensivi per l'educazione dei figli. Brava gente , per carità, ma - educati in una Irlanda ancora patriarcale ed immobile e quindi smarriti ed incerti agli albori delle grandi trasformazioni che stanno per investire la società locale - non molto preparati a fornire sostegno ad un adolescente timido ed inquieto . Mandato a studiare, in mancanza di adeguate risorse economiche, in una scuola religiosa non certo prestigiosa e che sembra avviarlo dritto dritto ad un futuro di marginalità e di frustrazioni, Conan anela di uscire da un mondo bigotto e conformistico, senza slanci e senza speranza di crescita. E poi egli è rimasto letteralmente folgorato, uscendo un giorno da scuola , dai rapinosi occhi e dalla ben proporzionata figuretta di Raphina, una ragazza di un anno più grande di lui, aspirante modella. Come fare, anche qui, per attirare la sua attenzione e sperare di farne la " sua " ragazza,dando così una lezione ai coetanei che lo giudicano una pappa molla , una mammoletta con la testa tra le nuvole ?
L'inizio del film è perfetto. I film sugli adolescenti, inseriti magari in contesti, come questo, poco propizi alla loro " liberazione ", sono tanti,si sa, come innumerevoli sono le opere di narrativa di cui sono protagonisti. Si pensi solo a quel capolavoro che è " Il giovane Holden ", il fortunato romanzo dell' americano Salinger. Qui il regista e sceneggiatore Carney ha la mano felicissima nel tratteggiare , con freschezza ed originalità, il personaggio e soprattutto nel dipingere l'ambiente che lo circonda . A parte i genitori di cui si è detto, una sorella ,un fratello " saggio " e strampalato al tempo stesso - l'unica persona in cui Conan può trovare un pò di ascolto - il sacerdote che dirige la scuola con disincantata e brutale fermezza, i compagni " al duolo " e qualche loro familiare. Tutto un microcosmo descritto con sensibilità, umorismo e senso della misura, lontano da quel deleterio bozzettismo che infesta tanto nostro cinema ( purtroppo ).Condotti quasi per mano dal bravissimo autore tra le speranze ed i timori del nostro giovane protagonista , ne seguiamo l'evoluzione con trepida partecipazione ed affettuosa indulgenza.
Al dunque. Conan, per uscire dalle secche di una esistenza che non lo soddisfa e stupire coloro che lo circondano, decide di costituire una " band ", a metà tra il rock melodico e quello duro, genere Duran Duran o Depeche Mode ( i gruppi, ricorderete, che andavano di moda a quei tempi ). Il problema è trovare gli altri componenti ( per sè egli si riserva il ruolo di cantante e di leader ). Ecco allora arrivare uno dopo l'altro , tra i compagni di scuola ed i ragazzi del quartiere , un dotatissimo e mite chitarrista, un batterista "afro" ( vera primizia nella Dublino ancora monoetnica ) due o tre altri musicisti in erba e addirittura un ragazzetto intraprendente che si propone come " manager " del gruppo ( un simpaticissimo " pelo di carota " dal sorriso sbarazzino ). In omaggio ai primi e popolarissimi " videoclip " di quegli anni, la "band " filma addirittura con fantasiosa abilità l'esecuzione dei propri brani musicali. E la fascinosa Raphina si presta con condiscendenza a fare da interprete femminile delle visionarie riprese dirette da Conan...
Non mi inoltrerò oltre nella vicenda perchè mi pare giusto- tanto questa è appassionante e ben narrata da Carney - che la scopriate andando a vedere il film. E vi divertiate e vi commuoviate ( sì, è la parola giusta ) seguendo le peripezie del giovane Conan , della sua famiglia , dei suoi amici , della misteriosa Raphina, di tutto un piccolo mondo che ha le sue caratteristiche particolari ma che poi, alla fin fine, ci riporta ai nostri ricordi, alle nostre stesse esperienze . Magari non abbiamo costituito un gruppo musicale,nè ci siamo innamorati di una modella, ma tutti - credo - ci siamo sentiti qualche volta incompresi e respinti da un mondo che sembrava non fosse fatto per noi. Ed abbiamo sognato di evadere, di veleggiare verso orizzonti più affascinanti, di diventare famosi o semplicemente di conseguire l'oggetto dei nostri desideri. L'adolescenza , la giovinezza. Passaggi - chiave, momenti cruciali della esistenza di ognuno.Al cinema, schermo dei nostri sogni,passaggi e momenti particolarmente cari e spunto di tanti bellissimi film.
Non so se " bellissimo " si possa definire anche questo " Sing Street". Il superlativo è particolarmente impegnativo e poi , qui, non aggiungerebbe molto. Si tratta, senza ombra di dubbio, di un'operina che non è pretenziosa, non ha la pretesa di dire qualcosa di definitivo sull'adolescenza nè sulla rivolta contro un ambiente repressivo. Non ne ha la pretesa perchè la sua " cifra " è diversa, più elegiaco-sentimentale che politico-ideologica. Ma non è detto che questo " piccolo " film non raggiunga egualmente le nostre coscienze, e non parli egualmente al nostro senso estetico. Solido nella sceneggiatura, intelligente ed abile nelle inquadrature, interpretato magnificamente dai giovani interpreti ( per l'attrice che interpreta Raphina pronostico facilmente un brillante avvenire ) si esce dalla sala sereni e contenti di avere partecipato, per poco più di cento minuti, ad una " emozione circolare" quale è il film ( e lo spettacolo in genere ), vero dialogo paritario tra gli autori e gli spettatori, tra ciò che viene proposto dagli uni con la loro arte e ciò che viene accolto dalla sensibilità e dalla comprensione degli altri. E " Sing Street " raggiunge, secondo me, la piena fusione tra la capacità artistica dell'autore e quel leggero, delicato sentimento che è la nostra fuggevole emozione

domenica 13 novembre 2016

" Fai bei sogni " , di Marco Bellocchio ( Italia, 2016 )

Conosco poco il giornalista Massimo Gramellini e non ho letto il libro ( con lo stesso titolo ) da cui è tratto questo film. E non so se arriverò a leggerlo mai, visto il terribile, incolmabile ritardo con tutte le letture che non ho ancora fatto e che dovrei fare. Ma la storia che racconta è bella , ha forza e si impone con l'evidenza delle sensazioni autentiche , quelle che ci portiamo dietro da quando eravamo piccoli e che continuano , che lo si voglia o no, ad ispirare la nostra vita nel bene e nel male. E Il film di Bellocchio , non posso giudicare quanto fedelmente al libro, ci prende sapientemente per mano alla scoperta di un dolore d'infanzia, una pena che prosegue nell'età adulta del protagonista e che solo verso la fine di questo percorso sembra sciogliersi, stemperandosi in una lucida accettazione.
Massimo, il protagonista, è un ragazzino dallo sguardo sensibile e intelligente che vive felicemente a Torino verso la metà degli anni sessanta. Felice lo è soprattutto quando è con la mamma, una bella donna giovane, piena di vita, dedita alla famiglia, molto vicina al bimbo . Il film si apre proprio con una sequenza breve ma intensa in cui madre e figlio, soli nel soggiorno di casa, ballano il twist sulla musica della radio, spensierati, nella magica ed intima simbiosi che li unisce. Ma presto le cose cambiano. La madre diventa sempre più malinconica , forse è malata , forse ha una grande pena nel cuore. Una terribile notte muore improvvisamente e Massimo, quando ciò gli viene rivelato dopo le prime pietose bugie del padre e degli altri familiari,non accetta la realtà, è come se si sentisse scacciato improvvisamente dal proprio paradiso terrestre, perdendo quella meravigliosa creatura che costituiva un tutt'uno con lui.
Crescendo solo col padre , impossibilitato a dargli quell'amore di cui ha un terribile desiderio, Massimo si rende confusamente conto che un mistero accompagna la scomparsa della madre, al di là delle laconiche spiegazioni che gli vengono fornite. Il suo rapporto con gli altri, con la scuola prima , con il mondo del lavoro poi ( nel frattempo è diventato un giornalista sempre più affermato ) risente sempre in qualche modo della lacerazione subita nell'infanzia , resa più dolorosa dalla impossibilità di introiettare il lutto , padroneggiarlo finalmente e farsene una ragione. Solo alla fine, quando il mistero viene svelato, Massimo ormai adulto è probabilmente in grado di venire a patti con il passato e di collocarlo nel bagaglio, lieto e triste, che ognuno di noi si porta appresso nella propria esistenza. E allora, forse , i sogni possono tornare ad essere belli o per lo meno non più angosciosi, come se una madre premurosa fosse sempre vicina a noi.
Questa la trama del film . E mi rendo conto che esposta così , nella sua concisa essenzialità,potrebbe sembrare perfino un pò zuccherosa ed insolita in una filmografia , quella di Bellocchio, tutt' altro che fatta di storie di questo tipo. Pensiamo non solo, come è ovvio, al film di esordio, quei " Pugni in tasca " ( !965 ) in cui i rapporti familiari avevano ben diversa e drammatica evidenza o alle opere successive, ricche di solforosa passione civile ( " La Cina è vicina " , " Salto nel vuoto " ecc. ). Anche i film girati a partire dagli anni ottanta, da " Gli occhi, la bocca " a " La balia ", da " Buongiorno notte " a " Vincere "- per non citare che i titoli che mi hanno colpito di più - in cui, dopo l'intervenuta , sofferta maturazione psichica del regista, il " furore " ideologico sembrava venir meno di fronte ad un approfondimento psicologico e sentimentale dei personaggi e delle loro vicende, non vi è mai stato posto per una storia così "edificante" come questa.Una storia che sembra quasi ispirarsi, almeno nella prima parte , a quel classico strappalacrime per l'infanzia che è l'ottocentesco " capolavoro per l'infanzia" di Florence Montgomery, " Incompreso ".
Ma si tratta di una impressione tutta superficiale. La vera emozione ( ed è tanta ) che il film suscita in noi è di diversa natura. Qui non ci si chiede tanto di intenerirci sul drammatico destino di un bambino posto prematuramente di fronte alla scomparsa di un genitore - e quindi privato di cure e di sicurezza affettiva- quanto di condividere la brusca interruzione di un percorso evolutivo , quell' "apprendistato " amoroso che è l'essenza- probabilmente inconsapevole ma ben presente nell'inconscio- del rapporto tra una madre e un figlio maschio. Massimo, e lo si vede , " adora " sua madre, ha bisogno del suo calore, del suo sguardo, delle sue carezze, Ciò che egli spera di ricevere dalla governante che il padre ha installato in casa dopo la morte della moglie ma che questa apertamente gli rivela di non essere in grado di dargli. Ciò che egli, adolescente, spia con invidia golosa,nel rapporto quasi precocemente incestuoso di un suo compagno di scuola con una madre molto bella, sensuale e vibrante (interpretata da una sontuosa Emanuelle Devos ) . Ciò che egli rivive costantemente, nel ricordo- mi pare di poter dire- non tanto dell' "immagine" , ma direi proprio del corpo , della " fisicità " della madre,di quella sensazione di benessere pieno ed immediato che solo un abbraccio o una carezza possono darci.
E proprio il rimpianto della madre , quella dolorosa sensazione di distacco e quella definitiva impossibilità di ricongiungersi a lei ( se non in un Paradiso troppo astratto per costituire una concreta promessa ) rappresenta l'ostacolo , il nodo irrisolto che il protagonista avverte nella sua professione e nel rapporto con le donne che conosce ( molto ben descritto l'incontro con la dottoressa del pronto soccorso, una sensibile ed intensa Bérénice Béjo ) e dal quale solo un tuffo deciso nei sentimenti, la coraggiosa liberazione da ogni intellettualismo, può liberarlo.Ecco allora Massimo conquistare l'affetto del pubblico con una rubrica di corrispondenza con i lettori in cui ha il coraggio di affidarsi alla immediatezza del proprio genuino mondo interiore. Oppure scatenarsi nella danza in una festa cui l'ha invitato la dottoressa, senza più inibizioni o sovrastrutture mentali ( una delle scene più vibranti del film ). Ancora una volta, in definitiva, Bellocchio ci rivela la sua natura " rivoluzionaria ". Rivoltoso non più in nome di un progetto ideologico, tutto " di testa ", ma di un non più procrastinabile ricorso al mondo dei sentimenti e delle sensazioni, l'unico in grado di riappacificarci con noi stessi, di ristabilire saldamente quell' unità tra di noi e l'ambiente che ci circonda . L'unico in grado di farci metabolizzare un grande dolore e di darci la forza di inserirlo armoniosamente nel nostro " vissuto ".
Il film , l'ho appena detto, commuove per la trasparenza del proposito dell'autore e , aggiungo, per la felice corrispondenza tra questo e le forme cinematografiche in cui si è calato . Sappiamo , infatti, che anche le migliori intenzioni possono inciampare talvolta in una messa in scena debole o poco congrua con l'assunto del film . Non qui, dove quasi dalla prima all'ultima sequenza si è posti di fronte ad un viluppo di sensazioni, di stati d'animo dei personaggi perfettamente chiari e condivisibili dallo spettatore, in un abile ma ispirato " crescendo ". Bellocchio, un veterano del cinema d'autore, il decano quasi dei nostri registi e certamente il migliore, sa perfettamente dove situare la macchina da presa , come "tagliare" le inquadrature, come suscitare la nostra adesione sentimentale ed estetica senza strafare, con la forza che gli deriva da una grande consapevolezza ( e modestia al tempo stesso ) dei propri mezzi espressivi .Un bel film , dunque , nello spento panorama del cinema di casa nostra. Ed uno dei migliori,penso, tra i suoi ultimi, anche se può sembrare a prima vista un'opera " su commissione " , dettata dall'imponente successo del libro da cui è tratta e dal tema schiettamente popolare che tocca. Ma Bellocchio, anche qui, mostra di non avere preconcetti e decide , nelle proprie scelte professionali, di affidarsi alle proprie sensazioni più autentiche.
Il film , a voler essere ipercritici, soffre solo di una qualche eccessiva lunghezza. Nel senso che alcune scene avrebbero potuto essere tagliate o addirittura eliminate ( penso alla lunga sequenza di Massimo impegnato come corrispondente di guerra in Bosnia, che poco aggiunge alla comprensione del personaggio ). Ma è un peccato che gli si perdona facilmente, surclassato dagli altri e preminenti meriti di cui si è detto. . L'interpretazione ( in parte l'abbiamo già accennato ) è perfetta. Molto bravo, toccante e simpatico il bimbo che impersona Massimo più piccolo. Bravo l'attore , di cui non ricordo il nome, che fa la parte del padre. Incisivo il contributo, in alcuni" cammei ", di interpreti del calibro di Piera degli Esposti, Roberto Herlitzka e Fabrizio Gifuni. E ho trovato molto a posto nella parte di Massimo adulto Valerio Mastandrea. In altri film, a volte, un pò sopra le righe , qui è diretto con mano ferma da Bellocchio e ci dà probabilmente la sua migliore interpretazione, sobria e toccante.
Sentimenti , stati d'animo, sensazioni. Altrettanti fantasmi che si agitano nella nostra coscienza e a cui la potenza espressiva del cinema sa dare, talvolta, evidenza plastica come a poche altre forme d'arte succede.

martedì 8 novembre 2016

" Il terrorista " di Gianfranco De Bosio ( Italia, 1963 )


Questa settimana , cari amici , non sono andato al cinema . Debbo dire che le "uscite" di nuovi film, almeno qui a Milano, erano poco allettanti . Colpa , secondo me,della distribuzione che finisce, involontariamente o no, col concentrare la presentazione di due-tre pellicole di un certo interesse in uno spazio di tempo ridottissimo ( "bruciandone " così le speranze di successo ) e poi invece ci lascia intere settimane con minuzzaglia priva di autentica sostanza . Così, tra qualche giorno avremo invece, uno dopo l'altro,tre film importanti : la riedizione su grande schermo de " La morte corre sul fiume " (il capolavoro assoluto di Charles Laughton, anno di grazia 1955 !) e le " prime " di "Fai bei sogni " di Marco Bellocchio e di " Sing Street ", un musical irlandese che sta avendo grande successo di qua e di là dell'oceano. Tra i film usciti comunque da poco ed ora in circolazione ricordo almeno " Io , Daniel Blake " di cui vi parlai inaugurando, nel settembre scorso, proprio questa rubrichetta . Non ve lo perdete e fatemi avere i vostri commenti, per favore ( magari in un raffronto con " La ragazza senza nome " : due opere simili per ambientazione e propositi, ma diverse nello stile e nel tono )
Non disponendo di film nuovi di cui parlarvi vi segnalo ( con inusitata brevità ... ) un bellissimo DVD appena uscito in commercio e che ho visto ieri a casa, con la riedizione ( per la prima volta in formato " home cinema ") di un film poco conosciuto di Gianfranco De Bosio , "Il terrorista " , presentato a Venezia al Festival del 1963 e poi, nei mesi successivi, distribuito nelle sale ( ricordo che non riuscii a vederlo perchè facevo il servizio militare e nello scarso tempo libero non ci veniva tanta voglia di chiuderci in un cinema... ), De Bosio era allora un apprezzato ed affermato regista teatrale : la sua messa in scena di " La resistibile ascesa di Arturo Ui" di Bertolt Brecht ,con il grande Franco Parenti come interprete principale , rimane uno degli spettacoli più interessanti che io abbia visto in quegli anni. Convinto a dirigere un film da una piccola compagnia di produzione indipendente ( sì, il cinema italiano di quell'epoca poteva anche permettersi questo ) De Bosio scelse di scrivere, con il collega ,regista e drammaturgo, Luigi Squarzina, una storia ambientata nel primo inverno della guerra civile del !943-45 , a Venezia, ricavandone un film assolutamente singolare nel panorama cinematografico italiano per propositi , stile e rigore formale.
L' " Ingegnere ": questo, nella vicenda,è il soprannome del protagonista, un "sovversivo ", interpretato da Gianmaria Volonté, il quale compie attentati contro i tedeschi che occupano la città lagunare ed i loro accoliti " repubblichini " senza uniformarsi ai più articolati disegni dei suoi referenti politici nella Resistenza . Mentre i rappresentanti dei partiti nel CNL ( Comitato di liberazione nazionale ) di Venezia vorrebbero infatti- dopo una coraggiosa e riuscita impresa partigiana- una momentanea sospensione degli attacchi ai nazifascisti per salvare la vita di un importante numero di ostaggi nelle mani del nemico, il " terrorista " Volontè predica ( e pratica ) l'azione , convinto che di fronte ai tatticismi della politica occorra cercare di risvegliare le coscienze dei cittadini con gesti eclatanti e che testimonino la volontà di riscatto di un popolo smarrito ed esitante dopo il clamoroso evento dell' 8 settembre. Si confrontano così( e si scontrano ideologicamente ) due diverse concezioni della vita e della prassi rivoluzionaria : da un lato l'attendismo , qualche volta timoroso ma spesso dettato dal desiderio di salvare i risultati ottenuti, più quelli che potrebbero ancora essere conseguiti con gradualità e prudenza, e dall'altro la continuità, anzi l'intensificazione degli atti insurrezionali destinati a non dare quartiere all'avversario.
Questo scontro dialettico, reso manifesto dal regista nelle sequenze iniziali , che descrivono minuziosamente la preparazione e l'esecuzione di un attentato partigiano e poi, in un lungo piano-sequenza con lenti e fluidi movimenti di macchina circolari ,la successiva riunione del CNL veneziano con le diverse prese di posizione dei cinque partiti che lo compongono è al cuore stesso del film, lo pervade , gli conferisce forza drammatica e giustificazione storica ed estetica. Lezione di storia nel senso nobile dell'espressione, il film è tutt'altro che didascalico o noioso. Certe scene ricordano il miglior cinema d'azione americano, secco, senza sbavature. La descrizione dei personaggi è precisa, sobria, scevra da eccessivi sentimentalismi. Servita da attori principalmente di teatro ( tra tutti Tino Carraro, Carlo Bagno, Giulio Bosetti, lo stesso Squarzina nella parte di un sacerdote ) la recitazione è vibrante ma mai sopra le righe. Incredibile come un regista di teatro abbia fatto, in fondo, un film assai poco teatrale, tutto calato in forme squisitamente cinematografiche.
Ma il vero protagonista del film è una Venezia spettrale nelle brume invernali, nel silenzio angoscioso delle sue calli, nel rigore geometrico dei suoi palazzi e dei suoi canali La fotografia della pellicola in bianco e nero, magnificamente travasata nel digitale, rende giustizia al mio sentimento che esistano città legate ad una particolare stagione . Come Milano, anche Venezia è città da vedere in chiaroscuro, in assenza di una luce troppo cruda , quando il bianco lattiginoso del cielo si confonde quasi con il grigio dei palazzi che si specchiano nella laguna. Credo che pochi altri film abbiano saputo renderci con altrettanta nuda evidenza la bellezza di un cielo così funzionale ad una vicenda avvolta in un'aura di disperata, malinconica ineluttabilità. La scenografia è di Miscia Scandella , nome notissimo nel teatro italiano di quegli anni. Gli " esterni " predominano qui, in realtà, sugli " interni " ma anche i primi hanno un nitore , una essenzialità che ci riportano alle grandi scenografie del teatro italiano degli anni '50-'60.
Che dire di più se non esprimere qualche sentimento di invidia per un cinema di casa nostra , allora, spesso coraggioso, innovatore, vincente ?

sabato 29 ottobre 2016

"La ragazza senza nome " di Jean-Pierre e Luc Dardenne ( Belgio, 2016 )


Ancora un film sulla nostra coscienza e la responsabilità verso gli altri . Ricorderete forse " Un padre e una figlia " , il film romeno di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Questo di oggi ( in originale "La fille inconnue", e una volta tanto il titolo italiano mi sembra addirittura più indicato ) è l'ultima creazione dei fratelli Dardenne, gli eccezionali " artigiani " cinematografici che vivono ed operano da più di vent'anni nella periferia di Liegi.Non esito ad impiegare questo termine, artigiani, perchè penso che riesca a rendere l'idea di un lavoro certosino di ricerca , di scrittura ( le sceneggiature sono tutte rigorosamente loro ) di reperimento dei luoghi da filmare, di preliminare e minuzioso studio delle singole inquadrature, di controllo meticoloso degli ambienti ( tutti o quasi autentici,non solo gli esterni, veri appartamenti, case o luoghi pubblici , insomma ) . Un lavoro che può prendere, nella fase di preparazione di ogni opera, mesi o addirittura anni e che i due fratelli compiono insieme, in una continua e fruttifera collaborazione quali solo due esseri in piena simbiosi ed intensamente chini sul loro lavoro possono creare.
Jenny è una giovane dottoressa che lavora temporaneamente in uno studio di medicina pubblica , in attesa di essere presto ingaggiata da una struttura privata che le darà presumibilmente più prestigio e maggiori guadagni. Il quartiere in cui svolge la sua pesante attività è abitato da povera gente, operai, piccoli impiegati , disoccupati, anziani soli ,come si dice comunemente gente che fatica ad arrivare alla fine del mese . Ma ci rendiamo subito conto - o meglio sono gli autori che, con pochi e misurati accenni, ce lo mostrano - che al di là del disagio economico il vero problema è l'indifferenza reciproca , la scarsa comunicazione, l'usura dei sentimenti, il fatale ripiegarsi su sè stessi come ultima arma di difesa. I personaggi parlano poco e quando lo fanno ricorrono generalmente a frasi stereotipe, per prudenza , per pudore forse della loro condizione. E il medico, questa istituzione che nei tempi moderni ha laicamente sostituito il confessore o le tante guide spirituali e materiali di una volta, è diventato il perno intorno al quale ruota forzatamente un'umanità dolente e bisognosa di attenzione.
Una sera, è passata più di un'ora dalla chiusura dello studio e Jenny si trattiene all'interno solo per sistemare le cartelle cliniche con il suo assistente, suona improvvisamente il campanello dell'entrata. La dottoressa è stanca , è attesa ad un piccolo ricevimento di benvenuto nel nuovo posto di lavoro, decide così di non aprire, non risponde nemmeno al citofono, pensa giustamente di avere diritto di "staccare" ". La mattina dopo è informata dalla polizia che una giovane donna è stata trovata morta, forse una disgrazia forse qualcosa di più sospetto, poco distante dallo studio medico. La telecamera esterna all' immobile, visionata dalla polizia, mostra che la vittima, una giovanissima africana rimasta inidentificata, era proprio la persona che, senza successo, aveva suonato il campanello la sera prima. Ciò che sconvolge Jenny, oltre alla inquietante coincidenza, è che dal filmato della telecamera di sorveglianza si intuisce facilmente che la donna era terrorizzata e, inseguita probabilmente da qualcuno, cercava riparo, assistenza, un aiuto qualsiasi, prima di fuggire via non avendo avuto risposta ed andare così incontro al suo triste destino.
Di qui la progressiva presa di coscienza di Jenny, la sua decisione di " non mollare ", di declinare l'offerta di andare a lavorare nella clinica privata e di rilevare invece lo studio di medicina pubblica dove svolge adesso la sua attività. Restare sul terreno dunque, non sottrarsi alla lotta, soldato di una diuturna, difficile battaglia per continuare a prestare aiuto al suo prossimo. Il rovello principale della dottoressa diventa quello di dare un nome alla giovane morta ,probabilmente una immigrata clandestina, sperando che i suoi parenti, dei conoscenti , qualcuno insomma, si manifesti e sia disponibile a confermare la sua identità ed offrirle  quindi una degna sepoltura. Incomincia così una sua personale inchiesta che la porta ancora di più a contatto con un mondo dove la solidarietà e la pietà faticano a farsi strada tra le preoccupazioni contingenti , la paura e lo stordimento di un modo di vivere sempre più alienato e smarrito. Non racconterò il finale, affidato alle ultime , vibranti inquadrature, di un 'opera che, a tratti, ha l'andamento di un " giallo " ma non dimentica mai le sue preminenti preoccupazioni morali.
Il film- coloro di voi che lo vorranno vedere sono sicuro che lo percepiranno- termina su di una nota di speranza e di ottimismo . Non è un " lieto fine ", l'esistenza di tutti rimane difficile e precaria. Ma una luce si è accesa improvvisamente, un principio di umanità si è fatto strada. Torna quella dignità dell'uomo su cui , un giorno forse, si potrà ricostruire una società più giusta, che riscaldi i cuori ed illumini le menti. Ma non è un " miracolo "- piccolo, molto piccolo - lo scioglimento di questo come degli altri film dei Dardenne . Nè una vera presa di coscienza sociale in senso rivoluzionario. Liberi sia da una fede religiosa ( il loro non è un approccio che crede nella trascendenza ) che da una politica ( non mi sembra nemmeno che riflettano su di una trasformazione che operi sui rapporti sociali ) i due fratelli fanno un cinema eminentemente , autenticamente, "umanistico ". Credono nell'uomo , in fondo, e nella possibilità di cambiamento e di crescita attraverso una presa di coscienza che partendo dagli individui investa e trasformi l'intera società.Tutto sommato, anche se programmaticamente laica, una visione che si avvicina almeno al nucleo centrale di quella cristiana.
Ma se questo è, secondo me , il significato del film alla luce anche delle opere precedenti ( ricordiamo almeno le più interessanti, " La promessa " , " Il figlio ", " Rosetta ", " Il ragazzo con la bicicletta " ) come è il film da un punto di vista più propriamente cinematografico ?Il cinema dei Dardenne solitamente è scabro, essenziale, concede poco allo sguardo goloso dello spettatore , non vi è la ricerca della bella inquadratura o del movimento di macchina fine a se stesso che strappi, per così dire l'applauso. Coerentemente,insieme a tutti gli autori che si sono posti grandi temi morali come loro punto di arrivo - Rossellini, De Sica, Bresson, Bergman, per certi versi lo stesso Hitchcock - i loro film sono composti da immagini funzionali alla vicenda (nei Dardenne, poi, il dialogo è ridotto, manca il commento musicale , la recitazione non è eccessivamente enfatizzata ). Ma è un cinema che non è mai facile o banale. Ci sono poche descrizioni ambientali ( delizia ma anche croce, ad esempio, dei film di casa nostra ) se non quelle strettamente necessarie allo sviluppo della vicenda. Il "territorio " dei Dardenne è reso sullo schermo da rapidi ricami, spesso notturni, fatti di strade , di facciate di case, di veicoli in transito, talvolta da poche notazioni geografiche , il fiume , i vecchi stabilimenti industriali dismessi . L' uso prolungato della macchina da presa " a spalla " dà un continuo senso di urgenza, di provvisorietà ,in conformità peraltro con la stessa atmosfera generale in cui è immersa la vicenda. Gli interpreti sono quasi braccati , pressati da inquadrature ravvicinate che trasmettono allo spettatore una fisicità e un senso di clausura che bene rendono la difficoltà dei personaggi di liberarsi dalle proprie costrizioni. Diremmo quasi un cinema povero, francescano nella sua semplicità ma di grande impatto emozionale.
Non tutto è perfetto o privo di mende , questa volta . Le prime sequenze de " La ragazza senza nome " sono un pò lente e poco incisive, a differenza che nelle opere precedenti. Alcuni passaggi della vicenda non sono oliati alla perfezione e qualche personaggio minore è meno riuscito. Tra gli attori non mancano quelli che collaborano con i Dardenne dagli inizi. L'interprete principale è la francese Adèle Haenel ( con lei non perdetevi, se riuscite a trovarlo almeno in DVD, "Les combattants " ) molto giusta nella parte, perfettamente in linea con le intenzioni della regia. Ma il film, poi, molto presto incomincia a salire di tono e di intensità, sino, lo ho un pò anticipato, al bellissimo finale, semplice e commovente. Uscendo dal cinema, mi sento di dire, per qualche istante ci si sente riappacificati col mondo, più buoni e più generosi . Ci salverà il cinema ( ci salveranno la letteratura , la musica, il teatro, le arti figurative ) da questo senso di sfiducia e di noia che sembra a volte intristire le nostre esistenze ? Un compito impegnativo e che vorremmo venisse affidato anche a qualcosa di più concreto e fattuale : ad un rinnovato soprassalto di volontà, ad un impegno civile, ad un forte sentire comune, chessò. Ma nel frattempo...

lunedì 24 ottobre 2016

" Café society " di Woody Allen ( USA, 2016 )

Quando arriva l' autunno, l'appuntamento con Woody Allen al cinema è di rigore. Dal 1970, o giù di lì, sono almeno una cinquantina i film che il prolifico regista
ha diretto e - fino a qualche anno fa- quasi sempre interpretato. Da qualche tempo a questa parte, complice ( è sull'ottantina) il naturale invecchiamento, ha smesso di apparire sullo schermo con nostro grande rimpianto. Non che i suoi film che non lo vedano nel cast siano meno interessanti o riusciti degli altri. Tutt'altro. A mio avviso, "L'altra donna " ( con una sontuosa Gena Rowlands affiancata a Mia Farrow ) e soprattutto " Match point " rimangono , ancorchè lui non vi reciti ,tra i suoi capolavori assoluti. Ma, certo, lo stranulato e inconfondibile sguardo di Woody, la sua recitazione tutta " in diminuendo ", fatta di pochi ma indovinati gag visivi, le sue battute fulminanti, costituivano un efficacissimo " plus " che non ci saremmo mai stancati di apprezzare.
La sua ultima fatica, sotto una apparenza lieve e leggermente svagata, ha uno spessore e una profondità che , se devo essere sincero, non riconoscevo sempre facilmente nelle opere più recenti. Intendiamoci. Vedere uno degli ultimi sei o sette film di Allen è sempre un'esperienza piacevole. Pochi autori di commedie ( il genere da lui maggiormente frequentato ) sanno essere altrettanto intelligenti e garbatamente irriverenti, oltre che raffinati e formalmente perfetti. Ma , a volte, terminata la proiezione, non rimane molto di più nel nostro ricordo. Il film, insomma, non torna ad aleggiare nella nostra mente e non riscalda i nostri cuori : abbiamo attraversato un'esperienza gradevole ma poco incisiva, che non dà esca al nostro immaginario e non " fermenta " dentro di noi.Non è tanto una questione di ripetitività- egli è accusato spesso di raccontare , in fondo, sempre la stessa storia con personaggi più o meno identici- quanto di assenza talvolta di un " sottotesto ", di una dimensione cioè che oltrepassi la semplice trama e che dia a tutto il film vigore e sostanza . Non pretendo, badate bene, che Allen ci offra un " messaggio ", cioè una " morale " delle storie che racconta e che , come talvolta succede al cinema, rischierebbe magari di rimanere esterna alle forme, cioè all'essenziale, di cui è fatta ogni opera , bella o brutta , intelligente o stupida che sia. Ma - come mi succede ogni volta che ricado nell'antico " vizio " di guardare delle ombre che si muovono su uno schermo- mi aspetto che l'autore mi emozioni, mi commuova , mi faccia pensare, attraverso la capacità evocativa delle immagini che scorrono davanti ai miei occhi.
La storia è semplice, quasi esile nella sua voluta essenzialità. Il nostro giovane protagonista- siamo intorno al 1935- è ancora una volta un ebreo newyorchese, in fondo un Woody Allen più giovane di quasi mezzo secolo, più in bello ma egualmente timido, speranzoso , dallo sguardo eternamente stupito e pieno di emozione ( " sembri un cervo abbagliato dai fari di una macchina " ,gli dice a un certo punto la ragazza dei suoi sogni ). Emigrato a Los Angeles per lavorare con uno zio materno che fa , con successo, l'agente cinematografico, si innamora, riamato, di Vonnie, la segretaria dello zio di cui la ragazza è segretamente l'amante. Qui Allen , che tante volte ci ha dato gustosi ritrattini della nascita del sentimento amoroso, ha la mano particolarmente felice nel descrivere le emozioni e gli impacci del giovane spasimante inesperto. La vecchia abusata formula di " un ragazzo incontra una ragazza " su cui si fondano tre quarti delle storie cinematografiche di questo mondo riceve nuova linfa in chiave delicatamente tenera ed ironica, come se non fosse un tema su cui è diventato difficile scrivere o mostrare qualcosa di nuovo. Merito degli attori, ma anche dello sceneggiatore -regista Allen che imprime sapientemente un ritmo e una risonanza originale alle sequenze in cui si sviluppa la " love story" all'ombra degli studios hollywoodiani ( pretesto, a loro volta, per una gustosa rievocazione degli ambienti ricchi e sofisticati in cui veleggiavano i cinematografari di quel tempo ).
Alle corte . La storia del giovane e di Vonnie prende una brutta piega perchè lei sceglie di interrompere la relazione con lui e di sposare il suo più maturo amante , che nel frattempo si è deciso a lasciare la moglie. Sconfortato, incapace di mettersi contro lo zio e di salvare così il suo sogno d'amore, il giovane torna a New York e si mette in affari col fratello ( un poco di buono che sta salendo tutti i gradini di una bella carriera criminale ).Diventato proprietario di un locale notturno di grande successo, sposatosi con una bella ragazza che gli da un figlio, il nostro eroe potrebbe dirsi piattamente soddisfatto, ben inserito nel tran tran di quella ricca e spensierata" café society " che dà il titolo al film. Ma il destino ( o il libero arbitrio ? ) ha ancora un tiro da giocargli . Intendo dire, cioè, la ripresa del legame ( questa volta " banalmente " adulterino ) con Vonnie che , soggiornando a New York , riaccende il suo immaginario erotico-sentimentale e rischia di trasformarlo in un " borghese piccolo piccolo ", tutto lavoro,casa e amante. Il film finisce senza che sia dato capire se il protagonista si assueferà a questo " arrangiamento " o non deciderà piuttosto di troncare nuovamente la relazione con Vonnie, complice la nuova gravidanza della moglie alla quale è , in fondo, profondamente legato.
Finale aperto , dunque ( al cinema sono i più belli... ) che ci lascia con un saporo amarognolo, un vago sentimento di malinconia ma la sensazione di aver assistito ad una storia molto , molto ben raccontata, con personaggi accattivanti,tutt'altro che originali ma serviti in modo non banale. La malinconia , il gusto agrodolce che assume la vicenda non sono elementi puramente esteriori, derivanti cioè solo dagli sviluppi di quest'ultima e dalla affettuosa rievocazione di un mondo che non c'è più. Derivano invece, come dicevo all'inizio, dal robusto " sottotesto " della storia narrata da Allen. La nostra stessa vita, egli sembra dirci ancora una volta, è regolata ( o non piuttosto "sregolata " ? ) dal caso , dal destino, ma anche dalle nostre scelte : innamorarsi, condurre oppure no una vita onesta, fare o non fare del male al prossimo ( il fratello gangster del protagonista ), ingannare o essere leali verso le persone che ci vogliono bene. Sono, come sempre , questioni morali con le quali non si scherza. La vita può essere molto piacevole e, alla fine , gli uomini e le donne possono anche acconciarsi ad una esistenza basata sull'effimero, sul piacere momentaneo ( la " café society, appunto ). E non è detto- sembra implicare Allen- che proprio questo non possa essere il segreto di una vita blandamente felice, unico antidoto alla paura della morte con la quale tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Ma, conclude il regista, proprio la certezza della fine della nostra esistenza,il comune destino che ci attende, avvolge in un alone di malinconico " eroismo " le nostre banalissime vicende, tristi o serene che siano, e le redime consegnandole all'eternità .
Che sia questo il " senso " del film, ma preferisco dire il sottile fascino che esso irradia verso lo spettatore, lo mostra chiaramente l'ultima sequenza. Il protagonista sembra riflettere sulla sua situazione, incerto tra il grande amore ritrovato e l'affetto per la moglie che gli sta per dare un nuovo figlio. In fondo ,immaginiamo, potrebbe anche decidere di non fare nessuna scelta e di accettare l'uno e l'altro. E la dissolvenza incrociata che invade con due bellissimi primi piani lo schermo ( con il volto sorridente di Vonnie prima e poi del protagonista, estatico e pensieroso ) potrebbe lasciarci immaginare che la relazione con la ragazza non finirà tanto presto. Ma il giovane, nell'ultima inquadratura dà le spalle alla macchina da presa, cioè a noi e sembra fissare, affascinato, il riquadro luminoso sul palco del suo locale, fatto di tante piccole lampadine che , al termine della serata, stanno per spegnersi ad una ad una. Prima ancora, il film termina, lo schermo si riempie di buio e il regista sembra questa volta affidare allo spettatore stesso un'ultima meditazione sulla vita, costellata di tante gioie e di momenti felici ma confrontata alla sua inevitabile caducità.
Woody Allen , con " Café society ", non solo ci ha dato il suo film più maturo e lineare degli ultimi anni. Ci ha gratificati con una "scrittura" cinematografica molto convincente. Il ritmo , il susseguirsi delle sequenze, è veloce, brillante e mai banale, punteggiato da una musica jazz d'epoca non invadente ma funzionale alla vicenda. La fotografia, del grande Vittorio Storaro, è sontuosa e pienamente aderente all'atmosfera complessiva. Ma, soprattutto, Allen sa dove posizionare la macchina da presa , quali movimenti farle fare , come inquadrare i suoi personaggi, in modo che le immagini, prima ancora che i dialoghi ( scoppiettanti e spiritosi ) facciano progredire la vicenda e le conferiscano quel sottile fascino malinconico che , da " Io ed Annie " e " Manhattan " è il marchio di fabbrica dei suoi prodotti di alto artigianato. Sono uscito dal cinema, al termine della proiezione, felice ed intenerito . L'autunno avanza, a Milano come credo a New York. Ma l'albero dal quale Woody trae la sua ispirazione non ha ancora perso tutte le sue foglie

domenica 16 ottobre 2016

" Indivisibili " di Edoardo De Angelis ( Italia, 2016 )


" In ogni metro quadro di questa terra ci sta tutta la bellezza e la bruttezza del mondo ", dice - se ricordo bene le parole di una sua intervista- il regista napoletano Edoardo De Angelis a proposito di quella fetta di Campania ( non più " felix " ) in cui è ambientato il suo ultimo film, " Indivisibili " . Presentato in una sezione collaterale della Mostra di Venezia, lo trovate da un paio di settimane sugli schermi. Accolto con opinioni lusinghiere dalla critica, qualcuno si è spinto fino a giudicarlo il miglior film italiano dell'anno. Paolo Sorrentino ( il regista de" La grande bellezza " ) ha sostenuto che avrebbe meritato di rappresentare la nostra cinematografia agli Oscar del 2017 invece del prescelto, il documentario " Fuocammare " di Gianfranco Rosi. Ed è vero che lo scarto tra questi due film dopo che si è votato per l'opera che avrebbe dovuto concorrere per l' Italia al prestigioso riconoscimento è stato di un solo voto . Insomma , voi capite che non siamo davanti al solito filmetto di casa nostra, gracile e mal nutrito dagli stessi mezzi di informazione, ma ad un'opera di un certo rispetto che richiede tutta la nostra attenzione.
Procediamo con ordine. Siamo nei dintorni di Castelvolturno, provincia di Caserta, su di un litorale che potrebbe apparire paradisiaco per i colori del cielo e del mare se oggi non fosse sconciato da costanti roghi di immondizie e da insediamenti abitativi di raro squallore architettonico, sorti come maligne escrescenze in spregio a qualunque ( del resto inesistente ) piano regolatore. Popolata da abitanti le cui attività economiche appaiono precarie ancorchè talvolta di una qualche consistenza e da un discreto numero di immigrati africani che a quelle attività fanno a loro volta riferimento in un ruolo chiaramente ancillare , la zona - come ci rendiamo conto dalle prime inquadrature - mette angoscia e tristezza solo a guardarla. Nè le cose migliorano quando veniamo introdotti dal regista nella famigliola che sarà al centro della vicenda, scampoli di quella subcultura odierna, depressa e smarrita, confusa dalle mille lusinghe della vita contemporanea e priva ormai dei robusti anticorpi rappresentati dai valori popolari di un tempo. La madre ,quarantenne belloccia con vistosi tatuaggi, intontita dall'erba che fuma ininterrottamente. Il fratello di lei e l'amico di questi, in funzione di coro leggermente catatonico. Il padre, con folta criniera da " hippy " in ritardo, sguardo da vero " mariuolo ", tracotante e sospettoso, vittima a sua volta del vizio del gioco. E poi ci sono le due vere protagoniste del film,le figlie della coppia : due gemelle siamesi diciottenni, fisicamente indivise, tragico "scherzo" della natura ma anche, nella loro grazia e nella loro ingenuità, autentico fiore ancora incontaminato in un contesto irrimediabilmente degradato. E , soprattutto, fonte di reddito quotidiano per la famigliola che, traendo vantaggio dalla propria apparente " disgrazia ", le sfrutta come insostituibile presenza ( remunerata ) di tutte le feste e le cerimonie del circondario in veste di singolare " duo " canoro dalle risonanze quasi misticheggianti. A metà , insomma , tra il fenomeno da baraccone e l' " icona " religiosa che , come San Gennaro, " porta buono " ed alla quale è bene scaramanticamente accostarsi.
Qui, debbo dire, questo De Angelis dà le sue cose migliori. La descrizione del microcosmo che ruota intorno alle siamesi, sia quello familiare che l'ambiente del circondario, è accattivante e robusta, sorretta da capacità di autentico descrittore realista- non dunque puramente bozzettistico- ed è " vero " cinema, tutto calato nell'immagine cioè, con i personaggi, anche quelli minori, che non hanno bisogno di tante chiacchere per farci capire chi sono. Penso alla straordinaria sequenza della festa di prima comunione, perfettamente orchestrata e dove il racconto ci porta già molto avanti nella comprensione delle " ragioni " dei personaggi stessi. Guardate ( se andrete a vedere il film ) la bambina grassa , cioè la festeggiata, il padre estasiato, le nostre due gemelle, la cantante " maggiorata " ed il " boss " che ne è l'amante , sullo sfondo di un pacchiano albergo con piscina in mezzo alla desolazione urbanistica. Pagine su pagine di indagini sociologiche e tanta letteratura neo-meridionalista non saprebbero darci uno " spaccato " così preciso e potente come i primi quindici- venti minuti di " Indivisibili ".
Peccato però- occorre pur dirlo - che poi le cose, a mio modesto parere, si guastino. La vicenda ha una svolta improvvisa, che diventa l'architrave dei successivi sviluppi, quando un chirurgo di passaggio, incuriosito e mosso a pietà delle due siamesi, convince i genitori a farle visitare e dichiara che un operazione di separazione è possibile , anzi auspicabile. Emozione delle gemelle , specie di quella che aveva già manifestato primi segni di irrequietezza verso la forzata simbiosi con l'altra. Sgomento dei genitori , in particolare il padre, per la prospettiva della perdita dei cospicui guadagni che deriverebbe dal possibile ritorno alla " normalità " della prole. Di qui la narrazione prosegue tralasciando - o comunque non mettendo più nel precedente risalto- la descrizione ambientale e focalizzandosi maggiormente sul rapporto tra le due sorelle, i loro tentativi di affrancarsi dal controllo dei familiari e di reperire il denaro necessario per l'operazione. Fino all'epilogo, che non vi dirò come al solito e che si presta a più di una ( arbitraria ) spiegazione.
Il problema- da cui deriva nella fattispecie la mia perplessità ed il mio disappunto per un film che non mantiene tutte le promesse iniziali - è che una storia " difficile " come questa e che il regista , stando anche alle sue dichiarazioni, vorrebbe " caricare " di intenzioni e di simbologie più ambiziose, non può che essere raccontata, a mio giudizio, che in due modi diversi. O in chiave fortemente realistica ( ma allora ci sarebbe voluta una sceneggiatura molto più coerente e coesa per convincerci di stare assistendo ad una storia " vera " ). O in chiave, invece, del tutto fantastica , onirica ( ma questo avrebbe richiesto , oltre ad una sceneggiatura più inventiva ed articolata, grande capacità evocativa da parte del regista, una vena cioè da autentico visionario e che egli non credo possegga , a giudicare almeno da questo film ). Dò un esempio, per chi ha già visto il film. La scena che dovrebbe risultare particolarmente " forte " , quella dell' orgetta a bordo del panfilo del " boss " e relativo tentativo di quest'ultimo di sedurre una , ma forse entrambi le gemelle risulta quasi imbarazzante, e non per motivi moralistici ma puramente cinematografici. Qui , se si fosse scelta la via del realismo, il regista avrebbe dovuto immaginarsi qualcosa di più credibile dei modesti " quadretti " che una lunga carrellata offre al nostro sguardo di forzati " voyeurs ". Oppure , scelta la via dell' onirico ( e sospetto che questa fosse la volontà di sceneggiatore e regista in questa sequenza ) sarebbe occorso spingere di più il pedale in questa direzione, giocare il gioco dell' immaginario con più convinzione e coraggio. Non fermarsi , in definitiva, ai cascami felliniani e alle citazioni dello stesso Sorrentino che mi è sembrato qua e là di scorgere, ma trasportare letteralmente il film su di un altro piano , farlo "lievitare". Fare in modo, cioè, che le immagini evocassero davvero un sogno , una visione delle due protagoniste, e che quindi , in un passaggio chiave del film, il " significante " ( le immagini, i volti , i gesti dei personaggi) esprimesse realmente un " significato " qualsivoglia. Significato che così, invece, è arduo rinvenire e lascia in bocca l'amaro sapore della delusione per un film che era partito molto bene e che si è un pò perso per strada.
Non vorrei apparire troppo severo verso un regista che, mi dicono , ha al suo attivo due discrete prove prima di " Indivisibili " e verso un film che ha comunque i suoi titoli di merito, in un panorama italiano letteralmente sinistrato dalla scomparsa o dall'inaridimento della vena creativa dei suoi " maestri " e che fatica a reperire nuovi talenti duraturi. Gli attori di " Indivisibili " sono tutti molto bravi. Non parlo tanto delle due gemelle che impersonano le siamesi, " prese dalla strada " e quindi eccezionali come capacità di " entrare " nel personaggio. Mi riferisco soprattutto agli interpreti professionisti, eredi della grande tradizione attoriale napoletana , assolutamente magnifici . La fotografia è molto suggestiva, vi è anche una colonna sonora musicale di buon livello ( il sassofono di Enzo Avitabile ) e canzoni ( quelle interpretate dalle due siamesi ) che rendono perfettamente l'atmosfera e la " cultura " da cui trae ispirazione il film . Un'ultima notazione. " Indivisibili " è quasi interamente parlato in un dialetto campano ( che non è il napoletano " verace " di Di Giacomo o di Eduardo) slabbrato e " contaminato " da altre influenze. Onore ai distributori che non hanno pensato di doppiarlo e si sono limitati ai provvidenziali sottotitoli. Non sempre è successo altrettanto per film ambientati in ambienti popolari, del Sud come del Nord ( penso a " La terra trema " e a " L'albero degli zoccoli " ). Piano piano il gusto si affina ed è una cosa che, non solo ai cinefili, non può che fare piacere