martedì 10 novembre 2020

SCIASCIA AL CINEMA : " A CIASCUNO IL SUO " di Elio Petri ( Italia, 1967 ) / " Il GIORNO DELLA CIVETTA " di Damiano Damiani ( Italia, 1968 )

  •  I  due romanzi , o racconti lunghi , di Leonardo Sciascia sulla Sicilia e il fenomeno mafioso, pubblicati tra il 1961 ("Il giorno della civetta" ) e il 1966 ( " A ciascuno il suo " ) trovarono al cinema due  convincenti trasposizioni a poca distanza l'uno dall'altro, nel biennio 1967-1968. Probabilmente sulla  scelta di produrre quello dei due che fu girato per secondo ("Il giorno della civetta" ) influì il buon successo del primo ad essere trasferito sullo schermo ( " A ciascuno il suo " ). E poi Sciascia incominciava allora ad essere più di un semplice "caso"  letterario. I suoi libri avevano trovato, proprio in quegli anni, un pubblico di lettori affezionati. La sua Sicilia e la sua trattazione del fenomeno mafioso -molto più radicato e capillare, quest'ultimo,  di quanto non si presumesse dal "continente"- risultavano assai suggestivi in una Italia che si interrogava su se stessa e sui cronici ritardi di una vera unità nazionale sul piano della mentalità e del costume. Il cinema degli anni '60 diventava d'altro canto sempre più " politico ", in sintonia con una società in rapida trasformazione, multiforme e desiderosa di uscire dal sostanziale immobilismo in cui era rimasta confinata per decenni. Il " potere "  (quello istituzionale, civile e religioso, o quello dei grandi gruppi economici ) incominciava così ad essere indagato senza le remore, e con molto minori ostacoli censòrii, di quanto non fosse avvenuto in passato. Ne uscivano film magari non tutti della stessa fattura, ma quasi sempre interessanti e con l'irresistibile profumo  di una stuzzicante novità.
         Le sue opere di " fiction " sono scritte da Sciascia  con  uno stile stringato ed una eccezionale incisività che elimina il superfluo e va dritto al cuore della vicenda. Sembrano quasi, in sostanza, delle sceneggiature cinematografiche pronte per essere girate. Personaggi e trama narrativa  conquistano il lettore fin dall'inizio, proprio come in un buon film. Certo, la metafora - che nelle sue storie c'è sempre -  sia delle specialissime condizioni della sua terra, sia della natura umana in quanto tale, risulta meno agevole da rendere cinematograficamente . In questi due film ( dei quali Sciascia, ceduti i diritti , ha avuto poco o nessun controllo in fase di lavorazione ) si perde talvolta, inevitabilmente, quella  dolorosa e risentita vena ironica, quella sottile malinconia, che si rinvengono nella pagina scritta. Ma non sono venuti meno, fortunatamente, il vigore espositivo, la "dimostrazione " di uno stato di cose ingiusto e che occorrerebbe quindi cambiare, che animano i due romanzi e che conferiscono ad essi un sapore forte e genuino. Svelta e concisa, la sua prosa trova al cinema - specie in " A ciascuno il suo "- una congeniale equivalenza nel montaggio serrato, nel rapido succedersi delle inquadrature. Come se la macchina da presa volesse dare corpo secondo i propri mezzi  a quel pacato eppur implacabile argomentare di uno scrittore " illuminista " quale era sicuramente Sciascia.

 

         " A ciascuno il suo ", ironico titolo desunto dal motto che compare sotto la testata de " L'Osservatore  Romano " ( frammento  di pagina di  giornale che vedremo , nel film , utilizzato in modo quantomeno singolare ) fu realizzato nel 1967, ad un anno dal buon successo del libro. Ma, riluttanti le grandi case di produzione a portarlo sullo schermo secondo i desiderata del regista e sceneggiatore Elio Petri, alla fine si trovò un produttore indipendente che accettò di sobbarcarsene il rischio. E fece bene, giacché il film piacque, fu venduto all'estero ricevendone positiva accoglienza ed è da alcuni critici considerato una delle cose migliori di Petri, autore già pochi anni prima di un notevole " I giorni contati ", con il grande  Salvo Randone come interprete principale ( che qui ha solo un godibilissimo " cammeo " ). Sciascia lesse il copione, scritto da Petri con il romanziere Ugo Pirro, ma non gli piacque particolarmente, specie per l'eccessivo risalto dato al personaggio di Luisa, la vedova Rosello, che nel romanzo è appena abbozzato. In realtà ( e , avendo poi visto il film anche lo scrittore dovette convenirne ) il film è fedele non tanto alla lettera quanto allo spirito con cui Sciascia racconta la vicenda e alla morale che voleva trarne.   Che è poi quella che per sconfiggere la mafia, anche piccola o piccolissima che si annida nella mentalità di taluni abitanti dell'isola, non occorre nessuna particolare arditezza, nessuno sterile donchisciottismo ma anzi una sana dose di realismo,  cioè di volontà di capire- parafrasando Croce - "come siano andate propriamente le cose ". Qualità che fa purtroppo difetto allo sfortunato protagonista, quel timido ma sconsiderato professor Laurana di cui, come finale epitaffio, i notabili del suo paese diranno solo che " era un cretino ". Ben diretto, con una tecnica desunta dai classici film gangsteristici americani, alla Huston o alla Samuel Fuller, " A ciascuno il suo " si lascia vedere tuttora con piacere. Contribuiscono a tale sensazione una puntuale descrizione di uno spicchio di Sicilia ( Palermo e dintorni ) infestato dal costume mafioso dei suoi notabili, l'ottima scelta dei caratteristi e la magistrale interpretazione degli interpreti principali : Gian Maria Volonté ( Laurana ) , Gabriele Ferzetti ( Rosello ) e Irene Papas  (Luisa ). Se la regia di Petri è abile e inventiva, la sceneggiatura è particolarmente solida e ben costruita, tanto che al Festival di Cannes del 1967 ( prima del fatale ' 68 che , l'anno dopo, ne impedì lo svolgimento ) essa vinse addirittura il relativo, massimo riconoscimento tra i film in concorso.

 

         A fronte dell'elegante, quasi sofisticato film di Petri, il successivo " Il giorno della civetta",  girato da Damiano Damiani nel 1968, potrebbe apparire molto più convenzionale. Lineare nell'andamento narrativo - anche qui non fedelissimo al testo, ma alla sceneggiatura questa volta collaborò lo stesso Sciascia ancora con Ugo Pirro - sembra un " western " siciliano. E certamente deve essersi ispirato almeno in parte all'atmosfera del prototipo dei film di mafia , quel " In nome della legge " di Pietro Germi (1949 ) tutt'altro che trascurabile nella sua sincerità appena un pò troppo semplificatrice ma di grande impatto emotivo. Anche qui mafia di campagna, dunque. Con due antagonisti. Da un lato il capitano dei Carabinieri Bellodi (" continentale ", anzi addirittura nordico in quanto emiliano e per giunta ex partigiano ) desideroso di venire a capo del solito delitto senza un chiaro movente né attendibili esecutori . Dall'altro don Mariano Arena, anziano ma ancora vigoroso ed incontrastato capomafia che su quel delitto sa ovviamente molte cose. E che alla fine , al troppo curioso ma onesto e coraggioso Bellodi, renderà in un certo senso l'onore delle armi definendolo  "un uomo ". Categoria, questa, decisamente minoritaria secondo l'esperto Arena. Giacchè , come gli fa dire Sciascia anche nel romanzo, più numerosi assai sono nella vita, man mano scendendo, i mezzi uomini, i ruffiani, gli ominicchi e, in fondo alla scala antropologica, " i quacquaracquà ".  Interpretato da grandi caratteristi siciliani nelle parti minori ( Tano Cimarosa su tutti nella parte di un singolare killer ), ravvivato dalla presenza di una splendida , fiorente Claudia Cardinale nella parte della moglie di un contadino del luogo, con un ottimo, misurato Franco Nero nella parte di Bellodi, è letteralmente illuminato da un immenso Lee J, Cobb calatosi perfettamente nella parte di don Mariano. Mai " padrino " fu altrettanto vero al cinema di lui : non il pur celebrato Charles Vanel ne " Il nome della legge " di cui si è detto nè, sto per dire, il pur sagacemente istrionico Marlon Brando nel celebratissimo " The Godfather ".

Sciascia  ci ha lasciati nel 1989.  Prima della sua scomparsa altri due film sono stati tratti dalle sue opere. " Cadaveri eccellenti " di Francesco Rosi ( trasposizione del romanzo " Il contesto " ) e " Todo Modo " ancora di  Petri, girato lo stesso anno.  Non equivalgono, purtroppo, ai due film di cui abbiamo appena parlato perchè desunti da due libri , a mio personale giudizio, non dello stesso livello artistico-concettuale. Ma averne ancora, in Italia, di scrittori di quel calibro! E , soprattutto, di punti di riferimento ideali, per onestà intellettuale e profondità di analisi, quale è stato, almeno per due decenni, lo scrittore di Racalmuto ( la sua " piccola patria " siciliana ). Sciascia ci manca. In questi giorni così confusi, ho la sensazione che  ci manchi terribilmente.


 



 


  

         


 



        

lunedì 24 agosto 2020

DUE FILM SULLA CREAZIONE ARTISTICA : " SCARPETTE ROSSE " di Michael Powell ed Emeric Pressburger ( Regno Unito, 1948 ) / " LA FONTE MERAVIGLIOSA " di King Vidor ( USA, 1949 ) Unito, 1948 ) / " LA FONTE MERAVIGLIOSA

 E' possibile che i normali sentimenti  che prima o poi si fanno strada in ogni essere umano, ad incominciare dal più fondamentale di essi che è l'amore, non confliggano con la passione per la propria professione, la totale dedizione, il furore creativo che soprattutto- ma non solo -l'esercizio dell'arte  postula spesso in modo così impetuoso ed esclusivo ? Ecco un interrogativo bello e stimolante per la nostra riflessione. Un interrogativo che sovente proprio alcune vite di artisti, o  talune opere d'arte che di esso hanno fatto il loro nucleo essenziale,  hanno proposto alla nostra attenzione senza , ovviamente, poter offrire una risposta univoca e convincente. Perchè le scelte, nella vita come nella finzione sono pur sempre personali e , per fortuna, non tutte così radicali come quelle che vengono esposte in quelle opere o emergono da quelle biografie, consentendo cosi, nella prassi, vari tipi di soluzione, di arrangiamenti più o meno armoniosi, più o meno duraturi. Ma quando la passione  per la propria creazione o  per il percorso professionale che si è intrapreso, si fanno assoluti e totalizzanti, senza ammettere alcun compromesso, le cose diventano nettamente più difficili. L'uomo ( la donna ) lascia il posto al creatore, al  demiurgo pronto a tutto sacrificare per la propria impresa finendo così,  fatalmente, col travolgere spesso altri sentimenti, altre pulsioni, perfino altre vite umane.                        Due bellissimi film rivisti in questi giorni, purtroppo non in sala ma comunque in splendide copie digitali restaurate, mi hanno sorpreso perchè, indipendentemente l'uno dall'altro, trattano entrambi proprio questo tema così affascinante, offrendoci personaggi e vicende in cui esso assume forme certamente estreme ma di una pregnanza di significati e di una vivacità espressiva tali da emozionarci e restare impressi in noi lungamente dopo la visione. Pregio , quest'ultimo, che è indice di grande , grandissimo cinema. E questi due film , oltre a rappresentare un apice delle carriere artistiche dei loro autori, sono per me da includere certamente in quella ristrettissima cerchia - non più di un centinaio di opere - che racchiude i migliori film di ogni tempo e di ogni latitudine.  Girati, anche qui sorprendentemente, a pochi mesi  ma a molti chilometri di distanza tra di loro, uno ad Hollywood l'altro in Gran Bretagna senza , ritengo, che il secondo - che è stato concepito temporalmente per primo - potesse influenzare l'altro tanto sono diversi gli stili e le ambizioni che li animano,  essi appaiono peraltro meravigliosamente uniti dall'identità del tema e dal suo impetuoso, inarrestabile svolgimento. E se quello girato negli Stati Uniti ha un luminoso lieto fine ( imposto in realtà dai produttori ed accettato " obtorto collo " dal regista ) e l'inglese, invece, un finale decisamente più tragico, non va trascurato il  loro identico assunto: l'esercizio, ad alto livello, di una attività artistica o comunque creativa ed autonoma incide prepotentemente sul proprio vissuto, sul rapporto con gli altri. Anche se è spesso fonte  di compiuta autorealizzazione e di grandi soddisfazioni personali  esso non può  che entrare in conflitto non solo con gli altri ma con le nostre stesse ed altrettanto profonde aspirazioni. Ancora una caratteristica non da poco che accomuna i due film e che ne giustifica la loro piena riuscita estetica è la totale corrispondenza tra il loro assunto drammatico e le forme in cui questo viene reso manifesto. Il contrasto, come si è detto più volte, tra il desiderio di libertà da ogni costrizione e quasi di sopraffazione indotto dalla creazione artistica  e, dall'altro lato, la difficile esigenza di armonizzare, di fondere la nostra vita con quella degli  esseri che vivono insieme a noi  trova nelle immagini, nel dialogo, nella recitazione degli attori, un perfetto, coerente  modulo espressivo. Dalla fotografia, ai movimenti di macchina che dettano le varie inquadrature, alla scenografia, alla musica di accompagnamento : tutto è splendido, funzionale al racconto e dà piena testimonianza di due opere d'arte ( mai definizione per dei film fu più meritata ) di assoluto valore e di grande impatto emotivo. Difficile non gioire per tanta perfezione tecnica e non commuoversi per tanta bellezza che scorre sotto i nostri occhi.

" Scarpette rosse " ( " Red Shoes " ) è uno dei frutti della totale, intensa collaborazione artistica che legò per una quindicina d'anni due cineasti britannici, Emeric Pressburger ( di origine ungherese come tanti protagonisti della storia del cinema mondiale ) e Michael Powell. Se il primo era più propriamente tagliato per le sceneggiature dei film firmati poi come registi da entrambi, il secondo aveva uno spiccato talento visivo che mostrò anche da solo, prima e dopo il periodo di sodalizio con l'amico. Convinti propugnatori di un cinema " totale "- che riunisse il meglio della fotografia e della tecnica delle immagini in movimento, della scenografia e della pittura, della danza e della musica, considerati essenziali e alla pari -  Powell e Pressburger girarono insieme una dozzina di film di valore ineguale ma tutti illuminati dal loro stile, dalla grazia e dalla intelligenza che essi  profusero a larghe mani. " Scarpette rosse ", che è del 1948, è concettualmente meno ambizioso, forse , di altre loro creazioni. Ma certo è di una assoluta perfezione e di una totale coerenza contenutistica e formale. Ispirandosi ad una fiaba di Hans Christian Andersen , ampliata e rivissuta in chiave contemporanea, ha come personaggio principale una giovane ballerina di grande ma ancora inespresso talento che , scoperta e valorizzata da un esigentissimo impresario che vive solo per l'arte,  è indotta a barattare la sua autonomia ed i suoi sentimenti con quel successo che finirà col travolgere la sua stessa esistenza. E che  trascinerà  via con sè anche l'amore tra lei ed il giovane  musicista e compositore che, egoisticamente infatuato a sua volta della propria arte e della propria carriera, aveva in fondo contribuito così al naufragio della parabola  umana di entrambi. Un triangolo non necessariamente di significato erotico in ognuno dei rapporti che legano i personaggi tra di loro. Ma indubbiamente basato  ( specie nei due personaggi maschili ) su di una comune visione egocentica e dionisiaca della  propria realizzazione professionale, incompatibile in definitiva con qualunque genuino e costante scambio d'amore con gli altri fondato sul concetto di "dono". Una storia altamente drammatica ma ,conformemente allo stile dei due registi, circonfusa egualmente di grande bellezza , eleganza, equilibrio tra momenti più  o meno sereni, umorismo ed armonia dell'insieme. Qualità che emergono spiccatamente, all'interno del film,  nella lunga sequenza del balletto dal titolo appunto di " Scarpette rosse ", messo in scena dall'impresario e danzato dalla giovane ballerina che vi trova la sua prima, smagliante consacrazione artistica. Una sequenza da applausi a scena aperta per l'inventiva, lo splendore visivo, la fruttuosa partecipazione collettiva di tutti coloro che vi hanno contribuito.Ed oltre alla performance della ballerina, la giovanissima Moira Shearer alla sua prima importante prova cinematografica, metterà conto di citare almeno lo scenografo Hein Heckroth, inventore delle frequenti " aperture " della ribalta del teatro dove si suppone venga messo in scena il balletto in meravigliosi e sempre sorprendenti scenari fantastici in cui, quasi per magia , viene di colpo trasportata l'azione scenica . E come non concedere una menzione d'onore ancora al direttore della fotografia , il grande Jack Cardiff, che ci regala un technicolor dalle raffinate tinte pastello , ricche di chiaroscuri come se si trattasse di un bianco e nero e non di un film a colori. Regia, interpretazione, scenografia , fotografia , tutte contribuiscono ad offrirci uno spettacolo raffinatissimo, di grande classe. Ma, soprattutto queste componenti sono sempre perfettamente sincroniche all'atmosfera della vicenda , ai significati che i due sceneggiatori-registi intendono infondervi. Una simbiosi di forma e di contenuto quale rare volte è stata realizzata al cinema.E non mi sembra poco.

Diverso lo stile e le ambizioni del regista USA King Vidor nel girare la trasposizione del romanzo di grande successo " The Fountainhead "( letteralmente " La sorgente ", conosciuto da noi, al pari del film, con il titolo " La fonte meravigliosa " ).Scritto nel 1946 da Ayn Rand , una russa naturalizzata americana, già autrice dieci anni prima del forte romanzo antisovietico " We the living " da cui nell' Italia del 1941-42 erano stati tratti due straordinari melodrammi,  "Noi vivi " e " Addio Kyra ! ", il libro era popolarissimo negli Stati Uniti per la personalità dell'autrice e per le teorie individualistiche da essa propugnate. Ed anche Vidor dovette restare affascinato dal personaggio principale, l'architetto dalle idee rivoluzionarie Howard Roark (liberamente ispirato alla figura del grande Frank Lloyd Wright ) che sentiva in qualche modo vicino al suo credo artistico teso in quel momento alla valorizzazione del creatore , del demiurgo , così nel cinema come nelle professioni liberali e negli affari. I produttori , come era normale ad Hollywood a quei tempi, per quanto convinti che egli fosse il regista adatto a trasferire il romanzo sullo schermo, non gli concessero dopo l'assoluto dominio del suo lavoro. Salvarono per motivi commerciali intere sequenze e soprattutto inquadrature di sapore marcatamente erotico che Vidor avrebbe voluto togliere in sede di montaggio e pretesero da lui un lieto fine con il definitivo trionfo del travagliato rapporto tra il protagonista ( interpretato da un carismatico Gary Cooper ) e la donna amata ( una Patricia Neal in versione "vamp ", al suo quasi esordio ). Occorre dire che almeno quella volta i produttori videro giusto. L'esplicita reciproca attrazione carnale tra i due personaggi principali risulta tra le cose figurativamente più belle dell'intero film e la sequenza finale che vede Patricia Neal salire letteralmente in cielo per ricongiungersi a Gary Cooper ( percorrendo con un montacarichi esterno la vertiginosa altezza del grattacielo costruito da Roark , il quale l'attende alla sommità in atteggiamento di trionfatore ) è esagerata ma di sublime bellezza. Anche in " La fonte meravigliosa " il conflitto tra fuoco della creazione artistica, esaltazione dell'individuo che osa e produce, e la vita ordinaria, i sentimenti "borghesi " è portato al parossismo, come già in " Scarpette rosse " . E vi è anche qui un triangolo, certamente più esplicitamente erotico, tra l'architetto, la donna amata ed il ricchissimo magnate, egualmente preso di sé e della sua opera , che salverà l'architetto dalla catastrofe professionale ma gli toglierà la donna amata. Niente atmosfere leggere, fantasiose, ricche di ironia come in " Scarpette rosse " ( qui predomina il melodramma ed in certi punti quasi la tragedia greca ). Ma l'analoga sorprendente lotta tra l'individualità tesa nel suo sforzo creatore e le lusinghe di un mondo convenzionale e " normale ", che ripropone il tema sempre attuale della difficoltà per l'essere umano volto alla realizzazione di un progetto totalizzante di entrare in convinta, armoniosa simbiosi con l'ambiente circostante, gli altri esseri umani, il mondo.                                                                                                                                            "La fonte meravigliosa " può apparire come un film " reazionario " per il suo assunto un po' troppo intellettualistico ed elitario in cui rischiava di confinarlo il romanzo di Ayn Rand da cui prende le mosse. E, forse anche per questo, non è particolarmente amato da una certa critica, specie quella francese collocata più a sinistra. Ma fermarsi al suo tema centrale, pur svolto con grande onestà e coerenza stilistica da un Vidor  nella sua fase più  individualistica e "ribelle" ( si pensi al coevo " Peccato " e, andando indietro, a " Duello al sole"   e , pochi anni dopo, a " Ruby Gentry " ) significherebbe farsi sfuggire i valori plastici del film, il superbo ritmo narrativo ricco di  brillanti ellissi , i movimenti di macchina audaci ma sempre giustificati dal " partito preso " ideologico-stilistico del regista, l'impressione infine per lo spettatore di una creazione a tutto tondo tesa a raggiungere valori estetici di inusitato splendore. Che dire della fotografia  ? Opera di Robert Burks, il direttore più amato da Hitchcock che gli affidò ben dodici film, è un rutilante bianco e nero  a tratti ricchissimo di drammatici contrasti, ma anche di morbidi sapientissimi toni, che accentua quell'atmosfera barocca e genialmente " sopra le righe " che è in tutte le opere di Vidor di quel periodo.  In definitiva, anche qui grandissimo cinema.Un genere con cui, in quegli anni, non era infrequente un felice incontro.













lunedì 13 luglio 2020

" MATTHIAS ET MAXIME " di Xavier Dolan ( Canada, 2019 )

Dopo il mezzo insuccesso di " Juste la fin du monde " ,  con attori e tecnici francesi, seguito dall'incolore " La mia vita con Joe Donovan " , girato negli Stati Uniti ed interamente in inglese, Xavier Dolan , l'ex " enfant prodige " del cinema quebecchese, superati ormai i trent'anni, è tornato a casa. Ed a casa , in quella Montréal dove si muove decisamente meglio che sotto altri cieli, altri accenti, altre prospettive,  ha ritrovato quell'ispirazione che, dopo il trionfo di "Mommy" che è di cinque anni prima,  sembrava insidiosamente appannata. Non fossero altri e maggiori i suoi meriti,in fondo la buona notizia che ci porta questo " Matthias et Maxime " è già questa. Dolan ha felicemente riannodato i fili che sembravano spezzati con il proprio retroterra culturale, il proprio passato, i propri fantasmi privati che gli dettano quelle immagini travolgenti, quella plasticità, quel  continuo movimento sottotraccia che fanno del suo cinema una festa per gli occhi e riscaldano la mente ed il cuore dello spettatore.

E per non farsi mancare nulla e celebrare degnamente il rientro alla base, il suo ultimo film è una intelligente ed emotivamente ricca rivisitazione di tutti i temi che costituiscono il  suo mondo interiore e corroborano costantemente l'assunto estetico che persegue la sua opera.  Potremmo definire i percorsi psicologico-emotivi, spesso tortuosi , dei suoi personaggi ed i tratti visivi che contraddistinguono il cinema di Dolan come una armonia( o disarmonia, se si preferisce ) degli opposti. Tante sono le contraddizioni,  anche di narrazione e di stile, che abitano i suoi film. Ma che, occorre dire, proprio la  visione di questi ultimi consente man mano di ricomporre ad unità. C'è uno scambio di battute all'inizio di " Matthias et Maxime " che mi pare al riguardo illuminante. Sentiamo infatti una  giovanissima amica di Maxime, incaricata dalla propria scuola di girare con una telecamerina e  in un minuto ( ! ) il tema degli opposti in natura - e già qui traspaiono gli abituali interessi di Dolan - affermare con baldanza che il suo film sarà " impressionista ed espressionista " al tempo stesso. " Ma questo è impossibile, si tratta di una contraddizione in termini " ribatte sornionamente lo stesso Dolan, che impersona Maxime. Sapendo bene  che proprio il suo cinema, che a volte sembra una tavolozza estremamente mossa e leggera, ricca di colori, "impressionistico " appunto, è poi anche solidamente costruito attorno ad un impianto drammatico, anzi melodrammatico che consente di esporre con vigore, dilatandoli, passioni, avversioni ed amori.

Luogo di elezione di opposizioni e contrasti, ora lievi ora forti, è in quest'ultimo film  il mondo dei giovani che- una volta di più - ne costituisce l'ambientazione, il "milieu ". Non più adolescenti o giovanissimi ma non ancora emotivamente e professionalmente " realizzati ", questi tardoventenni o neotrentenni che ne sono  i protagonisti sono essi stessi, d'altra parte, viventi contraddizioni : cresciuti in un relativo benessere, deresponsabilizzati spesso da genitori indulgenti, faticano a trovare, anche se lo vorrebbero, un punto fermo che ne favorisca la maturazione. Quando, come nel caso invece di uno dei due protagonisti, il più popolaresco Maxime contrapposto al più borghese e fortunato  Matthias , non siano costretti a guadagnarsi duramente da vivere e sognino. inquieti, di solcare cieli più clementi anche se lontani.  E sarà proprio la preparazione della partenza di Maxime per l' Australia dove spera di trovare fortuna ( e non c'è maggiore  opposto  geoclimatico del Canada di quella terra)  il motore della vicenda. Vicenda che ruota, come suggerisce il titolo, intorno ai rapporti tra i  due giovani.  Amici per la pelle da quando erano bambini ,essi si stanno in realtà allontanando per  i dubbi sulla propria identità sessuale che nutre Matthias  sentendo di essere fisicamente attratto da Maxime. Diversità, contraddizioni, oscillazioni nelle proprie inclinazioni, una volta di più. Al pari di tanti altri temi o semplici notazioni, cari  da sempre a Dolan, che si ritrovano anche in questo film e che ruotano intorno allo stesso concetto. Che è poi una semplice verità. Bianco e nero, diritto e rovescio, giusto e sbagliato, raramente si trovano allo stato puro. Più spesso li scorgiamo miscelati tra di loro o addirittura inestricabilmente legati. Prendete il clima del Québec (il film è ambientato  nel primo autunno).Esplosione di colori, fogliame giallo oro o rosso infuocato, certi giorni si può ancora andare a nuotare al lago. E poi d' improvviso una ventata d'aria gelida annuncia inesorabile le prime avvisaglie del grande freddo. Così, intimamente miscelati nella società quebecchese la tradizione e la persistenza francofona ( una francofonia antiquata come lessico e pronuncia ) con la modernità e la tecnica che battono prevalentemente bandiera anglofona.  Ma anche la tradizione e la fedeltà linguistico-culturale oggi sono in  via di progressiva erosione sotto l'influenza crescente angloamericana; senza, peraltro, che tutta la popolazione, e non solo quella più evoluta, sia ancora in grado di esprimersi fluentemente nella lingua del proprio storico vincitore.

 Vario, composito, scritto e diretto da Dolan in poche settimane con  attori giovani che sono anche suoi amici e qualche attore più smaliziato che compare in ogni suo film ( Anne Dorval, madre abituale, polo opposto ma come tale ineliminabile per il " figlio " Xavier ), " Matthias et Maxime " è stato accolto maluccio al Festival di Cannes dello scorso anno e poi, quando è uscito in sala, massacrato dalla critica francese che lo ha tacciato di " frettoloso " e di "ripetitivo", Accuse ingiuste se si pensa che non è certo una colpa essere rapidi nella concezione e nella realizzazione di un film : l'importante è il risultato che qui, proprio dal punto di visto tecnico-formale è quanto mai soddisfacente.  Quanto al tornare sugli stessi temi non vedo certo come potrebbe essere una colpa : come dire che De Sica, dopo  " Ladri di biciclette ", invece di " Miracolo a Milano " ed " Umberto D " avrebbe fatto meglio, poniamo, a girare un musical ambientato nell'alta società. Figurativamente splendido, curatissimo, sapiente nell'alternanza di stili, il film appare nondimeno sincero ed ispirato, e segna un nuovo gradino nella indagine che Dolan conduce ormai da dieci anni ( e ben otto film ) sulle ambiguità, le reticenze, le ansie e i timori della nostra epoca. Epoca- almeno prima del coronavirus- cosmopolita, movimentata ed apparentemente spregiudicata. Ma anche spesso sfuggente, piena di miserie, di "non detti ", di tante piccole viltà.  Insomma, una materia cinematograficamente perfetta.





domenica 21 giugno 2020

" CATTIVE ACQUE " di Todd Haynes ( USA, 2020 )

L'altro ieri, 19 giugno, hanno riaperto finalmente alcuni cinema di Milano. Dopo quattro mesi esatti di astinenza forzata dal grande schermo ( ultimo film , " Les Misérables " , visto a Parigi il 20 febbraio u.s. ) ho rimesso piede in una sala. Non importa che, al primo spettacolo, fossimo solo  in due persone: io e una signora con cui, considerato che era seduta lontanissimo, al lato opposto del mio, in stretto omaggio a quella perfida invenzione che va sotto il nome di "distanziamento sociale ", non sono riuscito a scambiare neanche un  piccolo sorriso di incoraggiamento. E' stato sufficiente che allo scoccare esatto delle 15.30, dopo nemmeno un minuto di introduzione pubblicitaria, sul gigantesco schermo  di " City Life ", apparissero i titoli di testa del film che avevo scelto di vedere perchè avvertissi un sottile brivido lungo il filo della schiena. Lo stesso che devo aver provato la prima volta in cui, bambino di cinque o sei anni, entrai in una sala cinematografica e vidi danzare sul telone le prime ombre che di lì in avanti, per svariati decenni,  avrebbero abitato i miei sogni, le mie emozioni ed i miei desideri.
 Amico cinema, per tanto tempo abbiamo dovuto rimanere lontani, tu ed io. Costretto ad una dieta di peraltro pregevoli DVD sul televisore di casa, mi sei terribilmente mancato. Mi è mancato  vestirmi ed uscire di casa  per frequentare i luoghi dove ti puoi mostrare nello splendore delle tue giuste, ampie dimensioni. Mi è mancato il buio e la quiete che propiziano la totale immersione nelle immagini che mi offri. Mi è mancato quel fascino che eserciti specialmente quando puoi  apparire al mio sguardo, ai miei sensi, come se fossi una sorta di incantesimo trasfuso in me, solo per me,ad opera di tutti coloro che hanno contribuito a crearti: produttori, registi, sceneggiatori, interpreti, direttori della fotografia, autori delle musiche. Fino all'ultimo degli artigiani e dei tecnici che hanno reso possibile quello che per me rimane ancora il più bello spettacolo del mondo.  

" Cattive acque " ( " Dark Waters " in originale ) era uscito in realtà  in Italia il 26 febbraio scorso. Ma pochi giorni dopo i cinematografi erano stati chiusi d'imperio e penso che praticamente non sia riuscito, allora, a vederlo quasi nessuno.Bene hanno fatto dunque i distributori a riproporlo anche se, occorre riconoscerlo, la terza decade di giugno con lo scoppio dell'estate e una pungente voglia di aria aperta e di vacanze , rischia di penalizzarlo un'altra volta. E sarebbe un peccato. Non un capolavoro, non un film che ti prenda alloa bocca dello stomaco e non ti lasci un solo istante, è pur tuttavia un film di ottima fattura, che si lascia seguire con interesse e con piacere, diretto da un regista intelligente ed interpretato da un attore di valore , anche se da noi ancora poco noto.
 Unica pecca, debbo dire con rammarico, un doppiaggio italiano tra i peggiori dal punto di vista tecnico che io  ricordi negli ultimi anni ( sovente non vi è sincronia tra la voce del doppiatore e il labiale dell'attore doppiato ). E poi le voci ( che una volta, al tempo dei Paolo Ferrari, Oreste Lionello e delle Andreina Pagnani, Adriana Asti e via enumerando, erano meravigliose ed aderenti ai singoli interpreti sullo schermo ) sono qui di una banalità e di una sciatteria recitativa davvero sconfortanti. Speriamo di tornare presto alle versioni originali sottotitolate, unico modo di gustare il cinema anche nella sua autentica dimensione sonora.
Il film lo si potrebbe definire, per darvene sinteticamente un'idea, un " thriller " ecologico o, più prosaicamente, un film di denuncia delle malefatte ambientali e a carico della salute dei cittadini imputabili all'industria chimica americana, nella fattispecie ad un colosso come "Dupont " che produce materiali e sostanze destinati ad entrare nella fabbricazione di un bel pò dei prodotti di cui la nostra civiltà non sa più fare a meno. Produzione in qualche caso più che disinvolta, senza particolari scrupoli per i possibili danni per il benessere fisico dei consumatori finali e assai poco attenta allo smaltimento di pericolosi rifiuti tossici. Ispirandosi ad un recente articolo del " New York Times " che ripercorreva le fasi della ventennale lotta di un coraggioso avvocato di Cincinnati, Rob Bilott , per risalire da alcuni casi di gravi malattie riscontrate in una comunità rurale della West Virginia alle responsabilità della Dupont che aveva da poco commercializzato il " Teflon ", un materiale molto resistente impiegato, ad esempio, per il fondo delle padelle di cottura del cibo, " Cattive acque " si riannoda a tutto un onorevole filone del cinema americano. Quello  che racconta l'impegno civile in difesa dei piccoli, dei deboli, nei confronti della grande impresa. Impresa che- nessuno lo nega e meno che mai questo film - ha senza dubbio grandi meriti sociali nel creare lavoro e produrre beni di qualche utilità. Ma ha quasi sempre molta riluttanza nell'ammettere le proprie manchevolezze ed accettarne le giuste conseguenze. 

La società americana, nel suo complesso, non è certo priva di difetti. E so che ad alcuni di noi europei proprio non riesce ad andar giù per motivi politico-ideologici. Ecco perchè, in tempi in cui quello che Revel chiamava l'antiamericanismo " primario " , complice l'avversione per Trump e gli scontri tra la polizia e la comunità di colore, rialza pericolosamente la testa, sono felice che questo piccolo film  ci restituisca l'immagine dell' America migliore. Quella, per intenderci , che abbiamo imparato ad amare nei film di Frank Capra e di John Ford: il combattimento di cittadini coraggiosi che credono nella verità e nella giustizia, disposti a mettersi in gioco anche contro coloro che, economicamente e politicamente, appaiono i più forti. Spesso, va anche riconosciuto, grazie all'ausilio di media altrettanto coraggiosi, di una giustizia che funziona e di tante brave persone che sanno riconoscere dove è il bene e dove è il male.
Ma il film, diversamente da quel che si potrebbe temere stanti le premesse, è tutt'altro che retorico. Certo, rimane una opera " su ordinazione ", nel senso che è stato commissionato al regista, il talentuoso Todd Haynes ( " Lontano dal Paradiso " , " Carol " ) dal produttore, il quale nella circostanza non è altri che l'attore Mark Ruffalo ( ecco un bel nome ad assonanza di casa nostra ma che da noi pochi conoscono ) desideroso di impersonare Rob Bilott. Ma anche se lontano dai temi più psicologico-intimistici propri del cinema di Haynes,  " Cattive acque " ne preserva il tocco felpato, l'" understatement ", quasi l'impressione che, sullo schermo,  si stia parlando d'altro, che  gli sono tipici e che danno alle sue opere il dono della levità del trattamento senza nulla togliere alla serietà dei propositi estetico-narrativi. Regista " elusivo ", nel senso che tende, come è visibile nelle inquadrature, a contornare i momenti chiave delle proprie storie, a non abbordarli frontalmente  pur conferendo ad essi la giusta emozione, il dovuto risalto, le forme cui dà vita sullo schermo  non hanno mai un' enfasi che rischi di travolgere i personaggi ed i loro antagonisti. Gli uni e gli altri  hanno, difatti, quasi una sorta di artistico " diritto di cittadinanza " che supera le ragioni morali buone o cattive , pur evidenti, che dirigono le loro traiettorie.
Mark Ruffalo,qui una sorta di anti-eroe, sovrappeso, lento nei movimenti, incerto sulle sue possibilità di successo,dà al personaggio dell'avvocato uno spessore e una risonanza  perfettamente in linea con la regia e con la storia come è raccontata. Vent'anni, per arrivare ai primi accertamenti di responsabilità della Dupont ed ai conseguenti indennizzi milionari alle vittime, può sembrare un tempo molto lungo.  Ma il film ci mostra come l'apparente tortuosità con cui si perviene allo scioglimento della vicenda nasconda in realtà un percorso di autentica crescita del protagonista e dei suoi familiari. La vittoria non è mai intestata ad una sola persona, ma  scaturisce da un vero sforzo collettivo. Emblematico per un ritorno al cinema dopo tanti mesi di assenza, non vi pare ?

mercoledì 27 maggio 2020

1960: "Annus mirabilis" del cinema italiano ( " LA DOLCE VITA " di Federico Fellini / " ROCCO E I SUOI FRATELLI " di Luchino Visconti / " L'AVVENTURA " di Michelangelo Antonioni

Ci sono momenti nella storia del cinema ( storia ancora recente, ben viva nel ricordo ) in cui, non so per quale fortunata congiuntura astrale o più semplicemente per la ricchezza di talenti in circolazione, si sono creati in poco , pochissimo tempo e in un solo paese, autentici capolavori quali oggi si fa  assai fatica a vederne nella stessa quantità. Ed è così che il cinema italiano tra la fine degli anni '50 del secolo scorso e la prima metà del decennio successivo, dunque in un arco di soli  dieci anni, ha sfornato tanti di quei bellissimi film quanti, in altri contesti territoriali e non dei minori quali ad esempio la Germania o la Russia,  non è bastato il novantennio che intercorre dall'inizio del  sonoro ad oggi per farne di altrettanto validi. Merito, probabilmente, di una industria di settore che da noi, nell'epoca del " boom ", aveva raggiunto l'apice della capacità artistica e produttiva, sostenuta da un cospicuo stuolo di produttori, registi , sceneggiatori, personale tecnico, tutti di comprovata ambizione e bravura ed infine da un manipolo di attori famosi in tutto il mondo. Ed anche, perchè no,  frutto di una temperie politica e culturale sufficientemente libera, ricca e vivace, che stimolava a dovere i migliori talenti e li spingeva a dedicarsi al cinema quale forma d'arte maggiormente idonea a rappresentare sentimenti, vicissitudini e problemi dell'uomo contemporaneo.
Il 1960, l'anno che qui ci interessa, è caratterizzato statisticamente più di tutti da belle opere  tuttora validissime. Basta sfogliare un catalogo o una storia della nostra cinematografia per trovarne almeno 15-20 tra quelle presentate allora che rimangono ancora oggi vive  nel ricordo, avendo contribuito a dare  un sapore particolare ad una stagione particolarmente intensa dal punto di vista dell'evoluzione  della società italiana. E' l'anno, come sappiamo, delle Olimpiadi ( definitiva consacrazione logistico-organizzativa di un' Italia risorta dalle ceneri della guerra ) delle prime spensierate vacanze di massa propiziate da un rapido incremento del benessere, della crescita dell'immigrazione interna e della tumultuosa espansione delle attività industriali e commerciali. Anno in cui si pubblicano libri di successo, si compongono motivi musicali indimenticabili ( ricordate " Il cielo in una stanza " ? ) il nostro " design " conquista il mondo,  poi la moda e la gastronomia, il " saper vivere " italiano, incominciano ad imporsi nei confronti di paesi che ne erano stati fin qui leader incontrastati.
Tre grandi, anzi grandissimi uomini di cinema ( chiamarli solo " registi " sembra quasi riduttivo ) e cioè, in ordine di anzianità, Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni e Federico Fellini, ci dettero proprio quell'anno tre indiscussi capolavori. Anzi, aggiungerei che ognuno di essi raggiunse allora il miglior risultato della sua carriera, non ritrovando poi più, se non in parte, momenti creativi altrettanto forti e convincenti. "Miracolo" anche questo, o forse semplice coincidenza. Fatto sta che quei tre film segnano davvero un'epoca particolarmente fortunata per il nostro cinema e meritano dunque, in anni di vacche decisamente magre come questi che stiamo attraversando, che su di essi si torni sia pure brevemente.


Il posto d'onore, tra questi tre film del 1960, va riservato senza dubbio a " La dolce vita " di Federico Fellini. Innanzitutto perché è stato,  quell'anno, il primo in ordine di tempo ad essere mostrato al pubblico ( ai primi di febbraio, al " Fiamma " di Roma con esito trionfale e al " Capitol " di Milano tra accoglienze iniziali tempestose e successivo strepitoso esito). E poi perché è quello che ha avuto il maggiore successo anche all'estero,  contribuendo ad arricchire il mito di un' Italia fantasiosa, godereccia ed anche un pò cialtrona che agli stranieri in fondo piace tanto : vincitore a Cannes nel giugno successivo, quella " Palma d'oro " è stata, oltre che il suggello di una approvazione critica pressoché unanime, anche l'atteso omaggio ad un innegabile, clamoroso " fatto di costume ". Fatto di costume che da noi, va pure ricordato, ha contribuito ad ampliare i margini del consentito, al cinema e non solo, nella raffigurazione di una società che, già di per sé, camminava sempre più velocemente.
Poiché credo che, tra giovani e meno giovani, non rimanga più nessuno che non lo abbia visto ritengo superfluo tentare di descriverne la trama. Che poi vera trama non c'è. E qui sta il fatto modernissimo che rappresenta un vero e proprio salto concettuale nel concepire lo strumento cinema. Non più " racconto " , sia pure per immagini, di una vicenda  temporalmente definita e dallo svolgimento lineare (dal punto "a" al punto "b" ). Ma ingegnosa giustapposizione di sequenze , di frammenti apparentemente slegati e tenuti insieme solo dai due indiscussi protagonisti del film : il piccolo cronista mondano Marcello-   un Mastroianni che non tornerà mai più così grande -   irrimediabilmente diviso tra una vita intensa ancorché vacua ed insoddisfacente ed un anelito di spiritualità disordinato e vacillante ; Roma, la " grande prostituta ", la città meravigliosa e cinica in cui tutto può accadere ma dove tutto finisce col perdere consistenza e lasciarci con una sensazione di amaro in bocca. Un gigantesco " patchwork " multicolore (  girato in un austero, splendido bianco e nero ) un potente bassorilievo,  quasi una sorta di medioevale " mistero " fatto di tante formelle con altrettanti singoli episodi che trovano tutti insieme, mano mano, la loro ragion d'essere, la loro logica unitaria, nella descrizione di un caos apparente che è poi la "cifra " stessa della nostra progressiva decadenza. Fino alla sequenza finale, sulla spiaggia di Fregene, con la comparsa di quell'enorme mostruoso pesce che simboleggia tutte le brutture che sono dentro e fuori di noi, lo sguardo sperduto di un Marcello sempre più esausto dalla fatica di vivere ed il meraviglioso sorriso ( una speranza di redenzione ) della quindicenne Valeria Ciangottini che, ultima inquadratura, chiude emblematicamente il film . Da brividi.

Parente stretto , in un certo senso, de " La dolce vita " per il suo programmatico antirealismo e le preoccupazioni etico-spirituali chiaramente sottese, sempre al Festival di Cannes venne presentato quell'anno un altro capolavoro del cinema italiano, " L'avventura " di Michelangelo Antonioni. Il film, distribuito nelle sale solo nell'autunno successivo, divise la critica e, soprattutto, non fu un grande successo di pubblico, probabilmente stanco per le due ore e venti di andirivieni, senza una trama lineare e pochi dialoghi, dei due personaggi principali.  Premiato con il riconoscimento speciale della giuria, che ne colse per fortuna tutto il valore artistico, ha avuto una carriera negli anni piuttosto difficile e non credo, alla fine, che lo abbiano visto in molti. L'" alienazione ",il senso di estraneità nei confronti della realtà che avvertono i personaggi e l'" incomunicabilità " dei loro sentimenti e stati d'animo ( altra parola chiave del cinema del regista ferrarese che caratterizzò almeno  tre dei suoi film successivi  ) divennero poi una sorta di tormentone estetico-lessicale che non  favorì certo il successo commerciale  della sua intera opera, almeno sino a " Blow Up " ( 1967 ) che si impose invece perchè colse bene l'aria dei tempi e divenne di moda.
Eppure " L'avventura ", a rivederlo oggi senza pregiudizi, si rivela uno dei film più importanti della nostra cinematografia ed uno di quelli che , con " Fino all'ultimo respiro " di Jean Luc Godard, che è dello stesso 1960, ha addirittura cambiato il modo di fare cinema, di esprimersi con la macchina da presa. Antonioni vi arrivò dopo una serie di quattro- cinque film in cui superò coraggiosamente l'ingombrante eredità del neorealismo e diede vita a personaggi e storie che scavavano molto più a fondo nella natura umana e nel difficile rapporto tra individuo e ambiente e gli individui tra di loro. Raccogliendo l'intuizione del Rossellini di " Viaggio in Italia "( 1954 ) che già aveva messo i suoi personaggi di fronte ad una  dolorosa autoanalisi, con " Le amiche " ( 1955 ) e soprattutto " Il grido " (1957 ) Antonioni era pervenuto a darci dei ritratti egualmente appassionanti della condizione umana. Con " L'avventura " la ricerca andò ancora più avanti, approdando a risultati  molto convincenti per la spiritualità che emana dall'intero film ( prossima a quella di un Bresson o di un Bergman) e la perfetta resa estetica. Girato in gran parte in esterni, nel contesto scabro e maestoso delle Isole Eolie e delle chiese barocche delle cittadine della  Sicilia sud-orientale, le immagini del film - spesso contraddistinte da un bianco accecante, angoscioso nella sua programmatica nudità - sono di una forza eccezionale e corrispondono perfettamente all'atmosfera della vicenda e allo scavo interiore dei personaggi. Ecco così che una vicenda apparentemente banale ( durante una crociera una ragazza scompare misteriosamente e l'amante e l' amica si mettono alla sua ricerca intrecciando tra di loro una tormentata relazione amorosa ) assurge a specchio della nostra quotidiana difficoltà di vivere, di scambiare le nostre sensazioni più profonde , di confrontarci proficuamente con la realtà che ci circonda. Alla fine, l'unica salvezza,per quanto precaria, sembra essere in una sorta di " pietas " che ognuno di noi finisce con l'avvertire per sé stesso e per gli altri.
Grande regia ( Antonioni conosce perfettamente come valorizzare le sue inquadrature ) bellissima fotografia, musica molto suggestiva , gli interpreti non sono da meno. Gabriele Ferzetti ci dà una delle sue prove più convincenti e Monica Vitti si rivelò qui come una delle nostre migliori attrici di sempre. Altri tempi, verrebbe fatto di osservare.

A chiudere idealmente la trilogia dei grandissimi film del 1960, uscito nelle sale nell'ottobre  di quell'anno, " Rocco e i suoi fratelli " di Luchino Visconti. Presentato  alla Mostra di Venezia, ebbe ..mezzo Leone d'oro ( " ex aequo " con il decoroso e dimenticatissimo  "Passaggio del Reno " di André Cayatte , più per motivi politici che di autentica equipollenza artistica ) ma raggiunse subito, da noi, un grande  e meritatissimo successo critico e di pubblico. All'estero forse fu apprezzato in misura minore ma occorre dire che si trattava di una storia che parlava soprattutto agli italiani, ancorché di potenziale portata universale. Mai al cinema, infatti, il dramma dell'immigrazione interna che , in quegli anni, aveva trasferito nelle grandi città del Nord centinaia di migliaia di abitanti del nostro Mezzogiorno ed il tumultuoso  e vitalissimo amalgama che ne era scaturito avevano trovato al cinema descrizione più poeticamente veritiera di quella di Visconti. Film condotto secondo i canoni del naturalismo caro al regista milanese, era in realtà soprattutto un grande melodramma, una sorta di " Carmen " all'ombra della Madonnina cui mancavano solo la partitura musicale e le romanze. Del resto Visconti, si sa , è stato al cinema un regista spesso " teatrale " e quindi molto meno realistico di quanto programmaticamente non si proponesse di essere. E, per converso, talune sue regie teatrali ( si pensi a  quella di " Uno sguardo dal ponte" di Miller, che è del 1958 ) risultarono , per moduli espressivi e suggestioni di scena, tra le più sorprendentemente cinematografiche.
La vicenda di Rocco  ( interpretato da un giovanissimo Alain Delon  ) e della sua famiglia ( la madre-matriarca, impersonata dalla grande attrice greca Katina Paxinou ed i quattro fratelli tra cui spicca l'avido, indolente, temperamentale Simone interpretato da Renato Salvatori ) incomincia con il loro arrivo, da poveri emigranti lucani, alla Stazione centrale di Milano : sequenza scarna, tutta in chiaroscuro, magica nel primo contatto tra i " cafoni " e le luci della grande città. Prosegue poi con il racconto della loro  lenta ascesa sociale grazie al mondo della " boxe " e riceve una prima, insidiosa impennata con le prime tentazioni del benessere e la comparsa del personaggio della  prostituta Nadia ( una grande Annie Girardot,  lussuosamente doppiata da Valentina Fortunato ) che condurrà alla progressiva disgregazione dell'unità familiare e al tragico epilogo. Vicenda dura, impietosa, attraversata da cento suggestioni letterarie e atteggiata senza molta convinzione in forma di apologo politico  ( gli umili, corrotti dal vizio borghese, che troveranno in prospettiva il loro riscatto ) da un Visconti molto più interessato in verità all'estetica decadente insita nei suoi personaggi che alla morale ( forse più piccolo borghese che proletaria ) che si può ricavare dalla vicenda. Messa in scena ( giusto definirla così, più che con il termine " regia " ) sontuosa, con movimenti di macchina, ad esempio la carrellata notturna nella stanza del seminterrato dove dormono i quattro fratelli, sempre espressivi nella loro contenuta misura,  e con assai belle sequenze di violenza : i combattimenti pugilistici, l'aggressione di Rocco ad opera di Simone, l'uccisione di Nadia all' Idroscalo con quelle braccia di lei che si aprono a croce nell'accogliere la morte liberatrice. Grande, livida atmosfera di una Milano ancora nebbiosa ed industriale , descritta con complicità ed affetto. Confesso che , ogni volta che rivedo il film, non posso  fare a meno di commuovermi . Per la storia così dura e crudele, certamente. Ma anche perchè Visconti si conferma un autentico mago, nelle cui mani tutto riluce. Correva l'anno 1960, i nostri grandi registi erano tutti in perfetta salute ed il cinema italiano ancora inconsapevole di quanto, non molti anni dopo, gli sarebbe successo.



venerdì 8 maggio 2020

" IL FANTASMA E LA SIGNORA MUIR " ( USA, 1947 ) / " " LA GENTE MORMORA " ( USA, 1951 ) entrambi di Joseph Leo Mankiewicz

Singolare personalità , quella del regista americano Joseph Leo Mankiewicz ( 1909 - 1993 ). Ricordato paradossalmente più per il suo film meno riuscito ( il gigantesco e fallimentare "Cleopatra " con Elizabeth Taylor, 1963 ) che per i suoi numerosi successi ( tra questi almeno due andrebbero inclusi di pieno diritto tra i migliori cento film realizzati ad Hollywood, " Eva contra Eva "  del 1950 e " La contessa scalza " del 1954) non è stato certo un cineasta privo di contraddizioni. Puro prodotto del sistema delle " major "- aveva seguito tutta la trafila, esordendo come assistente alla  produzione , per passare poi alla sceneggiatura e infine alla regia - è sempre riuscito a  conservare una fama di artista indipendente, incline a fare solo quello che gli piaceva ,senza imposizioni o scelte obbligate. Considerato un intellettuale, anzi un cerebrale ( colto lo era certamente , più di tanti suoi colleghi ) il suo cinema è nondimeno caldo, ricco sovente di umanità e di passione. Ritenuto un maestro della parola ( i  dialoghi dei suoi film  sono spesso assai brillanti ) è tacciato da taluni critici di  verbosità e quindi di scarsa aderenza al mezzo cinematografico, che è sostanzialmente azione e visione, quando non si vuole rischiare di cadere nel teatro filmato. Accusa che ha certamente un minimo di fondamento, specie nelle opere minori e meno personali della ventina che ci ha lasciato. Ma che,colpevolmente, trascura il lato figurativo del suo cinema, la capacità che egli ha di tradurre in immagini stilisticamente perfette le vicende  piene di sottigliezza e di ironia nelle quali pone quasi sempre la sua mano di scrittore inventivo ed acuto. Contraddizioni, se tali poi fossero, che lungi dal rendere i suoi film artisticamente imperfetti li rendono ancora più interessanti e ricchi di sorprese. Prova ne siano due film del suo primo periodo, quello anteriore a quel " The Barefoot Contessa " che lo confermò definitivamente come regista  efficace ed affidabile per le grandi case di produzione.

" Il fantasma e la Signora Muir " ( " The Ghost and Mrs. Muir,  1947 ) scritto da Philip Dunne ma certamente con il concorso dello stesso Mankiewicz, è un film delizioso, romantico, di cui consiglio vivamente la visione e che offre già tutte le caratteristiche del  suo cinema. Lo " "script" è brillante, ricco di dialoghi piacevoli e misurati, i personaggi molto ben tratteggiati. Mrs. Muir è una vedova ancora giovane ed estremamente attraente ( Gene Tierney, oggi ingiustamente dimenticata, aveva due occhi stupendi e una figura molto graziosa ) che decide di lasciare Londra e di andare a vivere con la figlioletta e la governante in una vecchia casa con una splendida vista sul mare. Ma la casa è abitata dal fantasma  del lupo di mare che l'abitava in precedenza, morto ancora  relativamente giovane (un Rex Harrison misurato ed efficace, che Mrs. Muir e noi spettatori vediamo perfettamente come se fosse in carne ed ossa).  Un fantasma geloso della sua antica dimora il quale , falliti i tentativi di spaventare ed allontanare la vedova, ne diventa una sorta di confidente e di premuroso protettore fino al giorno in cui....  ma ritengo sia meglio non raccontare il finale perchè ci regala una bellissima sequenza  (puramente cinematografica, a dispetto dei detrattori di Mankiewicz ) con, al suo interno, una delle più emozionanti, sublimi inquadrature del cinema di tutti i tempi. Arioso, sufficientemente dinamico nei movimenti di macchina da sfatare vittoriosamente il mito di un regista statico e fondamentalmente " teatrale ", il film è di un romanticismo delicato ed autentico ( la Signora Muir " vede " il fantasma e se innamora perché ha un disperato bisogno di confidarsi e di aprirsi con una figura di riferimento che corrisponda al suo elevato ideale ) e lascia nello spettatore un sentimento struggente, ben saldo nel ricordo.

" La gente mormora " ( " People will talk ", 1951 ) è un film altrettanto godibile anche se  in un registro diverso. Se " Mrs. Muir " è romantico ed intimistico, questo è un film che non esiterei a definire umanistico e " civile ", nel senso che descrive, con calore e ricco sentimento umano, atteggiamenti e situazioni suscettibili di avere un impatto su di un'intera collettività. Tutt'altro che " cerebrale " o costruito a tavolino, è stato interamente scritto da Mankiewicz , ancorchè tratto da una commediola senza grande importanza.  Ci si accorge subito, infatti, dello spessore e della forza tranquilla, sostanzialmente autonomi, con cui la vicenda avanza verso il suo finale, prevedibile  certamente ma nondimeno sofferto nell'evidenza con cui il bene trionfa sul male : bene e male che non sono  " esterni " ai personaggi, ma sono dentro di essi come in ognuno di noi, e richiedono quindi il coraggio, civile per l'appunto, di essere identificati e tenuti separati nell'interesse nostro e del gruppo sociale cui apparteniamo. Nella vicenda, ambientata in una cittadina di provincia, di un medico ed insegnante dalle origini alquanto misteriose e su cui " la gente mormora " ( Cary Grant impeccabile e convincente ) costretto ad un " chiarimento " dinnanzi ai  colleghi malevoli ed invidiosi, sostenuto dall'affetto di qualche  raro amico e della moglie ( Jeanne Crain, graziosa ed espressiva ) Mankiewicz ha certamente trasfuso ed allegoricamente tratteggiato la triste vicenda della " commissione per le attività antiamericane " del senatore McCarthy. Quella  per intenderci che, proprio in quegli anni, tormentò più di un cineasta visto con qualche sospetto e non fu certamente una bella pagina per le libertà civili di quel pur grande Paese. Ma, al di là del contesto storico-politico in cui il film è stato girato, quello che conta qui è il nitore anche figurativo con cui la vicenda si dipana, il rilievo dei personaggi, così ricchi di umanità e di caratteristiche complesse, la pulizia formale con cui lo sceneggiatore- regista  mette in scena   sentimenti e comportamenti, fusi in uno stile sorvegliato, fluido ed accattivante. Un film esemplare , una lezione di cinema che, anche in un'opera apparentemente " minore ", ci restituisce la personalità di un autentico autore, che andrebbe oggi adeguatamente rivalutato.

sabato 18 aprile 2020

" SABRINA " (USA,1954 ) e " ARIANNA" ( USA, 1957 ) : DUE COMMEDIE DI BILLY WILDER

Tra i maggiori  registi di Hollywood, ma non sempre riconosciuto come tale mentre era in vita, Billy Wilder emerge, a vent'anni dalla scomparsa ,come uno dei  cinque o  sei dei quali  non ci si stancherebbe mai di rivedere l'intera opera (venticinque lungometraggi in quarant'anni di attività, da " Frutto proibito " del 1941 a " Buddy Buddy " del 1981 ). Rivederla per assaporare proprio cosa significhi la " messa in scena "  al suo meglio: un generoso dispendio  di  inventiva, di intelligenza e di sensibilità, un affettuoso rispetto per i propri personaggi,  la massima onestà verso lo spettatore. Pochi altri autori come Wilder hanno il dono, anche nelle loro cose minori, di non annoiarci  mai e di non ricorrere ai lenocini di una professione che ad essi indulge  quando deve nascondere mancanza di idee e, soprattutto, di cuore. I suoi detrattori, per sminuire queste  qualità,  lo hanno accusato spesso di cinismo e di volgarità dandone per prova il lato "sgradevole " di certe situazioni  presenti a volte nei suoi film e  l'apparente compiacimento con cui queste verrebbero raffigurate. Si citano, in quest'ottica, quelli drammatici ( " Viale del tramonto " o  " L'asso nella manica" )  ma anche certe commedie che, a ben guardare, forse  tanto "leggere" poi non lo sono  ( " L'appartamento ", " Baciami, stupido " ). Niente di più sbagliato. Il fatto è che Wilder non descrive il mondo come vorremmo che fosse, con gli occhiali rosa insomma di un buonismo che tende a celarne gli aspetti negativi, quanto piuttosto quale realmente è,  quindi con l'approccio disincantato e vigile di un sincero moralista. Un moralista libertario e a volte perfino libertino ma sempre profondamente sincero nel dimostrare quanto la causa di molti mali stia nella mancanza di coerenza e nella discrepanza tra il nostro vero "io " e gli infingimenti di cui lo circondiamo. Tutto questo peraltro, specie nelle commedie, non con tono aspro e retorico quanto con tenera malizia e sorridente partecipazione alle peripezie dei personaggi usciti dalla sua fantasia. Un " Wilder touch " che ha preso qualcosa , certamente, da quello del suo maestro Lubitsch, ma che va anche oltre  in fatto di malinconica consapevolezza delle cose, belle e brutte, della vita.

" Sabrina ", dei due film di cui intendiamo parlare, è senza dubbio  il più piacevole. Quello che ebbe, da una parte e dall'altra dell'Atlantico, quando uscì, un enorme successo di pubblico e di fronte al quale anche la critica più prevenuta fu costretta a cedere il passo. Merito di una vicenda divertente e molto ben costruita cui lavorarono lo stesso Wilder, Samuel Taylor che era l'autore della commedia da cui era tratta ed il talentuoso Ernest Lehman che avrebbe firmato, cinque anni dopo,una delle più ingegnose sceneggiature di un film di Hitchcock, "Intrigo internazionale ". E merito anche di un " cast " assolutamente stellare : Audrey Hepburn reduce dai trionfi di quel " Vacanze Romane " che le aveva appena procurato un Oscar, semplicemente deliziosa; William Holden nella spesso abituale parte di un simpatico sciupafemmine che  egli tratteggia con humour e bella presenza ; Humphrey Bogart  infine, sorprendentemente a suo agio in un ruolo " leggero " per lui piuttosto insolito e  che Wilder avrebbe voluto affidare  al più idoneo, sulla carta, Cary Grant ma che questi non accettò. Ma  ciò che corona il tutto è il modo con cui il regista riesce ad infondere nella  semplice storia di una ragazza di umile condizione che riesce a far innamorare di sé due ricchissimi fratelli diversissimi tra di loro  un significato sociale e morale niente affatto peregrino. Una dimensione perfettamente dosata che, nulla togliendo al carattere romantico e al ritmo ben sostenuto del film, gli conferisce uno spessore ed una sottile venatura di malinconia che ne rendono il fascino ancora più solido e duraturo nel tempo.

Decisamente più complesso nella struttura narrativa e nella psicologia dei personaggi,  "Arianna " (  in originale " Love in the afternoon "  ) che è di tre anni successivo a "Sabrina", conferma la capacità del regista di dare esistenza - e consistenza - cinematografica a vicende apparentemente al limite della credibilità.  Storie  alle quali però si finisce col prestar fede fino in fondo, ammaliati dalla eleganza figurativa di immagini mai banali e dalla diabolica abilità di Wilder ( co-autore della sceneggiatura insieme ad " Izzy " Diamond, divenuto da allora in poi suo collaboratore abituale ) di mantenere ritmo e rigore stilistico in una successione di sequenze una più perfetta dell'altra. E tutto questo non tralasciando, come già in Sabrina, di lasciarci al termine della visione  con quel pizzico di malinconia appena velata che le sue storie, leggere e profonde al tempo stesso, racchiudono in ammirevole simbiosi con i momenti più esilaranti. Nella vicenda della giovanissima Arianna,  verginale studentessa di violoncello al conservatorio di Parigi e figlia di un investigatore privato, che incontra il vero amore con uno stagionato, ricchissimo playboy al quale, da principio, fa credere di essere di costumi ben più disinvolti, Wilder ha incluso un apologo sui  molteplici condizionamenti sociali e psicologici che limitano  il nostro io, di una modernissima e  palpitante verità. Gli attori, anche questa volta, lo servono a dovere. Audrey Hepburn ritrova nella filiforme Arianna un personaggio  di grande freschezza, fascino ed eleganza ( costumi di Hubert de Givenchy ! ) che, come già per Sabrina, farà tendenza per un bel pezzo tra le sue coetanee e non solo. Maurice Chevalier, nella parte del padre investigatore,contribuisce a  conferire al film una perfetta " allure " parigina in uno dei suoi migliori ruoli della maturità. Gary Cooper infine, leggermente troppo anziano per il ruolo perchè ancora una volta un  "surrogato " dell'ultimo momento per un Cary Grant che non si decideva mai ad accettare una parte in un film di Wilder , fornisce qui una delle sue ultime e più toccanti interpretazioni. Molte le sequenze memorabili per i tempi " giusti " della commedia wilderiana , in cui ciò che si vede è più importante delle parole che si odono, il finale è uno dei più belli della storia del cinema, con quella lunga carrellata all'indietro di Audrey Hepburn che corre accanto al treno che sta partendo e di Gary Cooper sul predellino della carrozza ferroviaria indeciso sulle sue azioni, sui suoi sentimenti. Lì, mi sento di poter dire, c'è tutto il cuore ma anche tutto il relativismo sentimentale che fanno del cinema di Wilder una delle creazioni artistiche dei nostri tempi di maggiore  finezza ed impatto emotivo.

sabato 28 marzo 2020

" IL CICLO DI ANTOINE DOINEL " di Francois Truffaut ( Francia, 1959/1979 )

Succede quasi sempre che, nel loro primo film, sceneggiatori e registi  ci mettano un po' tutto quello che avrebbero voluto esprimere se, prima di allora, glie ne fosse stata data la possibilità. Pensieri , sentimenti , ricordi ( soprattutto quelli ) tutto ciò che da tempo premeva con urgenza dentro di essi chiedendo di diventare "reale " o almeno veridico una volta inciso nella celluloide. Il primo film , si dice, finisce sempre  col risultare più o meno autobiografico nella misura in cui riflette sia la vita " esterna " dell'autore sia quella che, internamente, si è andata mano a mano costituendo dentro  di lui per impulso del suo cuore e della sua mente. Autobiografia veritiera o idealizzata , dunque, e al tempo stesso catalogo in certo modo delle tante componenti del suo mondo interiore. " Luci del varietà " di Fellini o " I pugni in tasca " di Marco Bellocchio mi paiono, tra i tanti , pienamente esemplificativi di questa sorta di " legge del primo film " che, del resto, raramente viene smentita, soprattutto per quegli sceneggiatori e registi che non siano costretti dalle circostanze a firmare opere prime prevalentemente commerciali e su cui abbiano finito con l'esercitare, quindi, un controllo quanto meno limitato.
Meno usuale è che un regista ( e sceneggiatore ) non si fermi al primo film ma insegua il proprio personaggio autobiografico - o semplice portatore della sua biografia " interna "- per quasi vent'anni, riservandogli in tutto ben cinque opere. E' il caso, questo, di Francois Truffaut. Creato il personaggio quattordicenne di Antoine Doinel nel suo lungometraggio di esordio, " Les quatre-cent coups " che è del 1959, il regista francese è tornato su di lui, seguendone l'ipotetica crescita ed evoluzione sentimentale, ben altre quattro volte fino al 1979, l'anno cioè di " L'amour en fuite " con il quale ne ha preso definitivamente congedo. Nel frattempo Truffaut  ha girato altri film, scrivendo soggetti originali o più spesso adattando romanzi e racconti che lo ispiravano particolarmente. Ma Antoine Doinel, per quel lungo periodo di vent'anni (che rappresenta poi quasi tutta la carriera, di Truffaut, avendo questi terminato di  girare film l'anno prima di  morire, cioè nel 1983 ) ha continuato ad affacciarsi al suo spazio creativo, imponendogli di tanto in tanto la sua imprescindibile presenza. Mentre però nei primi due ( quello, citato, del 1959 ed il successivo del 1962, il mediometraggio " Antoine e Colette" inserito nel film a episodi " L'amore a vent'anni " ) il personaggio principale è una sorta di " doppio " del regista, risultando le sue vicende assai aderenti a quelle autentiche vissute  dall'autore, non così gli altri che compongono il ciclo. Se in quei primi due film era Antoine Doinel, il perno principale della storia, ad essere dominato da Truffaut che ne faceva il proprio " alter ego " idealizzato, negli ultimi tre è infatti  lo stesso protagonista che, quasi in una sorta di pirandelliano rivolgimento ( "Sei personaggi in cerca d'autore " ) sembra impadronirsi del suo autore e costringerlo, fuori da ogni evidente analogia biografica, a conferirgli ancora  autonoma, artistica esistenza.

Antoine Doinel vede la luce... cinematografica nel 1959 con " Les quatre-cent coups ". E' l'adolescente inquieto che vive con la madre ( che lo ha avuto da un uomo con il quale si è poi lasciata ) e con il patrigno che lo ha riconosciuto come suo, in un appartamentino  della Parigi popolare. Allievo tutt'altro che modello nella scuola, rigida e insensibile, che frequenta, mal amato in famiglia, ne combinerà di tutti i colori ("i quattrocento colpi") per ansia di conoscenza e di affetto, smania di vivere, finendo addirittura in riformatorio. Scontato, conoscendo la biografia così simile di Truffaut, che nel personaggio, nelle sue incertezze, nei suoi errori, nei suoi desideri, ci siano tutto il mondo interiore e le esperienze del regista. Spontaneo, struggente nella sua sincerità, è il tipico " primo film " autobiografico di cui si è parlato. Ed è anche , rivisto dopo sessant'anni, ancora un gran bel film : sorretto da una sceneggiatura che non delude, ha immagini molto belle ( si pensi alla sequenza della corsa di Antoine verso il mare e l'ultima inquadratura con il suo volto in primo piano rivolto alla macchina da presa, uno dei più bei finali nella storia del cinema francese ). Un classico, insomma, un film senza tempo nel quale l'autore cristallizza una volta per tutte  quel momento nella formazione di ognuno in cui siamo a tu per tu con i nostri sentimenti, con il nostro io interiore, senza infingimenti. Pronto magari, liberatosi dai suoi fantasmi personali e forte di questa esperienza,  a partire verso altri orizzonti, ad affrontare altre vicende ed altri temi. Ma Truffaut, tre anni dopo e avendo girato altri due film di soggetto completamente diverso, dedica ad Antoine Doinel una sorta di codicillo ( L'" Antoine et Colette " cui si è già accennato ). In esso il  personaggio, interpretato sempre dall'attore Jean Pierre Léaud di cui è diventato nel frattempo grande amico, muove le prime schermaglie amorose con una riluttante Colette , per la delusione che ne  ricava si arruola nell'esercito, diserta, passa alcuni mesi in un carcere militare prima di essere definitivamente restituito alla vita civile. Sono anche qui vicende vissute in gran parte dallo stesso Truffaut : l'autobiografismo sembra tracimare dal primo film in una  deliziosa operina di neanche mezz'ora che  annuncia già, per taluni spunti, la seconda parte di quello che si va delineando come un vero e proprio ciclo organico, caratterizzato dallo stesso personaggio seguito nella sua evoluzione fisica e spirituale. Non più, nelle  tre occasioni che si succederanno, sostanzialmente un  "doppio" del regista di cui ripercorre le vicende salienti dell'adolescenza e della prima giovinezza. Quanto piuttosto, e qui sta la novità contenutistica e stilistica, un personaggio maggiormente autonomo nel quale Truffaut si diverte ad iniettare una parte dei suoi sogni, delle sue fantasticherie, creando insomma un " altro da sè ", quello che egli avrebbe potuto diventare se, nella realtà, la sua vita non avesse avuto una svolta improvvisa mediante  il fortunato incontro con il critico André Bazin e l'inizio della sua professione di giornalista cinematografico, transitato poi nel cinema militante. Un personaggio, dicevamo poc'anzi, questo " nuovo " Antoine Doinel , che è - come sempre nella finzione artistica - modellato dall'autore . Ma che,  a sua volta, di conserva con il complesso rapporto Truffaut - Léaud, diventa in un certo senso lui stesso " manipolatore " e finisce con l'imporre una presenza di cui il regista non sa più fare a meno.

Ecco allora che in " Baisers volés " ( 1968 ) Antoine Doinel si ingaggia in una serie di mestieri disparati per sbarcare il lunario ( prima portiere di notte in un alberghetto di Pigalle, poi investigatore privato , infine riparatore di televisori a domicilio ) conosce una nuova ragazza, Christine, che punta decisamente al matrimonio e con la quale, dopo una passeggera iniziazione amorosa con una donna sposata, immaginiamo che finirà con lo sposarsi. Il film, leggero, spiritoso, ricco di notazioni picaresche,è anche un omaggio a Parigi, qui descritta garbatamente, pochi attimi prima che il maggio '68 le togliesse definitivamente quell'aura lievemente fantastica e la riportasse bruscamente ad una realtà fatta di tensioni sociali e di aspettative disattese. Il successivo " Domicile conjugal "  ( 1970 ) vede Antoine sposato con Christine, padre di un bebè, modesto coltivatore di fiori e poi pilota di battelli in miniatura, sempre sentimentalmente irrequieto al punto di intrecciare una relazione amorosa con una ragazza giapponese temporaneamente a Parigi e di separarsi dalla moglie, riguadagnando poi, al termine del film, il tetto coniugale in una riconciliazione che non inganna nessuno quanto ai suoi futuri sviluppi. Delicatamente malinconico, ma non privo di spunti bozzettistici abbastanza gradevoli, il film è un'acuta riflessione sulle difficoltà della vita di coppia ed ha il merito di riconfermare come attrice simpatica e dotata la sua protagonista, Christine Jade. Infine, sono passati ben sette anni, Jean Pierre Léaud è ormai un uomo fatto, la sua carriera è pienamente lanciata, il personaggio di Antoine Doinel torna un'ultima volta in " L'amour en fuite " ( 1979 ). Separato ormai da Christine, Antoine ritrova fortuitamente Colette ( autore di un romanzo , " Les salades de l'amour " , in cui ha riassunto la sua vita amorosa, non riesce ancora a conquistarla ) rivive le sue principali esperienze negli spezzoni di film del  ciclo stesso che Truffaut ha inserito in questo capitolo conclusivo e trova un ( provvisorio ? ) ristoro nell'amore per Sabine, conosciuta attraverso una vicenda assolutamente romanzesca. L'amore, sembra voler dire Truffaut, è sempre una perpetua " fuga in avanti ", perchè il sogno ed il desiderio sono costantemente sfasati rispetto alla loro tardiva realizzazione.
Ho rivisto in questi giorni, uno dopo l'altro,  i tre film che compongono la seconda parte del ciclo e li ho trovati ancora interessanti- specialmente il primo- per capire il cinema di Truffaut, quel tanto di malinconico rimpianto e di sottile poesia, non disgiunte certo da un " ego " a tratti straripante, che costituiscono il tono particolare della sua filmografia , dove opere molto convincenti si alternano a qualche titolo oggi un po' troppo datato perchè meno ispirato. Truffaut lo si potrebbe defnire, parafrasando il titolo di uno dei suoi film migliori, ( " L'uomo che amava le donne " ) come l'uomo che amava il cinema . Che lo amava tanto, probabilmente, da avere poco chiara la linea di demarcazione tra quest'ultimo e la vita reale. Fino al punto di mancare un poco, a volte, di quella lucidità che sola permette all'artista di distinguere tra ciò che veramente vale, nell'uno e nell'altra.




sabato 14 marzo 2020

IL CINEMA AL TEMPO DEL " CORONAVIRUS "

In momenti di forte, anzi fortissimo disagio collettivo ( guerre, calamità naturali, emergenze sanitarie come questa che imperversa nel mondo da diverse settimane ) le menti ed i cuori rischiano, ovviamente, di essere assorbiti da preoccupazioni diverse che non quella di coltivare  una predilezione per l'arte o anche, più semplicemente, di cercare un po' di ristoro nella visione di un film. Per la verità, proprio in tempo di guerra ( quella più vicina a noi, del 1940-45 ) i cinema, come altri luoghi di spettacolo, rimasero aperti quasi costantemente. Privi di altri passatempi, gli spettatori anzi affollavano letteralmente le sale per cercare un diversivo alle tristezze che li circondavano.Si trattava, almeno sino alla progressiva  liberazione del territorio nazionale, di un cinema autarchico e salvo qualche eccezione non eccelso , popolato quasi interamente da film di produzione italiana, con poche pellicole tedesche o della cinematografia francese di Vichy. Poi, finalmente, incominciarono ad arrivare a frotte le opere di Hollywood prodotte nel frattempo e  che in Italia non avevamo potuto vedere. Provo solo ad immaginarmi l'emozione e la gioia del pubblico del tempo,-povero, derelitto, provato nel morale e nel fisico - che ritrovava i suoi beniamini o scopriva per la prima volta attori e registi che , negli anni successivi, gli avrebbero fatto  buona e solerte compagnia.
E così sarà per noi, speriamo presto, quando potremo tornare a frequentare le sale oggi tristemente sbarrate e vedremo quei film che dovevano uscire nelle sorse settimane e che il " coronavirus " ci ha fin qui sottratto. Settimane di astinenza dal cinema su grande schermo che noi, più fortunati in questo del pubblico del tempo di guerra, possiamo surrogare, sia pure in modo imperfetto, con i film in televisione o ancor meglio con la nostra personale videoteca. Occasione, dunque, per vedere o rivedere con profitto qualche opera del passato più o meno recente. Da un lato questo ci aiuterà a passare meglio  il tempo nell'ozio forzato delle nostre abitazioni. Dall'altro, ed è la vera funzione del cinema, ci permetterà di continuare a sognare , ad emozionarci, a ridere o a commuoverci, grazie alla possente forza evocativa della immagine cinematografica.

Cosa consigliare nel frangente che stiamo vivendo, quali sono i film " da vedere "  ? Mi sentirei, prima di tutto, di indicare i classici, che non tradiscono mai e sono fonte di un piacere che cresce ogni volta che ci accostiamo ad essi. Penso ai grandi autori di casa (Rossellini, De Sica, Visconti, Antonioni , Fellini ) ai tre, quattro americani di cui bisognerebbe aver visto tutto ( Ford , Welles, Hitchcock, Wilder ) ai francesi di ieri e di sempre ( Renoir, Bresson, Becker, Truffaut, Rohmer ), a Bergman. Poi , secondo me, si aprono due vie.
Ai più coraggiosi suggerirerei, come antidoto "omeopatico" alle paure che ci disturbano in queste ore, quei film  che hanno al loro centro proprio la descrizione di un mondo preda di una galoppante epidemia. Opere di " finzione " ma che , viste oggi, risultano sorprendentemente anticipatrici di quanto qui sta veramente succedendo. Perchè vederle, vi chiederete. Potrei rispondere, paradossalmente proprio per sconfiggere  i nostri fantasmi interni. Come quando da piccini ci forzavamo a percorrere il  lungo corridoio buio di casa nostra per combattere la paura dell'oscurità o quando, ancora oggi, siamo attirati, in un Luna Park, dal " tunnel dell'orrore ". Razionalmente certi che, durante quegli interminabili minuti nulla ci potrà realmente capitare e che, al termine, saremo salvi con ogni sicurezza.
In quest'ordine di idee vi raccomanderei il migliore, senza dubbio, dei film del genere " epidemico " e che ha il titolo, quanto mai trasparente , di " Contagion " ( 2011 ). Scritto e diretto da uno dei più interessanti autori degli ultimi trent'anni, l'americano Steven Soderbergh ("Traffic", "Unsane" ) è interpretato da un cast di prim'ordine : Matt Damon, Jude Law, Laurence Fishburne, Gwyneth Paltrow, Marion Cotillard, Kate Winslet. Reperibile in DVD ( ammesso che troviate un negozio aperto...) ipotizza un' epidemia di un virus sconosciuto e terribile proveniente da Hong Kong ( sempre la Cina... ) che rischia di mettere in ginocchio il pianeta sia dal punto di vista sanitario che da quello della sopravvivenza delle istituzioni democratiche. Ben diretto, scorrevole, tutt'altro che retorico,  promette di farvi passare  due ore in modo intelligente anche se, lo ammetto, potreste sentire  un piccolo brivido nella schiena...

L'altro modo di " esorcizzare " cinematograficamente l'emergenza di queste ore è quella, decisamente all'opposto, di buttarsi su film di assoluto disimpegno. Che vi trasportino, insomma, in una prospettiva totalmente diversa, descrivendovi un mondo magari un pò edulcorato rispetto alla realtà, ma almeno senza troppe preoccupazioni e  depurato dai rischi di vario genere che corriamo oggi. E' questo il caso di un film che, nel sicuro della mia abitazione, ho rivisto proprio ieri sera, " Altri tempi ", di Alessandro Blasetti ( 1951, ma uscito l'anno successivo nelle sale ). Esempio tra i primi di un  genere, il " film ad episodi ", che  negli anni '50 e poi i '60 del secolo scorso incontrò particolarmente i gusti degli spettatori, è un piccolo gioiello se ci poniamo nell'ottica del film disimpegnato e di intrattenimento. Lo spunto è quello di un'estemporanea antologia di racconti di autori italiani dell'Ottocento ( da  Nievo a De Amicis, da Fucini a Boito ed altri ) trasposti cinematograficamente con arguzia e molta eleganza ( se si esclude " La Morsa " di Pirandello, francamente un po' fuori registro rispetto al tono generale dell'opera ). Ne esce un' Italia postrisorgimentale, desueta ma tanto, tanto piacevole nella sua attenta e gradevole raffigurazione che la intelligente sceneggiatura di Suso Cecchi D'Amico ed altri, così come l'esperta regia di Blasetti, ci offrono in questa operina graziosa e distensiva. Niente di travolgente , badate bene, ma  due ore passate gradevolmente e in totale oblio, questo sì, delle tristezze che ci circondano. E poi nel film c'è un'autentica chicca che si rivede con piacere , se già la si conosceva, o che si scopre con sorpresa in caso contrario. Parlo dell'episodio " Il processo di Frine " in cui un  divertente e  bravo Vittorio De Sica nelle vesti di un avvocato d'ufficio riesce a far assolvere con una astutissima arringa una radiosa, esuberante Gina Lollobrigida , allora ventiquattrenne, nei panni (piacevolmente succinti ) di una popolana abruzzese rea confessa dell'avvelenamento della suocera. E', per intenderci, la nascita della fortunata espressione " maggiorata fisica " ( e del relativo personaggio ) che tanto successo ebbero nel cinema italiano e non solo. E basterebbe questo per strapparci un sorriso e farci sognare, presto, il ritorno ad un mondo in cui primeggino  l'intelligenza e la bellezza.

sabato 29 febbraio 2020

LETTERA DA PARIGI ( " Les Misérables " ed altro... )

Reduce dall'annuale viaggio a Parigi, imposto questa letterina per riferire  ciò che ho visto  di interessante tra i film francesi più recenti. Una cinematografia, secondo me, in ottima salute per vivacità di ispirazione, varietà dei temi trattati e capacità di creare opere piacevoli ed emozionanti, pur nella diversità dei risultati artistici. Se volessi farmi del male ricorderei " en passant " che queste erano  le caratteristiche del cinema italiano degli anni '60 del secolo scorso  (decisamente l' "età d'oro" della società e della cultura del nostro paese ). Caratteristiche che abbiamo in gran parte smarrito e che permangono invece, anche se con altro sapore, nel cinema " esagonale ".
Ricco di contributi etnici e culturali provenienti da fuori, in particolare da aree geografiche a marcata influenza francese, il nostro vicino d'oltralpe ha sempre ospitato  cineasti provenienti dal Magreb, producendo le loro opere. E' la volta, ora, di una giovane franco-tunisina, Manele Labidi, alla prima esperienza come sceneggiatrice e regista di un lungometraggio. E occorre salutare con simpatia ed approvazione una prova come questa, certo non de tutto perfetta, ma fresca, spontanea , fertile di riflessioni e di emozioni nei confronti di un paese- quello di origine- che, dopo la " primavera " di qualche anno fa, è ancora alla ricerca di un difficile equilibrio tra conservazione ed innovazione, libertà personale e costrizioni sociali. "Un divan à Tunis " ( questo il titolo del film ) prende le mosse dal tentativo di una giovane franco-tunisina, Selma ( la bella ed intensa attrice iraniana Golshifteh Farahani ) di impiantare nientedimeno che un modesto  "gabinetto di psicanalisi"  in un quartiere popolare della capitale. Sul divano della psicanalista in erba ( laurea alla Sorbona e spiritoso " collage " di Freud... con il fez, affisso al muro del suo studio ) ecco dunque, con i primi pazienti attratti dalla assoluta novità, avvicendarsi i problemi, i fantasmi, i sogni irrealizzabili e le speranze inespresse di una umanità spesso pittoresca ma sempre degna di affettuosa simpatia.  Pazienti che guardano di volta in volta la graziosa ed intraprendente dottoressa con curiosità, sospetto, desiderio più o meno represso, ansia di  comunicazione, descritti dalla Labidi con tratto a volte  un pò indulgente ma sempre con  sincera partecipazione e mano felice. Film scorrevole nella piacevole galleria di situazioni e di tipi umani, messi in scena con qualche riconoscibile omaggio alla " commedia all'italiana " di un tempo ( annunciato, del resto, da due belle canzoni di Mina inserite nella colonna sonora ) " Un divan à Tunis "è ben girato e molto ben interpretato. E soprattutto coglie  con grande verità e sottile struggimento  il doloroso " impasse " di una società , e prima ancora di una condizione umana, quella del mondo arabo di oggi, a metà del guado tra tradizione e modernità.

Un film che, da qualche giorno sugli schermi parigini, sta incontrando un buon successo di pubblico e di critica è il più maturo " La fille au bracelet " del regista Stéphane Demoustier, alla sua terza prova nel lungometraggio. Quarantatreenne, uscito da una famiglia ben presente nel cinema francese  ( una sorella, Anais, gode già di una discreta fama- ha appena vinto un " César " -  e recita nel film ) Demoustier ambisce ad una analisi della società asettica, spassionata, quasi da entomologo, un po' sulla scia, conservando le dovute proporzioni, di un Claude Chabrol. E la storia che viene narrata sarebbe potuta certamente piacere al regista transalpino scomparso alcuni anni fa, il quale vi avrebbe senza dubbio infuso un po' più di cattiveria che non Demoustier. E probabilmente avrebbe dipinto con maggiore vigore l'ambiente familiare claustrofobico nel quale è immersa la ragazza del titolo. Questo non per togliere meriti alla fatica del giovane regista ( che può fare, comunque, di più ) ma per sottolineare come ci siano ottimi spunti nel suo film che, in mani  più ispirate, avrebbero dato probabilmente un ancor più interessante risultato. Lise, la giovanissima protagonista del film, è giudicata in corte d'assise, accusata di aver ucciso la propria migliore amica per " futili motivi " ( un video compromettente postato su internet ). Avendo sempre affermato la sua innocenza durante l'inchiesta , messa in libertà provvisoria in attesa del verdetto, porta, come in casi consimili, un braccialetto elettronico alla caviglia che ne controlla i movimenti. Simbolo quest'ultimo, fin troppo evidente, del tentativo della società, del " contesto " diremmo noi , di coartarne, limitarne la prorompente,  sorda e quasi animalesca vitalità . Una vitalità prossima alla sregolatezza nei costumi ma forse ( lo scoprirà chi vedrà il film ) non necessariamente propedeutica alla violenza. Ben girato, felpato, sornione quasi nella descrizione del " milieu " familiare della giovane ( la madre è interpretata da Chiara Mastroianni, figlia di Marcello e di Cathérine Deneuve ) la seconda parte del film si svolge quasi interamente nell'aula di tribunale dove viene processata la ragazza. Qui, pur mantenendo sufficiente vigore drammatico e finezza nel ritratto dei personaggi, Demoustier si arena un po', non trovando quel colpo d'ala che  avrebbe dato probabilmente all'intero film maggior respiro e più convincente epilogo. Rimane l'atmosfera serrata, inquietante quasi, della pittura familiare, la buona prova degli attori ( la sorella del regista, Anais,  interpreta con scioltezza un pubblico ministero che sembra, anche caratterialmente, l'antitesi dell'imputata ) e la sensazione che il giovane Stéphane potrà darci , in futuro, prove ancor  più consistenti.

Ma il film più ambizioso, e più riuscito, di questa terna parigina è senza dubbio " Les Misérables ",  annunciato (coronavirus permettendo ) sui nostri schermi per le prossime settimane, grande successo di pubblico in Francia ormai da qualche mese anche perchè tratta del problema esplosivo delle " banlieues " intorno alla capitale abitate dalle seconde e terze generazioni di immigrati. L'opera, come si può intuire, prende provocatoriamente il titolo dal capolavoro di Victor Hugo per manifestare il convincimento  che la questione sociale, ai nostri giorni, ha cambiato pelle ma resta, come nel secolo XIX°, una spina nel fianco di una società dove le diseguaglianze, ma soprattutto la colpevole indifferenza dei poteri pubblici, costituiscono ancora un elemento caratterizzante. Presentato a Cannes la scorsa primavera e vincitore del premio speciale della giuria del Festival, è il primo lungometraggio di un giovane francese originario dell' Africa Occidentale, Ladj Ly, che quell'esperienza umana conosce bene perchè, prima di darsi al cinema, dapprima  con mezzi di fortuna e poi in forma sempre più professionale,  essa è stata la sua. Per la prima metà il film sembra quasi un documentario, certamente impressionante ma a volte un pò lento, della vita nel sobborgo di Montfermeil, nei grandi casermoni dove vive , e spesso forzatamente ozia o delinque, un'umanità composita (magrebini e africani in prevalenza ma anche immigrati di altra provenienza ). Una popolazione  verso la quale lo sforzo di integrazione- certamente insufficiente - non riesce a dare soddisfacenti risultati e finisce coll'alimentare crescenti sentimenti di  irrequietezza , di sfiducia e di astio verso la società francese ed i suoi rappresentanti ufficiali. Nella seconda parte, focalizzatosi su un banale episodio che sfocia peraltro in un tesissimo confronto con la polizia, il film prende decisamente quota ed assume connotazioni altamente drammatiche ed un respiro ben più ampio, non immeritevole dell'accostamento alla polemica sociale e all'afflato umanitario del romanzo di cui riproduce il titolo. Ly sa indubbiamente come si manovra la macchina da presa e ci regala a tratti immagini vigorose, di dolorosa bellezza, autentiche, senza lenocini. Nel suo film non ci sono buoni e cattivi e tutti - potremmo dire -  hanno le loro ragioni, il che naturalmente rende la questione ancora più difficile ed impossibile, per lo spettatore, il prendere partito per gli uni o per gli altri. Al termine delle quasi due ore di proiezione si conserva ancora una forte emozione ed il ricordo di uno spaccato sociale descritto con toni giusti ed efficaci nella sua potenziale tragicità. Purtroppo la questione della violenza nelle "banlieues " non farà probabilmente un passo in avanti con questo film. Ma certo il cinema francese ha trovato con Ly, se questi saprà tener fede alle promesse evidenziate con il  primo film, una nuova voce piuttosto interessante e ricca di talento. Intanto ieri sera , nella cerimonia di consegna degli" Oscar " francesi (i " Césars ") " Les Misérables " è stato consacrato miglior film  del 2019.


Veuillez trouver, svp, ci-dessous mon court commentaire en francais sur ces films :

Parmi les films les plus récents de ces derniers mois tournés ou produits en France, le premier film de la jeune metteuse en scène franco-tunisienne Manele Labidi, " Un divan à Tunis " fait preuve de beaucoup de subtilité et d'adresse en maitrisant fort bien son histoire de psychanaliste débutante en plein milieu arabe et musulman, entre espoir d'une libéralisation des moeurs et contraintes sociales omniprésentes.
" La fille au bracelet " par contre , du  metteur en scène Stéphane Demoustier, jeune et prometteur, nous déplace dans une Cour d'Assises ou est jugée une très jeune fille accusée du meurtre de sa meilleure amie. Moins film policier que portrait psychologique et social facon Chabrol, le film est convaincant de par le jeu des acteurs et une mise en scène sèche et presque volontairement effacée qui aurait quand meme profité d'un souffle plus vigoureux dans sa deuxième partie.
" Les Misérables " par le jeune lui aussi Ladj Ly,francais originaire de l'Afrique de L' Ouest, est le film le plus intéressant qu'on puisse voir en ce moment à Paris. Il vient tout juste de remporter, d'ailleurs , le " César " pour le meilleur film francais de 2019. Cette puissante incursion dans la banlieue parisiènne de Montfermeil  ou les difficultés d'intégration et les dérapages de tout genre  sont à l'ordre du jour, nous impressionne pour l'esprit humanitaire et l'objectivité dont elle fait preuve, tout comme pour la maitrise du moyen cinématographique montrée dans le filmage de scènes d' émeute pas faciles à tourner.


Please find here my short commentary in English on these films :

Three french films may be wiewed, among others, on the parisian screens these days which are of some interest and artistic value.
" Un divan à Tunis "  ( " A couch in Tunis " ) by the franco-tunisian Manele Labidi is very amusing, though bitter-sweet, showing what may happen to a young woman who wants to introduce psychoanalysis sessions in an arab muslim world predominantly male and chauvinistic.
" La fille au bracelet " ( " The girl with an electronic tag " ) is mainly  set in a grand jury court where a young girl is judged for having killed , according to the prosecution, her best female friend. Directed by Stéphane Demoustier, the fim  depicts with  cinematic " bravura " and sociological exactitude a story of family network and  youth incertitude.
" Les Misérables " ( borrowing the title from the Victor Hugo colossal novel ) has recently been awarded the " César " prize for the best french film of 2019 and deserves the public acclaim surrounding its screening. The highly dramatic plot, though fictionary, is kind of a documentary on a Parisian outskirts town called Montfermeil , inhabited mostly by second and third generations of arab and african immigrants,and on the difficulties of their integration within the french society. Great film indeed, vibrant, powerful, absolutely worthseeing.







sabato 15 febbraio 2020

" ALICE E IL SINDACO " di Nicolas Pariser ( Francia,2019 ) / UNA POSTILLA SUGLI OSCAR

Il cinema francese, in passato piuttosto disattento alle problematiche pubbliche, si dedica da qualche tempo con maggiore intensità a vicende e personaggi in presa diretta con la società, la politica, le lotte sindacali che agitano questi nostri anni di complessivo declino. "Gilets jaunes " e gli ultimi ripetuti scioperi  hanno nuovamente acceso i riflettori sulle condizioni economico-sociali del nostro vicino d'Oltralpe, mostrando quanto esse siano preoccupanti e controverse nella percezione dei più . Di conserva anche i film che ci arrivano dalla Francia evidenziano  un maggiore interesse in tale direzione, traducendolo in storie in cui l'elemento politico sociale non è più soltanto sullo sfondo ma balza spesso in primo piano. E' della scorsa stagione il bellissimo " En guerre ", di cui abbiamo parlato, su di un lungo, disperato sciopero volto a scongiurare la chiusura della filiale francese di una grande multinazionale. Ed altri film recenti, anche se apparentemente trattano d'altro, non possono non richiamare  problemi e drammi della collettività.
Non c'è dramma invece, ma sottile dialettica, nel discreto film di un regista alla sua seconda prova, Nicolas Pariser, arrivato ora anche qui da noi. Non si può dire peraltro che " Alice e il sindaco ", pur con toni ed accenti meno concitati di quelli di altre opere delle ultime stagioni, non affronti anch'esso un tema centrale per la vita collettiva. Lo fa a livello di comunità locale  giacchè la finzione ci porta nel municipio della seconda città di Francia, Lione, ma il discorso può allargarsi facilmente a quella nazionale. La politica, sembrano chiedersi i personaggi ( il sindaco, appunto, ed una giovane laureata in belle lettere che è chiamata ad affiancarlo come " elaboratrice di idee " ) risiede tutta e soltanto nel pragmatismo e nella flessibilità che sempre di più apertamente la caratterizzano ? Oppure anche  il semplice amministrare  una città chiama ancora in causa quell'elemento idealistico, diremmo quasi quell' anima, quella visione dello sviluppo dell'uomo e della società, che si impone alla riflessione di chiunque voglia impegnarsi nella vita pubblica ? Bellissimo tema, naturalmente, che l'autore ( regista e sceneggiatore ) tratta con delicatezza, senza l'atteggiamento moralistico ed infiammato che ci si potrebbe attendere. Il dilemma, naturalmente, rimane tale anche alla fine del film.

 L'immaginario (ma non tanto) sindaco di sinistra Théraneau, che dice di vivere per la politica 24 ore su 24 e di non poterne fare a meno, sembra in verità totalmente affogato in una routine sempre più distaccata dalla realtà sociale. La giovane Alice che gli viene affiancata per ridargli un pò del necessario carburante di concetti e di idee, consiglia saggiamente umiltà, realismo ma anche coraggio ideale ed autentico (ri)contatto con la base dei militanti e dei cittadini. Nè l'uno nè l'altra riusciranno nell'obiettivo di ridare speranza alla politica con la "p" maiuscola. Ma l'esperienza condotta in comune li avrà (forse ) fatti maturare. Finale aperto , come si vede, non necessariamente pessimista ma solo moderatamente speranzoso. E come potrebbe essere diversamente, alla luce delle difficoltà che governanti ed amministratori provano nel mediare attraverso la politica i confitti e le problematiche sempre crescenti nella odierna realtà del quotidiano " vivere insieme " ?
Coraggioso nell'affrontare un tema così delicato e complesso, il film ha il merito di introdurre in un ordinario spettacolo cinematografico concetti e stimoli di particolare levatura. Non direi peraltro, che al di là del tono garbato ed insolito per un film " politico ", esso si distingua per valori cinematografici particolarmente spiccati. La sceneggiatura è a volte un pò troppo disinvolta e l personaggi di contorno appena abbozzati. Nè la psicologia di Alice e quella del sindaco sono sempre totalmente chiare. Se questi sono i limiti di un film tutto sommato gradevole e stimolante, i suoi punti di forza risiedono nella regia e nell'interpretazione. Pariser ha grande abilità nel costruire le scene, muovere la macchina da presa con precisione e fluidità capaci di imprimere al film il giusto ritmo. I due interpreti principali sono altrettanto encomiabili per immedesimazione nei rispettivi personaggi. Fabrice Luchini, grandissimo commediante con il rischio di eccedere  talvolta nel suo amore per la parola " recitata ", qui mi è parso assai misurato, a tratti perfino commovente nella immagine disarmata di un  politico in " panne " di forza propulsiva. Giudico sulla base della copia che ho visto con il doppiaggio in italiano e quindi faccio riserva di verifica se mai dovessi cogliere al volo la versione originale. Così come  Anais Demoustier, nella parte di Alice,mi è parsa fresca, spontanea, con quel tanto di ingenuità e di spregiudicatezza che si addice al personaggio. Forse, anzi certamente, tutto questo non basta per trasformare un film abbastanza blando nel suo sviluppo drammatico in una opera serrata e convincente al cento per cento. Onore peraltro a chi, almeno in Francia,  ha il coraggio di darci, come dicono gli inglesi, cibo per la nostra mente.

Se dovessi dire, passando ad una sintetica riflessione sulla recente assegnazione degli " Oscar",quanto sia rimasto sorpreso dovrei rispondere che lo sono stato parecchio. Abbiamo ricordato altra volta che gli " Academy Awards " sono il frutto di una votazione che riunisce più di 8.000 ( ! ) giurati appartenenti a tutte le professioni, anche le più " parcellizzate " dell'industria cinematografica. Non è un premio dato dai giornalisti o dai critici ed i relativi verdetti, nelle varie categorie, possono essere a volte alquanto discutibili. Oltretutto  il processo decisionale è abbastanza opaco e quindi è difficile ricostruire, in mancanza di esplicita motivazione, cosa abbia influenzato i giurati. Il premio al miglior film ( che , trattandosi di film non di lingua inglese  meglio sarebbe stato confinare nella categoria degli " stranieri " dove ha egualmente vinto ) è andato , come si sa , al coreano " Parasite ". Ed addirittura il suo regista e sceneggiatore si è aggiudicato anche  i relativi premi di settore. Non posso essere d'accordo , anche se il film ha il suo indubbio valore. Ho l'impressione che- come succede ormai anche per il " Nobel " letterario - si sia voluto premiare soprattutto una particolare cinematografia o addirittura un'intera area geografica. La Corea del Sud e l' Asia in generale producono oggi opere assai interessanti e ben riuscite. Ma allora, in questo spirito e negli anni scorsi, altri registi ed altri film avrebbero con maggior merito potuto essere premiati con i massimi riconoscimenti. Il mio favorito, guardando la " short list " de papabili, era " Piccole donne ", sia come miglior film , migliore regia ( grandissima Greta Gerwig ) e migliore sceneggiatura . Peccato, ma sono sicuro che la giovane cineasta americana saprà rifarsi in avvenire. Nulla da dire sul premio al miglior interprete principale maschile ( il formidabile Joaquin Phoenix di " Joker " ), non posso giudicare l'Oscar " femminile " andato a Renée Zellwegger ( "Judy" ) perchè non ho visto il film . E comunque, questo voglio dirlo, in concorso non c'erano due o tre dei migliori film americani del 2019 : " Ad astra " di James Gray, " " Un giorno di pioggia a New York " di Woody Allen e " Richard Jewell " di Clint Eastwood. Gli ultimi due, purtroppo va ricordato, esclusi per ragioni contenutistiche o antipatie per i loro autori, non certo per demeriti estetici. Anche il cinema appare sempre più influenzato, nella percezione dei suoi valori, da fattori estranei al merito artistico, volti piuttosto ad assecondare lo " spirito dei tempi " e a seguire la corrente della " correttezza ideologica ".


Veuillez trouver ci-dessous, svp, mon court commentaire en francais sur le film :

" Alice et le maire " est un gentil petit film sur la politique. Politique des villes, puisque la fiction nous emmène à la mairie de Lyon. Mais le discours sur la politique  forcemment "politicienne " , qui ne saurait pas néanmoins négliger les idées et une clairté idéologique suffisante, peut evidemment s'élargir à d'autre niveaux plus hauts et plus amples. La dialectique entre le maire de gauche Théraneau ( Fabrice Luchini toujours superbe ) et Alice, la jeune  attachée à son cabinet qui doit lui "donner des idées " pour son action municipale ( attrayante Alice Demoustier ) est presque toujours intéressante dans un film qui a des mérites aussi pour la mise en scène de Nicolas Pariser. Si le film nous laisse un peu sur notre faim cela est du plutot à un scénario qui aurait démandé davantage de véritable tension dramatique et un peu plus de courage en traitant l'argument . A voir quand meme si on a du temps. Curieux et fort peu intéressés au sujet du film , s'abstenir.

Please find here my short commentary in English on the film :

" Alice and the Mayor " is a film on politics, the necessary underlying pragmatism and ideas that should support any political action. Set in the city of Lyon, the problem is tackled at municipal level. But its meaning goes clearly beyond ,being relevant at the highest level. Very well performed by Fabrice Luchini, one of the " monstres sacrés " of French cinema and the  handsome, intelligent ,young actress Anais Demoustier, the story is remarkably directed by moviedirector and screenwriter Nicolas Pariser. Dialogues, as usual in French films, are mostly interesting and entertaining but this " Alice and the Mayor " lacks perhaps a bit in dramatic tension and more clarity in the psychological evolution of the main characters. To be seen, anyway, by the fans of contemporary French film and the ones to whom politics is the favourite subject.