domenica 23 dicembre 2018

I FILM DI NATALE E DI CAPODANNO

I film delle Feste . Fin da ragazzi li aspettavamo con ansia. Prima di tutto perchè era una occasione per andare al cinema più spesso del solito, magari con la famiglia. E poi perchè i distributori ( questi " signori " assoluti del nostro piacere cinefilo) ben sapendo che la propensione a rinchiudersi per qualche ora in una sala buia cresceva esponenzialmente con l'avvicinarsi al Natale, avevano la sana abitudine di darci in pasto proprio allora le cose migliori del ricco patrimonio filmico di cui disponevano. Cose che magari avevano tenuto in serbo proprio per quelle magiche due - tre settimane tra la seconda metà di dicembre ed i primi di gennaio, certi di fare la nostra felicità ma soprattutto di massimizzare i loro guadagni, unitamente a  quelli dei produttori a monte e agli incassi degli esercenti a valle. Oggi la situazione, e basta dare un'occhiata alla programmazione di questi giorni, è radicalmente cambiata. Diminuita la presenza del pubblico nelle sale lungo tutto l'arco dell'anno, neanche a quest'epoca vi è speranza di una sostanziosa ripresa ( cambiano le abitudini, si festeggia in modo diverso ). Ecco così che i film degni di essere visti, insomma gli imprescindibili sono , anche nei giorni dei festeggiamenti natalizi e di fine d'anno, numericamente gli stessi, cioè pochini davvero.

Per risollevarci lo spirito , consoliamoci con quel che passa il convento : ma i " buoni frati " - chiamiamoli così per coerenza di metafora - hanno comunque, pure questa volta, apparecchiato due o tre cose, forse anche quattro, tra le quali individuare con buone prospettive i nostri preferiti per il sano rito del cinema delle Feste. Dopo avervele ricordate ( di fatto poi sono tutti film di cui avevamo già parlato qui ) vi indicherò- e vi consiglierò di vedere - due pellicole del passato che, secondo i miei personalissimi gusti, meglio rappresentano i film di questo periodo così particolare di fine d'anno, con la nostalgia e la speranza che sempre l'accompagnano.
Ricordo ancora una volta l'esigenza di non perdersi " Roma ", il capolavoro del messicano Alfonso Cuaron, miglior film di questi primi quattro mesi di stagione cinematografica. Il " Leone d'oro " - meritatissimo - dell'ultima Mostra veneziana, annoda sapientemente le  vicende private di due donne, coraggiose entrambe ma divise dalle differenze di classe, con la temperie politico-sociale del Messico dei primissimi anni settanta del secolo scorso. Un film forte, commovente, il campione di quella tendenza neo-neorealista che si sta facendo strada nel cinema contemporaneo di quà e di là dell' Oceano. Alcune sale, a Milano ed a Roma, dopo averlo tolto dalla programmazione ( è visibile sulla " piattaforma " Netflix che lo ha prodotto ) ora lo stanno rimettendo in ( limitata ) circolazione.
Rammento poi un bellissimo film polacco, anche questo in bianco e nero ( con schermo quadrato, come una volta ! ) che potrebbe sparire dai nostri schermi nei prossimi giorni : prego quindi affrettarsi se si vuole godere di una drammatica ( ma a tratti ironica e dolce ) storia d'amore sullo sfondo del contrasto tra " paradisi " comunistici e decadenti piaceri occidentali nel ventennio 1945-1965. " Cold war " , di Pavel Pawlikowski, può lasciare  a tratti leggermente interdetti per lo sviluppo narrativo, ma possiede una regia di sconvolgente fulgore.
E' infine alle porte ( uscita nazionale il 27 dicembre ) una intelligente commedia agrodolce del francese Olivier Assayas di cui parlammo in questa rubrica quando fu presentato quest'autunno a Venezia con il titolo originale di " Doubles vies ". Sembrava allora che dovesse uscire da noi con  il titolo ( incomprensibile ) di " Non fiction ". Lo ha cambiato ora in quello , un pò fatuo ma meno criptico, di " Il gioco delle coppie ". Se potete, vedetelo in lingua originale per gustarvi a pieno la recitazione degli attori. Ma anche doppiato non potrà certo guastarvi il piacere di assistere ad uno spettacolo gradevole e nello stesso tempo " morale " ( nel senso cioè, sulla scia dei grandi moralisti francesi del XVII e XVIII secolo, di saper  cogliere alla perfezione i difetti della nostra epoca ).
E, infine, una " chicca " di cui egualmente ho parlato da poco in questa rubrica , e che è uno dei quattro o cinque capolavori di Sir Alfred Hitchcock. Esce infatti sugli schermi, ai primi di gennaio, la copia restaurata de " Gli uccelli " ( " Birds " ). Non vi dico di più, tanto il film è per me una delle vette raggiunte da uno dei più talentuosi artisti della storia del cinema ed un film celeberrimo per aver modificato per sempre il modo con cui guardiamo ormai i graziosi  ed apparentemente innocui pennuti che svolazzano in cielo. Ma anche per i suoi evidenti significati metafisici e l'aura misteriosa che lo avvolge e  non svanisce neppure alla fine.

Veniamo alla mia indicazione per il " film di Natale " , intendendo per tale il film che è ambientato proprio nei giorni delle Feste e che è consigliabile, in una sorta di " rito ", programmare sul vostro televisore , magari cercandolo sulle tante piattaforme " on demand" oggi disponibili, visto che purtroppo nessuna sala si perita di riesumarlo. Si tratta di " Scrivimi fermo posta " ( orrendo titolo italiano dell'originale " The shop around the corner ") e risale al lontano 1940, coevo o quasi degli altri grandi film del regista, l'austriaco emigrato negli Stati Uniti Ernst Lubitsch ( " Ninotchka ", " To be or not to be ", " Il cielo può attendere"). La vicenda, delicata ed ingegnosa al tempo stesso, vede un commesso di un negozio di oggettistica a Budapest ( James Stewart, semplicemente sublime ) impegnato in una schermaglia caratteriale  ed amorosa  con una collega di lavoro ( la deliziosa Margaret Sullavan ) ed è desunta da una commedia ungherese, ricca di tanti altri personaggi minori ma abilmente tratteggiati. La trama è stata poi ripresa qualche anno fa, in un contesto contemporaneo , da un discreto film di Nora Ephron ( " C'è posta per te "  ) che non eguaglia però il fascino che emana dall'originale. Il Natale  è veramente il protagonista , con la magica atmosfera piena di sospensione e di attesa che fa da controcanto alla bella storia raccontata da un Lubitsch in possesso, qui come negli altri suoi film,  del  proverbiale " tocco " che rendeva inconfondibile il suo stile.

Se di film di ambientazione interamente natalizia ne esistono diversi ( ricorderò almeno il celeberrimo " Bianco Natale " , ovvero " White Christmas " , del grande regista di " Casablanca " , Michael Curtiz ) pochi sono, a mia memoria , quelli che si svolgono il giorno di Capodanno o in cui almeno il 31 dicembre giochi un ruolo da protagonista, anche se diversi ci mostrano , en passant, celebrazioni di fine anno, peraltro puramente decorative nell'economia complessiva dell'opera ). Vi è però un film - che è il mio prescelto per rivederlo in questa data così ricca di significato e di aspettative - la cui ultima sequenza  si svolge addirittura in tempo reale con i minuti che precedono lo scoccare della Mezzanotte , ed è " L'appartamento " di Billy Wilder , che risale al 1960. Ricorderete, spero, la frenetica corsa in una Manhattan deserta di Shirley McLaine per arrivare giusto in tempo, prima della  fatidica mezzanotte, a ricongiungersi con uno Jack Lemmon che aveva appena disilluso per andare dal maturo  amante ( il bravo ma antipatico " manager " Fred McMurray ). E tutto il film , del resto , è ambientato nei giorni che precedono, nel freddo ed umido inverno newyorchese, le festività del 25 dicembre e del 1° gennaio, in una atmosfera carica di speranza e di qualche forzata delusione . E l'happy ending finale non si può dire che cancelli del tutto , come ricorderete egualmente, l'amaro sapore di una vicenda di piccoli soprusi ed umiliazioni inflitti ai due miti personaggi principali dal torvo , misero ambiente di una grande " corporate ". Grande film umano ed umanista, secondo l'abituale canone wilderiano ed una bella occasione, ripeto, di festeggiare Capodanno con un film intelligente ed onesto, tenero e coraggioso, a mo' di ideale benvenuto al 2019 che batte alle porte.




lunedì 17 dicembre 2018

" SANTIAGO, ITALIA " di Nanni Moretti ( Italia, 2018 ) / " L'AVVENTURA " di Michelangelo Antonioni ( Italia, 1959 )

Settembre 1973. Chi non ricorda il colpo di stato in Cile che rovesciò il  governo legittimo guidato da Salvador Allende ed instaurò la dittatura militare con a capo il generale Pinochet ? Furono giorni di paura e di sofferenza per i militanti della coalizione di " Unidad popular ", sconfitti, perseguitati, molti di loro costretti alla fuga, numerosi imprigionati, torturati, uccisi. E dovunque nel mondo, ma in particolare in Europa occidentale, un moto di simpatia e di solidarietà accompagnò la triste sorte di chi aveva sperato in un Cile più giusto ed aveva visto spazzati via in poche ore tutti i propri sogni. In sede storica può naturalmente discutersi sugli errori di Allende e dei suoi nelle settimane prima del " golpe " e sui rischi di una pericolosa deriva che aleggiava su quel tentativo di governo in una temperie internazionale sempre più delicata. Resta il fatto di una brutale interruzione di un processo democratico che aveva visto una vasta e sincera partecipazione di masse un tempo del tutto emarginate e di una susseguente, violenta, spietata caccia al " nemico " da parte delle forze della restaurazione. Di vicende così drammatiche, e che hanno impresso sul Cile un marchio indelebile per quasi vent'anni, il cinema si è occupato più di una volta dandoci racconti spesso straordinariamente efficaci quando non abilmente allusivi ad un passato difficile da lasciarsi alle spalle. A fronte di ciò non è facile comprendere cosa , a distanza di quarantacinque anni e senza alcun episodio specifico, anniversario , commemorazione che ne spiegasse la genesi, abbia spinto oggi Nanni Moretti a darci il " suo " personalissimo contributo su avvenimenti tanto tormentati e lontani . O meglio, la chiave di lettura è evidente. Un gruppo di cileni già seguaci di Allende ed  emigrati in Italia , spesso con il concorso attivo delle nostre autorità, unitamente ad altri militanti rimasti in Cile a volte dopo anni di persecuzioni ed incarceramenti,ad opera di Moretti stesso rende  ora testimonianza su di un momento importantissimo per le forze di sinistra nel mondo, in singolare controcanto alla fase attuale di generale inaridimento ideale e di ripiegamento delle speranze rivoluzionarie di un tempo.

Resta peraltro  che il documentario " Santiago, Italia " - pur generoso nel suo intento - fallisce in gran parte proprio i due obiettivi che è presumibile si ponesse. Non tentativo di contributo critico di che cosa sia successo in quelle settimane così drammatiche che precedettero e seguirono il colpo di stato ( le interviste sono tutte alquanto monocordi, appiattite in uno  scontato" reducismo " da circolo di anziani ex combattenti, e le uniche due di seguaci di Pinochet sono troppo grottesche per offrire un qualunque " minority report " ) il film non spiega neanche bene lo straordinario sforzo collettivo che aiutò alcune migliaia di cileni a trovare rifugio in Italia . Una pagina questa che, al di là come la si possa pensare su Allende ed i disegni di una parte delle forze che lo appoggiavano, fa assolutamente onore al nostro paese ed è storia, sorprendentemente, ancora poco conosciuta anche da noi dove tutta la problematica dei diritti umani, del resto, trova sempre così scarso riscontro. Ma qui sarebbe occorso dare maggiore spazio alla testimonianza dei  funzionari in servizio allora presso la nostra Ambasciata in Santiago ( alcuni dei quali, per parte loro,  hanno scritto efficaci e commoventi resoconti di quell'esperienza ) e chiarire meglio lo sforzo diplomatico che condusse alla partenza , a volte dopo anni, dei cileni che avevano trovato fortunosa accoglienza in quella istituzione. Insomma, nè  abbozzo di ricostruzione storica di quegli avvenimenti nè iniziativa di divulgazione di una pagina poco nota della nostra tradizionale" pietas " verso chi soffre, quando non di vera e propria presa di coscienza delle ingiustizie che ogni giorno si compiono nel mondo , il film offre poco ad una nuova lettura dei fatti del Cile e quasi niente sul piano dell cinema stesso. Che Moretti debba trovarsi in un momento difficile sul piano personale ed artistico lo si intuiva già e se ne ha qui preoccupante conferma. Peccato per quei pochi attimi di autentica commozione che a volte emergono dalle varie interviste e che fanno rimpiangere il bel documentario che " Santiago, Italia " avrebbe potuto essere e non è stato. 

La Cineteca di Bologna, già responsabile di alcuni prestigiosi restauri di opere cinematografiche italiane e non, ha ora " in portafoglio " anche quello di un autentico capolavoro , non più visto su grande schermo negli ultimi anni ed introvabile anche in DVD a causa delle condizioni del negativo. Parlo di " L'avventura " , il film del 1959 di Michelangelo Antonioni che  lanciò definitivamente  il regista a livello internazionale. Personalmente non lo rivedevo proprio da quasi sessant'anni per le ragioni anzidette. Estimatore, in epoca a noi più vicina, delle prime e già importanti opere del regista ferrarese, da " Cronaca di un amore " ( 1950 ) a " Il grido " ( 1957 ), confesso che vidi " L'avventura " ( avevo forse diciott'anni o poco di meno ) senza conoscere i suoi film precedenti e influenzato probabilmente da un'accoglienza non proprio entusiastica di quella parte della critica italiana che gli contrapponeva il più solare e speranzoso Fellini così come i " mostri sacri " del neorealismo ,  più semplici da capire ed amare. Lo trovai allora  troppo lungo e noioso, ambiguo nel suo significato, irrisolto sul piano drammatico. Ad una nuova visione della copia restaurata, su grande schermo presso la Cineteca di Milano, faccio oggi ammenda di quel giudizio evidentemente affrettato e privo della necessaria prospettiva ( unica qualità che, ammetterete, matura col tempo per qualsiasi spettatore ).Il film in realtà, fatta ancor oggi la tara di una eccessiva lunghezza - due ore e venti - non pienamente giustificata dal suo sviluppo narrativo ( " La dolce vita " o " Rocco e i suoi fratelli " durano ancora di più ma sono affreschi di maggiore complessità e maestosa composizione ) è in realtà l' eccezionale prodotto di un cineasta di genio. Girato in circostanze di notevole difficoltà ambientale sullo scoglio di Lisca Bianca ( Isole Eolie, non lontano da Panarea ) e poi, sempre in esterni, a Noto, la capitale del barocco siciliano e, nelle ultime sequenze, a Taormina nel prestigioso hotel " San Domenico Palace ", ha una vicenda assai minimalista. Un brillante ma volubile architetto, Sandro, nel corso di una crociera al largo della Sicilia, " perde " la propria amante,Anna, scomparsa in circostanze misteriose. Messosi alla ricerca della ragazza senza troppa convinzione, accompagnato da un'amica di lei, Claudia, intreccia ben presto una relazione con quest'ultima ma, nel finale, la tradisce con una " escort "straniera di passaggio. Materiale da cineromanzo o da fumetto, si direbbe. E, in certi punti, il dialogo e talune situazioni( che la critica del 1960, quando il film uscì sugli schermi, impietosamente rilevò ) potrebbero dare la sensazione di un melodramma qualsiasi allo spettatore superficiale o leggermente prevenuto.

Niente di più sbagliato. In realtà, come anche nei precedenti film di Antonioni, il nocciolo della questione non è la vicenda in sè. Quanto piuttosto la difficoltà dei personaggi di essere sinceri, con sè stessi e con gli altri, liberandosi dalle sovrastrutture  della tradizione, dei pregiudizi, della morale corrente. Mentre il mondo si trasforma continuamente, sostiene in un suo interessante scritto il regista, l'umanità rimane ferma, legata sempre agli  stessi vecchi schemi. Ne consegue una incapacità di aprirsi realmente al nostro prossimo, fossero anche le persone che crediamo di amare ( la citatissima " incomunicabilità "  con cui fu etichettato il suo cinema ) la superficialità dei rapporti interpersonali, in breve la difficoltà o addirittura la sofferenza del vivere quotidiano. Ma tutto questo, si badi , lungi dal rimanere pura enunciazione teorica che - come succede talvolta ad un cinema troppo " letterario "- non riesce poi a calarsi compiutamente nelle immagini, trova qui in ogni inquadratura un inveramento, una evidenza plastica interamente e puramente cinematografici. Lunghi silenzi, una fotografia in bianco e nero di rapinosa, struggente bellezza, cittadine desolate che sembrano popolate solo di uomini tristi  e senza donne, campi lunghi che ci mostrano le nude, desolate rocce a strapiombo dello scoglio dove scompare misteriosamente Anna ( una splendida, intensa Lea Massari ), primi piani del volto sfuggente ed ambiguo di Sandro ( un incisivo ed inquietante Gabriele Ferzetti ) o della solare, biondissima Claudia ( una sorprendente  Monica Vitti al suo esordio ) si inseguono e si intersecano per darci la sensazione visiva ed immediata della lunga pena, del faticoso errare che è la nostra stessa esistenza. C'è speranza di salvezza  in tutto questo ? Le due ultime bellissime inquadrature, che lascio allo spettatore il piacere di scoprire, lascerebbero intendere di sì, anche se i sentimenti, specie quelli amorosi,sembra suggerirci l'autore, non possono che restare fatalmente superficiali e precari.Il film ci fa anche ricordare, su di un altro piano visivo, che Antonioni fu ( e rimase sempre )anche un grande documentarista. Qui abbiamo, specie nella seconda parte, un lungo ed appassionante reportage sulla Sicilia alla fine degli anni cinquanta, l'equivalente cinematografico di un " album " di foto di Cartier Bresson.  La sceneggiatura, per quello che vale, è dello stesso Antonioni e di Tonino Guerra. Ma quiel che conta veramente è  soprattutto  la regia, il ritmo erratico eppure sempre intenso che Antonioni imprime alla sua creazione, i movimenti di macchina lenti ma che sempre ci stupiscono per la loro precisione e morbidezza vellutata, la recitazione leggermente teatrale ( voluta, in un film antinaturalistico e " didascalico " ) ma di grandissima intensità. In definitiva, un film che, rivisto oggi, rivela nuovi sapori ed  induce ad un sottile rimpianto per cio' che era il grande cinema italiano di quegli anni ( 1959- 60 : " L'avventura " , " La dolce vita " e " Rocco e i suoi fratelli " : scusate se è poco.... )


sabato 8 dicembre 2018

" ROMA " di Alfonso Cuaron ( Messico, 2018 ) / " LA PRIERE " di Cedric Kahn ( Francia , 2018 )

Per fare del buon , anzi dell'ottimo cinema non c'è bisogno di molto. Bastano le idee, certo, ed il cuore  : intelligenza ( abilità tecnica ) da un lato, sensibilità artistica dall'altro. Non è una ricetta complicata. E lo prova ampiamente lo stupendo " Leone d'oro " di quest'anno. Quel " Roma " del messicano - con trascorsi hollywoodiani -  Alfonso Cuaron che, prodotto dalla piattaforma "Netflix",  è  uscito ora per pochi giorni in alcuni cinematografi  italiani prima di venire relegato nella " scatola " che lo farà vedere in seguito ( su televisori, computer e addirittura telefonini...) solo agli abbonati di quest'ultima applicazione tecnologica. Inutile tornare sul tema. C'è chi piange sulla possibile fine del cinema quale emozione collettiva, come, in gran parte, l'abbiamo conosciuto fin qui. C'è chi afferma che questo è il progresso e che dovremo abituarci al nuovo tipo di " supporto ": nè più nè meno come alla progressiva sostituzione della carta stampata, libri e giornali da fruire ormai in forme ben diverse da quelle tradizionali.
Lasciamo stare e prepariamoci al peggio ( se tale lo consideriamo ). Il paradosso, semmai, è che proprio un film come "Roma", girato in bianco e nero e in un  classicissimo "cinemascope ", quindi adattissimo al grande schermo ( vedere per credere ) sia stato concepito per formati molto più piccoli e di resa artistico-spettacolare forzatamente inferiore. Mistero. Accontentiamoci di nutrire comunque gratitudine per chi, finanziando il film, ha  permesso la sua realizzazione  e ce lo fa ora ammirare, anche se per poco tempo, in qualche sala del normale circuito. Perchè il film è davvero molto bello ed ha ampiamente meritato il massimo riconoscimento veneziano. Uscendo dalla proiezione ( contrassegnata, finalmente, da una cospicua presenza di pubblico già al primo spettacolo di un normale giorno lavorativo ) mi sono chiesto come mai film così semplici ed insieme profondi, capaci con pochi tocchi di commuoverci ed entusiasmarci ( una specialità della " ditta " Italia nei primi venti-venticinque anni del secondo dopoguerra ) li sappiano fare oggi quasi solo le cinematografie considerate un tempo minori : qualche paese dell' Est europeo, l'Africa , l' Oriente, l' America Latina. In questo caso il Messico : realtà composita,in chiaroscuro, con molte contraddizioni al suo interno e forse per questo un potente stimolo per chi voglia affrontarla attraverso la macchina da presa.

Il film inizia piano, quasi silenzioso, nel tratteggiarci in modo man mano più ampio e preciso una grande ma un pò disordinata abitazione di Città del Messico ( scopriremo poi che siamo nel 1970 ) in un quartiere medioborghese della grande metropoli che è proprio chiamato " Roma ", non chiedetemi perchè. E man mano facciamo conoscenza con gli abitatori : una moglie ancora piacente e dotata di un sano appetito per la vita, un marito  tabagista e distaccato (non perdetevi il ritorno a casa del " pater familias " in una obsoleta e un pò ammaccata " Galaxy ", le automobili allora erano tutte macchinoni americani difficili da manovrare in spazi ristretti ) quattro figli un pò turbolenti tra infanti ed adolescenti, una nonna dal senso pratico  e due donne di servizio a tempo pieno ( le classiche " indie ", laboriose ed ancestralmente educate alla pazienza ). Non che succedano fatti clamorosi nel tran-tran un pò monotono di questa famigliola , anche se ci accorgiamo che, fuori, le forze  al potere reprimono duramente il dissenso dei meno fortunati e non disdegnano talvolta di  appoggiarsi a corpi paramilitari fascistoidi. Finchè due fatti sconvolgono quel " ménage " apparentemente senza storia (ma che il regista ha incominciato a farci apprezzare con il suo approccio quasi documentaristico, tutt'altro che asettico, soffice e caldo al tempo stesso ). La cameriera più giovane rimane incinta ad opera di un piccolo mascalzone che poi l'abbandona. La padrona di casa è a sua volta lasciata, oltretutto in ristrettezze economiche, dal marito che fugge ad Acapulco con l'amante. Nuvole sempre più pesanti sembrano ora addensarsi sui nostri personaggi - vedrete quanto e quando - ed il film sale di tono e di intensità,ma senza  cadere in alcuna sbavatura sensazionalistica e riuscendo sempre a conservare un approccio misurato e sincero. Alla fine ciò che prevale è la gioia di vivere, l'amore che lega gli abitanti della casa tra di loro. Domani è un altro giorno e continueremo ad affrontarlo insieme. 

Temi così intimistici eppur ricchi di "pathos " si sposano armoniosamente in " Roma " ad una non oziosa riflessione sulla circostante atmosfera  del tempo, autoritaria e a decisa impronta maschile, in cui il ruolo delle donne era socialmente residuale. Che affetto evidente, scopriamo, ha Cuaron per i propri personaggi femminili : umiliate e offese, le donne sono , attraverso il loro sacrificio e la loro rassegnata ma non doma fierezza, portatrici di una speranza di riscatto per l'intera comunità. Guardate la povera cameriera india, scoprirete  attraverso i suoi occhi timidi ed onesti questo paese dai mille contrasti ma estremamente vitale e vibrante. Così come lo sguardo vacuo e sfuggente del padrone di casa o il cipiglio torvo ed esaltato di Firmin ( il paramilitare che mette incinta la serva ) ci dicono molto più di mille parole sulla deriva autoritaria di una società oziosa e incapace di operare un deciso salto nella modernità. Questa fusione tra temi personali e " civili " era la forza, ve ne ricorderete, del grande cinema italiano di una volta, dal neorealismo a Germi, Fellini, Olmi. Piace vederla qui in un film che è indiretto omaggio a quella temperie artistica, a quello stile,  a quel coraggio morale. Ma è anche , e soprattutto, una testimonianza dei fermenti culturali e politici che attraversano l' America Latina, con la prova di una raggiunta maturità artistica che pone oggi lo stesso Cuaron , con gli altri due più famosi cineasti messicani, l' Inarritu di " The Revenant " e il Del Toro di "La forma dell'acqua ", nei piani alti del cinema mondiale. Soggetto quanto mai congeniale e pertinente per consentire all'autore di tornare con la memoria al Messico della sua infanzia,  sceneggiatura senza smagliature : tutto è chiaro ed immediato oppure contribuisce ad illuminare più tardi il senso di ciò che abbiamo visto, proprio come nella vita. Regia sempre inventiva , ma senza strafare. Qui veramente capiamo come i movimenti di macchina debbano essere dettati non da una estetica fine a sé stessa ma dalla posizione morale di chi li dirige. E non vi è inquadratura in " Roma " che non ce lo ricordi costantemente, con grazia e senza pedanteria: Cuaron sa sempre dove posizionare la cinepresa e lo fa per esprimere un punto di vista mai banale. Fotografia da Oscar ( autore lo stesso Cuaron ) , in un bianco e nero di struggente risalto. Interpretazione assolutamente all'altezza, con menzione speciale per le due principali attrici. Insomma, da tempo non si vedeva un film altrettanto convincente.

Analogo discorso andrebbe fatto per " La prière " , film francese di Cédric Kahn, uscito in Francia nello scorso mese di marzo e salutato  molto favorevolmente dalla critica d'Oltralpe Se non chè, complice la circostanza che da noi, in questi giorni, lo abbiano visto in pochi ( a Milano solo tre proiezioni in un cineclub ) e che non ne sia ancora sicura la distribuzione nel circuito commerciale, preferisco rinviare al momento in cui sarà possibile a tutti andarlo a vedere una analisi più distesa. Dirò solo, perchè teniate a mente nel frattempo questo piccolo capolavoro, che anche qui , come in " Roma ", il soggetto è semplice ed austero, niente affatto noioso ( un giovane tossicodipendente, inserito in una comunità di recupero basata sul lavoro manuale, la solidarietà ed appunto la preghiera e la fede cristiana, tornerà a vivere e potrà con autonomia e raggiunta consapevolezza operare una scelta tra amor sacro e amor profano ). Ambientazione di sontuosa bellezza nelle Alpi del Delfinato, non lontano da Grenoble , sceneggiatura ben costruita e scandita da un ritmo cinematografico pacifico e solenne, regia sempre attenta a scovare la verità delle cose, nei volti e nei gesti dei personaggi ( tutti giovanissimi attori esordienti o poco conosciuti ), una fotografia a colori che incanta, una interpretazione del protagonista, Anthony Bujon, da " César " ( gli Oscar francesi ). 

  • Ricordo infine che è da qualche giorno sugli schermi l'ultimo film del regista iraniano Jafar Panahi ( quello, per intenderci, di " Taxi Teheran, grande cineasta inviso al regime degli ayatollah e costretto a non uscire dall' Iran ). La mirabile operina ( uso il diminutivo tanto è graziosa e ben orchestrata ) si chiama " Tre volti " e ne ho parlato , mi pare , il 16 giugno su questo blog. Ragione per non ripetermi ma raccomandarne a tutti la visione, in nome del cinema e, beninteso , della ( sacrosanta ) libertà di opinione.