lunedì 22 febbraio 2021

" BIANCO, ROSSO E VERDONE " di Carlo Verdone ( Italia, 1981 )

Esattamente quarant'anni fa usciva nelle sale " Bianco, Rosso e Verdone ", secondo film diretto e interpretato da Carlo Verdone. Reduce dall'ottima accoglienza del  lungometraggio di esordio ( " Un sacco bello " , 1980) il popolare comico romano mirava ad ottenere un nuovo e più ampio successo attraverso la reiterazione- ma anche l'approfondimento - di alcuni personaggi fortemente caratterizzati , a volte al limite della macchietta, che costituivano la sua maggiore risorsa, già utilizzata nelle precedenti apparizioni teatrali e televisive. La formula di partenza era la stessa del film precedente : tre figure di " homo italicus " in buffa , a volte parossistica contraddizione con un ambiente circostante poco propenso ad accettarne le nevrosi, i tic, la maniacale esuberanza. Tre personaggi che inducono al riso ma sostanzialmente incapaci di fare del male anche se ( specialmente uno ) piuttosto egocentrici, prigionieri della propria limitatissima visione delle cose. Uniti , questa volta, da un tenue filo conduttore : in viaggio tutti e tre lungo le autostrade italiane, ciascuno con la propria autovettura, una domenica di giugno per andare a votare nei rispettivi seggi elettorali. Domenico è un taciturno emigrato in Germania che da Monaco di Baviera deve tornare nella natia Matera. Furio è un  pignolo , logorroico romano trapiantato a Torino ma con residenza nella capitale che si sposta con moglie (sull'orlo dell'esaurimento nervoso ) e due ragazzini. Mimmo, infine, è un giovane ed ingenuo "single", accompagnatore della vecchia, grassa e autoritaria nonna che è andato a recuperare a Verona, dove stava dalla figlia, per riportarla a Roma e compiere così entrambi il loro dovere elettorale. Una trama esile ma con al centro tre figure che consentono a Verdone di calarsi con eccezionale bravura  in tre creazioni non solo di grande impatto umoristico ma anche di discreto spessore psicologico. Un passo avanti, insomma, verso i personaggi e le situazioni di maggiore complessità  e finezza narrativa che caratterizzeranno il suo cinema successivo (  " Borotalco ", " Compagni di scuola ", " Maledetto il giorno che ti ho incontrato ", " Sono pazzo di Iris Blond" ).

La forza dell'interpretazione di Verdone sta nella cura attenta e meticolosa con cui tratteggia i tre personaggi : esemplari umani al limite della credibilità ( il genere comico, del resto, non ha mai disdegnato gli eccessi ) ma non privi di una loro coerenza interna, spinta talvolta fino alla follia ( l'incidente causato dalla determinazione di Furio di "lanciare " la sua automobile, incurante della viabilità,  esattamente al termine del rodaggio su strada ; l'ostinazione di Mimmo di non dire neanche una piccola bugia per salvare il camionista dalla polizia ). Se la sceneggiatura  presenta qualche "buco " narrativo e non sempre le tre vicende si intrecciano a puntino, sopperiscono i personaggi minori, anch'essi indimenticabili. Dalla nonna di Mimmo, interpretata in modo magistrale da Elena Fabrizi ( sorella di Aldo, la popolare " Sora Lella " ) alla riccioluta Magda, l'infelice moglie del noiosissimo Furio,  con gli occhioni perennemente sgranati( " Non ce la faccio più !" è il suo celebre tormentone  in schietto accento torinese) al seduttore che la insidia con sorniona costanza( il barbuto, simpatico e misurato Angelo Infanti che diventerà nel 1982 il " fregnacciaro " di " Borotalco ", il mitico Manuel Fantoni ). E , su tutti, il leggendario Mario Brega ( interprete di tanti " spaghetti western ", uno dei migliori comprimari del nostro cinema ) nella  irresistibile caratterizzazione del camionista che fa l'iniezione alla nonna di Mimmo ("La vedi stà mano ? Pò esse fero e pò esse piuma : oggi è stata piuma... "). Sono altrettanti ritrattini che sostengono astutamente l'andamento della vicenda, contornandone i momenti di stanchezza , dovuti ad una sceneggiatura un pò frettolosa e a qualche caduta di ritmo. Dall'intero film emerge un ritratto a tratti impietoso- peraltro abbastanza  veritiero- di una Italia che, dopo gli " anni di piombo ",faticava a riprendersi : le persone che si vedono nel film ( doganieri, forze dell'ordine, benzinai, portieri d'albergo, presidenti di seggio e scrutatori ) appaiono singolarmente indifferenti ai casi altrui, poco empatici, stanchi ed avviliti. Un film comico, in sostanza, con poca tenerezza per la materia trattata. Ma, si sa, Verdone  non è una persona che ami tremendamente il suo prossimo. Un pò come Sordi, in definitiva.

Mette conto di soffermarsi, peraltro, sul personaggio di  Domenico, l'immigrato lucano che vive a Monaco di Baviera e si dirige, solitario, alla volta di Matera con la sua tamarra "Alfasud ". Qui, forse, Carlo Verdone ha avuto un momento di " pietas ", di autentica compartecipazione umana, offrendoci un ritrattino gustoso, antropologicamente esatto, di un eterno perdente, un piccolo " umiliato e offeso " dalla sua condizione sociale prima ancora che dalla sorte. E, al tempo stesso, forse senza averne piena coscienza, una delle rappresentazioni  più penetranti del dramma dell'emigrazione. Senza parole ( si esprimerà lungo tutto il film con  strabuzzare d'occhi ed una sommaria gestualità , sino all'esplosione verbale della fine ) Domenico è raffigurato quasi come un automa nelle sequenza iniziale prima della partenza da Monaco., vestito di un paio di vistosi pantaloni a scacchi, una magliettina troppo aderente e  con una foltissima capigliatura riccioluta. Sposato con una tedesca che lo ingozza , per prima colazione, di enormi salamini di carne di maiale e bicchieroni di latte, lo vediamo a disagio con i suoi stessi connazionali dai quali prende congedo nel caffé italiano. Sfottuto alla frontiera dai doganieri austriaci e poi  da quelli italiani che lo squadrano con pari diffidenza, conoscerà lungo il viaggio nella penisola indifferenza se non fastidio verso la sua ingenua gioia di ritrovarsi in patria, prezzi altissimi nei negozi lungo l'autostrada, truffe nelle trattorie dove si ferma a mangiare, ripetuti furti  a danno della sua automobile che lo fanno arrivare a destinazione in condizioni pietose. L'unico momento di sollievo in questa sfortunata anabasi è quando, in un'area di sosta, si imbatte in una comitiva di tedeschi in gita che scherzano tra di loro e si raccontano una storiella - per noi incomprensibile - alla quale essi ridono. Domenico, che si è avvicinato attratto quasi inconsapevolmente da persone che gli ricordano la Germania, ride fragorosamente anche lui. Evidentemente, anche se non l'abbiamo mai  sentito parlare, conosce ormai bene la lingua. Ma i tedeschi, perplessi ed impauriti da una persona che vedono così esteriormente lontana  dal loro mondo, smettono di ridere e quasi fuggono a rifugiarsi nel loro torpedone che li aveva portati fin lì.. Ecco, mai nel cinema italiano prima di allora ( con l'eccezione forse di " Pane e cioccolata " di Brusati, 1974 ) mi pare che si fosse così ben tratteggiato- e con pochi tocchi- il dramma identitario dell'emigrato : guardato con sospetto  per la sua " diversità " antropologica dagli abitanti della nazione  dove è andato a stabilirsi e al tempo stesso con diffidenza e sarcasmo dai connazionali che, quando torna a casa, lo percepiscono a loro volta come  ormai estraneo alla loro comunità. Condizione quanto mai amara, certo estrema ( non tutte le storie di emigrazione sono altrettanto dolorose ) ma che è un pò il filo nascosto  che unisce le tante vicende- di maggiore o minore successo-  dei nostri  emigrati in giro per il mondo.

martedì 19 gennaio 2021

DUE GRANDI FILM DEGLI ANNI '50 : " HIROSHIMA MON AMOUR di Alain Resnais ( Francia, 1959 ) " UN UOMO TRANQUILLO " di John Ford ( USA, 1952 )

Il cinema, nella sua grande bellezza, ha molte anime. Intendo dire modi diversissimi di declinare il proprio linguaggio che è, fondamentalmente, il raccontare per immagini con il  facoltativo ausilio della parola, talvolta della musica. Anche la letteratura- tanto per tracciare un paragone -  ha voce, ispirazione e modo di esporre  non certo riconducibili ad una sola " ragione narrativa ", ad un unico stile. Eppure, l' armamentario di cui essa forzatamente dispone - cioè la parola scritta- non offre di per sé soverchie possibilità di dar vita a " forme "  o "prodotti " che poi si differenzino tra di loro, anche solo esternamente, tanto quanto sono in grado di fare i film. Alla fin fine, per prendere un genere letterario diffusissimo, possiamo sostenere tranquillamente che  dal punto di vista del risultato estetico esistono solo " buoni " o " cattivi " romanzi. Ma non romanzi che ,  legati come essi sono al loro impianto espressivo di tipo grammaticale-sintattico ed alla linea di comunicazione stabilita attraverso la  sola parola con il lettore, siano capaci di assumere vesti esteriori così diverse come nel caso delle opere cinematografiche.  La forza evocativa delle immagini con cui  sono costruiti i film, il ritmo ed il "taglio" con cui le immagini e le sequenze sono concatenate tra di loro, il significato che assumono agli occhi dello spettatore e soprattutto le immediate reazioni emotive, o addirittura subliminali, che ingenerano in lui, danno vita  ad esiti diversissimi: non solo sul piano estetico, poiché ciò è vero per tutte le arti,  quanto su quello del cangiante dispositivo formale  proprio del cinema e del modo così vario che questo offre di trasmettere  le intenzioni degli autori. E' ben vero che, anche in letteratura, sono esistite in ogni epoca  creazioni che sono sfuggite, o almeno hanno tentato di farlo, alla apparente costrizione della comunicazione postulata dallo schema logico obbligato soggetto-verbo-complemento oggetto. E abbiamo avuto, da ultimo,  poesia ermetica e romanzo sperimentale, l' "Ulisse" di Joyce. Ma sono appunto tentativi - talvolta  commoventi o sublimi- di aggirare l'ostacolo del linguaggio, forzandolo all'estremo o addirittura  dinamitandolo dall'interno. Non così il cinema, che dispone già di innumerevoli  possibilità di espressione giocando su di una sintassi  infinitamente più articolata e attraverso percorsi espressivi di sconfinata libertà. Per tornare al nostro punto di partenza,  è così che le singole creazioni cinematografiche possono risultare, alla fine, tanto diverse. E di due di queste, nate nell'epoca d'oro degli anni '50 del secolo scorso, si tratterà ora sia pure sommariamente. Sottolineando come, opere entrambe di primaria importanza e di massimo godimento per lo spettatore, esse siano assolutamente agli antipodi, eppure ci parlino in modo egualmente forte e  coinvolgente.

Presentato al Festival di Cannes del 1959 ( ottenendo la Palma d'oro per l'interprete principale, la luminosa Emmanuelle Riva ) "Hiroshima mon amour ", primo lungometraggio del regista Alain Resnais, è uno di quei film di cui si può ben dire che costituiscano una pietra miliare nella storia de cinema. Liberissimo rispetto alla tradizionale architettura dei film " classici " grazie ad un sapiente ed  ispirato montaggio in cui passato e presente, ricordi che riaffiorano e situazioni attuali, contesti ambientali molto distanti tra di loro, si giustappongono o si accavallano continuamente , possiede una unità che non è più quella di tempo o di luogo - esterna ai personaggi -  ma quella dettata dallo stato d'animo interno della protagonista. Questa, un'attrice francese di passaggio ad Hiroshima per girarvi un film pacifista ispirato dall'olocausto nucleare avvenuto quattordici anni prima , vive una breve ma intensa storia di "amour fou" con un ingegnere giapponese incontrato casualmente. Attraverso l'emozionante atmosfera che si respira nella città, simbolo degli orrori della seconda guerra mondiale, ma ancor più grazie alla totale intimità di anima e corpo stabilita con il suo amante, la donna ricorda per la prima volta da allora la storia dolorosa della sua sfortunata relazione in una cittadina francese , Nevers, con un giovane militare tedesco che sarebbe poi stato ucciso  nei giorni della liberazione del 1944. Relazione che determinò la sua punizione da parte dei partigiani ( rasata a zero e condotta, venendo dileggiata, in giro per le vie della città ) , la rottura con i genitori ed il  successivo allontanamento alla volta di Parigi per sfuggire agli sguardi di riprovazione dei  locali benpensanti. Ecco allora che, intrecciati al dramma del nuovo distacco che la donna ritiene di doversi imporre dall'amante   giapponese - entrambi, apprendiamo, sono felicemente sposati - da un lato la tragedia collettiva della città giapponese e dell'intera umanità esposta alla minaccia atomica e dall'altro quella  individuale, la fine violenta del suo amore  e l'umiliazione ed il torto subiti dalla donna , colpevole solo di aver amato, finiscono con il rappresentare un unico, irrimediabile "vulnus" inferto all 'essere umano. Una ferita al sentimento di pace e di amore che dovrebbe regnare tra di noi, una prova di quella difficoltà di vivere che rende così faticosa e precaria la condizione umana. Mai, credo, al cinema tutto questo è stato rappresentato con altrettanto vigore morale e novità di linguaggio. La maestria di Resnais ( il quale ci darà poi, nel corso dei cinque successivi decenni, altri film egualmente di grande valore ) la sua vibrante macchina da presa, i suggestivi dialoghi di Marguerite Duras, la fotografia di un bianco eclatante per le scene girate ad Hiroshima e di uno sfumato bianco e nero per quelle ambientate a Nevers, non ultimo il raffinato commento musicale del nostro Giovanni Fusco ( collaboratore preferito di Antonioni ) fanno di "Hiroshoima mon amour " un film che sfida trionfalmente gli anni. Oggi le sue commistioni di tempi e di luoghi non sorprendono più come nel 1959. Ma ciò che resta, e lo rende un classico senza tempo, è il suo umanesimo di fondo e la fede in un cinema che, emozionandoci ed interrogandoci, può  contribuire a renderci migliori.

"Un uomo tranquillo " ( nell'originale "The quiet man" ) è un film del 1952, diretto da John Ford, il quale grazie ad esso ottenne il premio per la migliore regia alla Mostra del cinema di Venezia di quell'anno. La storia è molto semplice, ancorchè movimentata e ricca di colpi di scena. Un americano di origine irlandese ( non a caso si chiama Sean, Giovanni in gaelico ) viene a stabilirsi nuovamente nel villaggio da cui era emigrato  tanti anni prima con i suoi genitori. In cerca di pace e di ritrovata serenità ( scopriremo in corso d'opera  che, pugile affermato negli USA, si è ritirato sconfortato dalla "nobile arte" dopo aver accidentalmente ucciso sul ring il suo ultimo avversario ) l'uomo si innamora a prima vista, corrisposto, della giovane e bella vicina di casa- un vero prototipo dell'irlandese fiera ed appassionata - e medita di sposarla. Superate grazie ad un inganno degli amici compiacenti le difficoltà frapposte al matrimonio dal burbero ed aggressivo fratello della sua innamorata, i problemi nasceranno quando questi, accortosi di essere stato raggirato, negherà per ripicca alla sorella la dote di famiglia di cui egli è depositario. Se Sean, con cui la sposa per antiche consuetudini si rifiuta di convivere in assenza della dote di cui è stata privata, vorrà riconquistarla dovrà forzare il proprio sopravvenuto ripudio della violenza ed affrontare in una omerica scazzottata finale il forzuto e collerico cognato. Una trama sanguigna, come si vede, ma niente affatto violenta ( nell' Irlanda teatrale ed immaginifica i pugni preludono solo ad altrettante gioiose riappacificazioni condite da musica e canti, inaffiate da fiumi di ottima birra scura e schiumosa ) alla quale fa da singolare contrappunto un paesaggio paradisiaco in cui il verde dei prati si stempera nell'azzurro dei corsi d'acqua e della costa marina dalle mille insenature. Una Irlanda che è più un "topos" letterario , un luogo dello spirito, che una geografica "location". Una occasione per Ford per esprimere ancora una volta la sua convinzione che l'uomo, stretto tra le mille insidie e difficoltà della vita, non cesserà mai di anelare con tutte le sue forze ad un mondo di pace  e di serenità . Una convinzione manifestata in ben sessanta anni di cinema - prima il muto e poi il parlato-   e che ha dato vita a tantissimi capolavori e che qui viene, ancora una volta, declinata con tutto il pathos, la forza e la dolcezza, la sobrietà e l'entusiasmo che gli sono congeniali. Ricco di simpatia e di "humour"  nei confronti dei suoi personaggi, gradevolissimo nel tratteggiare usi e costumi di una Irlanda rurale oggi ormai lontanissima e forse già allora più vagheggiata che reale, " Un uomo tranquillo " è senza dubbio un piccolo capolavoro, ricco di uno spessore umano e di una sottile malinconia ben più corposi di quanto il suo andamento lineare e la recitazione, apparentemente " facili "  entrambi, non lascino a prima vista immaginare. Film "classico " quant'altri mai se collocato vicino ad un'opera rivoluzionaria quale era ( e per certi versi rimane)  " Hiroshima mon amour ", esso testimonia quanto prima si è detto sulla diversità non solo contenutistico-formale nel cinematografo ma anche sul diverso modo, grazie al linguaggio, al ritmo, alle inquadrature ed alla percezione che esse ingenerano nello spettatore, di  riuscire a trasmettere le intenzioni dell'autore, il suo credo o , se volete, quello che potremmo chiamare la sua "poetica". Diversissimi nella forma e nel contenuto, " Hiroshima mon amour" e "Un uomo tranquillo" evidenziano entrambi fiducia nell'uomo e nelle capacità dell'amore e della solidarietà di reagire alle tante insidie di cui è costellata la nostra esistenza. Ed il cinema, qui, fa egregiamente la sua parte.




                                                                        



martedì 10 novembre 2020

SCIASCIA AL CINEMA : " A CIASCUNO IL SUO " di Elio Petri ( Italia, 1967 ) / " Il GIORNO DELLA CIVETTA " di Damiano Damiani ( Italia, 1968 )

  •  I  due romanzi , o racconti lunghi , di Leonardo Sciascia sulla Sicilia e il fenomeno mafioso, pubblicati tra il 1961 ("Il giorno della civetta" ) e il 1966 ( " A ciascuno il suo " ) trovarono al cinema due  convincenti trasposizioni a poca distanza l'uno dall'altro, nel biennio 1967-1968. Probabilmente sulla  scelta di produrre quello dei due che fu girato per secondo ("Il giorno della civetta" ) influì il buon successo del primo ad essere trasferito sullo schermo ( " A ciascuno il suo " ). E poi Sciascia incominciava allora ad essere più di un semplice "caso"  letterario. I suoi libri avevano trovato, proprio in quegli anni, un pubblico di lettori affezionati. La sua Sicilia e la sua trattazione del fenomeno mafioso -molto più radicato e capillare, quest'ultimo,  di quanto non si presumesse dal "continente"- risultavano assai suggestivi in una Italia che si interrogava su se stessa e sui cronici ritardi di una vera unità nazionale sul piano della mentalità e del costume. Il cinema degli anni '60 diventava d'altro canto sempre più " politico ", in sintonia con una società in rapida trasformazione, multiforme e desiderosa di uscire dal sostanziale immobilismo in cui era rimasta confinata per decenni. Il " potere "  (quello istituzionale, civile e religioso, o quello dei grandi gruppi economici ) incominciava così ad essere indagato senza le remore, e con molto minori ostacoli censòrii, di quanto non fosse avvenuto in passato. Ne uscivano film magari non tutti della stessa fattura, ma quasi sempre interessanti e con l'irresistibile profumo  di una stuzzicante novità.
         Le sue opere di " fiction " sono scritte da Sciascia  con  uno stile stringato ed una eccezionale incisività che elimina il superfluo e va dritto al cuore della vicenda. Sembrano quasi, in sostanza, delle sceneggiature cinematografiche pronte per essere girate. Personaggi e trama narrativa  conquistano il lettore fin dall'inizio, proprio come in un buon film. Certo, la metafora - che nelle sue storie c'è sempre -  sia delle specialissime condizioni della sua terra, sia della natura umana in quanto tale, risulta meno agevole da rendere cinematograficamente . In questi due film ( dei quali Sciascia, ceduti i diritti , ha avuto poco o nessun controllo in fase di lavorazione ) si perde talvolta, inevitabilmente, quella  dolorosa e risentita vena ironica, quella sottile malinconia, che si rinvengono nella pagina scritta. Ma non sono venuti meno, fortunatamente, il vigore espositivo, la "dimostrazione " di uno stato di cose ingiusto e che occorrerebbe quindi cambiare, che animano i due romanzi e che conferiscono ad essi un sapore forte e genuino. Svelta e concisa, la sua prosa trova al cinema - specie in " A ciascuno il suo "- una congeniale equivalenza nel montaggio serrato, nel rapido succedersi delle inquadrature. Come se la macchina da presa volesse dare corpo secondo i propri mezzi  a quel pacato eppur implacabile argomentare di uno scrittore " illuminista " quale era sicuramente Sciascia.

 

         " A ciascuno il suo ", ironico titolo desunto dal motto che compare sotto la testata de " L'Osservatore  Romano " ( frammento  di pagina di  giornale che vedremo , nel film , utilizzato in modo quantomeno singolare ) fu realizzato nel 1967, ad un anno dal buon successo del libro. Ma, riluttanti le grandi case di produzione a portarlo sullo schermo secondo i desiderata del regista e sceneggiatore Elio Petri, alla fine si trovò un produttore indipendente che accettò di sobbarcarsene il rischio. E fece bene, giacché il film piacque, fu venduto all'estero ricevendone positiva accoglienza ed è da alcuni critici considerato una delle cose migliori di Petri, autore già pochi anni prima di un notevole " I giorni contati ", con il grande  Salvo Randone come interprete principale ( che qui ha solo un godibilissimo " cammeo " ). Sciascia lesse il copione, scritto da Petri con il romanziere Ugo Pirro, ma non gli piacque particolarmente, specie per l'eccessivo risalto dato al personaggio di Luisa, la vedova Rosello, che nel romanzo è appena abbozzato. In realtà ( e , avendo poi visto il film anche lo scrittore dovette convenirne ) il film è fedele non tanto alla lettera quanto allo spirito con cui Sciascia racconta la vicenda e alla morale che voleva trarne.   Che è poi quella che per sconfiggere la mafia, anche piccola o piccolissima che si annida nella mentalità di taluni abitanti dell'isola, non occorre nessuna particolare arditezza, nessuno sterile donchisciottismo ma anzi una sana dose di realismo,  cioè di volontà di capire- parafrasando Croce - "come siano andate propriamente le cose ". Qualità che fa purtroppo difetto allo sfortunato protagonista, quel timido ma sconsiderato professor Laurana di cui, come finale epitaffio, i notabili del suo paese diranno solo che " era un cretino ". Ben diretto, con una tecnica desunta dai classici film gangsteristici americani, alla Huston o alla Samuel Fuller, " A ciascuno il suo " si lascia vedere tuttora con piacere. Contribuiscono a tale sensazione una puntuale descrizione di uno spicchio di Sicilia ( Palermo e dintorni ) infestato dal costume mafioso dei suoi notabili, l'ottima scelta dei caratteristi e la magistrale interpretazione degli interpreti principali : Gian Maria Volonté ( Laurana ) , Gabriele Ferzetti ( Rosello ) e Irene Papas  (Luisa ). Se la regia di Petri è abile e inventiva, la sceneggiatura è particolarmente solida e ben costruita, tanto che al Festival di Cannes del 1967 ( prima del fatale ' 68 che , l'anno dopo, ne impedì lo svolgimento ) essa vinse addirittura il relativo, massimo riconoscimento tra i film in concorso.

 

         A fronte dell'elegante, quasi sofisticato film di Petri, il successivo " Il giorno della civetta",  girato da Damiano Damiani nel 1968, potrebbe apparire molto più convenzionale. Lineare nell'andamento narrativo - anche qui non fedelissimo al testo, ma alla sceneggiatura questa volta collaborò lo stesso Sciascia ancora con Ugo Pirro - sembra un " western " siciliano. E certamente deve essersi ispirato almeno in parte all'atmosfera del prototipo dei film di mafia , quel " In nome della legge " di Pietro Germi (1949 ) tutt'altro che trascurabile nella sua sincerità appena un pò troppo semplificatrice ma di grande impatto emotivo. Anche qui mafia di campagna, dunque. Con due antagonisti. Da un lato il capitano dei Carabinieri Bellodi (" continentale ", anzi addirittura nordico in quanto emiliano e per giunta ex partigiano ) desideroso di venire a capo del solito delitto senza un chiaro movente né attendibili esecutori . Dall'altro don Mariano Arena, anziano ma ancora vigoroso ed incontrastato capomafia che su quel delitto sa ovviamente molte cose. E che alla fine , al troppo curioso ma onesto e coraggioso Bellodi, renderà in un certo senso l'onore delle armi definendolo  "un uomo ". Categoria, questa, decisamente minoritaria secondo l'esperto Arena. Giacchè , come gli fa dire Sciascia anche nel romanzo, più numerosi assai sono nella vita, man mano scendendo, i mezzi uomini, i ruffiani, gli ominicchi e, in fondo alla scala antropologica, " i quacquaracquà ".  Interpretato da grandi caratteristi siciliani nelle parti minori ( Tano Cimarosa su tutti nella parte di un singolare killer ), ravvivato dalla presenza di una splendida , fiorente Claudia Cardinale nella parte della moglie di un contadino del luogo, con un ottimo, misurato Franco Nero nella parte di Bellodi, è letteralmente illuminato da un immenso Lee J, Cobb calatosi perfettamente nella parte di don Mariano. Mai " padrino " fu altrettanto vero al cinema di lui : non il pur celebrato Charles Vanel ne " Il nome della legge " di cui si è detto nè, sto per dire, il pur sagacemente istrionico Marlon Brando nel celebratissimo " The Godfather ".

Sciascia  ci ha lasciati nel 1989.  Prima della sua scomparsa altri due film sono stati tratti dalle sue opere. " Cadaveri eccellenti " di Francesco Rosi ( trasposizione del romanzo " Il contesto " ) e " Todo Modo " ancora di  Petri, girato lo stesso anno.  Non equivalgono, purtroppo, ai due film di cui abbiamo appena parlato perchè desunti da due libri , a mio personale giudizio, non dello stesso livello artistico-concettuale. Ma averne ancora, in Italia, di scrittori di quel calibro! E , soprattutto, di punti di riferimento ideali, per onestà intellettuale e profondità di analisi, quale è stato, almeno per due decenni, lo scrittore di Racalmuto ( la sua " piccola patria " siciliana ). Sciascia ci manca. In questi giorni così confusi, ho la sensazione che  ci manchi terribilmente.


 



 


  

         


 



        

lunedì 24 agosto 2020

DUE FILM SULLA CREAZIONE ARTISTICA : " SCARPETTE ROSSE " di Michael Powell ed Emeric Pressburger ( Regno Unito, 1948 ) / " LA FONTE MERAVIGLIOSA " di King Vidor ( USA, 1949 ) Unito, 1948 ) / " LA FONTE MERAVIGLIOSA

 E' possibile che i normali sentimenti  che prima o poi si fanno strada in ogni essere umano, ad incominciare dal più fondamentale di essi che è l'amore, non confliggano con la passione per la propria professione, la totale dedizione, il furore creativo che soprattutto- ma non solo -l'esercizio dell'arte  postula spesso in modo così impetuoso ed esclusivo ? Ecco un interrogativo bello e stimolante per la nostra riflessione. Un interrogativo che sovente proprio alcune vite di artisti, o  talune opere d'arte che di esso hanno fatto il loro nucleo essenziale,  hanno proposto alla nostra attenzione senza , ovviamente, poter offrire una risposta univoca e convincente. Perchè le scelte, nella vita come nella finzione sono pur sempre personali e , per fortuna, non tutte così radicali come quelle che vengono esposte in quelle opere o emergono da quelle biografie, consentendo cosi, nella prassi, vari tipi di soluzione, di arrangiamenti più o meno armoniosi, più o meno duraturi. Ma quando la passione  per la propria creazione o  per il percorso professionale che si è intrapreso, si fanno assoluti e totalizzanti, senza ammettere alcun compromesso, le cose diventano nettamente più difficili. L'uomo ( la donna ) lascia il posto al creatore, al  demiurgo pronto a tutto sacrificare per la propria impresa finendo così,  fatalmente, col travolgere spesso altri sentimenti, altre pulsioni, perfino altre vite umane.                        Due bellissimi film rivisti in questi giorni, purtroppo non in sala ma comunque in splendide copie digitali restaurate, mi hanno sorpreso perchè, indipendentemente l'uno dall'altro, trattano entrambi proprio questo tema così affascinante, offrendoci personaggi e vicende in cui esso assume forme certamente estreme ma di una pregnanza di significati e di una vivacità espressiva tali da emozionarci e restare impressi in noi lungamente dopo la visione. Pregio , quest'ultimo, che è indice di grande , grandissimo cinema. E questi due film , oltre a rappresentare un apice delle carriere artistiche dei loro autori, sono per me da includere certamente in quella ristrettissima cerchia - non più di un centinaio di opere - che racchiude i migliori film di ogni tempo e di ogni latitudine.  Girati, anche qui sorprendentemente, a pochi mesi  ma a molti chilometri di distanza tra di loro, uno ad Hollywood l'altro in Gran Bretagna senza , ritengo, che il secondo - che è stato concepito temporalmente per primo - potesse influenzare l'altro tanto sono diversi gli stili e le ambizioni che li animano,  essi appaiono peraltro meravigliosamente uniti dall'identità del tema e dal suo impetuoso, inarrestabile svolgimento. E se quello girato negli Stati Uniti ha un luminoso lieto fine ( imposto in realtà dai produttori ed accettato " obtorto collo " dal regista ) e l'inglese, invece, un finale decisamente più tragico, non va trascurato il  loro identico assunto: l'esercizio, ad alto livello, di una attività artistica o comunque creativa ed autonoma incide prepotentemente sul proprio vissuto, sul rapporto con gli altri. Anche se è spesso fonte  di compiuta autorealizzazione e di grandi soddisfazioni personali  esso non può  che entrare in conflitto non solo con gli altri ma con le nostre stesse ed altrettanto profonde aspirazioni. Ancora una caratteristica non da poco che accomuna i due film e che ne giustifica la loro piena riuscita estetica è la totale corrispondenza tra il loro assunto drammatico e le forme in cui questo viene reso manifesto. Il contrasto, come si è detto più volte, tra il desiderio di libertà da ogni costrizione e quasi di sopraffazione indotto dalla creazione artistica  e, dall'altro lato, la difficile esigenza di armonizzare, di fondere la nostra vita con quella degli  esseri che vivono insieme a noi  trova nelle immagini, nel dialogo, nella recitazione degli attori, un perfetto, coerente  modulo espressivo. Dalla fotografia, ai movimenti di macchina che dettano le varie inquadrature, alla scenografia, alla musica di accompagnamento : tutto è splendido, funzionale al racconto e dà piena testimonianza di due opere d'arte ( mai definizione per dei film fu più meritata ) di assoluto valore e di grande impatto emotivo. Difficile non gioire per tanta perfezione tecnica e non commuoversi per tanta bellezza che scorre sotto i nostri occhi.

" Scarpette rosse " ( " Red Shoes " ) è uno dei frutti della totale, intensa collaborazione artistica che legò per una quindicina d'anni due cineasti britannici, Emeric Pressburger ( di origine ungherese come tanti protagonisti della storia del cinema mondiale ) e Michael Powell. Se il primo era più propriamente tagliato per le sceneggiature dei film firmati poi come registi da entrambi, il secondo aveva uno spiccato talento visivo che mostrò anche da solo, prima e dopo il periodo di sodalizio con l'amico. Convinti propugnatori di un cinema " totale "- che riunisse il meglio della fotografia e della tecnica delle immagini in movimento, della scenografia e della pittura, della danza e della musica, considerati essenziali e alla pari -  Powell e Pressburger girarono insieme una dozzina di film di valore ineguale ma tutti illuminati dal loro stile, dalla grazia e dalla intelligenza che essi  profusero a larghe mani. " Scarpette rosse ", che è del 1948, è concettualmente meno ambizioso, forse , di altre loro creazioni. Ma certo è di una assoluta perfezione e di una totale coerenza contenutistica e formale. Ispirandosi ad una fiaba di Hans Christian Andersen , ampliata e rivissuta in chiave contemporanea, ha come personaggio principale una giovane ballerina di grande ma ancora inespresso talento che , scoperta e valorizzata da un esigentissimo impresario che vive solo per l'arte,  è indotta a barattare la sua autonomia ed i suoi sentimenti con quel successo che finirà col travolgere la sua stessa esistenza. E che  trascinerà  via con sè anche l'amore tra lei ed il giovane  musicista e compositore che, egoisticamente infatuato a sua volta della propria arte e della propria carriera, aveva in fondo contribuito così al naufragio della parabola  umana di entrambi. Un triangolo non necessariamente di significato erotico in ognuno dei rapporti che legano i personaggi tra di loro. Ma indubbiamente basato  ( specie nei due personaggi maschili ) su di una comune visione egocentica e dionisiaca della  propria realizzazione professionale, incompatibile in definitiva con qualunque genuino e costante scambio d'amore con gli altri fondato sul concetto di "dono". Una storia altamente drammatica ma ,conformemente allo stile dei due registi, circonfusa egualmente di grande bellezza , eleganza, equilibrio tra momenti più  o meno sereni, umorismo ed armonia dell'insieme. Qualità che emergono spiccatamente, all'interno del film,  nella lunga sequenza del balletto dal titolo appunto di " Scarpette rosse ", messo in scena dall'impresario e danzato dalla giovane ballerina che vi trova la sua prima, smagliante consacrazione artistica. Una sequenza da applausi a scena aperta per l'inventiva, lo splendore visivo, la fruttuosa partecipazione collettiva di tutti coloro che vi hanno contribuito.Ed oltre alla performance della ballerina, la giovanissima Moira Shearer alla sua prima importante prova cinematografica, metterà conto di citare almeno lo scenografo Hein Heckroth, inventore delle frequenti " aperture " della ribalta del teatro dove si suppone venga messo in scena il balletto in meravigliosi e sempre sorprendenti scenari fantastici in cui, quasi per magia , viene di colpo trasportata l'azione scenica . E come non concedere una menzione d'onore ancora al direttore della fotografia , il grande Jack Cardiff, che ci regala un technicolor dalle raffinate tinte pastello , ricche di chiaroscuri come se si trattasse di un bianco e nero e non di un film a colori. Regia, interpretazione, scenografia , fotografia , tutte contribuiscono ad offrirci uno spettacolo raffinatissimo, di grande classe. Ma, soprattutto queste componenti sono sempre perfettamente sincroniche all'atmosfera della vicenda , ai significati che i due sceneggiatori-registi intendono infondervi. Una simbiosi di forma e di contenuto quale rare volte è stata realizzata al cinema.E non mi sembra poco.

Diverso lo stile e le ambizioni del regista USA King Vidor nel girare la trasposizione del romanzo di grande successo " The Fountainhead "( letteralmente " La sorgente ", conosciuto da noi, al pari del film, con il titolo " La fonte meravigliosa " ).Scritto nel 1946 da Ayn Rand , una russa naturalizzata americana, già autrice dieci anni prima del forte romanzo antisovietico " We the living " da cui nell' Italia del 1941-42 erano stati tratti due straordinari melodrammi,  "Noi vivi " e " Addio Kyra ! ", il libro era popolarissimo negli Stati Uniti per la personalità dell'autrice e per le teorie individualistiche da essa propugnate. Ed anche Vidor dovette restare affascinato dal personaggio principale, l'architetto dalle idee rivoluzionarie Howard Roark (liberamente ispirato alla figura del grande Frank Lloyd Wright ) che sentiva in qualche modo vicino al suo credo artistico teso in quel momento alla valorizzazione del creatore , del demiurgo , così nel cinema come nelle professioni liberali e negli affari. I produttori , come era normale ad Hollywood a quei tempi, per quanto convinti che egli fosse il regista adatto a trasferire il romanzo sullo schermo, non gli concessero dopo l'assoluto dominio del suo lavoro. Salvarono per motivi commerciali intere sequenze e soprattutto inquadrature di sapore marcatamente erotico che Vidor avrebbe voluto togliere in sede di montaggio e pretesero da lui un lieto fine con il definitivo trionfo del travagliato rapporto tra il protagonista ( interpretato da un carismatico Gary Cooper ) e la donna amata ( una Patricia Neal in versione "vamp ", al suo quasi esordio ). Occorre dire che almeno quella volta i produttori videro giusto. L'esplicita reciproca attrazione carnale tra i due personaggi principali risulta tra le cose figurativamente più belle dell'intero film e la sequenza finale che vede Patricia Neal salire letteralmente in cielo per ricongiungersi a Gary Cooper ( percorrendo con un montacarichi esterno la vertiginosa altezza del grattacielo costruito da Roark , il quale l'attende alla sommità in atteggiamento di trionfatore ) è esagerata ma di sublime bellezza. Anche in " La fonte meravigliosa " il conflitto tra fuoco della creazione artistica, esaltazione dell'individuo che osa e produce, e la vita ordinaria, i sentimenti "borghesi " è portato al parossismo, come già in " Scarpette rosse " . E vi è anche qui un triangolo, certamente più esplicitamente erotico, tra l'architetto, la donna amata ed il ricchissimo magnate, egualmente preso di sé e della sua opera , che salverà l'architetto dalla catastrofe professionale ma gli toglierà la donna amata. Niente atmosfere leggere, fantasiose, ricche di ironia come in " Scarpette rosse " ( qui predomina il melodramma ed in certi punti quasi la tragedia greca ). Ma l'analoga sorprendente lotta tra l'individualità tesa nel suo sforzo creatore e le lusinghe di un mondo convenzionale e " normale ", che ripropone il tema sempre attuale della difficoltà per l'essere umano volto alla realizzazione di un progetto totalizzante di entrare in convinta, armoniosa simbiosi con l'ambiente circostante, gli altri esseri umani, il mondo.                                                                                                                                            "La fonte meravigliosa " può apparire come un film " reazionario " per il suo assunto un po' troppo intellettualistico ed elitario in cui rischiava di confinarlo il romanzo di Ayn Rand da cui prende le mosse. E, forse anche per questo, non è particolarmente amato da una certa critica, specie quella francese collocata più a sinistra. Ma fermarsi al suo tema centrale, pur svolto con grande onestà e coerenza stilistica da un Vidor  nella sua fase più  individualistica e "ribelle" ( si pensi al coevo " Peccato " e, andando indietro, a " Duello al sole"   e , pochi anni dopo, a " Ruby Gentry " ) significherebbe farsi sfuggire i valori plastici del film, il superbo ritmo narrativo ricco di  brillanti ellissi , i movimenti di macchina audaci ma sempre giustificati dal " partito preso " ideologico-stilistico del regista, l'impressione infine per lo spettatore di una creazione a tutto tondo tesa a raggiungere valori estetici di inusitato splendore. Che dire della fotografia  ? Opera di Robert Burks, il direttore più amato da Hitchcock che gli affidò ben dodici film, è un rutilante bianco e nero  a tratti ricchissimo di drammatici contrasti, ma anche di morbidi sapientissimi toni, che accentua quell'atmosfera barocca e genialmente " sopra le righe " che è in tutte le opere di Vidor di quel periodo.  In definitiva, anche qui grandissimo cinema.Un genere con cui, in quegli anni, non era infrequente un felice incontro.













lunedì 13 luglio 2020

" MATTHIAS ET MAXIME " di Xavier Dolan ( Canada, 2019 )

Dopo il mezzo insuccesso di " Juste la fin du monde " ,  con attori e tecnici francesi, seguito dall'incolore " La mia vita con Joe Donovan " , girato negli Stati Uniti ed interamente in inglese, Xavier Dolan , l'ex " enfant prodige " del cinema quebecchese, superati ormai i trent'anni, è tornato a casa. Ed a casa , in quella Montréal dove si muove decisamente meglio che sotto altri cieli, altri accenti, altre prospettive,  ha ritrovato quell'ispirazione che, dopo il trionfo di "Mommy" che è di cinque anni prima,  sembrava insidiosamente appannata. Non fossero altri e maggiori i suoi meriti,in fondo la buona notizia che ci porta questo " Matthias et Maxime " è già questa. Dolan ha felicemente riannodato i fili che sembravano spezzati con il proprio retroterra culturale, il proprio passato, i propri fantasmi privati che gli dettano quelle immagini travolgenti, quella plasticità, quel  continuo movimento sottotraccia che fanno del suo cinema una festa per gli occhi e riscaldano la mente ed il cuore dello spettatore.

E per non farsi mancare nulla e celebrare degnamente il rientro alla base, il suo ultimo film è una intelligente ed emotivamente ricca rivisitazione di tutti i temi che costituiscono il  suo mondo interiore e corroborano costantemente l'assunto estetico che persegue la sua opera.  Potremmo definire i percorsi psicologico-emotivi, spesso tortuosi , dei suoi personaggi ed i tratti visivi che contraddistinguono il cinema di Dolan come una armonia( o disarmonia, se si preferisce ) degli opposti. Tante sono le contraddizioni,  anche di narrazione e di stile, che abitano i suoi film. Ma che, occorre dire, proprio la  visione di questi ultimi consente man mano di ricomporre ad unità. C'è uno scambio di battute all'inizio di " Matthias et Maxime " che mi pare al riguardo illuminante. Sentiamo infatti una  giovanissima amica di Maxime, incaricata dalla propria scuola di girare con una telecamerina e  in un minuto ( ! ) il tema degli opposti in natura - e già qui traspaiono gli abituali interessi di Dolan - affermare con baldanza che il suo film sarà " impressionista ed espressionista " al tempo stesso. " Ma questo è impossibile, si tratta di una contraddizione in termini " ribatte sornionamente lo stesso Dolan, che impersona Maxime. Sapendo bene  che proprio il suo cinema, che a volte sembra una tavolozza estremamente mossa e leggera, ricca di colori, "impressionistico " appunto, è poi anche solidamente costruito attorno ad un impianto drammatico, anzi melodrammatico che consente di esporre con vigore, dilatandoli, passioni, avversioni ed amori.

Luogo di elezione di opposizioni e contrasti, ora lievi ora forti, è in quest'ultimo film  il mondo dei giovani che- una volta di più - ne costituisce l'ambientazione, il "milieu ". Non più adolescenti o giovanissimi ma non ancora emotivamente e professionalmente " realizzati ", questi tardoventenni o neotrentenni che ne sono  i protagonisti sono essi stessi, d'altra parte, viventi contraddizioni : cresciuti in un relativo benessere, deresponsabilizzati spesso da genitori indulgenti, faticano a trovare, anche se lo vorrebbero, un punto fermo che ne favorisca la maturazione. Quando, come nel caso invece di uno dei due protagonisti, il più popolaresco Maxime contrapposto al più borghese e fortunato  Matthias , non siano costretti a guadagnarsi duramente da vivere e sognino. inquieti, di solcare cieli più clementi anche se lontani.  E sarà proprio la preparazione della partenza di Maxime per l' Australia dove spera di trovare fortuna ( e non c'è maggiore  opposto  geoclimatico del Canada di quella terra)  il motore della vicenda. Vicenda che ruota, come suggerisce il titolo, intorno ai rapporti tra i  due giovani.  Amici per la pelle da quando erano bambini ,essi si stanno in realtà allontanando per  i dubbi sulla propria identità sessuale che nutre Matthias  sentendo di essere fisicamente attratto da Maxime. Diversità, contraddizioni, oscillazioni nelle proprie inclinazioni, una volta di più. Al pari di tanti altri temi o semplici notazioni, cari  da sempre a Dolan, che si ritrovano anche in questo film e che ruotano intorno allo stesso concetto. Che è poi una semplice verità. Bianco e nero, diritto e rovescio, giusto e sbagliato, raramente si trovano allo stato puro. Più spesso li scorgiamo miscelati tra di loro o addirittura inestricabilmente legati. Prendete il clima del Québec (il film è ambientato  nel primo autunno).Esplosione di colori, fogliame giallo oro o rosso infuocato, certi giorni si può ancora andare a nuotare al lago. E poi d' improvviso una ventata d'aria gelida annuncia inesorabile le prime avvisaglie del grande freddo. Così, intimamente miscelati nella società quebecchese la tradizione e la persistenza francofona ( una francofonia antiquata come lessico e pronuncia ) con la modernità e la tecnica che battono prevalentemente bandiera anglofona.  Ma anche la tradizione e la fedeltà linguistico-culturale oggi sono in  via di progressiva erosione sotto l'influenza crescente angloamericana; senza, peraltro, che tutta la popolazione, e non solo quella più evoluta, sia ancora in grado di esprimersi fluentemente nella lingua del proprio storico vincitore.

 Vario, composito, scritto e diretto da Dolan in poche settimane con  attori giovani che sono anche suoi amici e qualche attore più smaliziato che compare in ogni suo film ( Anne Dorval, madre abituale, polo opposto ma come tale ineliminabile per il " figlio " Xavier ), " Matthias et Maxime " è stato accolto maluccio al Festival di Cannes dello scorso anno e poi, quando è uscito in sala, massacrato dalla critica francese che lo ha tacciato di " frettoloso " e di "ripetitivo", Accuse ingiuste se si pensa che non è certo una colpa essere rapidi nella concezione e nella realizzazione di un film : l'importante è il risultato che qui, proprio dal punto di visto tecnico-formale è quanto mai soddisfacente.  Quanto al tornare sugli stessi temi non vedo certo come potrebbe essere una colpa : come dire che De Sica, dopo  " Ladri di biciclette ", invece di " Miracolo a Milano " ed " Umberto D " avrebbe fatto meglio, poniamo, a girare un musical ambientato nell'alta società. Figurativamente splendido, curatissimo, sapiente nell'alternanza di stili, il film appare nondimeno sincero ed ispirato, e segna un nuovo gradino nella indagine che Dolan conduce ormai da dieci anni ( e ben otto film ) sulle ambiguità, le reticenze, le ansie e i timori della nostra epoca. Epoca- almeno prima del coronavirus- cosmopolita, movimentata ed apparentemente spregiudicata. Ma anche spesso sfuggente, piena di miserie, di "non detti ", di tante piccole viltà.  Insomma, una materia cinematograficamente perfetta.