giovedì 26 settembre 2019

" LA MAFIA NON E' PIU' QUELLA DI UNA VOLTA " di Franco Maresco ( Italia, 2019 ) / " IL COLPO DEL CANE " di Fulvio Risuleo ( Italia, 2019 )

Ancora sotto l'effetto della delusione e dello sconcerto causatomi dal " capolavoro " della nostra cinematografia proiettato a Venezia ( " Martin Eden " ) di cui ho parlato due settimane or sono, sono andato a vedere il secondo dei tre film italiani in concorso alla " Mostra ", premiato con una speciale menzione dalla giuria, senza peraltro nutrire eccessive aspettative. Mi incuriosiva, in questo film , il titolo leggermente sornione ( " La mafia non è più quella di una volta " ) e la fama del regista, quel Franco Maresco, palermitano, che , insieme al conterraneo Daniele Ciprì e da qualche tempo da solo, ci ha regalato ottimi film satirici e d'inchiesta al confine tra realtà  e finzione ( o meglio, artistico infingimento ). Penso a " Totò che visse due volte " , a " Come inguaiammo il cinema italiano",a " Belluscone". Insomma, avevo bisogno di capire se nel panorama dissestato della nostra cinematografia ci sia ancora posto per un film di buona fattura, capace di appassionarti, di parlare al tuo cuore e alla tua mente senza bisogno di ricorrere ad " astratti furori " ma semplicemente sgattaiolando dall'uscio di casa, tra la gente vera, dove pulsa la vera vita, fatta di cose concrete. Ebbene, fin dalle primissime inquadrature, quest' ultimo film non può lasciarti indifferente, anzi ti prende e non ti molla fino alla fine. Merito dell'andamento serrato e dell'abilità dello sceneggiatore-regista Maresco di tenere lo spettatore continuamente desto, sul chi vive, ansioso di saperne di più. La Mafia (per passeggera e spensierata distrazione, vi assicuro,  ne ho scritto il nome con la maiuscola... ) è un argomento delicato e  appassionante, certamente. E che ha innescato opere letterarie a volte di buona fattura ed anche più di un'opera cinematografica dal non effimero successo. Per molti un soggetto di studio o di semplice conversazione, per i siciliani una realtà  quasi quotidiana e , a Palermo, in determinati ambienti, una presenza silenziosa e costante. Ma il film , lungi dall'assumere toni di condanna  declamatori e scontati, preferisce sottilmente condurci a  toccare quasi per mano cosa vuol dire , oggi, convivere con la mafia a più di un quarto di secolo dall'emblematico sacrificio di Falcone e Borsellino.

" La mafia non è più quella di una volta " ( è anche l'affermazione di un personaggio del film che se ne intende ) inizia con la sconsolata constatazione che i palermitani, quelli più umili che dalla " onorata società " hanno subito in fondo i guai maggiori , non vogliono più ricordarsi dei due eroici magistrati che caddero sull'accidentato fronte della " legalità ". Li hanno rimossi, fanno finta che non siano mai esistiti, ostili probabilmente a tutto quanto li costringerebbe a rimettere in discussione il proprio modo di pensare e di agire,  quel " farsi i fatti propri ", il  " non impicciarsi ", che sono poi  il letto di coltura di qualunque organizzazione criminosa fondata sulla paura e sull'omertà. Rimane solo il guscio vuoto delle ritualistiche celebrazioni annuali della data delle due stragi, fatte di ovvietà e di retorica, senza un autentico coinvolgimento ( dovremmo forse dire " sconvolgimento" ) delle coscienze. Troppo rapide queste ultime, dopo l'iniziale emozione, a chiudersi a difesa di una  atavica " cultura " del silenzio e del distacco. Perfino nelle  disastrate ed insidiose periferie di Palermo, ad esempio quello " Zen " che è il simbolo di tutte le sconfitte dello Stato, la ricorrenza dei due tragici attentati diventa occasione di una bizzarra "celebrazione"  a base di esibizioni di cantanti " neomelodici ", danze rock e strampalati discorsetti di maniera. Ed è qui che la sagacia descrittiva, ai confini del grottesco, di Franco Maresco ( è lui il " Virgilio" che ci conduce per mano , di cui ascoltiamo la dolce cadenza sicula ma che non vedremo mai ) dà il meglio di sé. Interviste con coraggiosi intellettuali del luogo, come la grande fotografa Letizia Battaglia, o con  personaggi incredibili , come  il pirotecnico impresario di spettacoli popolari Ciccio Marra ( tanto vero da sembrare inventato) si incrociano con inquadrature a volte inquietanti, a volte francamente assurde se non fossero autentiche, a comporre un insieme che risulta sempre vivace e significativo. Meglio di un " reportage " giornalistico o di un documentario televisivo, il film ci trasporta per soli novanta, densissimi minuti ( finalmente ! ) in un mondo sconcertante. Si ride e ci si diverte perfino guardando le immagini di un film come questo, mai noioso e costantemente sorprendente. Ma, quasi sempre, si ride amaro. Paghi, alla fine, di una creazione intelligente e artisticamente tutt'altro che banale.

In questa stessa settimana, trascurando per il momento gli spettacolari film americani da poco in programmazione,ho proseguito nell' esplorazione di quel che offre oggi il cinema italiano, " Martin Eden " a parte, e parlerò così di un piccolo film ( " piccolo " per il budget modesto e la scarsa fama degli interpreti, ma non  per il suo valore ) che  probabilmente non sarei mai andato a vedere se la valente critica del " Foglio ", Mariarosa Mancuso,non ne avesse parlato bene destando la mia curiosità . Troppo infatti  sono rimasto deluso, in passato, da film di giovani autori nostrani ( è, questo, solo  il secondo film del regista  ) che sembravano promettenti all'inizio e finivano poi col cadere nel banale o nel risaputo. Non così, invece, "Il colpo del cane ", opera  di un cineasta - sceneggiatore unico e regista - appena ventottenne (auguri per la carriera ! ) che risponde al nome di Fulvio Risuleo e di cui ignoro il primo film, che pare si chiamasse " Guarda in alto ". Scrivere un film,trovare chi te lo produca e poi dirigerlo, quando non hai un nome molto conosciuto od eccellenti credenziali che ti vengono da una lunga e positiva attività, non è così semplice. Tra tanta pellicola sprecata ( come si diceva prima dell'epoca del digitale ) imbattersi in un film italiano ben fatto, senza tante ambizioni se non quella, peraltro fondamentale, di guadagnarsi l'attenzione prima , e l'adesione poi, dello spettatore, è cosa che va sottolineata con piacere. Prima di passare ad una breve analisi dei pregi ( più d'uno ) e dei difetti ( non gravissimi ) del film, visto che in un certo senso si tratta di un " giallo ", sia pure di genere molto particolare, accennerò appena alla trama.  Dunque, da un lato abbiamo due ragazze , come tante loro coetanee in disperata ricerca di un lavoretto per tirare avanti, costrette ad improvvisarsi " dogsitter " per un intero fine settimana. Dall'altra un " capellone " rimasto senza impiego, appassionato un  pò tardivo della musica " metallica ", alle prese anche lui con il sempiterno problema di raggranellare qualche soldo. Ed in mezzo lui, il vero protagonista del film, uno splendido esemplare di bulldog francese nano, dal nome di Ugo. E la storia può partire.

Quando si dispone di una trama abbastanza esile- e questa del " Colpo del cane " lo è - due sono le vie per cavarsela con onore. La prima è dotarsi di una sceneggiatura sufficientemente ingegnosa, che spiazzi un pò lo spettatore che crede di aver già capito tutto e conduca il film su un terreno un tantino più impervio ma che gli  garantisca egualmente la necessaria coerenza. La seconda è curare al massimo l'ambientazione,in modo da conferire all'opera quel respiro, quell'ariosità che la vicenda, da sola, non saprebbe dargli. Quanto alla sceneggiatura, chi vedrà il film capirà cosa voglio dire e confermerà, spero, la mia impressione che Risuleo  è riuscito a  far ripartire bene, nella seconda parte, un film che, dopo un inizio scoppiettante, rischiava di afflosciarsi su sé stesso, Unico neo, la poca fluidità del passaggio tra i due piani del racconto che avrebbe forse necessitato un raccordo più chiaro evitando un  momento di disorientamento per lo spettatore anche il più attento.
Quanto all'ambientazione , ecco finalmente una commedia italiana collocata a Roma che non  si limita a rifare penosamente il verso alle scenette di sapore televisivo o a ripercorrere  sentieri battutissimi ma cerca di costruire un contesto per i suoi personaggi che sia sufficientemente autentico e realmente funzionale alla vicenda : non semplici " cartoline illustrate ", battute vecchissime e situazioni anche qui troppo scontate, ma personaggi veri nella dimensione giusta perchè la vicenda assuma quel tanto di spessore( ne basta poco, in fondo ) che la renda veritiera ed attraente. Operazione, nonostante piccole scivolate nel  comico o nel  patetico che rompono un pò il tono generale del film, in gran parte riuscita e non certo merito secondario di un film che, nel situare la vicenda  in una Roma abbastanza insolita e non troppo bozzettistica, acquista- quel che non è comune nel cinema italiano di oggi - un sapore finalmente non legato ad una realtà territoriale troppo precisa. Molto buona mi è sembrata la fotografia, efficace la colonna musicale. Eccellente soprattutto la recitazione di Edoardo Pesce ( il " capellone " ) che ricorderete forse come il truce antagonista del " canaro " nell'impressionante " Dogman " della scorsa stagione. Carine e a posto le due ragazze. Clamorosa e da... " nastro d'argento " l'interpretazione del piccolo bulldog Ugo. Quando si dice  " recitare da cani "   non si ha certo in mente quel bravissimo animale che gioca un ruolo non  secondario nell'economia di questo simpatico filmetto. 


lunedì 16 settembre 2019

" TESNOTA " di Kantemir Balagov ( Russia, 2017 )

Ecco un film che mi piace segnalare ancorchè consapevole del fatto che probabilmente potranno vederlo in pochi , visto che  è in circolazione da noi dai primi di agosto ( bel periodo per far uscire un film importante come questo... ) ed è ormai relegato, almeno qui a Milano,  in qualche cinemino , eroico difensore dei film di qualità ma decisamente fuori dal circuito principale. Ma, che lo  si riesca a  vedere oppure no, ne voglio egualmente parlare perchè è ammirevole nella sua semplicità (tra l'altro è costato pochissimo  ) e al tempo stesso assai pregevole nei risultati artistici. Una testimonianza, insomma, di una certa idea di cinema. Quella in cui crediamo e che va difesa contro le derive che oggi si sono fatte particolarmente prepotenti. Segno che , al cinema come nell'arte in generale, contano soprattutto la freschezza delle idee, la coerenza e il coraggio di chi dà loro forma con onestà di intenti e capacità di catturare l'attenzione dello spettatore.
" Tesnota ", l'ho imparato adesso , in russo vuol dire " ristrettezza ", " strettoia ": la condizione , insomma, della persona impossibilitata a muoversi liberamente, stretta, a volte quasi soffocata da qualcosa di fisico e/o, più spesso, di immateriale: idee, pregiudizi, vischiosità di vario genere che le impediscono di raggiungere l'obiettivo cui tende. Ed anche il film, in un certo senso, qui in Italia, si è trovato in una situazione del genere. Relegato nel novero dei " film da festival " ( il film era stato in una sezione parallela, a Cannes, nel 2017 ) cioè il serbatoio  dove attendono quelle opere " autoriali " che distributori ed esercenti sdoganano col contagocce, timorosi che facciano pochi incassi e sottraggano spazio ai prodotti più redditizi, ha messo due anni dalla sua nascita ufficiale e diciotto mesi dall'apparizione sul mercato migliore per i film di qualità, quello francese, prima di uscire finalmente in Italia.

E nella " ristrettezza " esistenziale sembra muoversi la protagonista di questa vicenda : una giovane donna, non più in età adolescenziale ma non ancora affrancata dalla rispettosa sottomissione ai genitori. Dobbiamo dire che siamo in una remota regione d' Europa, il Caucaso settentrionale. E più precisamente nella Repubblica autonoma Cabardina, uno dei tanti frammenti etnico-geografici finiti un giorno nella sterminata Russia. La ragazza è ebrea ortodossa, di una piccola ma coesa minoranza che vive accanto alla preponderante comunità cabarda. Due realtà diverse nel grado di sviluppo ( quella ebraica interroga ancora la Torah per risolvere i propri problemi ) ma entrambe costrette ( ancora la ristrettezza ! ) a condurre una vita povera in tutti i sensi e senza grandi prospettive. Non così la nostra giovane ebrea, sprizzante di luce, di energia, di voglia di determinare autonomamente il proprio destino. Ma, tra avvenimenti drammatici di cui qui non dirò, la sua " doppia fedeltà " ( al gruppo familiare, alla comunità, alla tradizione da un lato e alla propria intima natura , ai propri progetti ed al desiderio di realizzarli dall'altro) verrà duramente messa alla prova. Posta "alle strette ", la ragazza deciderà. Un  bel tema, non certo nuovo, ma declinato qui in modo affascinante, attraverso passaggi di sceneggiatura sempre ben calibrati ( Martin Eden ,stai ascoltando ?... ) e un amore per i suoi personaggi e una fedeltà alle loro ragioni che piacerebbe vedere più spesso in tanto cinema d'oggi, dimentico del fatto che anche la finzione, al cinema come nella scrittura, ha le sue regole di verosimiglianza e di credibilità alle quali nessun autore può sfuggire.

Ma il film , oltre che ai valori del racconto in quanto tale ( e già non sarebbe poco ) unisce un andamento cinematografico di grande spessore, da artista consumato ( il regista e cosceneggiatore ,quando lo ha girato aveva solo ventisei anni ! ). A cominciare, certo , dalla fluidità del dipanarsi del filo del discorso, tra immagini sempre pregnanti, mai banali anche quando sembrano confuse, sovraesposte, maldestre ( e non lo sono, vi assicuro ) e personaggi descritti benissimo nella loro individualità di creature reali, in carne ed ossa, non fantasmi nati dalla fantasia sterile e malata di certi autori contemporanei. Ma un merito del film è quello di darci anche un'ambientazione ( gli interni della casa della ragazza, la squallida stazione di benzina del ragazzo cabardo con cui ha una relazione amorosa ) non tanto da " cinema- verità ", come potrebbe pensarsi troppo facilmente. Quanto sublimati, rivissuti e descritti in modo fedele certamente al vero ma artisticamente autonomo, vicino alla sensibilità del regista e capace di aggiungere qualcosa alla descrizione dei personaggi, dell'ambiente in cui si muovono. Ecco così i toni caldi, le tinte vivaci eppur tendenti allo scuro della casa della famiglia ebrea e le tinte fredde , slavate, quasi con sentore di disfacimento e di morte della cittadina cabarda, poco di più di un provvisorio accampamento di nomadi con i soli edifici pubblici di mostruosa imponenza, eredità dell'epoca sovietica.
Un film molto intelligente ma non intellettualistico. Vissuto col cuore dall'autore, uscito da quelle comunità per studiare cinema a San Pietroburgo ma profondamente segnato dall'esperienza giovanile. E , soprattutto, una lezione di realtà, di verità, di amore per la vita. Una lezione di cui il cinema d'oggi ha molto bisogno. Fortunati, quindi, coloro che riusciranno a vedere " Tesnota " !

mercoledì 11 settembre 2019

" MARTIN EDEN " di Pietro Marcello ( Italia, 2019 ) / " THE RIDER " di Clohé Zhao ( USA, 2017 )

Presentato pochi giorni or sono alla Mostra di Venezia, ecco uscire nelle sale " Martin Eden", diretto da  un regista italiano pluriquarantenne ma relativamente poco conosciuto, il casertano Pietro Marcello. Il film - è la pubblicità che parla - " è stato applaudito dal pubblico della  prima  per ben nove minuti " . Ignoriamo quanto lo siano state le altre opere  in concorso e quindi ci è impossibile stabilire una graduatoria  tra di esse in base ai battimani degli spettatori (non sempre disinteressati, sarà utile rammentarlo, in queste occasioni festivaliere in cui le case cinematografiche non lesinano sforzi per accrescere la risonanza mediatica dei loro prodotti ). Nove minuti, otto o dieci, non ha peraltro importanza. "Martin Eden ", diciamolo subito, è un brutto film. Un film noioso, innanzitutto. Ed è questa già una  negativa constatazione , visto che in genere si va al cinema non per annoiarsi, sebbene per trarne diletto per l'anima e la mente, ristoro dalle pene giornaliere, interesse per quanto ci viene mostrato. Qui, in due ore e un quarto di proiezione, nessuno di tali modesti ma essenziali traguardi ci viene concesso. Vi è di più. Non solo è noioso ( molti film, nella loro pochezza, lo sono stati ed altri ancora lo saranno ) ma è anche irritante. Un difetto ,questo, maggiore del primo. Irritante perchè pretenzioso, supponente. Arieggia ad opera innovatrice, capace di prendere un modesto romanzo americano dei primi del Novecento, trasportarne la vicenda in una Napoli senza tempo e farne una metafora non solo del progressivo involgarimento- materiale e spirituale- della nostra compagine nazionale; ma anche , parrebbe di comprendere, del fallimento sostanziale di tutti i miti del " secolo breve". Nella teoria evoluzionista dell'ormai dimenticato filosofo Herbert Spencer, cui il romanzo di Jack London apertamente si ispira, l'organizzazione sociale dovrebbe infatti lasciare libero corso all'individuo e non, come da più lati essa ha sempre cercato di fare, irregimentarne le pulsioni vitali. Scritto nel 1909, " Martin Eden " non poteva certo conoscere i tragici errori  cui il secolo sarebbe andato incontro. Ma non era sul futuro particolarmente ottimista. Ora il film - se possibile ancora più fosco- suppone di essere facilmente decifrabile dallo spettatore e presume soprattutto di essere in grado di coinvolgerlo  e di emozionarlo. Giungendo così, in definitiva, ad essere un film ambizioso  ma non esteticamente ed intellettualmente appagante: che  questo proprio, a mio avviso, non è.

Martin Eden ( con non troppo velato autobiografismo da parte di London ) è un giovane diseredato, un povero marinaio che vive negli angiporti. Entrato casualmente in contatto con una famiglia di ricchi borghesi e soprattutto con Ruth ( nel film Elena ) di cui perdutamente si innamora,  affascinato da un ambiente e da una cultura cui è forzatamente estraneo, decide di diventare uno scrittore ricco e famoso attraverso un duro apprendistato da autodidatta. Respinto e deriso da tutti all'inizio, riesce infine a " sfondare " con la letteratura e  ad acquisire la ricchezza e il potere che agognava. Ma ben presto si rende conto che nè la cultura, nè le teorie ed i movimenti politico-filosofici  che vede agitarsi intorno a lui in un crogiuolo che prepara inarrestabilmente lo scontro tra i popoli e le nazioni, sono in grado di cambiare realmente i rapporti di classe, né l'istinto di sopraffazione che è negli individui, favorito se non istigato da una società arida e materialista. Cade quindi in una profonda depressione che non riesce a venire  mitigata dal suo amore per gli umili, i buoni, i puri di animo. Bel tema, come si vede. Si capisce come possa a sua volta aver affascinato un isolato- e probabilmente un deluso dalle ideologie  e pratiche novecentesche- quale deve essere  Pietro Marcello, autore sin qui di operine semidocumentaristiche apprezzate dalla critica  ma sostanzialmente ignorato dalla macchina produttiva commerciale e dal pubblico. Ed è altrettanto evidente che la tentazione era forte di trasferire la vicenda dalla California di Jack London ad una Napoli che il regista deve conoscere bene : una città che è da sempre laboratorio sociale, incrocio di varia e possente umanità ma destinata sostanzialmente a non cambiare mai, a macinare gli stessi equivoci, le stesse speranze e le stesse delusioni. Ad immagine di una Italia che , in questi decenni , ha visto scomparire la sua ingenuità e vitalità popolaresca, finendo col perdere l'anima inseguendo i miti neocapitalistici del benessere materiale e del facile successo. Peccato però che tutto ciò-  intendo il possibile significato di un film ideologicamente di non agevole lettura - emerga con fatica dalla visione del film, infarcito com'è di tante suggestioni, simboli e personaggi a tesi che quasi mai riescono a fondersi in un discorso chiaro, lineare, cinematograficamente convincente e coinvolgente. Occorre tentare solo successivamente di ricostruire, mettendo insieme  i pezzi sparsi, quanto si è visto, per arrivare ad una interpretazione che dia un senso ad un contenuto tanto debordante e magmatico.

Se dunque da un punto di vista contenutistico siamo in presenza di un'opera faticosa , sostanzialmente non riuscita perchè non consente una immediata comprensione del suo assunto, solo confusamente esplicitato, non molto meglio vanno le cose per quelli che sono gli aspetti puramente estetici del film. Aspetti che poi, in una inscindibile connubio di contenuto e forma, dovrebbero permettere proprio di dare un senso compiuto all'intero film e di farci  penetrare nel mondo delle idee e dei sentimenti dell'autore che hanno dato vita all'opera stessa. Se il cinema, come sappiamo, deve essere " emozione ", adesione anzi simbiosi dello stato d'animo dello spettatore con le intenzioni dell'autore, " Martin Eden ", intriso di intellettualismo, incapace di trasmettere vere sensazioni che non siano di crescente malessere in chi lo guarda, è un esempio da manuale di " non cinema ". Il suo stesso linguaggio cinematografico, tutt'altro che fluido e disteso bensì spezzettato, claudicante, frutto di una continua alternanza di piani lunghi con piani ravvicinati, addirittura dettagli di volti , di corpi, di oggetti,  " inserti " costituiti da reperti e documenti fotografici del passato, giustapposizione di piani fissi con carrellate o movimenti di cinepresa mobile che non trovano reale giustificazione in una concezione estetica o in un punto di vista " morale " sufficientemente coerente, lascia molto a desiderare ed aggiunge nuova fatica allo spettatore.
Resta, forse, un unico elemento positivo in un' opera praticamente fallita. Ed  è l'interpretazione. Non tanto quella , iperlodata e mediaticamente sopravvalutata per chiare esigenze di " show business ", dell'attore principale, Luca Marinelli ( vincitore a Venezia della Coppa Volpi ). Il suo Martin Eden a tratti appare teso ad inseguire una " cifra " interpretativa  didascalica, brechtiana,  esterna al personaggio. Altre volte invece , e massimamente nella seconda parte del film , sembra  quasi criticare il personaggio dall'interno, con enfatico vigore degno, come è stato  osservato, di un Carmelo Bene redivivo. Penso piuttosto ai tanti attori minori, di scuola in gran parte napoletana ( la migliore al mondo insieme a quella anglo-irlandese ) dai volti antichi, icasticamente popolari, che non sarebbero dispiaciuti a Pasolini. Poco davvero, peraltro, per consigliare  qualcuno di sobbarcarsi alla visione del film.


Cosa dire invece del secondo film di cui parliamo oggi ( " The Rider " di Chloé Zhao  , chiamato anche in Italia " Il sogno di un cow-boy " ))  che , presentato a Cannes ben due anni or sono, giugno del 2017,finalmente ha trovato la via del nostro circuito commerciale ( anche se, mi si dice, non sia  di  facile reperibilità ) ? Messo accanto a " Martin Eden " fa ovviamente un figurone per la sua immediata comprensibilità, per la forma brillante e particolarmente suggestiva, l'adesione spontanea che induce nel fortunato spettatore. Ma anche in assoluto - senza occasionali ed improponibili confronti con il film di Marcello - " The Rider " è tale da riconciliarci col cinema : forma d'arte effimera, forse minore, ma che, nei suoi aspetti migliori, richiede grande sensibilità e starei per dire " cuore puro " , non contaminato da una mente troppo sovraccarica, da parte di chi si azzarda a praticarla.
Di " The rider ", quando fu presentato a Cannes, avevamo naturalmente già parlato a suo tempo qui  nel blog ( " 5 film da Cannes " , in data 24/6/2017 ). Per non costringervi a scartabellare all'indietro nel cercare quella recensione, la riproduco qui di seguito .

"E poi, il terzo giorno, ecco un autentico capolavoro senza ma e senza se. Non spreco spesso questo appellativo. Al cinema, di questi tempi, è già molto vedere una cosina spiritosa e garbata... Ci si accontenta, insomma, paghi di trascorrere novanta minuti in maniera intelligente. Se dico che " The Rider " ( " Il cavaliere " ) è un capolavoro, lo dico a ragion veduta. Certo, anche d'impeto, sull'onda dell'emozione che mi ha suscitato. Ma anche dopo averci riflettuto ed aver ricostruito tutti i passaggi di sceneggiatura, di montaggio, le inquadrature, il dialogo, di un film che riannoda sia con la migliore tradizione del cinema americano " classico " ( i Ford, gli Hawks, gli Huston perchè no ? ) che con il lascito del più problematico cinema,  sempre USA, degli anni '70 (  Scorsese, Cassavetes, Schatzberg ecc. ) mi sono nuovamente convinto che è un grande film . Un film ( distributori italiani attenti ! ) che sarebbe delittuoso non farci vedere nella prossima stagione solo perchè non ha attori conosciuti ( sono tutti non professionisti che interpretano sè stessi ) e parla quasi unicamente  di " rodeo " ( ricordate " Gli spostati ", in originale " Misfits ", con Gable e Montgomery Clift ? ) di cavalieri e di cavalli. Con particolare riguardo a queste due categorie quando, per l'una e per l'altra, la loro parabola ascendente si è conclusa e occorre venire a patti con la dura realtà. Ma parla  anche di sogni, di speranze, di amicizia e di affetti familiari. Praticamente di tutto quello che conta, nella vita. Ma lo fa senza piagnistei. Con ciglio asciutto, dolcezza e forza al tempo stesso . Un film " virile " starei per dire, se non l'avesse scritto, diretto e prodotto,  una donna . Una piccola, giovane donna sino-americana che risponde al nome di Chloé Zhao ( ricordatevelo perchè ne sentirete parlare ). Questo è il suo secondo film, dopo " Songs my brother taught me ", del 2015, egualmente presentato nella prestigiosa sezione della " Quinzaine des réalisateurs ". " The Rider " la " Quinzaine " quest'anno l'ha vinta , conquistando il primo premio. Ma non esagero se dico che se fosse stato presentato nella competizione principale gli si sarebbe dovuto dare la Palma d'oro. Tanto questo film sa toccare con pudore - e vigore - le corde più segrete della nostra natura umana. E tanto fa con assoluta padronanza del mezzo cinematografico , senso del ritmo, veri personaggi che si muovono negli spazi sconfinati del Sud Dakota, inquadrature emozionanti ( che siano i cieli al tramonto, le distese di granoturco con lo sfondo delle montagne oppure un povero paraplegico che è stato un grande " cowboy " o un gruppo familiare in una dimessa " mobile home " ). Davvero eccitante  la visione di questo " The Rider ", pensando che è stato girato con quattro soldi e che si appresta ad ad avere un grande successo in patria e, speriamo, un giorno qui da noi. Una storia molto bella, dicevo , affascinante perchè è quasi un documentario o , piuttosto , una " fiction " che è però un documento di vita vera , vissuta. E l'arte, come sappiamo, insegue la vita , la trasfigura e ce la restituisce rendendola paradigmatica , unica ed emozionante. Proprio come fa questo " Rider ", sorpresa ed autentico regalo di Cannes 2017."