domenica 30 aprile 2017

" Io e Annie " di Woody Allen ( USA, 1977 ) . " Racconto di primavera " di Eric Rohmer ( Francia, 1989 )

Dopo Pasqua i distributori italiani si sono divertiti, diciamo così, ad offrirci operine inconsistenti: filmetti italiani di scarso valore, blockbuster americani da evitare con cura, minuzzaglia di eterogenea provenienza. Per fortuna che esistono i DVD - ormai tecnicamente perfetti - da vedere sul proprio televisore o , per i più attrezzati, da proiettare su un bello schermo casalingo. Per la verità, non sono caldissimo su questo tipo di fruizione di un'opera cinematografica. Per me il cinema va gustato in sala, come una volta, come è sempre stato dai tempi dei Lumière,  perchè l'immagine possa essere meglio percepita ( adoro gli schermi grandi e mi siedo sempre nelle prime file ). Ma soprattutto perchè la suggestione che ne deriva sia più piena e protetta, senza gli stimoli che anche involontariamente potreste ricevere tra le mura domestiche .
Ma, quando veramente nulla può attirarvi nelle accoglienti sale e salette - tra l'altro sempre più rare - della vostra città, anche un bel film del passato da rivedere, o da scoprire per la prima volta standosene comodamente a casa propria può, di tanto in tanto, soddisfare il vostro sano desiderio di cinema. Ed è così che nei giorni scorsi, in astinenza forzata da " novità " degne di nota, mi sono concentrato, in visione privata, su qualche vecchio film che mi era a suo tempo particolarmente piaciuto o che ero curioso di rivedere per constatare quanto " reggesse" al trascorrere degli anni. Questa  della maggiore o minore resistenza all'usura del tempo, se è una prova che anche per le arti considerate " maggiori " ( letteratura, musica ecc. ) può dare qualche brutta sorpresa, per il cinema è a volte particolarmente crudele. Film osannati al momento della loro uscita rivelano , solo dopo pochi anni, tutti quei difetti di cui non ci eravamo resi conto a suo tempo. Storie che ci erano sembrate esemplari si manifestano, oggi, troppo legate ad una particolare ed ormai superata " atmosfera " (estetica, ideologica e quant'altro ) senza che riescano più a coinvolgerci pienamente.  Le immagini, si dice comunemente, invecchiano presto. Ed i detrattori del cinema, coloro che non lo ritengono un' arte capace di sfidare il trascorrere del tempo, ne traggono linfa per l' opinione riduttiva che nutrono nei suoi confronti. Personalmente non condivido l'idea di una maggiore " debolezza " in sè dell' immagine cinematografica rispetto, ad esempio,  alla parola scritta o ad un brano musicale. Esistono, più semplicemente, film che invecchiano male ed altri che invece si mantengono freschi ed  efficaci indipendentemente ...dalla loro età.

Prendiamo  " Io e Annie ", il film di Woody Allen del 1977 che ho rivisto qualche sera fa. Non provo a riassumerne la trama perchè troppo nota. E poi, a dir la verità, una trama vera e propria non c'è, tutto costruito com'è sui due personaggi principali. Quello di Woody, leggermente straripante nei suoi primi tentativi cinematografici, e quello non meno appariscente di  Diane Keaton, cioè della Annie Hall, che fornisce il titolo al film nella sua versione originale. Un film di " situazioni " più che di sviluppi narrativi. Di stati d'animo, di brevi sensazioni, di " gag " fulminanti, a volte. Con molti " flash back ", un incedere a strappi, a salti temporali, per connessione di idee più che per una progressione cronologica della vicenda. Un film molto legato all' " aria dei tempi ", come si dice . Il femminismo, innanzitutto, tipico di quegli anni. Il mondo dello " show business ", il contrasto New York- California, la liberazione sessuale, le droghe, la psichiatria , la semiologia e tutte le altre " novità " che venivano affermandosi, avidamente consumate ed introiettate in una esistenza ludica, dispersiva e vagamente angosciata come quella dei due indimenticabili protagonisti. In  presa diretta  quasi con la vita nella "grande mela " prima che l' AIDS, la crescente insicurezza e il declino dello spazio cittadino richiamassero bruscamente alla realtà i festosi abitanti  di SoHo o del  Greenwich Village. New York al suo apice, insomma, in perfetta simbiosi tra spirito dei luoghi e comportamento dei protagonisti stessi. Quasi un documentario su come si viveva nell'anno di grazia 1977 al di là dell' Oceano ( e come , con qualche aggiustamento, qualcuno cercava di condurre la sua esistenza anche  da noi ).

Eppure, pur con i limiti di una stretta aderenza ad una particolare temperie oggi o scomparsa o metabolizzata nella " normalità " quotidiana, il film resta bello, scoppiettante di salute cinematografica, perfettamente godibile. Come mai ? Direi perchè l'ambientazione ( ormai totalmente " storicizzata " e quindi non più debordante ) passa in secondo piano rispetto a quello che , quarant'anni dopo, abbiamo definitivamente assodato essere il vero tema dominante del cinema di Allen : l'impossibilità, per gli esseri umani, di una vera felicità che vada al di là dell'attimo fuggente di cui, essi,  magari neanche si accorgono. Un tema sottilmente malinconico, prossimo a quello cecoviano del contrasto tra le nostre continue aspettative e l'apparente delusione di una vita da queste molto lontana  e che trova il suo corollario nella provvisorietà e nella caducità della nostra stessa esistenza. L'uomo è un animale triste perchè pensa ed il pensiero, che è il nostro supremo tratto distintivo, è anche la nostra condanna e la causa della nostra continua insoddisfazione. Condanna ed insoddisfazione peraltro " dorate ", circonfuse - ci mostra Allen - dalla consapevolezza delle cose, spesso belle , che ci stanno intorno e dall'incontro, per quanto effimero, con altri esseri umani con i quali condividere momenti di gioia, di amicizia, di amore. Ed è tutto quanto resta- è scusate se è poco - di questa tenera, brillante e coinvolgente esperienza filmica. La gioia che nasce dall'umorismo di Woody, dalle sue battute fulminanti, dalla sua accattivante e buffa personalità. L'amicizia, che è spesso al cuore delle vicende che mette in scena e che dà calore e sollievo al nostro passaggio su questa terra. L'amore, infine. Il più splendido ed il  più difficile dei sentimenti, quello che ci fa sentire maggiormente vicini all'assoluto e all'eternità. Eppure il più ingannevole ed effimero, egli sembra dirci. Ma anche quello di cui non potremo mai fare a meno : struggente e incisiva conclusione di quest' opera attraente, ben scritta e ben diretta, magnificamente interpretata.

Il pensiero, i sentimenti, l'amore.Sono, in estrema sintesi, tre motivi ricorrenti anche nel cinema di Rohmer. Vicino per certi aspetti, ma anche molto diverso da quello di Allen, con tutta evidenza. E non solo per la distanza che obiettivamente separa un cineasta americano venuto dal " cabaret " e dal teatro, giustamente preoccupato del successo e della redditività che debbono accompagnare i suoi film, da un intellettuale europeo di grande, severa austerità creatrice anche se unita a levità di tono ed estrema gradevolezza di stile.Ma soprattutto perchè Rohmer ha una visione più ottimista  quanto alla  nostra comune parabola terrena. Religioso ( anche se non scopertamente confessionale ) conosce perfettamente la fragilità e gli inganni dell'animo umano. Ma crede nel dono che gli uomini ( e , in particolare, le donne ) hanno di liberarsi dai loro errori, di ricominciare continuamente partendo da nuove basi. Se Allen è, in definitiva, un determinista che ritiene che sia  il Fato, il destino, l' imponderabile, chiamatelo come vi pare, a  governare la nostra esistenza ed i suoi continui ghirigori, il regista francese crede nel libero arbitrio, nella possibilità aperta a tutti di modificare la traiettoria della propria vita. I suoi personaggi- prevalentemente quelli femminili che egli predilige - spesso si ingannano, hanno programmi che non riescono a realizzare. Ma mai per un intervento superiore od " esterno ". Più semplicemente perchè erano sbagliate le premesse da cui partivano , perchè essi stessi , se solo avessero saputo meglio interrogare il cuore e la ragione, si sarebbero resi conto di quanto sfuggente o irragiungibile era il loro personale obiettivo. Ma, ed è questa la possibilità di autodeterminarsi, eccoli pronti il più delle volte a riprovarci su basi diverse, a rimettersi in gioco, ammaestrati dall'esperienza ( o, potrebbe dire qualcuno, ostinati nel riprodurre i loro errori). Un cinema " filosofico ", quello di Rohmer, per il rilievo che riveste il pensiero nel liberare, di volta in volta, i meccanismi narrativi e per lo spazio dedicato ai dialoghi  :  dispositivi  verbali, questi ultimi, che assecondano o invece contraddicono le immagini che scorrono sotto i nostri occhi, perchè nei suoi film vi è un continuo rimpiattino tra verità e finzione, tra le attese dei personaggi e la nuda " fattualità " degli accadimenti.

Prendiamo questo " Racconto di Primavera ", il primo dei " Racconti delle quattro stagioni ", girati tra il 1989 ed il 1998, il terzo ciclo di opere di Rohmer dopo i " Racconti morali " ( 1962-1972 ) e " Commedie e proverbi " ( 1980 -1987 ). Jeanne , una professoressa, per l'appunto, di filosofia in un liceo parigino, incontra ad una serata Natacha, una ragazza più giovane e che vive con il padre divorziato. Invitata a trasferirsi provvisoriamente a casa della ragazza, Jeanne ( la quale  pur avrebbe due appartamenti dove alloggiare, il suo e quello del suo amante temporaneamente assente ma non è, per circostanze diverse, invogliata a tornare in nessuno dei due ) accetta e passa, successivamente, un fine settimana con l'amica nella casa di campagna del padre di Natacha, Igor , un quarantenne smidollato e dongiovannesco che vi si reca a sua volta accompagnato dalla sua ultima " conquista ", Eve. Natacha  sembra quasi spingere Jeanne tra le braccia di Igor nel malcelato disegno di liberarsi di Eve, che detesta cordialmente. O almeno questo è quanto crede  la stessa Jeanne la quale , un po' per non assecondare supinamente i piani dell'amica e un po' per sopravvenuta irresolutezza, non cede alle " avances " del maturo padrone di casa e, congedatasi da Natacha , torna a casa sua. La protagonista del film , dunque, resiste al richiamo primaverile dell ' avventura, della " nuova partenza " e preferisce, con qualche rimpianto, richiudersi nel tran tran della propria esistenza  ( una esistenza, lo capiamo, che non la soddisfa pienamente ma che veste i panni rassicuranti dell'abitudine ). L'ha tradita, in fondo, un eccesso di razionalità : il timore dell'ignoto, il convincimento o anche solo il sospetto di essere manipolata da Natacha, il desiderio di mantenere il controllo sulle proprie emozioni, mascherate da un facondo - e quindi significativo-  eloquio logico-filosofico. L'ha tradita , in un certo senso, il pensiero, la sua troppa  familiarità con  le ipotesi, i ragionamenti astratti. " Qui trop parole, il  se mesfait ", chi parla troppo si fa del male. E' l'antico proverbio in epigrafe a " Pauline alla spiaggia " dello stesso Rohmer, ma che potrebbe andar bene anche qui, come malinconica conclusione. Ma lo spettatore ( come  il regista )  è convinto in realtà che la sfortunata esperienza ha fatto " crescere "  Jeanne, indomita eroina del pensiero filosofico non disgiunto in realtà - lo vediamo nello sviluppo della vicenda - da una non troppo nascosta apertura verso il mondo dei sentimenti.

Difficile, me ne rendo conto mentre scrivo, disegnare tutti i percorsi di una vicenda complessa, molto " parlata " ma ricca anche- come sempre nei film dell'autore transalpino - di immagini significative e che fanno egualmente progredire l'azione. I film di Rohmer non si raccontano, come e più di ogni altro. Vanno visti, assaporati come un buon vino che sprigiona lentamente il suo aroma. Vi è paradossalmente in essi ( privi quasi sempre di accompagnamento musicale ) una musica nascosta che ne detta i tempi, i ritmi, la sottile geometria dei fatti , dei ragionamenti, dagli stati d'animo esposti. Meticolosamente scritti e studiati a tavolino, sono congegni perfettamente funzionanti. Ma diventano poi , con la forza, il rigore , l'ascesi quasi delle immagini ed  il contributo di un gruppo di straordinari interpreti, organismi  vivi, pulsanti, forniti di una intensità tanto più sorprendente quanto racchiusa in una estrema parsimonia di mezzi.  Film    poveri  di quei guizzi improvvisi, quei sussulti, tipici - per tornare al discorso di poco fa- del cinema di Allen o di altri artigiani della commedia cinematografica. Ma film di un perfetto, apollineo equilibrio formale , sotto il quale cova - possiamo davvero dire - il fuoco dei sentimenti, delle passioni che animano i loro personaggi . Anche " Racconto di primavera " non sfugge alla regola aurea di tutte le opere di questo regista : levigatezza esterna e fervore sotterraneo. Molto buona , come sempre , la recitazione di attori poco conosciuti ma  felicemente aderenti ai loro personaggi, con una menzione speciale per Florence Darel ( una Natacha tutto giovanile trepidare , con un pizzico di monelleria inquietante ) e Anne Teyssèdre ( una Jeanne di grande , trattenuta sensualità sotto la contegnosa apparenza  ).Cercate questo " Racconto di Primavera ",  aprite il vostro cuore alla sua grande suggestione,ora che siamo ancora nella stagione adatta ed un tripudio di fiori e di colori fa capolino, a tratti, sotto il bel cielo delle nostre città e delle nostre campagne.



domenica 16 aprile 2017

" L'altro volto della speranza " di Aki Kaurismaki ( Finlandia, 2017 )

L'apologo è una favola o comunque una narrazione allegorica con intento morale. Chi lo racconta o lo espone in immagini ( nel caso del cinema )  ci chiama in causa, mira a farci  riflettere. Non vuole necessariamente condurci a condividere automaticamente una tesi, a sposare una causa. Ma a  percepire qualcosa di più generale - e che quindi tocca anche noi - attraverso una storia "esemplare" anche quando apparentemente  fuoriesca dalla nostra immediata sfera d'interessi. Vuole farci pensare,  porci degli interrogativi, collegare i vari frammenti di realtà che ci vengono proposti e ricomporli in un quadro unitario che tocchi il nostro intelletto e la  nostra sensibilità. E che, in questo modo, ci spinga  ad approfondire o addirittura rivedere i nostri giudizi, a cambiare , ad agire. 
Il cinema " politico " , che è sempre allegorico - ne parlavamo lo scorso autunno analizzando " Io, Daniel Blake " di Ken Loach - raggiunge il suo obiettivo quando i suoi apologhi, le sue metafore, sono chiare e soprattutto sono davvero " cinema ". Intendo , con questo,la necessità che accanto all'etica, alle preoccupazioni morali che muovono l'artista ( sceneggiatore , regista ) sia in gioco  anche l'estetica. Cioè la capacità  di calare idee, suggestioni ed ammonimenti in immagini, anzi in forme, cinematograficamente valide : belle, forti, capaci di colpire la nostra mente ed il nostro cuore. Se così non fosse avremmo un semplice film di propaganda, non l'opera d'arte che sola è capace di incidere sul nostro vissuto, di modificarci, di migliorare la nostra comprensione del mondo e quindi, con essa,  noi stessi.
Non è questo  il caso, per fortuna, del film che ho visto ieri, tornato a Milano . "L'altro volto della speranza",  l'ultima fatica di Aki Kaurismaki, vincitore del Leone d'oro per la regia alla Berlinale di quest'anno, è un film certamente politico nell'assunto nobile di tale espressione. Vuole farci toccare con mano, noi spettatori provenienti da  un mondo privilegiato, la complessità e le dolorose implicazioni umane del problema dei rifugiati che dal Medio Oriente e dall' Africa si dirigono verso l' Europa. Ma lo fa con delicatezza di toni, raccontando una storia semplice e solenne al tempo stesso, interamente trasfusa in immagini, personaggi ed azioni che parlano efficacemente  di per sè, senza bisogno di alzare la voce. E, per di più e non è poco, non so se per mera coincidenza temporale, una storia assolutamente in carattere con lo spirito della ricorrenza religiosa che ci apprestiamo a vivere. Finiti, verrebbe fatto di constatare, i tempi in cui la pubblicità dei  distributori italiani, senza alcuna ironia, annunciava di questi tempi sui manifesti come " il film di Pasqua "  un western dall'evocativo titolo  "Impiccalo più in alto " (" Hung 'em high " di Ted Post, 1968)...

Non è questa certo la sede per affrontare un argomento così vasto, controverso ed emozionale come il problema delle migrazioni, di cui quello dei rifugiati- ancorchè giuridicamente e storicamente distinto - è pur sempre una parte, almeno per le reazioni che suscita spesso nelle nostre opinioni pubbliche. Nè il film - proveniente , ricordiamolo, da uno dei Paesi, la Finlandia, più aperti ed accoglienti in Europa a tale riguardo- vuole giudicare, criticare o peggio condannare l'atteggiamento delle autorità competenti  (del resto cortesi ed efficienti nella " gestione " del fenomeno ). La semplice esposizione dei fatti , del resto, la nuda verità delle situazioni, dei volti , dei timori e delle speranze dei migranti così come ce li mostra Kaurismaki è sufficiente. Parla da sola alla nostra mente ed al nostro cuore, senza  eccessivi sentimentalismi, " buonismi "  o irrealistiche semplificazioni di un problema dalle dimensioni e dalla complessità così rilevanti .Il fenomeno è lì, sotto i nostri occhi.Qui, non altrove. Ed è sempre tempo di agire , secondo la nostra coscienza. I rifugiati, quanto a loro, fuggono per avere e per dare ai loro cari un avvenire migliore. Un desiderio umanamente comprensibile, più forte delle barriere o dalle difficoltà che essi possono incontrare sul loro cammino. Il loro progetto di vita ( la " speranza " del titolo del film ) si nutre, si alimenta di continuo delle  grandi trasformazioni che vanno investendo l'intero globo da qualche decennio a questa parte : la globalizzazione, l'accresciuta mobilità delle persone, delle merci , dei capitali, la diffusione dell' informazione, l'irrequietezza politico-sociale che ne consegue. Difficile non ipotizzare, in un contesto del genere, l'ineluttabilità di sempre maggiori movimenti transfrontalieri, per questa o per quella emergenza o anche solo in base ad una tendenza largamente fisiologica.
L'intelligenza del film di Kaurismaki ( come sempre soggettista, sceneggiatore e regista, " autore " insomma a pieno titolo dei propri film ) sta proprio nel mostrarci l'arrivo del migrante inserito in questa realtà più vasta, senza la quale perderebbe molto del suo reale significato. In un mondo in pieno mutamento, non sono solo gli abitanti dell' Africa, del Medio Oriente o  dell' Asia a nutrire la speranza che li porterà lontano. Sono molti anche tra noi, in un contesto economico fatto di molte insidie e di crescenti diseguaglianze, quelli che accarezzano il sogno di una vita migliore, di un " cambiamento " non più sociale come qualche decennio or sono ma tranquillamente personale ed individuale, fatto della ricerca continua di una " via di uscita ". Forse è questo "l'altro volto della speranza " cui allude il titolo del film ? Può darsi.

Vediamo.L'inizio del film ci fa conoscere un commerciante di Helsinki in  articoli di abbigliamento  che decide di lasciare la moglie e, liquidando lo stock della propria merce, si gioca tutto il denaro a poker, vince e con il ricavato rileva una piccola trattoria nei sobborghi. Sembrerebbe quella " via di uscita " di cui parlavamo sopra : abbandonare una vita insoddisfacente, barattare il possesso di cose da vendere e da acquistare, probabilmente superflue, con una attività volta a soddisfare i bisogni primari dell'individuo: mangiare ( e bere, viste le abitudini locali... ). Uscire dal circuito dei " negotia" puramente mercantili e transitare ad una attività che, ancorchè non puramente filantropica ( sappiamo che non esistono pranzi gratuiti ) risponda purtuttavia ad intenti più genuinamente sociali. Il mondo "di sopra "- quello benestante in cui viviamo -incomincia a disgregarsi, sembra dirci Kaurismaki e , constatata l' impasse nel quale è andato a cacciarsi (produrre,accumulare merci e denaro senza che questo riesca più a dargli un senso)  perde progressivamente le sue caratteristiche di " ordinaria esemplarità ". La precarietà sembra installarsi a poco a poco ( testimoniata dai bizzarri dipendenti della trattoria, sorta di sottoproletari condannati ad una perenne marginalità).Nel frattempo , letteralmente uscito dal " mondo di sotto " ( emerge nottetempo da un carico di carbone trasportato da una nave polacca ) entra in scena Khaled, il rifugiato siriano che sogna di rifarsi una vita in Europa. Fuggito da un  " centro di accoglienza " in cui è stato relegato dalle autorità finlandesi che non gli concedono lo " status " cui ambisce, finisce con l'incontrare l'improvvisato ristoratore locale. Questi gli dà vitto ed alloggio ( sfruttandone peraltro " al nero " le capacità lavorative, nettamente superiori a quelle degli elementi locali ) e addirittura lo aiuta a far arrivare fortunosamente ad Helsinki la sorella, dispersa nella tragedia siriana e poi rintracciata. Tutto bene, dunque ? La solidarietà umana è stata, questa volta, più forte delle ottusità burocratiche,ci sembrerebbe di poter dire. Ed il film risulterebbe, in questo caso, un apologo davvero ottimista ( tenuto conto anche di un privato "lieto fine " che riguarda il ristoratore ). Ma sarebbe ignorare lo spirito bizzarro ed irriverente di Kaurismaki. Khaled, ferito da una coltellata infertagli da un teppista  appartenente ad un sedicente " esercito di liberazione della Finlandia "nel quale si è sfortunatamente imbattuto, nell'ultima sequenza giace riverso in un prato. L'immagine è volutamente ambigua : potrebbero essere i suoi ultimi istanti di vita così come i prodromi di un miracoloso ristabilimento. Un piccolo, tenero cane randagio gli lecca il volto,  immagine di una " pietas " inconsapevole e quindi ancora più genuina di quella degli uomini. Dobbiamo dunque nutrire speranza , su questa terra ?

Mi scuso di aver tentato di ridurre all'osso la trama di un film molto più ricco in immagini, situazioni, personaggi, dialoghi di una ricchezza e di una fluidità di tutto rilievo. Mi interrogo ( e lo faranno, penso, anche coloro che lo vedranno ) su quanto possa essere considerato un' opera realistica ( in certi momenti sembra quasi, è vero,  un documentario sull'accoglienza dei rifugiati ) o non piuttosto -come probabilmente è - una favola dei nostri tempi . Se gli dovessi trovare un punto di contatto nella cinematografia occidentale , mi sentirei di evocare Renoir ( per la capacità di argomentare con pudore e con forza su temi sociali )  Chaplin ( per la robusta vena di poesia ) De Sica ( per la maestria nel sottolineare ciò che veramente conta nel racconto senza avere l'aria di farlo) .Kaurismaki si conferma, in definitiva, come uno dei pochi " maestri " di oggi, in grado di catturare lo spettatore  con semplicità, rigore , economia di mezzi. Cinema allo stato puro. Lo dimostra la costruzione del racconto : lineare, trasparente, " dimostrativa " eppure con quel tanto di fascino sottile che è dato dalla natura stessa di una vita, la nostra , sempre più inafferrabile e cangiante nei suoi raccordi, nelle sue implicazioni, nei suoi significati ultimi. Apologo, opera di un grande moralista dei nostri tempi, il film non è peraltro privo , a tratti,  di una sorprendente aderenza alla realtà. Aiutato da una bella fotografia, soprattutto nelle scene notturne, ci mostra una Finlandia "decente" ed  asettica, probabilmente migliore anche di quanto pensiamo. Ma non per questo immune dalle tare che ormai corrodono il nostro mondo di privilegiati, sempre più piccolo, sempre più circondato.
Non mi soffermo sulla recitazione perchè nel cinema di Kaurismaki gli attori sono puramente funzionali alla vicenda e alla sua esemplarità, ancorchè comunque tutti professionisti di buon livello. Una parola vorrei spenderla, invece, sulla colonna sonora, che è tutta di canzoni " rock " di pura marca finnica, spesso interpretate da artisti locali che appaiono nel film dando luogo ad una serie di gustosi " siparietti " introduttivi di determinate sequenze, a giudicare almeno ( in traduzione... ) dalle loro parole. Un procedimento quasi " brechtiano " che conferisce ulteriore enfasi e vigore ad un " raccontare per immagini "  tutt'altro che noioso anche quando il film si concede una pausa e sembra indugiare su di una determinata situazione. Kaurismaki è un regista che ha rispetto per lo spettatore. Ma la sua libertà è totale e le scelte attraverso le quali fa avanzare il racconto - come è giusto che sia - assolutamente insindacabili. Un film, questo " Altro volto della speranza " da non lasciarvi perdere. Se non vi prenderà subito nelle sue spire ( può succedere )  crescerà dopo dentro di voi, come deve avvenire per tutte le opere che meritino di essere frequentate.

sabato 1 aprile 2017

" Il diritto di contare " di Theodore Melfi ( USA, 2016 )

Vi siete chiesti perchè, al di là di tante altre ed ovvie considerazioni, negare certi diritti ad una determinata categoria di esseri umani sia sommamente stupido e controproducente ? Limitare , attraverso leggi od anche solo prassi, credenze, pregiudizi e quant'altro, le possibilità di sviluppo di un gruppo o di una minoranza ( quando non, addirittura, pensando alle  donne,  di una buona metà di noi stessi ) è peggio che un crimine : è una sciocchezza. Oltre che violare il dovere universale di riconoscere ed amare il tuo prossimo , significa privarsi del capitale di intelligenza, di sensibilità e di coraggio  che quelle persone sono in grado di conferire vantaggiosamente per il bene comune, per l'avanzamento della nostra società. Quanto ho appena detto, mi rendo conto, potrebbe essere visto come un mero approccio  "utilitaristico" ad una questione - quella dei diritti umani e dei diritti civili - che va sicuramente affrontata da versanti più alti, umanistici,  religiosi, filosofici. Ma che non credo  immiserisca la questione stessa, la abbassi cioè ad un calcolo puramente economico e pratico. In realtà, che tutti gli uomini ( e tutte le donne ) siano eguali tra loro e debbano godere  di pari dignità e degli stessi diritti, se ci si fa caso, è proprio la ragione, il buon senso , l'istinto, che ce lo dicono prima ancora che intervengano considerazioni  sentimentali o ideologiche. Che poi non succeda sempre così e  che ancora oggi permangano discriminazioni,  muri e separazioni, ciò è dovuto a varie circostanze di natura socio-politica ma anche, mi sentirei di dire, alla " matta bestialitate " che alligna talvolta quaggiù. E contro quest'ultima, la lotta rimane sempre aperta.
Di tutte le discriminazioni, di tutti tentativi storicamente posti in essere ( e che ancora riaffiorano ) per dare vita a forme di sviluppo separate tra gli esseri umani, particolarmente singolare ed assurdo mi è sempre sembrato quello fondato sul colore della pelle; non uso il termine " razza " perchè scientificamente inesistente ed umanamente aberrante . Paesi civilissimi come gli Stati Uniti d' America, lo dicevamo qui la settimana scorsa, hanno avuto in una determinata epoca responsabilità non indifferenti a tale riguardo. Se pensiamo che i diritti civili ai non-bianchi sono stati riconosciuti in buona parte del Sud  solo negli anni ' 60 del secolo scorso, cento anni dopo l'abolizione della schiavitù, comprendiamo facilmente come questa risulti una ferita non completamente rimarginata nel tessuto di quella nazione.

Proprio da quella situazione, da quel preciso momento storico, prende felicemente le mosse anche il bel film di Theodore Melfi , " Hidden Figures ", in  Italia " Il diritto di contare ", uscito negli " States" lo scorso inverno ed in Europa da qualche settimana. Chi lo ha già visto o ne ha sentito parlare tramite la critica che ha finito coll'evidenziarne più le manchevolezze che i pregi potrebbe stupirsi apprestandosi a leggere che  lo consiglio  per un paio d'ore di sano ed  onesto divertimento. Ma chi l'ha detto che, sullo schermo,  solo i capolavori ( o presunti tali )  abbiano diritto di cittadinanza ? Il cinema , spettacolo squisitamente popolare, ha bisogno per sopravvivere di una folta schiera di discreti film, di valore medio, leali con il pubblico e che sollecitino- perchè no - i suoi buoni sentimenti. Da un contorno di opere siffatte, in un terreno potenzialmente propizio,  possono poi più facilmente staccarsi  film che soddisfino aspettative maggiori. Simenon e Agatha Christie- se guardiamo il campo della scrittura - non potevano rivaleggiare con Proust o Virginia Woolf ma la loro funzione di " dissodatori " del gusto del lettore medio in qualche modo la hanno svolta ed il loro posticino nella letteratura del Novecento presumo che se lo siano meritati, almeno per la vivacità e la sottigliezza del loro stile narrativo.
Sia dunque reso merito ad un solerte artigiano ( anche quando non propriamente artista ) quale si è testè rivelato questo Melfi. Regista di documentari e di serie televisive, sceneggiatore , produttore, egli non mi sembra  più giovanissimo e  con il suo ultimo film potrebbe anche aver toccato il suo apice, per definizione mai più riproducibile. Che importa ? " Il diritto di contare ", ultimo tra una coorte di film apparsi in questa stagione ed  ambientati tra afro-americani, ai giorni nostri o nel Sud segregazionista di una volta, non ha eccessive ambizioni. Astutamente inserito nel filone predetto- che, dopo le lamentele agli Oscar dello stesso anno , sta facendo razzia di premi e sembra quasi provvisoriamente concludere l'era dell' orgoglio " black " nello spettacolo, manifestatosi negli anni della presidenza Obama - vuole  rileggere una pagina di storia poco nota della "guerra fredda ", mettendo in luce l'eccezionale contributo dei neri ai successi degli USA nella corsa al volo spaziale. Ma vuole anche, più genericamente, raccontare una di quelle storie che al pubblico americano, sia al cinema che a teatro o in letteratura, piacciono tantissimo. Una " success story ", una vicenda che mostri dei personaggi che, superando le iniziali difficoltà, arrivino alla vetta. E ci arrivino onestamente, per i loro meriti finalmente riconosciuti, impegnandosi seriamente, con gioia ed ottimismo . Ma tutto questo, qualcuno mi dirà , non "sente" terribilmente  di un " sogno americano " divenuto un po' stantio e nel quale è divenuto difficile credere dopo tutto quello che è successo ? Può darsi - mi sento di rispondergli - ma è da molto tempo che gli americani hanno perso la loro innocenza. Ed  è forse  per questo che, da sempre, la inseguono sullo schermo. E non è detto che i buoni  titoli  della loro cinematografia siano necessariamente quelli ( ancorchè pregevoli ) in cui quell'innocenza, alla fine, non viene ritrovata. Dai film cosiddetti " a lieto fine " possono evincersi notazioni interessanti, sentimenti non banali, spunti per ulteriori riflessioni. Grande Paese, dove il Male fiancheggia il Bene, l' America ha anche un " grande " cinema in cui può rinvenirsi di tutto, se solo lo si voglia cercare.

Torniamo, come è giusto, alla nostra vicenda di " gente di colore " in uno Stato del Sud a cavallo tra i '50 ed i '60 .Personaggi principali tre donne, due sulla quarantina , una sui trenta. Bravissime a scuola hanno potuto studiare , andare all' Università, venire assunte alla NASA ( l' Agenzia  nazionale per il volo spaziale ) per la loro abilità nel calcolo matematico : si stanno infatti mettendo a punto satelliti , razzi e navicelle spaziali le cui orbite e traiettorie di volo necessitano di calcoli complessi ed ancora da eseguirsi a mano, i calcolatori elettronici sono, almeno all'inizio del racconto, di là da venire.  Autentici cervelli scientifici, le tre hanno però l'handicap di essere donne ( ricordate il mito della brava massaia americana ? ) ed il torto di essere nere. La NASA ha sede in Virginia , Stato ancora segregazionista.  Scienziate o no, le tre colleghe di lavoro ( una poi è davvero molto carina ) rischiano di farsi arrestare  dalla polizia se trovate ferme sulla strada per un guasto alla loro vettura. E una volta sul luogo di lavoro subiscono tante piccole vessazioni, dalle toilettes " per gente di colore " situate ad un chilometro di distanza  al bollitore per la pausa-caffè  anch'esso rigorosamente differenziato, per bianchi e non. Ma soprattutto, vittime di una " doppia emarginazione ", di genere e di colore, non sono adeguatamente valorizzate per le loro effettive capacità. Addirittura la più brava delle tre, straordinaria mente matematica, è adibita a complicatissimi  ma esattissimi calcoli che vengono poi utilizzati senza che alcun merito le venga attribuito. Lo stereotipo della  donna nera, belloccia e servizievole, da destinarsi preferibilmente a lavori di segreteria, trionfa sovranamente.
Ci vorrà un momento di grave crisi nella NASA- con i Russi che riescono per primi a mandare brevemente un uomo nello spazio -  perchè il talento delle tre venga finalmente riconosciuto ed impiegato . La "mente matematica", che nel frattempo ha perfino trovato l'amore, partecipa in modo determinante al successo USA di un  primo volo orbitale nella Storia ( John Glenn,1962 ). La più anziana diventa a sua volta programmatrice e capo-team delle addette al potente calcolatore elettronico nel frattempo installato presso la  sede dell' Agenzia. La più giovane , infine, sarà la prima donna di colore a laurearsi in ingegneria in una prestigiosa Università fino ad allora riservata ai bianchi. Sotto i colpi di maglio dell' Amministrazione Kennedy prima , e di quella Johnson dopo, fiancheggiate dal carismatico Martin Luther King, la segregazione razziale ha ormai i giorni contati.
Una storia semplice, potrebbe sembrare quasi una favoletta se, ai dimentichi che essa non è frutto di fantasia  ma  una vicenda di vita vissuta , i titoli di coda del film non mostrassero le tre vere donne  che erano impersonate dalle attrici nel film, una delle quali ha oggi la ragguardevole età di 98 anni ! Realtà, dunque e non finzione , anche se la storia è stata" emblematizzata ", per così dire, allo scopo di celebrare l'ascesa delle donne di colore nella " America amara " di quegli anni.

Con una traiettoria opposta a quella di " Loving ", il bellissimo film di cui abbiamo parlato l'ultima volta, " Il diritto di contare " va dunque dalla vicenda particolare ( le tre " scienziate " ) ad un quadro di insieme che ci riporta ad un preciso momento storico, alle speranze e ai timori della gente di colore che attendeva, con maggiore o minore pazienza, la propria emancipazione dai lacci del pregiudizio e della ignoranza. Certo, proprio questa tela di fondo rimane qui  un pò sbiadita, poco chiara nelle forze in campo,talvolta perfino edulcorata ( non si vede mai un vero gesto di violenza o di intolleranza, i poliziotti od i giudici bianchi sono solo un pò burberi quanto basta per ricordare di che stiamo parlando ma poi si ispirano ad una saggezza e ad un pragmatismo, in fondo, " politically correct " e  potremmo  rischiare di sentirci chiedere da uno spettatore poco informato : " ma allora dov'era il problema ? "). Sono difetti, non  vi è dubbio, che non permettono di considerarlo un film autenticamente storico, da inserire in una tesi di laurea sul segregazionismo USA , per intenderci. Ma un film, questo sì, tranquillamente rievocativo del nucleo centrale della questione e perfino onestamente divulgativo, potrei dire, di un pezzo di storia americana. Con le vicende della Nasa  che sono probabilmente vere perchè autentiche " inside stories ", visto che le raccontano le stesse tre protagoniste. E che il film riprende con una buona sceneggiatura, un dialogo a tratti spiritoso, personaggi di contorno che non sono semplici " macchiette ", a cominciare dal boss del Progetto Mercury- quello che mandò Glenn nello spazio- finemente interpretato da un redivivo Kevin Costner. Le tre ragazze " in distress " , di cui non ricordo più il nome ( ma la più giovane e carina faceva la " pupa " dello spacciatore cubano in " Moonlight ", anche lui qui in una particina ) sono molto brave e simpatiche. Vedendole  vivere, muoversi, correre al lavoro, impegnarsi anima e corpo nel loro compito, bersagliate dallo sguardo indifferente o di generica, generale disapprovazione dei tanti bianchi maschi che le circondano e che sono probabilmente tutti al di sotto di loro, torna in mente l'assunto con cui ho iniziato l'odierna noterella. Discriminare, ignorare,  o peggio disprezzare e tenere in subordine, donne o neri, appartenenti a questa o quella minoranza o diverso orientamento che sia, è sempre cosa pessima e ingiusta sul piano etico Spesse volte può  essere un gravissimo errore su quello pratico, quando si finisce col perdere un potenziale umano enorme. E non solo per le risorse che non vengono inserite secondo le loro effettive capacità nel ciclo economico-produttivo. Ma perchè l'umanità ha bisogno della diversità, degli opposti, della contrapposizione come stimolo per un continuo superamento e miglioramento di sè stessa. Se si  procede ad escludere ( le donne , i neri , i diversi ecc. ) essa si omogeneizza ma si impoverisce.
Ben fotografato, con ottime scenografie e costumi, il film è diretto in modo dignitoso anche se non particolarmente inventivo. Avrebbe necessitato di uno sguardo più personale, certamente ( pensiamo alla libertà di ispirazione evidenziata da  Jeff Nichols in " Loving " ). Definirlo, come qualcuno ha fatto, semplicemente " illustrativo " , mi sembra però troppo severo. Se incominciamo a deprimere gli artigiani coscienziosi e sinceri come il Melfi di "Il diritto di contare " , dove metteremo i registi pretenziosi ed insinceri che , ogni tanto, disturbano i nostri sogni di ingenui ma affezionati fruitori di ombre cinematografiche ?