lunedì 28 gennaio 2019

" LA FAVORITA " di Yorgos Lanthimos ( Regno Unito / USA, 2018 )

La regina Anna d' Inghilterra ( 1702- 1714 ) fu una donna molto infelice. Ascesa al trono  a trentasette anni senza una forte vocazione per il potere, si destreggiò alla meno peggio tra le opposte fazioni parlamentari che cercavano di far pendere dalla loro parte le  esitanti ed incerte decisioni della Corona. Vedova di un principe danese abbastanza evanescente, ebbe tredici gravidanze non portate a termine più cinque figli morti dopo pochi anni di vita che la condussero ad una forte depressione e ad uno stadio regressivo che chiameremmo di eterna infanzia capricciosa. Diffidente e profondamente ferita da un destino così avverso, si lasciò guidare dalle poche persone della Corte che accettò di tenersi vicine. Tra queste, la " favorita " era Lady Sarah Churchill, sposata con il conte di Marlborough, comandante in capo dell'esercito,  impegnato in una lunga ed improduttiva guerricciola con la Francia ( la c.d."guerra di successione spagnola" ).
Fin qui i libri di storia, che pongono in evidenza  l'importanza di questo periodo per le sorti della Monarchia britannica,rese più propizie dalla fusione avvenuta in quegl'anni tra il trono d'Inghilterra e quello di Scozia e d'Irlanda , a fronte della sostanziale inadeguatezza della sfortunata sovrana. Ed è a questo punto, più o meno a metà del suo regno, che prende le mosse l'interessante, vivacissimo film del regista greco Yorgos Lanthimos. Girato come i due precedenti in lingua  inglese e  in Irlanda, con capitali inglesi ed americani ( " The lobster " , " Il sacrificio del cervo sacro " ) il film è stato presentato alla " Mostra " di Venezia nello scorso settembre guadagnando un Leone d'argento e una " Coppa Volpi " per la migliore interpretazione femminile, andata all' attrice inglese Olivia Colman che interpreta appunto l' infelice regina. Accolto a suo tempo dalla critica con giudizi prevalentemente positivi ( ma anche da qualche riserva ) " The favorite " è il film che lancerà definitivamente, con tutta probabilità , dal punto di vista commerciale il quarantaseienne Lanthimos, rimasto finora circoscritto ai festival internazionali  e conosciuto da un pubblico ristretto.

Debole, incerta nei ragionamenti, a suo agio solo nel puerile rapporto con gli adorati coniglietti che tiene con sè nelle sue stanze, Anna appare come la vittima designata di donne più forti, volitive , capaci di entrare nel suo limitatissimo spazio di simpatia e di amicizia. Come per l'appunto la intelligente ed ambiziosa Lady Sarah Churchill ( Rachel Weisz ) sua intima confidente fin da quando erano compagne di giochi, che ora tende  a dirigere " de facto " gli affari della Corona appoggiandosi al partito " whig ", cioè liberale.  Sostenitore, quest'ultimo, del mondo degli affari, convinto che la guerra profitti ad esso e pronto quindi a sostenere l'imposizione di nuove tasse per finanziare le operazioni militari contro la Francia, in contrapposizione al partito " tory ", cioè conservatore che, espressione degli ambienti dei proprietari terrieri presi tradizionalmente di mira dal fisco,punta invece ad una sollecita pace con Parigi. Nelle prime scene del film assistiamo all'arrivo alla residenza estiva della Regina di una lontana cugina di Sarah, Abigail Masham, che caduta la famiglia in miseria e morto il padre, cerca con insistenza un qualunque impiego presso l'influente " favorita ". Adibita dapprima ai lavori più umili, vittima della brutalità e della sciocca prepotenza degli ambienti di corte, Abigail ( Emma Stone ) riesce a farsi apprezzare dalla cugina e, con tenacia ed  astuzia, ad entrare addirittura nelle grazie della sovrana. Scopriremo presto che, sotto  modi ed apparenze soavi e modeste, la giovane donna è una temibile arrivista, fredda e calcolatrice, intenzionata a scalzare la più matura ed esperta Sarah dal cuore della Regina, non esitando  ad intrecciare con quest'ultima  una relazione sempre più intima. Manipolata dal partito " tory " che spera così che l'influenza " whig " sulla Regina, impersonata dalla vecchia favorita, abbia a cessare con l'affermarsi della nuova , Abigail sembra raggiungere entrambi gli obiettivi, personale e politico, fino al momento in cui....

Metà film " in costume ",dalla sontuosa ed accurata ricostruzione storica, e metà riflessione semifilosofica sul potere e  la condizione umana che, che si sia dominanti o dominati, tutti ci accomuna in una tragico, grottesco ed insensato carosello, " The favorite " offre diversi piani di lettura e si presta a più di una interpretazione. Intesa come descrizione di una corte del XVII ° secolo e quasi piccolo saggio sociologico sulla stratificazione sociale dell'epoca, è vivace, puntuale, spesso spiritoso e ci garantisce un ritratto quanto mai accattivante di un' epoca in fondo poco studiata ( anche se il cinema, con " Tom Jones " e " Barry Lyndon ",  vi aveva già fatto qualche fulgida incursione) tanto ricca di chiaroscuri, lieve, spiritosa, quanto  carica di una violenza sotterranea particolarmente temibile. Quei cortigiani intenti ad oziose imprese, preoccupati del loro rango , sempre pronti ad infierire sui più deboli, più che una  semplice e sfocata illustrazione da antologia storica sono un epitome degli istinti di prevaricazione che albergano sempre in una parte dei nostri simili, conducendoci così ad una riflessione più ampia e meno cronologicamente circoscritta sulla vicenda esposta da " La favorita ". Donna in un mondo  rudemente maschilista, povera e senza grandi quarti di nobiltà, Abigail , per emergere nell'ambiente che la circonda e che la imprigiona, simile ai coniglietti in gabbia della regina, non possiede che le proprie  risorse personali, poste al servizio della ferma determinazione di farsi avanti a tutti i costi. Non basterà che Sarah,  lei amica d'infanzia di Anna, ricca e influente, nel momento della propria disfatta butti lì, quasi come estrema ed inutile recriminazione, una frase chiave per capire il retroterra della contesa tra le due cugine per conquistare i favori della sovrana : " Noi non  giocavamo lo stesso gioco ! " . Con il che volendo senza dubbio significare che la propria consolidata posizione di favorita poggiava sull'autenticità dei sentimenti nei confronti  della regina, suffragati dall' intenso  rapporto esistente tra le due donne. Mentre la rapida scalata al potere da parte di Abigail era puro inganno, astuzia, assenza di qualsivoglia scrupolo. Così va il mondo, e non ci si può far nulla, sembra dirci con un pizzico di nero pessimismo il regista Lanthimos, ricollegando così anche questo film ( probabilmente il suo migliore sino ad oggi ) ad un " corpus " filmico complessivo che offre  al suo interno parecchi toni beffardi e nichilisti.

Opera certamente complessa e ricca di non pochi spunti di interesse anche solo contenutistico, " La favorita " da un punto di vista cinematografico è da guardare con grande piacere per le sue indubbie qualità. Scenograficamente splendido, con un'ottima fotografia ( bizzarre ma non peregrine le inquadrature con grandi focali che permettono di avere una visione a tutto campo, quasi tridimensionale, delle immagini in esse contenute )il film possiede ritmo sostenuto  e che non lascia un attimo di tregua. Sceneggiato da due scrittori di professione per cinema, televisione e radio, convince per il tono a tratti  farsesco con cui viene raccontata la vicenda. L'interpretazione , poi, è il suo autentico punto di forza. Olivia Colman dà alla regina Anna una dimensione tra il comico ed il tragico , quindi grottesco, quanto mai convincente, ed accenti di grande verità. Bene anche le due " favorite ". Meglio la Stone , finalmente priva delle intonazioni melense alla " La la land "e restituita alla sua vocazione di grande commediante. Ma non male anche l'apparentemente algida Sarah, interpretato da una intensa Rachel Weisz.
Resta la regia, responsabile senza dubbio del vigore plastico delle scene e delle  tante sottigliezze visive ( non tutte peraltro di prima mano, dentro vi è un pò del cinema inglese degli anni '60, di Kubrick e dell'ultimo  Fellini) e che testimonia di un discreto talento. Però, se dovessi racchiudere il mio giudizio critico in una sola ed ellittica espressione, riprenderei una vecchia distinzione tracciata già in passato tra film " di testa " e film " di cuore ". Non che per fare un film non ci vogliano entrambi, dosati in una miscela che, a seconda delle circstanze, deve contenere abbastanza  dell'una e dell'altra componente . Qui, per dirla tutta , ho solo il sospetto che " La favorita " ( come tutto il cinema di Lanthimos ) sia più cinema della prima specie ( un pò troppo arzigogolato, quasi studiato a tavolino ) che della seconda ( che nasce invece da un'urgenza propriamente sentimentale dell'artista , volta a tradurre in immagini in movimento e a trasporre sullo schermo la genuina emozione estetico-morale che egli prova  e che intende comunicare al suo pubblico. ). Ognuno , vedendo il film , potrà giudicare se questa mia sia una intuizione che trovi qualche fondamento . E che , ripeto, non toglie comunque il piacere di calarsi con profitto   nella vicenda  e nei personaggi .

domenica 20 gennaio 2019

"La DOULEUR " di Emmanuel Finkiel ( Francia, 2018 )

I film ambientati durante la seconda guerra mondiale costituiscono, dal 1945 ad oggi, un capitolo piuttosto consistente nella storia della cinematografia occidentale. La descrizione di episodi, veri o inventati, svoltisi in quegli anni sembra attirare irresistibilmente la fantasia dei cineasti e piace, in definitiva, al pubblico. La spiegazione risiede nell'essere, quella vicenda storica, sufficientemente a noi  vicina da evocare ricordi o almeno un' eco familiare in coloro che ne hanno  sentito parlare, ne hanno letto qualcosa e ne hanno probabilmente visto già qualche trasposizione per il grande o il piccolo schermo. Nello stesso tempo quelle storie conservano il fascino del desueto, diremmo dell' "antico ma non troppo", portatrici in più del mito fondatore dell'epoca in cui viviamo ( i cambiamenti sociali e psicologici che si sono calati nei nostri comportamenti odierni, il progresso tecnologico sempre più accelerato, la sensazione di rottura con il mondo di  "prima" rimasto per troppi decenni sostanzialmente immobile).Il rischio che incombe però, in queste rappresentazioni, è l'eccessivo indugiare, spesse volte, sulle scontate descrizioni ambientali ( mobilio, arredamenti , vestiario ) trascinati dal gusto sempre incombente del " retrò ", della raffigurazione puramente decorativa nella quale finiscono col rifugiarsi gli autori a corto di fantasia. Come ricordava spiritosamente un mio amico, in film del genere si può dare per sicuro, qualora in una scena compaiano militari tedeschi, SS o semplici graduati di truppa ma sempre con bei stivali lucidi ed il classico fucile mitragliatore, che essi diano ad un certo punto secchi comandi gutturali, rigorosamente incomprensibili , e in uno sbattere di tacchi corrano ad inforcare motociclette Zundapp con l'immancabile sidecar. Scherzi a parte, l' "attrazione fatale " per i luoghi comuni e le belle ambientazioni  d'epoca, ha colpito più di una volta e ha reso il " filone " di questi film un genere abbastanza ambiguo quando, naturalmente, non sia sorretto a monte da una robusta ispirazione e da un superiore dominio della materia filmica ( " Schindler's list " di Spielberg, tanto per intenderci , non può certo essere considerato un film che indulga ai particolari d'epoca e che cada quindi nella ricerca dell'effetto decorativo mentre " Allied " di Robert Zemeckis, visto nella scorsa stagione, va ad infilarsi almeno in parte in tale trabocchetto).

Sfugge senza dubbio al rischio di cui si diceva, nonostante l'atmosfera sovente felpata e suggestiva, potenzialmente pronuba all'indugiare della macchina da presa sul " décor " della vicenda, il bel film francese dal titolo, rimasto anche nella versione italiana, di " La douleur ", ambientato appunto nell'arco temporale di due anni, tra il 1944 ed il 1946 . Tratto da un'opera - metà diario autobiografico, metà romanzo - della scrittrice Marguerite Duras, è uscito in Francia un anno fa e , per i misteri della distribuzione italiana, approda solo ora ai nostri schermi, spinto anche probabilmente dal fatto che rappresenterà i colori transalpini alla prossima corsa all' Oscar per il miglior film non in lingua inglese. Ed è una fortuna per noi perchè altrimenti, diretto da un regista interessante ma poco noto in Italia come Emmanuel Finkiel ( prevalentemente sceneggiatore ) e con una attrice nella parte pricipale, altrettanto valida ma semisconosciuta  come Mélanie Thierry, rischiava seriamente di non trovare qualcuno disposto a correre l'alea di proiettarlo. La storia peraltro, almeno per gli appassionati della Duras, è conosciuta anche da noi perchè il libro, uscito nel 1985, è stato tradotto e pubblicato lo stesso anno da Feltrinelli riportando un discreto successo. Il "dolore"  del titolo è quello che avverte costantemente, fino a diventare una sorta di morbosa ossessione, la protagonista, cioè Marguerite Duras, per l'assenza del marito, lo scrittore Robert Antelme, resistente antinazista, arrestato e deportato dai tedeschi prima ad Auschwitz e poi a Dachau, di cui  ella attende speranzosa, una volta liberata la Francia e sconfitta la Germania, un quasi impossibile, miracoloso ritorno a casa.  Nel frattempo Marguerite si adopera per avere notizie del coniuge, aiutata dai compagni della Resistenza (tra questi , Francois Mitterand, futuro presidente francese ) e protetta in un certo senso da un ambiguo, sinistro esponente della polizia francese collaborazionista, tale Rabier. E lo strano rapporto che viene ad instaurarsi tra la scrittrice, ansiosa di migliorare la condizione del marito prigioniero, ed il " questurino " interessato a giungere attraverso di lei ai vertici dell'organizzazione clandestina cui apparteneva il marito per smantellarne le fila costituisce una delle parti più drammaticamente vitali dell'intero film.

Sorretta da una ambientazione molto accurata ancorchè ( vedi sopra ) per niente soverchiante, la vicenda narrata dal film si dipana armoniosamente, con quel tanto di misterioso , di " non detto " che al cinema, come in letteratura, accresce il fascino di qualsiasi trama. E che qui- come avvertirà chi andrà alla proiezione - le conferisce echi e tonalità particolarmente ambigui e suggestive, in perfetto carattere con un momento storico, quello dell' occupazione nazista in Francia nei confronti della quale i nostri cugini d'Oltralpe non hanno mai saputo o voluto fare  sufficientemente luce . Ambiguità (l'attrazione  perversa, a tratti di sapore marcatamente erotico, che Marguerite prova per il suo pericoloso protettore ) che ritroviamo nel comportamento e nella psicologia dei personaggi . " Sei  piu' legata a tuo marito o non piuttosto al tuo dolore ? ", chiede pertinentemente a Marguerite un suo compagno nella cellula resistenziale, andando così a cogliere l'aspetto meno confessabile e sottilmente ambivalente del sentimento della scrittrice nei confronti dell'assenza del marito. E a dare volto e corpo alle ambiguità di Marguerite ed alla sua angoscia esistenziale, ecco un'attrice di notevole " charme " ( ancorchè non bellissima , del resto non lo era la Duras neanche da giovane ) come Mèlanie Thierry. " Elle a du chien ", dicono i francesi di determinate donne dal fascino forte ma non usuale, quasi " canino ", diremmo anche noi. Ed a questa onorevole categoria appartiene senz'altro la brava ed intensa attrice francese. Sceneggiatura di platino ( opera dello stesso Finkiel ) con ingegnose situazioni per illustrare l'ambivalenza e lo smarrimento della protagonista. Un pò meno convincente la regia, forse a tratti un pò lasca e meno sorvegliata di come avrebbe potuto essere, leggermente leziosa in alcuni passaggi , ma per il resto con bei primi piani e ritmo sostanzialmente sostenuto. Un bel film , dunque, che merita lo si vada a vedere per rendersi conto di come un romanzo non facilissimo da trasporre sullo schermo sia stato reso con quella intelligenza e capacità tecnica che si appalesevano indispensabili. " Qualità francese", vien fatto di osservare e mai luogo comune si rivela , come questa volta, sorprendentemente vero.




domenica 13 gennaio 2019

" BOHEMIAN RAPSODY " di Bryan Singer ( Usa, 2018 ) / " VIA COL VENTO " di Victor Fleming ( USA, 1939 )

Il " biopic " musicale, come si usa dire , cioè la biografia di musicisti, cantanti, esecutori e via discorrendo, è sempre stato in America uno dei " generi " cinematografici più frequentati da sceneggiatori e registi. Amati dal pubblico che ha per la musica, specie quella più popolare, una passione particolarmente forte, i film di questo filone incontrano, è vero,  moderato riscontro se si tratta di artisti la cui fama era rimasta prevalentemente confinata negli " States ". Ma quando vengono rappresentate esistenze, traversie e successi di personaggi mondialmente conosciuti ed apprezzati, allora anche da noi in Europa - e in particolare in Italia - il pubblico affluisce ed apprezza, a volte anche oltre il valore intrinseco delle suddette biografie filmate: tanto è il richiamo di una musica che piace, che ha contrassegnato un'epoca e tale è il ricordo, talvolta addirittura il mito, di coloro che ne sono stati gli artefici o almeno gli interpreti. Per quanto riguarda il nostro Paese, ad esempio tra pochi giorni esce  sugli schermi ( e poi lo vedremo in televisione ) il film dedicato alla controversa figura di una brava e sfortunata cantante di musica leggera, Mia Martini , ed è facile pronosticare l'interesse che questa biografia potrà suscitare tra i patiti di quel genere musicale.
Nulla di paragonabile peraltro al successo davvero planetario che arrise tra gli anni '70 ed '80 dello scorso secolo al gruppo inglese di musica " rock " chiamato irriverentemente " The Queen " e al suo leader, il sulfureo cantante Freddy Mercury, tragicamente scomparso ancor giovane nel 1991. Ad essi il regista Bryan Singer ( " I soliti sospetti " e qualche film della serie " X-men " alle spalle ) ha dedicato ora, su sceneggiatura di Anthony McCarten, un film che prende nome da uno dei loro brani più famosi , " Bohemian Rapsody ", e si accentra giustamente sull' esponente del gruppo fornito di maggiore personalità.

Dotato di una voce particolarmente delicata e  robusta al tempo stesso , bizzarro nelle vesti di personaggio pubblico sempre chiaccherato e discusso, Freddy Mercury non poteva passare certo inosservato. Bisessuale confesso fin dai primi anni e poi  piena icona " gay " di quegli anni così capitali per i  tanti cambiamenti nel comune sentire e nei comportamenti sociali, Mercury è stato anche, e glie ne va dato atto, una figura davvero importante della musica di allora, aiutando la transizione dallo stile più moderato e decadente degli epigoni dei Beatles ad uno più muscoloso e barocco, ricco di influenze anche di altri generi musicali. Questo prima che, nei successivi decenni, la musica " disco " e poi quella "tecno", più monotona e martellante, contribuissero a mettere la parola fine ad una grande rivoluzione musicale iniziata negli anni '50 ed andata via via irrobustendosi in sintonia con l'evoluzione dei costumi, delle aspirazioni e dei consumi della popolazione più giovane. Questo per dire quanto il genere musicale e l'esperienza di vita del cantante inglese , sullo sfondo delle grandi novità che investirono a quel tempo il mondo occidentale, si prestino senza dubbio ad essere rappresentati sullo schermo. A testimonianza non solo di una musica godibile e  che ancora oggi solletica i nostri sensi e ci offre " buone vibrazioni ", ma anche di un'epoca variegata e ricca di tantissimi fermenti che il cinema ha più volte reso in maniera ammirevole e che si presta sempre a raffigurazioni ed approfondimenti quanto mai stimolanti. E occorre subito dire che , nella prima parte, quella antecedente al primo scioglimento del gruppo,  " Bohemian Rapsody " mantiene bene le promesse di un cinema capace di cogliere e di restituirci l'atmosfera di quegli anni davvero formidabili. Veloce, a tratti giustamente umoristico e sottilmente romanticheggiante, il film scorre via senza particolari intoppi, aiutato da una ambientazione sobria ma appropriata della Londra dapprima e poi degli Stati Uniti dell'epoca, nonchè da una " resa " dei brani musicali ( credo in parte gli " originali " del gruppo, in parte forse no ) particolarmente efficace da un punto di vista anche solo squisitamente cinematografico. 

Non così , purtroppo, la seconda parte di un film decisamente troppo lungo ( due ore e un quarto ! ) e che, nel dar conto della decadenza fisica ed artistica di Mercury susseguente al suo traumatico distacco dal gruppo, vira troppo bruscamente verso una descrizione assai insistita e sovrabbondante delle sue nuove frequentazioni, del disordine,  delle pulsioni ed angosce di una vita baciata dal successo materiale ma povera di autentici affetti. Giusto dar conto di questo fase così complessa della parabola esistenziale del cantante, propedeutica  del resto alla apparentemente salvifica ricostituzione del gruppo nel 1985 per il grande concerto benefico di Wimbledon a favore della carestia in Etiopia. Ma occorreva farlo con moduli e toni, a mio avviso , diversi : meno  pesanti e scontati nel dar conto di quello che  così finisce troppo con assumere l'aria di un ennesimo capitolo del logoro, abusato binomio dell' arte quale " genio e sregolatezza ", più coerenti in definitiva con i moduli narrativi della prima parte. Mi si dirà che, per l'appunto, la vita di Mercury era profondamente cambiata e bisognava quindi dare  allo spettatore la piena sensazione di ciò. Ma sappiamo bene che per raffigurare la noia ( al cinema o in un libro ) non occorre proprio essere noiosi e per rappresentare la volgarità non è necessarissimo risultare anche volgari. Avremmo preferito, insomma, che il film non si perdesse in descrizioni troppo sovraccariche e che nulla aggiungono ( o sottraggono ) ad un personaggio già di per sè "sopra le righe " . Ed anche la  lunga, eccessivamente lunga ricostituzione del " Live Aid " del 1985, assume troppo l'aria di un laico " cammino della croce ", teso ad esaltare e quasi glorificare la figura del protagonista alla luce della sua scomparsa, pochi anni dopo. Per fortuna, per redimere in qualche modo un personaggio che rischia di diventare " bigger than life " c'è l'interpretazione, davvero eccellente,  di Rami Malek nella parte di Mercury ( somigliantissimo all'originale ) già in procinto di guadagnare numerosi e meritati  riconoscimenti e che, a conti fatti, rimane  del film la cosa migliore.

Sempre in tema di successi d'oltre Oceano che hanno avuto un buono , anzi un ottimo riscontro anche da noi, vale la pena di soffermarsi ora su uno dei massimi traguardi commerciali della storia del cinema, appena ammirato. Mi riferisco a " Via col vento " (" Gone with the wind " ), il mitico " Kolossal " girato alle soglie della seconda guerra mondiale. Diretto da Victor Fleming, di cui rimane il film migliore, ma profondamente influenzato dal genio produttivo di David O. Selznick, interpretato da alcuni dei migliori attori della Hollywood di quei tempi ( Vivien Leigh, Clark Gable, Trevor Howard, Olivia De Havilland ) il film è ancora oggi godibilissimo ( se ne consiglia la visione, già sperimentata in passato, in due " tranches " , vista la lunghezza record di tre ore e tre quarti) . IL DVD disponibile al riguardo si presta assai opportunamente. Corredato del doppiaggio originale -  quando la scuola dei doppiatori italiani era davvero la migliore  - e con una resa  delle immagini in digitale assolutamente stupenda  che riproduce il fiammeggiante technicolor dell'epoca poi andatosi irrimediabilmente perdendo negli anni, è una bellissima sorpresa ed una emozione estetica che consiglio vivamente. Anche per capire quale perfetto meccanismo fosse  il sistema produttivo del cinema in quegli anni, vera macchina per sfornare grandi successi di pubblico. Senza, badate bene , andare necessariamente a scapito della consistenza e coerenza artistica ed offrendo sempre risultati piacevoli ed interessanti. Il film è troppo noto per tornarvi qui in sede critica, con le molte luci ed anche qualche irrimediabile ombra che esso racchiude. Mi basti rammentare l'esistenza di questo gioiello a  tutti gli amanti del cinema, desiderosi di rivedere o di familiarizzarsi " ex novo " con una pietra miliare della storia di Hollywood.

domenica 6 gennaio 2019

" VICE " di Adam McKay ( USA, 2018 )

In inusuale " contemporanea " con gli Stati Uniti, dove è sugli schermi dal giorno di Natale, " Vice " , l'ultimo film del regista e sceneggiatore Adam McKay ( " The big short - La grande scommessa " ) può essere visto attualmente anche  da noi nelle sale. Altrove in Europa, sembra,  arriverà solo alla fine di gennaio , se non a febbraio inoltrato. Un buon motivo per essere tra i primi, sul vecchio continente, a poter giudicare un' opera  controversa e che in America (USA e Canada ) ha ottenuto accoglienze critiche favorevoli ma anche opposte, feroci stroncature. Il perchè di tanto clamore mediatico dall'altra parte dell' Atlantico lo si capisce facilmente , considerato che il film ha l'ambizione di descrivere l'ascesa, praticamente alle vette del potere nella più potente nazione del mondo, di un personaggio discusso e discutibile come Dick Cheney, vicepresidente all'epoca dei due mandati di George W. Bush, cioè di  un " leader " estremamente  divisivo . Riassumendo le tappe salienti della sua carriera e, soprattutto, svelando i meccanismi a volte  poco nobili che lo portarono tanto in alto da essere , " de facto ", il vero artefice di buona parte delle scelte, soprattutto in politica estera e nella lotta antiterroristica, che contraddistinsero gli Stati Uniti nel periodo 2001-2008, il film di McKay non nasconde una viscerale antipatia per il suo personaggio e tratteggia prevalentemente in nero gli aspetti di una personalità  dipinta come a dir poco sconcertante. Naturale quindi che, per prima cosa, la critica dei media " liberal "  abbia esaltato il coraggio e la " vis " polemica con cui il regista-sceneggiatore ha costruito quest'opera. Un'opera che, a tratti per la verità, appare più come una vera e propria requisitoria contro i "neoconservatori" e l'intero partito repubblicano che un'inchiesta obiettiva su un periodo di storia americana ancora tutto da sistemare in sede storico-politica ( accanto al più facile bersaglio della deludente gestione Bush, non fanno qui miglior figura tutte le altre amministrazioni repubblicane degli ultimi cinquant'anni, da  Nixon a Ford e poi a Reagan e a Bush padre che qualcosa di buono, è da pensare,  debbono pure aver fatto). E le critiche al film non hanno risparmiato, in prima battuta, proprio l'atteggiamento manicheo e " schierato " del libertario - e forse un tantino nichilista - McKay. 

Vediamo di mettere un pò d'ordine noi che , in fondo, non dovremmo parteggiare per gli uni o per gli altri ma giudicare soltanto i fatti. E soprattutto valutare se, da un punto di vista strettamente cinematografico,  si tratti di un buon film o di un film che lascia delusi, come sostengono alcuni critici americani non necessariamente sospetti di simpatie per il partito repubblicano e per l'epoca di Bush figlio. Cominciamo col dire che , al cinema, opere polemiche, talvolta autentici " pamphlets " contro questo o contro quello, non sono mai mancate e che ogni autore è libero di vedere in positivo o in negativo i propri personaggi, veri o inventati. In questo senso " Vice " ( che bel titolo, visto che in inglese suona anche come " vizio " , ovviamente del potere  e che potere ! ) non può certo essere attaccato se , in tutta legittimità, dipinge Cheney, dapprima oscuro ma ambiziosissimo politicante con scarsa istruzione e poche qualità e poi  onnipresente " deus ex machina " di tante scelte che hanno avuto spesso drammatiche conseguenze in patria e sulla scena internazionale, come  uno spietato manipolatore ed un pericoloso psicopatico. Tanto per ricordare, Edgar  Hoover, fondatore e capo della CIA , dal bel  film che gli ha dedicato anni fa Clint Eastwood non esce certamente meglio. E così altri personaggi della vita pubblica americana degli ultimi cento anni di cui si vanno man mano scoprendo e volgarizzando fatti e misfatti. Ci mancherebbe. Qui McKay ha adottato un punto di vista diremmo giornalistico-televisivo, affastellando tutto quanto di negativo poteva emergere per suffragare la sua tesi senza curarsi molto di scavare maggiormente in profondità nel  suo personaggio. Senza chiarirci per esempio, al di là di tanti momenti satirici ed innegabilmente gustosi della parabola ascendente di Cheney, come si sia formata e da dove traesse linfa vitale una personalità così sconcertante - per i suoi stessi compagni di partito - come lui. Fa difetto, in sostanza, un esame più spassionato delle origini di Cheney, della sua formazione , del modo in cui ha saputo man mano soggiogare psicologicamente tutti coloro che potevano sbarrargli la strada. Il  wellesiano ed immaginario "Citizen Kane " ( nel film omonimo che da noi è conosciuto come " Quarto potere " ) non era meno demoniaco ed esecrabile del nostro vicepresidente. Ma la sua psicologia, la sua ambiguità ( nessun uomo, in fondo, è tutto buono o tutto cattivo ) ed il suo retroterra culturale ed ambientale  ne uscivano a tutto tondo, tanto da commuoverci ed emozionarci lungo tutto il film e facendoci quasi dimenticare che  il personaggio era ispirato ad un uomo realmente esistito, il magnate della carta stampata Randolph Hearst, tanto risultava credibile ed universale.

L'approccio di McKay è diverso. Meno psicologico, e in fondo anche meno storico, privilegia il lato, come si è detto, giornalistico e scandalistico della vicenda, pago di suscitare nello spettatore facile riprovazione per i metodi e le iniziative di Cheney. Ma non riuscendo quasi mai a darci una vera, piena, emozione estetica e morale al tempo stesso che ci permetta di situare il suo personaggio al centro di un autentico reticolo di sentimenti, passioni, ambizioni, successi e delusioni, tale da creare in noi una plastica percezione del potere, della sua grandezza e della sua miseria, del lato affascinante e terribile di quest'ultimo. Se non fosse  ingeneroso e spropositato per McKay diremmo che in " Vice " c'è poco Shakespeare ( nonostante il duetto in camera da letto, in chiave Macbeth,  tra Cheney e sua moglie ) e più un'abile ricostruzione da " talk show " di una fase cruciale della storia del nostro secolo. Con tutti i limiti che questo comporta ( scarso approfondimento, poca prospettiva, scarsa o punto obiettività critica ). Ma anche con la indubbia, epidermica efficacia che il " taglio " volutamente fazioso della narrazione comporta. E qui, debbo dire, incominciano anche i meriti del film , che ci sono e giustificano ampiamente il tempo investito per andare a vederlo. Mettere insieme, infatti, tanti piccoli episodi, sia pure a senso unico, della biografia di Cheney, mischiandoli in un caleidoscopio a tratti confuso e leggermente spiazzante ma spesso sorprendentemente ben calibrato e divertente, rende il film piacevolmente scorrevole, frutto della vena ribaldamente satirica che il regista è venuto sviluppando nei suoi film precedenti. Ma molto merito, va subito aggiunto, spetta qui ad un " cast " davvero di prim'ordine e che meriterebbe- questo sì - un Oscar cumulativo per l'interpretazione. Non solo a Christian Bale che è un Dick Cheney mostruosamente somigliante ( l'attore è ingrassato di venti chili per impersonarlo a dovere ) o ad Amy Adams, sempre più brava nel sinistro personaggio di Lynne, la moglie del Vice. Ma anche ai personaggi di contorno, intelligentemente tratteggiati, a cominciare dal Donald Rumsfeld di Steve Carell ( attore da noi poco noto ma popolarissimo negli USA ) e per finire con il Bush figlio di Sam Rockwell ( il quale rischia seriamente, anche quest'anno, un Oscar per il miglior attore non protagonista ). Per finire con il più piccolo dei personaggi minori - minori nell'economia del film , come Reagan, Kissinger, e via dicendo. Debole come sceneggiatore ( il film è a tratti confuso ed è difficile non perdere il filo conduttore ) McKay è un discreto regista. Certi confronti tra i personaggi ed alcune delle  scene più drammatiche rivelano capacità indubbie. Se questo lo porterà ( oggi ha cinquant'anni di età ) a diventare un vero autore cinematografico o a scivolare nelle requisitorie alla Michael Moore, solo il tempo potrà dircelo.

La fine delle Feste ( cioè di un  periodo in genere fausto per le sorti di noi spettatori cinematografici ) induce ad un breve " ripasso " di cosa c'è di buono ancora sugli schermi di casa nostra e che merita di essere visto. Incominciamo da " Roma " di Alfonso Cuaron, il vincitore dell'ultima " Mostra " di Venezia e che rischia di sparire dalla circolazione perchè fruibile contemporaneamente sulla piattaforma Netflix ( per chi è abbonato ). Si tratta di uno dei più bei film degli ultimi anni e che riannoda convincentemente il cinema di oggi alla grande tradizione del passato. Metterei subito dopo " Cold War ", un prodigioso esercizio di regia del talentuoso polacco Pavel Pawlikowsi ed una gran bella storia di un amore tormentato sullo sfondo, appunto, della " guerra fredda ". Ancora due bei film usciti negli ultimi giorni e che sono da vedere con grande piacere estetico , e di cui questa rubrica ha parlato dando conto, in passato, dei film di Venezia. Il primo è " Il gioco delle coppie " ( in Francia " Doubles vies " ), un film interessante per l'argomento, cioè il predominio attuale dei cellulari, dei supporti informatico-digitali di ogni tipo e le conseguenze sulla nostra vita di tutti i giorni, in un intreccio di personaggi e di vicende davvero ingegnoso. Il secondo,al cinema da pochi giorni , è " Van Gogh, alle soglie dell' eternità ", opera di un artista come Julian Schnabel che ripercorre con uno sguardo molto originale l'ultima fase della vita del grande pittore olandese. E infine , se proprio ci si vuole " divertire " , nel senso di farsi veramente quattro risate, " Sette uomini a mollo " ( orribile titolo italiano di " Le grand bain ", intelligente operina del francese Gilles Lellouche ). E chi ha detto poi  che al cinema  bisogna per forza piangere o spremersi le meningi ?