sabato 29 febbraio 2020

LETTERA DA PARIGI ( " Les Misérables " ed altro... )

Reduce dall'annuale viaggio a Parigi, imposto questa letterina per riferire  ciò che ho visto  di interessante tra i film francesi più recenti. Una cinematografia, secondo me, in ottima salute per vivacità di ispirazione, varietà dei temi trattati e capacità di creare opere piacevoli ed emozionanti, pur nella diversità dei risultati artistici. Se volessi farmi del male ricorderei " en passant " che queste erano  le caratteristiche del cinema italiano degli anni '60 del secolo scorso  (decisamente l' "età d'oro" della società e della cultura del nostro paese ). Caratteristiche che abbiamo in gran parte smarrito e che permangono invece, anche se con altro sapore, nel cinema " esagonale ".
Ricco di contributi etnici e culturali provenienti da fuori, in particolare da aree geografiche a marcata influenza francese, il nostro vicino d'oltralpe ha sempre ospitato  cineasti provenienti dal Magreb, producendo le loro opere. E' la volta, ora, di una giovane franco-tunisina, Manele Labidi, alla prima esperienza come sceneggiatrice e regista di un lungometraggio. E occorre salutare con simpatia ed approvazione una prova come questa, certo non de tutto perfetta, ma fresca, spontanea , fertile di riflessioni e di emozioni nei confronti di un paese- quello di origine- che, dopo la " primavera " di qualche anno fa, è ancora alla ricerca di un difficile equilibrio tra conservazione ed innovazione, libertà personale e costrizioni sociali. "Un divan à Tunis " ( questo il titolo del film ) prende le mosse dal tentativo di una giovane franco-tunisina, Selma ( la bella ed intensa attrice iraniana Golshifteh Farahani ) di impiantare nientedimeno che un modesto  "gabinetto di psicanalisi"  in un quartiere popolare della capitale. Sul divano della psicanalista in erba ( laurea alla Sorbona e spiritoso " collage " di Freud... con il fez, affisso al muro del suo studio ) ecco dunque, con i primi pazienti attratti dalla assoluta novità, avvicendarsi i problemi, i fantasmi, i sogni irrealizzabili e le speranze inespresse di una umanità spesso pittoresca ma sempre degna di affettuosa simpatia.  Pazienti che guardano di volta in volta la graziosa ed intraprendente dottoressa con curiosità, sospetto, desiderio più o meno represso, ansia di  comunicazione, descritti dalla Labidi con tratto a volte  un pò indulgente ma sempre con  sincera partecipazione e mano felice. Film scorrevole nella piacevole galleria di situazioni e di tipi umani, messi in scena con qualche riconoscibile omaggio alla " commedia all'italiana " di un tempo ( annunciato, del resto, da due belle canzoni di Mina inserite nella colonna sonora ) " Un divan à Tunis "è ben girato e molto ben interpretato. E soprattutto coglie  con grande verità e sottile struggimento  il doloroso " impasse " di una società , e prima ancora di una condizione umana, quella del mondo arabo di oggi, a metà del guado tra tradizione e modernità.

Un film che, da qualche giorno sugli schermi parigini, sta incontrando un buon successo di pubblico e di critica è il più maturo " La fille au bracelet " del regista Stéphane Demoustier, alla sua terza prova nel lungometraggio. Quarantatreenne, uscito da una famiglia ben presente nel cinema francese  ( una sorella, Anais, gode già di una discreta fama- ha appena vinto un " César " -  e recita nel film ) Demoustier ambisce ad una analisi della società asettica, spassionata, quasi da entomologo, un po' sulla scia, conservando le dovute proporzioni, di un Claude Chabrol. E la storia che viene narrata sarebbe potuta certamente piacere al regista transalpino scomparso alcuni anni fa, il quale vi avrebbe senza dubbio infuso un po' più di cattiveria che non Demoustier. E probabilmente avrebbe dipinto con maggiore vigore l'ambiente familiare claustrofobico nel quale è immersa la ragazza del titolo. Questo non per togliere meriti alla fatica del giovane regista ( che può fare, comunque, di più ) ma per sottolineare come ci siano ottimi spunti nel suo film che, in mani  più ispirate, avrebbero dato probabilmente un ancor più interessante risultato. Lise, la giovanissima protagonista del film, è giudicata in corte d'assise, accusata di aver ucciso la propria migliore amica per " futili motivi " ( un video compromettente postato su internet ). Avendo sempre affermato la sua innocenza durante l'inchiesta , messa in libertà provvisoria in attesa del verdetto, porta, come in casi consimili, un braccialetto elettronico alla caviglia che ne controlla i movimenti. Simbolo quest'ultimo, fin troppo evidente, del tentativo della società, del " contesto " diremmo noi , di coartarne, limitarne la prorompente,  sorda e quasi animalesca vitalità . Una vitalità prossima alla sregolatezza nei costumi ma forse ( lo scoprirà chi vedrà il film ) non necessariamente propedeutica alla violenza. Ben girato, felpato, sornione quasi nella descrizione del " milieu " familiare della giovane ( la madre è interpretata da Chiara Mastroianni, figlia di Marcello e di Cathérine Deneuve ) la seconda parte del film si svolge quasi interamente nell'aula di tribunale dove viene processata la ragazza. Qui, pur mantenendo sufficiente vigore drammatico e finezza nel ritratto dei personaggi, Demoustier si arena un po', non trovando quel colpo d'ala che  avrebbe dato probabilmente all'intero film maggior respiro e più convincente epilogo. Rimane l'atmosfera serrata, inquietante quasi, della pittura familiare, la buona prova degli attori ( la sorella del regista, Anais,  interpreta con scioltezza un pubblico ministero che sembra, anche caratterialmente, l'antitesi dell'imputata ) e la sensazione che il giovane Stéphane potrà darci , in futuro, prove ancor  più consistenti.

Ma il film più ambizioso, e più riuscito, di questa terna parigina è senza dubbio " Les Misérables ",  annunciato (coronavirus permettendo ) sui nostri schermi per le prossime settimane, grande successo di pubblico in Francia ormai da qualche mese anche perchè tratta del problema esplosivo delle " banlieues " intorno alla capitale abitate dalle seconde e terze generazioni di immigrati. L'opera, come si può intuire, prende provocatoriamente il titolo dal capolavoro di Victor Hugo per manifestare il convincimento  che la questione sociale, ai nostri giorni, ha cambiato pelle ma resta, come nel secolo XIX°, una spina nel fianco di una società dove le diseguaglianze, ma soprattutto la colpevole indifferenza dei poteri pubblici, costituiscono ancora un elemento caratterizzante. Presentato a Cannes la scorsa primavera e vincitore del premio speciale della giuria del Festival, è il primo lungometraggio di un giovane francese originario dell' Africa Occidentale, Ladj Ly, che quell'esperienza umana conosce bene perchè, prima di darsi al cinema, dapprima  con mezzi di fortuna e poi in forma sempre più professionale,  essa è stata la sua. Per la prima metà il film sembra quasi un documentario, certamente impressionante ma a volte un pò lento, della vita nel sobborgo di Montfermeil, nei grandi casermoni dove vive , e spesso forzatamente ozia o delinque, un'umanità composita (magrebini e africani in prevalenza ma anche immigrati di altra provenienza ). Una popolazione  verso la quale lo sforzo di integrazione- certamente insufficiente - non riesce a dare soddisfacenti risultati e finisce coll'alimentare crescenti sentimenti di  irrequietezza , di sfiducia e di astio verso la società francese ed i suoi rappresentanti ufficiali. Nella seconda parte, focalizzatosi su un banale episodio che sfocia peraltro in un tesissimo confronto con la polizia, il film prende decisamente quota ed assume connotazioni altamente drammatiche ed un respiro ben più ampio, non immeritevole dell'accostamento alla polemica sociale e all'afflato umanitario del romanzo di cui riproduce il titolo. Ly sa indubbiamente come si manovra la macchina da presa e ci regala a tratti immagini vigorose, di dolorosa bellezza, autentiche, senza lenocini. Nel suo film non ci sono buoni e cattivi e tutti - potremmo dire -  hanno le loro ragioni, il che naturalmente rende la questione ancora più difficile ed impossibile, per lo spettatore, il prendere partito per gli uni o per gli altri. Al termine delle quasi due ore di proiezione si conserva ancora una forte emozione ed il ricordo di uno spaccato sociale descritto con toni giusti ed efficaci nella sua potenziale tragicità. Purtroppo la questione della violenza nelle "banlieues " non farà probabilmente un passo in avanti con questo film. Ma certo il cinema francese ha trovato con Ly, se questi saprà tener fede alle promesse evidenziate con il  primo film, una nuova voce piuttosto interessante e ricca di talento. Intanto ieri sera , nella cerimonia di consegna degli" Oscar " francesi (i " Césars ") " Les Misérables " è stato consacrato miglior film  del 2019.


Veuillez trouver, svp, ci-dessous mon court commentaire en francais sur ces films :

Parmi les films les plus récents de ces derniers mois tournés ou produits en France, le premier film de la jeune metteuse en scène franco-tunisienne Manele Labidi, " Un divan à Tunis " fait preuve de beaucoup de subtilité et d'adresse en maitrisant fort bien son histoire de psychanaliste débutante en plein milieu arabe et musulman, entre espoir d'une libéralisation des moeurs et contraintes sociales omniprésentes.
" La fille au bracelet " par contre , du  metteur en scène Stéphane Demoustier, jeune et prometteur, nous déplace dans une Cour d'Assises ou est jugée une très jeune fille accusée du meurtre de sa meilleure amie. Moins film policier que portrait psychologique et social facon Chabrol, le film est convaincant de par le jeu des acteurs et une mise en scène sèche et presque volontairement effacée qui aurait quand meme profité d'un souffle plus vigoureux dans sa deuxième partie.
" Les Misérables " par le jeune lui aussi Ladj Ly,francais originaire de l'Afrique de L' Ouest, est le film le plus intéressant qu'on puisse voir en ce moment à Paris. Il vient tout juste de remporter, d'ailleurs , le " César " pour le meilleur film francais de 2019. Cette puissante incursion dans la banlieue parisiènne de Montfermeil  ou les difficultés d'intégration et les dérapages de tout genre  sont à l'ordre du jour, nous impressionne pour l'esprit humanitaire et l'objectivité dont elle fait preuve, tout comme pour la maitrise du moyen cinématographique montrée dans le filmage de scènes d' émeute pas faciles à tourner.


Please find here my short commentary in English on these films :

Three french films may be wiewed, among others, on the parisian screens these days which are of some interest and artistic value.
" Un divan à Tunis "  ( " A couch in Tunis " ) by the franco-tunisian Manele Labidi is very amusing, though bitter-sweet, showing what may happen to a young woman who wants to introduce psychoanalysis sessions in an arab muslim world predominantly male and chauvinistic.
" La fille au bracelet " ( " The girl with an electronic tag " ) is mainly  set in a grand jury court where a young girl is judged for having killed , according to the prosecution, her best female friend. Directed by Stéphane Demoustier, the fim  depicts with  cinematic " bravura " and sociological exactitude a story of family network and  youth incertitude.
" Les Misérables " ( borrowing the title from the Victor Hugo colossal novel ) has recently been awarded the " César " prize for the best french film of 2019 and deserves the public acclaim surrounding its screening. The highly dramatic plot, though fictionary, is kind of a documentary on a Parisian outskirts town called Montfermeil , inhabited mostly by second and third generations of arab and african immigrants,and on the difficulties of their integration within the french society. Great film indeed, vibrant, powerful, absolutely worthseeing.







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