martedì 24 dicembre 2019

" IL MISTERO HENRI PICK " di Rémi Bezancon ( Francia, 2019 ) / CONSIGLI PER I FILM DI NATALE

Esce sugli schermi italiani, dopo diversi mesi dalla sua prima apparizione in patria , il film francese " Il mistero Henri Pick ", diretto da Rémi Bezancon e da questi sceneggiato a partire dal romanzo omonimo, scritto da  David Foenkinos, pubblicato nel 2016 e tradotto l'anno seguente anche da noi. Ho voluto riportare questi dati , che poco probabilmente diranno ai lettori come poco hanno inizialmente detto a chi scrive, per un semplicissimo motivo. Bézancon, cinquantenne, con al suo attivo già qualche passabile lungometraggio, non è certo nè Chabrol né Sautet ( per citare due autentici maestri della commedia cinematografica francese, particolarmente di successo nella seconda metà del secolo scorso ). Foenkinos non è parimenti, mi pare, uno degli scrittori più in vista d'Oltralpe. Ma la vicenda ideata da quest'ultimo è fresca ed originale, ben modulata nel suo sviluppo. Ed il film di Bezancon è tutt'altro che banale, interessante e curioso rispetto, ad esempio, ad  un panorama cinematografico, quello italiano, mediamente scialbo e scontato. " Il mistero Henri Pick " non è un capolavoro e non fa gridare al miracolo, intendiamoci. E'  solo un ottimo "divertissement"  capace di farvi passare cento minuti- quanto dura - di piacere cinefilo di cui non vergognarsi, intellettuale quanto basta ma per il resto sanamente ludico e spensierato. E' soprattutto un ennesimo esempio di quella "qualità media francese" che  caratterizza positivamente il cinema dei nostri vicini e che spinge  distributori ed esercenti italiani a diffondere sempre di più  sul mercato commedie francesi ben fatte e decisamente  meritevoli di essere viste.

" Il mistero Henri Pick " potrebbe definirsi un " thriller " letterario. Chi è che ha creato veramente "Le ultime ore di un grande amore ", manoscritto scovato in una suggestiva "biblioteca dei testi rifiutati",  situata in un oscuro anche se ameno paesino della Bretagna, ad opera di una intraprendente lettrice di una casa editrice e da questa fatto pubblicare con grande successo  di critica e di pubblico ? L'autore è proprio, come si vorrebbe, un semplice pizzaiolo, tale Henri Pick (defunto, guarda caso, prima che il suo talento venisse scoperto da qualcuno) o siamo in presenza di una gigantesca mistificazione volta a creare l'ennesimo "caso " suscettibile di far aumentare le vendite ?Il protagonista della vicenda ( un sontuoso Fabrice Luchini, ormai miglior attore di Francia ) qui un critico letterario animatore di una rubrica televisiva capace di alimentare ulteriormente la fortuna di un libro,tipo Bernard Pivot ad " Apostrophes ", propende per la seconda ipotesi. Recatosi per una indagine  quasi poliziesca nel paesino dove Pick lavorava e si presume scrivesse nascostamente il suo capolavoro, egli finirà con lo scoprire la verità. Un " giallo " dunque, ma  questa volta senza delitti o colpevoli da assicurare alla giustizia. Vi è solo il travaglio, la ricerca e i dubbi dell'improvvisato indagatore, ed i percorsi logico- induttivi attraverso i quali il nostro critico letterario perviene al sorprendente scioglimento della vicenda. Film che è allietato peraltro, oltre a quella di Luchini, dalla recitazione di altri bravi attori di contorno (consigliabile vederlo in edizione originale, ove disponibile ) e da una regia semplice , forse un pò priva di slancio ma fluida e funzionale. E poi, per chi vi è  interessato, nelle varie scene, non solo quelle ambientate nei lussuosi appartamenti parigini  degli " intéllos " e delle Case Editrici ( In Francia un'autentica istituzione ) ma perfino nel paesino brettone, centinaia, migliaia di libri che quei lettori leggono e conservano religiosamente in imponenti biblioteche. A testimonianza - ahinoi- del grande ruolo che giocano ancora oggi le idee e  la letteratura nella società francese, e non solo quella delle classi medio-alte, fornendole  utili se non sempre efficaci anticorpi contro le derive che anche colà pericolosamente la insidiano.

Natale è ormai tra poche ore. Quale miglior modo di festeggiare questa ricorrenza della tradizionale ( almeno un tempo ) frequentazione di qualche sala cinematografica ? Sì , ma qui si pone l'arduo dilemma, quali film andare a vedere per non abbrutirsi con i nostrani "cinepanettoni " o piegarsi ai " blockbusters " che richiedono a gran voce i nostri figli adolescenti ?  Solitamente i distributori, non per spirito umanitario ma per indurre ad andare al cinema durante le Feste un pò tutte le categorie di potenziali spettatori, buttano sul mercato proprio in questi giorni qualche " chicca  d'autore" tenuta in serbo per non sprecarla in periodi di minore voglia di cinema. Così , anche quest'anno, scorrendo la programmazione di Milano e di Roma ( ma, penso o almeno spero, anche di altre città del Bel Paese ) scopriamo alcuni film per i quali,come si suol dire, val la pena di mettersi il cappotto ( o il mantello... ) uscire di casa  ed entrare in una sala buia. Oltre ai film di cui abbiamo parlato e tessuto le lodi nelle scorse settimane ( principalmente, ricordo, " L'ufficiale e la spia ", " Un giorno di pioggia a New York " e , se vi piace la letteratura, questo " Mistero Henri Pick " ), vorrei consigliarvi " Ritratto della giovane in fiamme " della talentuosa regista francese ( sempre loro ! ) Céline Sciamma. Molto lodato a Cannes la scorsa primavera, arriva ora sui nostri schermi. Ma io ne dissi molto bene già nella mia recensione estiva ( su questo blog, cercate la puntata del 20 giugno u. s. ), insieme al  bel film di Ken Loach  ( " Sorry we missed you" ) egualmente reduce da Cannes e che uscirà da noi tra pochissimi giorni. Naturalmente, infine, non trascurerei ( e poi dite che non mi piace il cinema italiano... ) il " Pinocchio " di Matteo Garrone: io  lo vedrò tra breve per pagare il dovuto omaggio al capolavoro di Collodi e fare gli opportuni raffronti, non tanto con il " cartone " di Walt Disney ( 1940 ) quanto con il film di Comencini degli anni ' 70 ( magari , allora, manco eravate ancora nati... ).

S'il vous plait, veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur " Le mystère Henri Pick ":

Tiré d'un roman de David Foenkinos du meme titre, "Le mystère Henri Pick ", réalisé par Rémi Bezancon arrive maintenant sur les écrans italiens. L'histoire, véritable " thriller " littéraire, est simple et compliquée en meme temps. Un manuscrit découvert par hazard, semble-t-il, en fouinant dans une bibliothèque brétonne très spéciale ou les auteurs réfusés par les maisons d'édition peuvent déposer leurs oeuvres, vient d'etre finalment publié car il est  réellement un chef-d'oeuvre , en obtenant un trés grand succés de critique et de lecteurs. Mais est-ce-que l'auteur est vraiement ce pauvre pizzaiolo du village , presque illétré, dont le nom , Henri Pick, est gravé sur la couverture du livre ou s'agit-il d'une mistification, d'un faux visant à créer un cas littéraire et à augmenter les ventes? Le protagoniste du film ( un Fabrice Luchini tout à fait somptueux ) croit plutot à cette deuxième hypothèse . Il est d'ailleurs critique littéraire  à la télévision, animateur d'une émission qui s'appelle " Infinitif " ( ! ) et qui ressemble beaucoup comme plateau à celui du célèbre " Apostrophes " , animé jadis par Bernard Pivot. Voici donc le personnage interprété par Luchini qui part pour la Bretagne découvrir le véritable auteur du bouquin. Et, après maintes peripéties il réussira à éclaircir un mystère, faut-il dire, pas simple en vérité. Le film est très sympathique, fort bien joué, le scénario est suffisamment bien ficélé, la mise en scéne simple , dépourvue peut-etre d'un brin de  piquant et de surprénant mais efficace et fluide. Un film à voir si... on aime les livres.


Please, find here a short commentary  in english on " The mistery of Henri Pick " :

Who is the true author of the french bestseller " The last hours of a great love " ? Is he really the deceased obscure owner of a pizza parlor in a tiny village of Brétagne called Henry Pick ( who , as a matter of fact, would not read anything during his life , while nobody saw him writing a single bit of paper... )? Or is all nothing more than a conspiracy aimed  to create a  sort of literary scoop and sell more copies of the book , written in fact by a  clever and unknown ghostwriter ? This is the question and not a simple one to be given a satisfactory answer by the main character of this film. Fabrice Luchini, in " The mistery of HenriPick " plays superbly the literary critic and TV  influencer who doubts about the fatherhood of the book and travels to Brétagne in order to find out the truth ( if there is just one truth ... ). The film is kind of a good literary thriller, well acted and well directed by Rémi Bezancon, not a master work of cinematic art but pleasant to watch, smooth and witty. Quite a  nice picture for Christmas time.  

domenica 1 dicembre 2019

"UN GIORNO DI PIOGGIA A NEW YORK" di Woody Allen ( USA, 2018 )

" A rainy day in New York ", l'ultima fatica di quello straordinario uomo di cinema che risponde al nome di Woody Allen, è apportatore di bellissime sorprese. Innanzitutto, il fatto di poter vedere il film e trarne tutta la gioia che esso può offrire è  una sorpresa già di per sè. Girato durante l'autunno 2017 nella stessa New York in cui è ambientato, il film è stato vittima  delle disavventure di Woody, incappato nel frattempo nel furente ostracismo dichiaratogli dagli ambienti artistici e giornalistici insufflati dalla campagna del "metoo " contro i supposti " predatori sessuali " ( la stessa di cui parlavamo la settimana scorsa a proposito di Polanski ). Il regista, di conseguenza, ha avuto molti problemi nel portarlo a termine e , quel che più conta, non ha trovato negli USA distributori ed esercenti disposti a consentirne la programmazione. Se non fosse stato per quelli europei che ne hanno acquistato i diritti e , da settembre di quest'anno cioè quasi due anni dopo, lo stanno immettendo nei loro circuiti commerciali, il film sarebbe rimasto probabilmente  inaccessibile  anche al grande pubblico del vecchio continente e avrebbe rischiato, dopo l'oblio, addirittura la distruzione. Seconda buona sorpresa : Allen, dopo due film ( " Café Society " e " La ruota delle meraviglie " ) piuttosto pessimisti e con un gran sapore di amaro nel rispettivo epilogo, è tornato a sorridere e ad assumere una visione della vita meno tragica, più aperta verso quella possibilità di redenzione che ci è offerta dalla bellezza delle cose che ci circondano, dalla capacità di amare, dalla continua tensione verso la realizzazione delle nostre aspirazioni. Sarà merito , probabilmente, di una storia di giovani - anzi di giovanissimi , poco più che ventenni - che è  al centro di questa piovosa, romantica ed ispiratrice giornata di pioggia newyorchese. Fatto sta che siamo tornati alle atmosfere più serene e brillanti, pur sempre vagamente malinconiche,  in cui si è esercitata con risultati assai soddisfacenti negli anni la vena ora caustica ora più elegiaca del regista.  Da " Annie Hall " a "Midnight in Paris ", passando per quell'autentico capolavoro nel genere che è " Hannah e le sue sorelle ".

Terza ed ultima sorpresa. Questa volta non si potrà dire, quasi per liquidare con sufficienza l'intero opus di questo prolifico autore, " è il solito Woody Allen", giunto nel frattempo al suo quarantottesimo film in cinquant'anni. Il film, infatti, segna una svolta, non solo nella trama e nell'atmosfera, rispetto al recente passato. Rappresenta un ritorno anche ad un particolare modo di costruire e di girare un film.  Più fresco, sottile, diremmo quasi " tradizionale" , senza tentativi di  stupire lo spettatore con l'arditezza delle inquadrature o i movimenti di macchina. Woody è ormai un maestro di cinema e può permettersi il lusso di darci un film semplice nello sviluppo narrativo, armonioso ed equilibrato, senza ostentati pezzi di bravura. "Classico", verrebbe fatto di dire. E, nello stesso tempo, vivace e  scoppiettante, sulla scia della commedia americana di un tempo. La prossima volta che andrò a vederlo ( tutti i suoi film meritano un immediato ritorno per assaporarne meglio sia il dialogo  sia determinati " gag " visivi ) mi dovrei portare un taccuino per appuntarmi almeno alcune di  quelle fulminanti battute che ci ricordano come Allen, prima di fare del cinema come attore e poi come regista, fosse un eccezionale " entertainer " teatrale, autentico giocoliere della parola, capace di incantare il pubblico con i suoi monologhi surreali.  Seguendo la lineare vicenda di una giornata -piovosa per l'appunto - trascorsa a Manhattan dal protagonista , Gatsby ( quasi un nome e un programma ) e dalla sua ragazza, Ashleigh ,  danarosi studenti in un oscuro "college" dell' " Upper New York State ", desiderosi di concedersi una vacanza nella " grande mela " ma inconsapevoli delle straordinarie avventure cui andranno incontro, Allen ci regala un film quasi " rohmeriano "  nel suo significato : non sempre, anzi quasi mai, i nostri  assunti programmatici corrispondono alle nostre più autentiche aspirazioni ed il caso ( forse il fato ) si incarica di farci puntualmente deviare dai nostri buoni, o cattivi, propositi. E dei film di Rohmer questo " Rainy day " ha anche la levità e la levigatezza degli snodi narrativi, delle situazioni in cui i personaggi assumono decisioni, quasi sempre sbagliate, ma che li conducono  verso un obiettivo che essi, forse, nemmeno sospettavano.

Se è vero che il buon cinema incorpora necessariamente una chiara visione morale ( etica, non moralistica ) e, insieme, un'altrettanto riconoscibile visione estetica, quest'ultimo film di Woody Allen  è senz'altro buonissimo. Del suo significato, della concezione della vita che da esso traspare, coerentemente sviluppata con unità di tono e dominio assoluto della vicenda, si è detto. Del  modo di concepire il cinema si è anche accennato. Basterà aggiungere che, per confermare la sua fiducia nella bellezza, nella superiore felicità che danno le inquadrature, fisse o meno, quando contengono quasi per magia le informazioni essenziali per comprendere l'evoluzione della vicenda che viene raccontata sullo schermo, Woody anche questa volta non ha lesinato sforzi. A ottantatrè anni si è sobbarcato la fatica di un film dove tutto è controllato, diremmo, fino all'ultima virgola, senza improvvisazioni e  con una impressione finale di grande, meritoria armonia complessiva. Dal film ( novanta minuti intensi, senza il più piccolo cedimento alla noia ) emerge una passione estetica profonda, quella che - si intuisce facilmente - per il regista non è solo "mestiere ", ma un'autentica scelta esistenziale. Così, in questo continuo omaggio per la bellezza - uno dei grandi doni che può regalarci la vita - attraverso il quale si snoda l'intero film, gran merito va in primo luogo all'interpretazione . Belli, giovani e indubbiamente simpatici,  sono difatti i tre protagonisti . Thimotée  Chalamet (Gatsby )  ci dà qui una interpretazione più convincente che in " Chiamami col tuo nome ",  quale riconoscibile " double " dell'autore da giovane ( più in soldi e...più fisicamente attraente ). Elle Fanning (Ashleigh ) è semplicemente strepitosa per bravura e di aspetto più che gradevole, come del resto Selena Gomez (Shannon ). In gran forma, poi,  gli abituali  responsabili negli ultimi film di Allen per la scenografia , i costumi, la musica. Su tutti il grande direttore della fotografia Vittorio Storaro che offre qui una delle sue prove migliori nel renderci una New York autunnale  così struggente e luminosa come non l'avevamo mai vista. Da andare di corsa a degustarlo , se ancora ci vogliamo un pò di bene.


Veuillez trouver ci-dessous, s.v.p., un court commentaire de ce film en francais :

Le dernier arrivage de Woody Allen est une très bonne surprise ! " Un jour de pluie à New York " rénoue en effet avec ce qu'il y a de mieux dans l'oeuvre de ce formidable metteur en scène, à partir de " Annie Hall " jusqu'à " Midnight in Paris ", en passant par " Hannah et ses soeurs". Du moins dans ce genre de la comédie que l'auteur cultive en meme temps que celui , plus dramatique et subtilement désespéré, de ses oeuvres majeures ( "  Crimes and misdemeanors", " Match Point ", "Wonder wheel " ). Cette fois-ci nous voilà aux prises avec deux jeunes étudiants, lui c'est Gatsby et elle  Ashleigh , qui désirent passer une belle journée à New York. Il pleut en ville, hélas !, mais les rencontres qu'il vont faire séparément, c'est encore plus bizarre et vont emmener le couple vers ...une issue de sécours décidée sans doute par le hasard ( si non la nécessité que leur véritable destin s'accomplisse ). Vif, pétillant , plein de répliques époustouflantes, le film est magnifique de par sa justesse de ton et les situations toujours droles  qui font avancer l'histoire. Allen aime la beauté. Son film est riche en très jolies choses, à commencer par l'intérprétation de tous les acteurs ( Elle Fanning un cran au dessus ) la photographie de l'immense Vittorio Storaro, la musique toujours émouvante, le décors newyorkais à couper le souffle. A voir absolument.


Please find here a short commentary in english on this film :

" A rainy day in New York " is the most recent film by Woody Allen, coming now to Europe. Shot almost two years ago,in the meantime it has not been shown to the american public . The reason should be found in  the sudden " furore " surrounding the personality of the author, suspected of " sexual  predatory behaviour "by the feminist movement " metoo ". Without prejudice for such an  accusation  (yet to be proved  ) this is a great film and it is shameful not  allowing it to be seen by everybody ! The story is very simple as a starting point. Two well-off, slightly unsatisfied young students from a minor league college in Upper State N. Y. plan to spend a weekend in New York City for sight- seeing and some interwiew to a movie director to be published on the college magazine. The two are a couple, the boy called Gatsby ( any reference is not accidental... ) and the girl Ashleigh ( as they write it in Park Lane instead of the more common spelling " Ashley ", one character says... ). The people they shall meet in town and the uncommon situations they shall go into are going to determine their future or not, this is the question. Witty, full of life, confident, in a way, about our common destiny as mankind, this is a film so different from other, darker or frankly desperate, by the same author. Well interpreted ( Elle Fanning is so funny and moving ) beautifully shot, its main asset is in the title : a rainy day, perfect for romance and meditating, plus  a smashing town like New York in fall. The ingredients are there and the cook, Woody himself, this time is in great shape ! To be seen without any delay !




venerdì 22 novembre 2019

"L'UFFICIALE E LA SPIA " di Roman Polanski ( Francia,2019 ) / " TIRO AL PICCIONE " di Giuliano Montaldo ( Italia, 1961 )

Il primo premio per il più brutto titolo della stagione cinematografica va, almeno fin qui, a  "L'ufficiale e la spia". Sotto queste mentite spoglie, degne più di un poliziesco di terza categoria che di un serissimo e documentatissimo film storico, si cela infatti "J'accuse", l'ultimo e bellissimo film di Roman Polanski ( pleonastico dire chi egli  sia agli amanti del cinema). Evidentemente i soliti distributori non avranno avuto fiducia nel fatto che il pubblico italiano potesse ricordarsi che il titolo originale riprende quello del famoso, esplosivo, "pamphlet" di Emile Zola, pubblicato in prima pagina - siamo nel 1898 - dal quotidiano parigino " L'Aurore ". Una vera requisitoria con il quale il grande romanziere smontava pezzo per pezzo il castello di accuse menzognere che era stato costruito dall'Esercito francese per incastrare come pretesa spia al soldo dei tedeschi un capitano dello Stato Maggiore, Alfred Dreyfus, colpevole in realtà di essere solamente ebreo e quindi una facile preda da offrire in pasto ad una opinione pubblica interna in larga parte violentemente antisemita.
Dandoci, sulla scorta del libro di Robert Harris che ripercorre l'intera vicenda, un'affresco misurato ma possente dei personaggi e dei fatti che portarono  a due riprese alla condanna di Dreyfus ( anni dopo, come mostra l'epilogo del film, finalmente discolpato e riabilitato ) Polanski ha senza dubbio inteso elevare a sua volta un sofferto atto di accusa, lui ebreo polacco scampato fortunosamente ai campi di sterminio nazisti dove perì la sua famiglia, contro il perdurare lungo tutto il secolo XX di una robusta, tragica vena di antisemitismo di cui proprio i recenti rigurgiti, specie in Francia, testimoniano l'insidiosa sopravvivenza. E come non pensare che nella storia del piccolo capitano ingiustamente perseguitato possa rinvenirsi anche più che una semplice allusione alle personalissime vicende del regista, accusato senza prove convincenti di un reato sessuale commesso cinquant'anni fa e per il quale, oltre ad essere incalzato dalla solerte giustizia americana, è stato fatto letteralmente a pezzi dal movimento neofemminista " Metoo ". Persecuzione quest'ultima che ne ha decretato l'ostracismo in molti ambienti artistici, anche europei, e che gli ha probabilmente sottratto il " Leone d'oro " all'ultima mostra veneziana cui ha partecipato proprio con questo assai meritevole film.

Il film, dicevamo, è bellissimo. Iniziando dalla  pubblica degradazione di Dreyfus (una sequenza tutt'altro che magniloquente ma egualmente, più sottilmente drammatica ) ci mostra poi come proprio un ufficiale che era stato superiore del capitano ( il maggiore, poi tenente colonnello Picquart ) incominci ad avere dubbi sulla sua colpevolezza che man mano si infittiscono e si intrecciano ai risvolti politici che, proprio facendo leva sull' " affaire ", vedono l'opposizione decisa a mettere in forte imbarazzo il governo. Picquart, che non ama gli ebrei, è mosso ciononostante da un forte senso del dovere e da un desiderio di giustizia che gli metteranno contro l'intero establishment militare , fino a che l'innocenza di Dreyfus non sarà definitivamente provata. Preciso nella ricostruzione storica, mai  piattamente decorativo, il film procede con  uno svolgimento  contenuto eppure di crescente impatto emozionale. Se il personaggio Picquart è assolutamente anti retorico nella propria appassionata ricerca della verità, i suoi avversari si chiudono compatti, dal canto loro, nella corazza dell'onore  e della sicurezza nazionale, accecati dalla loro xenofobia e dal disprezzo per il " diverso " . Il film è splendido dal punto di vista figurativo ( si vedano certi interni polverosi degli uffici militari dove l'aria e la luce sembrano penetrare con difficoltà o le scene in esterni  di una Parigi livida e minacciosa ). Ma ancora di più lo è dal punto di vista  della regia : regia che qui diventa realmente " messa in scena ", per la cura quasi maniacale con cui Polanski sistema e fa muovere  i suoi attori, in inquadrature sempre efficaci, mai banali, rispondenti sempre al significato che debbono esprimere, all'emozione che debbono suscitare nello spettatore.
La recitazione , infine, è degna di ogni elogio per Jean Dujardin che interpreta Picquart, coadiuvato da Emmanuelle Seigner nella parte dell'amante del tenente colonnello e da Louis Garrel in quella di Dreyfus. Ma poi, sotto i vestiti ed il trucco dei personaggi minori si scoprono man mano altri grandi e bravissimi attori francesi, ad ennesima riprova della eccellente qualità complessiva di quella cinematografia.

Ancora uomini in divisa, questa volta in tempo di guerra, in un film italiano del 1961 che, scomparso  presto dalle sale e praticamente introvabile in tutti questi anni, è stato ora  splendidamente restaurato dalla Cineteca di Bologna e riaffiora sul grande schermo in qualche cineclub. Opera prima di un regista italiano dal rendimento artistico diseguale, Giuliano Montaldo, è più interessante per l'ambientazione e la vicenda che per i risultati estetici ottenuti. Se molti film italiani , proprio tra il finire degli anni '50 e l'inizio del successivo decennio, raccontano storie della resistenza partigiana nel 1943-45 o comunque si soffermano su quel tormentato periodo, " Tiro al piccione " , riprendendo la trama di un bel libro di Giose Rimanelli pubblicato qualche anno prima, ci mostra invece un gruppo di soldati  " repubblichini ", cioè dell'esercito della  Repubblica sociale italiana, semisbandati, privi di un obiettivo di qualche respiro, stretti tra l'indifferenza o l'odio della popolazione del Nord Italia e l'incertezza sempre crescente di una esperienza politico-militare votata al fallimento. Vista attraverso gli occhi di un giovane milite non ancora ventenne, idealista ma immaturo nella sua capacità di giudizio, la vicenda acquista i toni semifiabeschi di una " grande vacanza " in cui, però, il dubbio e la morte  fanno costante, minaccioso capolino. Potenzialmente una gran bella storia che, in mani più esperte, avrebbe potuto darci un film migliore. Debole nella costruzione drammatica, non sempre recitato come si sarebbe dovuto dall'attore principale ( Jacques Charrier, allora marito di Brigitte Bardot, è belloccio e simpatico ma piuttosto monocorde ) e da Eleonora Rossi Drago: sensuale, bellissima ma inferiore come interpretazione a quella che aveva dato del personaggio della vedova di cui si invaghisce il protagonista in " Estate violenta " di Zurlini, girato tre anni prima. Il film avrebbe avuto una grande occasione, quella di raccontare i "seicento giorni " di Mussolini dalla parte dei vinti, quella sbagliata, ma non meno degna di ascolto. Per motivi di politica contingente , Montaldo ed i suoi sceneggiatori non hanno avuto il coraggio di spingersi  in profondità e sembra che ad ogni piè sospinto vogliano quasi farsi perdonare di parlare di " brigate nere " e non di partigiani. Resta la regia, buona in alcune scene di esterni , più a suo agio peraltro negli interni contadini o borghesi, dove un certo estro di Montaldo nel piazzare la macchina da presa alla giusta distanza dei personaggi ha maggiore, plastico risalto. Un film , comunque , da vedere per  la sua unicità nel panorama cinematografico italiano di quegli anni e per la ricostruzione storica davvero accurata ma non troppo invadente.


Please find here a short commentary  in english on the most recent film   by Polanski : 

" J'accuse "  ( "I accuse " )  was the title of a long , devastating article published by Emile Zola, the well-known french novelist, at the end of the XIX century that revealed the false accusations made by the Army four years before against an officer  suspected of being a spy  working for the Germans,  a certain captain Alfred Dreyfus, recognized guilty by a military court and deported to a harsh imprisonment in  a small, deserted island. " L'affaire ", as the French would call it, started a bit later thanks to the doubts and new evidence gathered by an other officer, lieutenant colonel Picquard who, risking his reputation and his job, tried to affirm the innocence of Dreyfus who , being a jew, seemed an easy target to hit for a chauvinist and antisemitic  french public opinion. The film by Roman Polanski, the acclaimed but sometimes controversial director living now in France,is a fine account of this historical episode, full of passion  and morality: Picquard does not love the jews himself but struggles for  the truth and the honour of an officer falsely accused. Beautifully interpreted by all the actors involved ( Jean Dujardin , first of all, acting as  Picquard ) the plot is well crafted and the direction by Polanski absolutely remarkable, worth the entire film. Simply a must  for the  intelligent moviegoer.


Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur " J'accuse " :

" J'accuse ", inutile de le rappeler, ce fut le titre d'un article célèbre publié par Emile Zola en 1898 sur le quotidien " L'Aurore " qui démontait les fausses accusations adressées par l' Armée francaise à un capitaine de l'Etat Majeur, Alfred Dreyfus, soupconné d'etre un espion au solde des Allemands. Condamné à deux réprises par une Cour Militaire, Dreyfus fut déporté à l'Ile du Diable dans de conditions épouvantables jusqu'au moment ou son innocence fut prouvé et les intrigues de ses adversaires, poussés par la haine du juif, furent démasquées. Protagoniste de la lutte pour affirmer l'innocence de Dreyfus était un lieutenant colonel , Picquard , qui s'acharna à démontrer la machination des accusateurs de Dreyfus par pur ésprit de justice et respect de la dignité  de l'homme. En retracant les évènements avec  beaucoup de soin et une véritable passion historique, Polanski , qui a réduit le roman de Richard Harris sur l' " affaire ", se montre particulièrement inspiré, quoique  fort rétenu dans la forme, en rendant cinématographique à l'ennième puissance ce film courageux et humaniste. Le metteur en scène, aidé par des interprètes fort vaillants, arrive à nous donner une réconstitution historique très convaincante et un beau drame, efficace et  modéré en meme temps,digne d'un grand homme de cinéma sur son personnel boulevard du crépuscule. A signaler que,  en concours à Venise cette année, il aurait pu tranquillement gagner le premier prix ne fut-ce l'histoire véreuse dont Polanski après 50 ans est encore accusé aux Etats -Unis !



mercoledì 13 novembre 2019

" PARASITE " di Bong Joon Ho ( Corea,2019 ) / " NEVIA " di Nunzia De Stefano ( Italia,2019 )

Uscito da poco  nella normale programmazione commerciale dopo le anteprime a Roma e Milano della scorsa estate, il vincitore di Cannes 2019 , il film coreano " Parasite ", attira il pubblico  innanzitutto per la sua " Palma d'oro" e poi perchè è perfettamente inserito in quella tendenza ideologico-salottiera che vuole, anzi pretende che il cinema " impegnato " sia (talora falsamente) spregiudicato e  comunque antiborghese. Anzi, più lo è, meglio è. Siccome questo "Parasite" non lesina quanto a visione  blandamente sovvertitrice dell'ordine e a scontata presa in giro dei " ricchi ", ecco trovato il "capolavoro". Non che il film -metto subito le mani avanti- non abbia meriti e non si lasci ammirare per l'ironia , a volte azzeccata, con cui descrive  i benestanti e, a volte, i loro stessi meno fortunati antagonisti, e per un gran ritmo della regia nella sua prima parte (nella seconda, l'ingresso di nuovi personaggi in scena e il repentino passaggio da una sorta di asiatico " Fascino discreto della borghesia " ad una vicenda  più sconcertante e grottesca che sottilmente sarcastica finisce francamente con lo sbilanciare  l'equilibrio stilistico mantenuto fino allora). Comunque, anche se il giudizio rispetto a quando lo vidi nella rassegna dei film di Cannes ad oggi si è fatto più severo, rinvio alla lettura di quanto ne scrissi il 29 giugno scorso su questo blog. E pensare che i giurati, per dargli il massimo premio, trascurarono un film - questo sì- drammaticamente efficace, austero eppure carico di amore e di saggezza, come l'ottimo " Dolor y gloria " di Pedro Almodovar....

Quest'anno, complice il fatto che ho dovuto fare da giurato in una rassegna del nuovo cinema italiano organizzato dalla Cineteca milanese, ho visto in una settimana più film nostrani che , d'abitudine, in un solo anno. Tanto da permettermi di avere una discreta panoramica degli autori esordienti. Povero ormai di grandi, consolidati talenti,  il cinema di casa stenta da tempo a sfornare nuovi registi dalla personalità interessante. Vi ho parlato la volta scorsa di "Maternal" andato nel frattempo al Festival mitteleuropeo del cinema italiano ( Budapest, quanti ricordi... ) ed ora vorrei soffermarmi su quello che, a conti fatti, è risultato il migliore dei film in competizione rivelando un autentico talento di regia. Parlo di " Nevia " , scritto e diretto ancora da una donna, Nunzia De Stefano . Già presentato con lusinghieri apprezzamenti nella sezione " Orizzonti " dell'ultima Mostra di Venezia, il film sta per uscire nelle sale e spero che qualcuno, magari invogliato da ciò che sto per dire, lo andrà a vedere. Intendiamoci, neanche questo film , come già " Maternal " di Maura Delpero, è privo di difetti. Ma rispetto a quest'ultimo mi pare che abbia anche il pregio di una maggiore sincerità, essendo in parte ispirato a vicende che la De Stefano ha vissuto personalmente. Ultima di undici fratelli e sorelle, Nunzia ha vissuto per dieci anni, a seguito del terremoto del 1980,  in un "container"  nel quartiere di Ponticelli, alla periferia di Napoli, là dove è ambientata la vicenda del suo semiautobiografico personaggio principale. Nevia, prossima ai diciott'anni, minuta ma con una volontà di ferro, sfugge ai mille pericoli di un'ambiente assai degradato e anzi tiene in piedi una famiglia alquanto complicata : padre in carcere, madre ex prostituta dedita ad ogni sorta di commercio illecito, sorellina precoce e con poca voglia di andare a scuola. La protagonista, tosta e coraggiosa ma sognatrice al tempo stesso di un futuro migliore, tenta di evadere dalla trita e triste realtà che la circonda. Ci riuscirà ? Il finale è aperto, sembrerebbe di sì,  ma l'ultimo saluto che essa ci rivolge dallo schermo  nel bel primo piano finale non è privo di malinconia e di consapevolezza che nella vita nulla può essere dato per scontato.

Schivando con intelligenza il pericolo di darci un ennesimo capitolo di quella saga miserabilista di cui si compiace una larga parte del "giovane" cinema italiano, tutto dedito a ripetere i vari "Gomorra" o "Romanzo criminale" in cui è sceso ad accanirsi nell'illusione di riprodurre una sorta di neo-neorealismo peraltro privo di autentico sostrato ideale, la De Stefano incamera la lezione di un  cinema diverso. Un cinema "alto", ricco di dignità e di autentico umanesimo, studioso dei minuti comportamenti di una povera umanità che, mutuandolo dal primo Pasolini,  la De Stefano ha rinvenuto poi nella lezione dei fratelli Dardenne, dell'inglese Ken Loach e, perchè no ?, in Italia  di Matteo Garrone ( che, quanto a lui,  ha risentito poi anche del cinema più apertamente fantasioso di Fellini). Del resto , Nunzia è la ex moglie proprio di Garrone, col quale ha collaborato alla regia  dai primi film fino a " Dogman ", traendone certamente alcuni spunti tematici e una evidente predilezione per uno stile asciutto, senza sbavature, fatto spesso di lunghi piani sequenza con macchina da presa a spalla che insegue, bracca praticamente i personaggi come se volesse costringerli a dire tutta la verità, nient'altro che la verità. Montaggio serrato, primi piani solo dove strettamente necessario, poi c'è anche, evidente, qualche influenza dell'inevitabile Fellini, il gusto per l'insolito, il magico. Se la regia è molto interessante, già sorprendentemente matura per chi non conoscesse il lungo apprendistato della De Stefano, anche l'interpretazione è  meritevole di una particolare lode. Lasciando da parte i personaggi minori, interpretati da veraci attori napoletani di lungo corso (la migliore scuola al mondo,forse,accanto a quella anglo-irlandese ) la protagonista, Nevia, è la giovanissima Virginia Apicella, una delicata ma vigorosa  attrice di sicuro avvenire. Ottimamente diretto ed interpretato , al film manca però ( e non è poco ) una tensione drammatica capace di dargli quella corposità, quello spessore che una vicenda del genere avrebbe sicuramente meritato. Difetto, con molta verosimiglianza, imputabile ad una sceneggiatura un pò lasca, paga di restituirci il bel personaggio di Nevia ma inidonea a crearle intorno qualcosa di più di una simpatica favola che infonde allo spettatore tanto ottimismo ma non sazia il suo desiderio di ancor maggiore verità. Come per tutti coloro che indovinano un buon primo film, la De Stefano è attesa ora, magari alle prese con una storia diversa, a darci conferma del suo indubbio talento.


Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur ces deux films : 

" Parasite" a remporté la Palme d'or au dernier Festival de Cannes ( d'autres films, à notre avis, l'auraient meritée davantage... ) et est en train, à présent, de faire une belle carrière commerciale aux Etats-Unis et en Europe. Ce film coréen du talentueux metteur en scène Bong Joon Ho, a plusieurs mérites évidents, dont une ironie parfois amusante envers soit les riches soit les plus pauvres qui essayent d'en imiter le style de vie, mais souffre d'un manque d'unité de ton entre la première et la deuxième partie, en finissant par paraitre  un peu confus et dépourvu de cette vigueur dramatique qui aurait été souhaitable. A voir un après -midi de pluie, faute d'un beau bouquin.
" Nevia " par contre, premier film d'une femme issue de Naples, assistante de Matteo Garrone, semble plutot intéressant et digne d'etre vu. En racontant d'une jeune fille qui habite un quartier misérable de la banlieue napolitaine, De Stefano échappe aux poncifs d'un prétendu néo-néorealisme, si commun chez les jeunes auteurs de la péninsule, pour arriver à un cinéma de vérité, plus proche de Olmi, Pasolini, voire les Frères Dardenne, Ken Loach. Dommage que autour d'un beau personnage de jeune femme courageuse la scénariste ( Mme De Stefano elle-meme ) n'ait pas réussi à construire une histoire plus riche de tension dramatique et capable de satisfaire un peu plus notre soif d'un cinéma en prise directe avec la réalité des choses et des sentiments . En tous cas ,un beau petit prémier film.


Please find here a short commentary in english about these two films :

" Parasite " by the korean director Bong Joon Ho, won the " Golden Palm " at the recent Cannes Film Festival and, at present,  is doing very well at the box office in the States and in Europe. Having said that it is well directed and sometimes amusing for its irony in describing the well-off and the poor people who would like to replace them,  it is worth noting that its lack of unity in style and its rather confuse story, especially at the end, do not contribute very much in making a great, remarkable film.
" Nevia " by a woman director, here at her first film, Nunzia De Stefano, is on the contrary a little, unpretentious work wich nevertheless commands some attention  for the style of its  direction and the freshness of its story ( a young neapolitan girl living in a derelict area trys to escape from her destiny and be able to run her own life independently ). Just a dose of more dramatic intensity  would have helped in making of this delicate film  a truly successful  " prémière " in the cinematic art. To be seen.


lunedì 4 novembre 2019

" DOWNTON ABBEY " di Michael Engler ( Gran Bretagna, 2019 ) / " MATERNAL " di Maura Del Pero ( Italia e Argentina, 2019 )o

" Downton Abbey " (il film) era attesissimo dai  "fans" della serie televisiva, andata in onda dal 2009 al 2015 su di una emittente indipendente britannica e ripresa poi dalle televisioni di tutto il mondo. Giustificato quindi l'entusiasmo che si era diffuso alla notizia che, esclusa dopo sei stagioni la possibilità di una settima per volontà concorde di autori ed interpreti, il vero addio dei personaggi che hanno allietato tante nostre serate sarebbe stato dato tramite un ultimo episodio scritto e  girato appositamente per il grande schermo. Tranquillizzerò subito gli adepti della serie televisiva ( credo che esistano perfino club, in Europa e negli Stati Uniti, che li riuniscano in perpetuo ricordo dei loro beniamini ) rivelando che il film non tradisce il tono generale, l'atmosfera ben collaudata, la concisione espositiva,  che le vicende degli abitatori della magnifica dimora avevano saputo offrirci con così tanto successo sul piccolo schermo. Complicato qui, naturalmente, addentrarci su ciò che differenzia il cinema dalla televisione e dilungarci magari nell'analizzare se le avventure narrate da " Downton Abbey " abbiano una " resa " diversa , passando dal televisore al telone di una sala cinematografica. Basterà dire due cose, che ogni appassionato potrà verificare vedendo il film, se già non lo conosce.
 Il grande schermo, dilatando in senso fisico ambientazione e personaggi ben noti- riprodotti  peraltro qui  senza eccessivo ricorso a  specifici canoni "cinematografici" - sottrae forzatamente quel tanto di intimo, di caldo, di "privato " starei quasi per dire, che gli schermi televisivi avevano conferito alla serie. "Downton Abbey " è nato per la televisione ed ha contribuito ad elevare gli standard artistico-produttivi delle tante serie che occupano ormai buona parte della programmazione. E alla televisione resterà legato, come è naturale, il successo che ha avuto mondialmente e quel particolare, inconfondibile fascino che emana dalle sue cinquantadue puntate.
Nello stesso tempo il film è un buon film. Rinunciando a rendersi concettualmente ed esteticamente autonomo rispetto alla serie (in fondo è quasi un episodio un pò più lungo degli altri, come lo erano gli "special" natalizi che chiudevano ogni singola stagione) nondimeno riesce ad imporsi come  riassunto, od antologia se preferite, "bigger than life",  dei vari personaggi e delle varie situazioni  visti questa volta, sia pure con gli inevitabili schematismi,  con la lente di ingrandimento e consegnati in tal modo al nostro accorato e definitivo rimpianto di collezionisti.

Farei torto ai tanti ottimi conoscitori della serie ripercorrendo qui i diversi " caratteri " tratteggiati con tanta sagacia da Julian Fellowes, il vero demiurgo della serie uscita dalla sua fervida fantasia. Padroni e servitori si muovono , pur nella diversità dei propri rispettivi ruoli e di destino sociale, con l' innegabile fierezza  dettata dalla loro " britishness " e dalla consapevolezza di vivere, da una parte e dall'altra della linea che li separa, le stesse emozioni, grandi e piccine : simpatia, amicizia, amore, gelosia, invidia, gioie e dolori. Ed è qui, credo, nella calda, affettuosa interazione tra personaggi che appaiono autentici e non semplici stereotipi, più che nella ripetizione di una intelaiatura già collaudata da precedenti serie televisive (ad esempio, negli anni '70 del secolo scorso, " Upstairs and downstairs " della BBC) che risiede la vera chiave del successo planetario di " Downton Abbey ". Il film ha il grande merito di non voler innovare- come già si è detto- rispetto alla particolare "aura" creata in sei anni dalla serie televisiva. Racconta un ultimo gustoso episodio ( che preferisco non riassumere per non togliervi alcuna sorpresa ) permettendo a ciascuno dei personaggi che ben conosciamo di esprimere le sue caratteristiche migliori e di chiudere in bellezza il dialogo ideale che aveva instaurato con noi spettatori. Dopo non vi sarà che il ricordo di una bella storia, storicamente plausibile ma quasi fiabesca nel suo costante concludersi con il lieto fine che tutti ci attendiamo. Corretto nella regia ( anche il regista è lo stesso della serie televisiva ) sontuoso come sempre nelle scenografie che, sul grande schermo, hanno ancora maggiore risalto, il fulcro del film,come per la serie, ancora una volta sta nell'interpretazione. Leggermente appesantiti e comprensibilmente più stagionati dal trascorrere del tempo ( quello nella finzione e quello nella vita reale ) gli attori sono ancora tutti bravissimi. Sono tanti i personaggi della saga, ricorderete, e li vediamo entrare in scena con la piacevole emozione di chi rivede vecchi amici spariti da qualche tempo. Sia concesso, nell'impossibilità di parlare di tutti, menzionare almeno  Lady Violet Crawley interpretata dalla "evergreen " Maggie Smith ( 85 primavere ! ), decana della casata dei proprietari di Downton Abbey e  capace , con graziosa fierezza, di non sfigurare certo- come in questa occasione- anche di fronte ad un re e ad una  regina.

Con " Maternal ", il bel film dell'esordiente italiana Maura Del Pero, siamo invece su tutt'altra sponda. Qui le ambizioni sono maggiori giacchè ci muoviamo sul terreno cosiddetto  "autoriale",  quello cioè di chi scrive un film e poi lo dirige, puntando a comunicare il proprio mondo interiore e la propria idea di cinema senza preoccuparsi  eccessivamente di considerazioni commerciali. Il che non vuol dire che così facendo non ne escano poi  opere anche gradevoli ed interessanti, capaci di trovare un proprio pubblico e di avere successo. Sarà così anche per questo primo lungometraggio di una simpatica regista di 44 anni, che si era accostata al cinema attraverso i documentari e qualche cortometraggio di finzione ? Difficile saperlo perchè, per il momento, il suo film circola solo in qualche cineclub dopo essere stato presentato (unico titolo italiano in concorso) al Festival di Locarno l'estate scorsa. Io l'ho visto ad una mini rassegna di " opere prime " organizzata in questi giorni dalla Cineteca milanese e debbo dire che mi è piaciuto, consigliandone la visione a chi avrà l'occasione di trovarlo. Poichè tra i produttori vi è anche Rai Cinema non è escluso che sia destinato ad uno o più passaggi  in televisione
Prima di riassumerne i pregi (e qualche difetto) dirò subito che primo merito della Del Pero- non so  se per sua scelta o per ragioni produttive- è stato quello di aver ambientato e girato il film in Argentina (dove ha vissuto per qualche tempo) e non in Italia. Mi spiego meglio. Lontano dalle patrie sponde, dovendo far parlare i suoi interpreti (quasi tutti locali) in spagnolo, la regista ha evitato lo scoglio maggiore su cui vanno ad impattare pericolosamente tanti film italiani: quello di un malinteso "realismo" che rischia di tradursi poi in bozzettismo di sapore inevitabilmente regionalistico o  in una sorta di sceneggiata sospesa tra i cascami di un tardo pasolinismo e le insidie della "commedia all'italiana". "Maternal" è come concezione e realizzazione un vero film italiano, intendiamoci, anche se la sua vicenda si svolge in un paese straniero. Opera di un'autrice genuinamente nostrana per tradizione culturale ed ispirazione, mantiene nella vicenda narrata una sana, oserei dire indispensabile distanziazione rispetto alla subcultura nazionale dominante. Assumendo  i toni più sorvegliati di un vero dramma psicologico, non ancorato necessariamente ad una specifica realtà ambientale,il film approda così ad una convincente ed autentica realtà universale.

" Maternal " è ambientato in una "Home " o "focolare" se preferite, gestito da suore per accogliere minorenni che hanno partorito fuori dal matrimonio e non hanno dove andare a stare con la loro prole (il titolo argentino del film è infatti " Hogar ", casa o focolare). L'arrivo di una giovane suora italiana, Suor Paola, che deve ancora pronunciare i voti definitivi, spontaneamente protesa ad aiutare le giovanissime madri ed i loro pargoli e soprattutto non immune al richiamo dell'istinto materno, innesta  una  sotterranea dialettica  con il severo e un pò chiuso ambiente delle altre religiose sfociando infine  in un vero e proprio scioglimento drammatico, Riassumere la trama in poche righe, mi rendo conto, non rende giustizia alla pluralità dei temi sottesi alla vicenda, dal contrasto tra una certa idea di ordine e di rispettabilità rappresentata dalle monache e la sfrenata , esibita vitalità di alcune delle pensionarie,  dal dissidio tra le ragioni dell'anima e della spiritualità e quelle, altrettanto impellenti, dei sensi e degli istinti più terreni. Come si vede, una grande ricchezza di motivi e di spunti narrativi che la sapiente scrittura della Del Pero riesce a dominare quasi sempre con successo, infondendo dolcezza ed insieme forza genuina nei suoi personaggi, visti con quel tanto di coinvolgimento emotivo ma anche di obiettività di espressione che evitano la caduta sia nel sentimentalismo che nella  predicozza anticlericale. Abile, già sorprendentemente "adulta" per un primo film, la regia imprime vita e credibilità a  personaggi che rischierebbero altrimenti di apparire un pò troppo schematici. Ed è qui, a mio parere , in una a tratti leggera artificiosità di talune scene "chiave", che si cela l'insidia di un film non facile da concepire e girare come questo. Ottima l'interpretazione ( in parte di attori professionisti come Lydia Liberman, l'intensa attrice ucraina che interpreta Suor Paola, ed in parte di persone prese " dalla strada " come la maggior parte delle giovani " traviate " ) e  molto buona la fotografia . Un esordio , dunque, piuttosto promettente e che mostra la via al giovane cinema italiano che voglia veramente rinnovarsi.


Please find here a short commentary in english on " Downton Abbey ":

" Downton Abbey ", who in the world does not  know   that  it's  the title of a highly successful TV serial (six seasons between 2009 and 2015)? And now the film, made for the  big screen by the same people ( writer, director, various technical advisors and  the actors ) who made great the televised story of a noble english family living in a beautiful mansion in Yorkshire countryside and their servants, is most certainly going to renew the success of the 52 original episodes of the serial. Mostly reassuring for all the fans of the Crawley family's saga is the circumstance that the film doesn't  betray the genuine warm atmosphere, the special "british " flavour, which were the trade-mark of the TV dramatization. You will find in the film all the characters You loved in the serial, just a little grown older but still in business like in the previous episodes. Credit should be given to the film, as a matter of fact, for not having tried to make something " different " or truly movielike to distance itself from the TV serial. In a sense, the film is really just as if it were the last episode of the saga, the final one for good. And here, in its modesty and its cleverness,  the film finds a remarkable way to affirm a genuine " raison d'etre " and be able to give us joy and genuine cinematic satisfaction.  "Downton Abbey" is over. Long live  "Downton Abbey" in our memory.



Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur "Downton Abbey " :

" Downton Abbey " c'est le nom , comme chacun le sait, d'une série TV britannique qui a eu,  entre 2009 et 2015, un immense succès planetaire. Le film , qui réprend le nom de la série, ne décevra pas, c'est à parier, les très nombreux estimateurs de la  saga de la famille Crawley, habitant une somptueuse démeure nichée dans le Yorkshire avec un escadron de serviteurs abiles et dévoués. Mérite du meme scenariste, metteur en scène, décorateur et autres conseillers téchniques de la série TV qui ont travaillé au film avec autant de  vaillance et de passion. Mérite surtout de la volonté de rien toucher à l'atmosphère "british"  ni au style bien rodé de l'histoire telle qui nous a été livrée par notre appareil de télévision. En somme, rénoncant à faire un film en quelque sorte indépendent par rapport à la série, les auteurs ont préféré sagement de nous donner un nouvel episode, un peu plus longuet que d'habitude, de la fiction télévisée, et le tout dernier ( c'est promis ...). Les spectateurs seront ainsi gatés de retrouver tous les personnages qu'ils avaient aimés, en pleine forme quoique tous , forcemment, un peu plus agés. Intelligente opération de marketing du spectacle (genre "Le retour de... ") le film est néanmoins un bon film qui mérite amplement d'etre vu et aimé pour son cadre historique toujours très soigné et l'interprétation  vraiement rémarquable.

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sabato 26 ottobre 2019

" L'ETA' GIOVANE " di Jean-Pierre e Luc Dardenne ( Belgio, 2019 )

Sotto il generico titolo datogli dai distributori italiani si cela l'ultimo, magistrale, film dei fratelli Dardenne, quel " Le jeune Ahmed ", presentato in maggio a Cannes e vincitore della " Palma d'oro " per la migliore regia, attraverso il quale essi, almeno come punto di partenza, hanno avuto il coraggio di cimentarsi con quel fondamentalismo islamico che proprio in Belgio, nelle comunità magrebine immigrate, ha trovato non pochi, accesi e sanguinari, proseliti. Sbaglierebbe peraltro chi pensasse ad un film " politico ", volto all'analisi delle motivazioni sottostanti il fenomeno o della genesi di quest'ultimo. Come sempre , nei Dardenne, la realtà, l'elemento storico o sociologico, sono dati per scontati e costituiscono solo l'antefatto o , se si preferisce, la cornice di una indagine - questa sì che ad essi preme-  nel cuore degli uomini e delle donne che abitano le  loro vicende .Qui non è tanto il processo di radicalizzazione del giovanissimo protagonista ad interessare gli autori, o  le modalità del proselitismo (nel film appena adombrate) quanto l'itinerario inverso, quello cioè della redenzione e dell' uscita dal tunnel della rabbia e dell'odio che separa l'adolescente dalla sua stessa comunità e, più in generale , dal resto del genere umano. Che ne fanno , insomma, una sorta di automa prigioniero di circuiti mentali e comportamentali sottratti alle sue stesse emozioni ed una temibile arma di guerra pronta ad aggredire quanti si frappongano al suo percorso di follia e di morte. Per tornare a vivere, cioè ad amare gli altri e quindi la vita, Ahmed dovrà riconquistare il senso della realtà da cui è stato tagliato fuori a causa dell' ideologia che si è impadronita di lui. E lo farà attraverso il dolore e la sofferenza del suo stesso corpo, quel corpo che era il suo scudo protettivo contro l'altro, il diverso, ma anche la  sorda prigione della sua anima e dei suoi sentimenti.

Ciò che trovo ammirevole nel cinema dei Dardenne, giunti qui al loro nono lungometraggio dal 1996, l'anno de " La promessa " che li rivelò alla critica ed al pubblico,  è la loro estrema coerenza nel girare solo quello che vedono affacciandosi alla soglia di casa. La realtà, voglio dire, esclusivamente del loro piccolo territorio, quella Seraing, nella periferia di Liegi, dove sono nati ed hanno  la loro centrale operativa. Un mondo, quello della Vallonia francofona ,che era un tempo l'asse portante dell'economia belga ed oggi è in preda ad una difficile riconversione: multietnica, disagiata ma brulicante di energia e di vita, in fondo tutt'altro che depressa, immagine perfetta della nostra civiltà postindustriale. Ma da qui, poi, Jean-Pierre e Luc Dardenne sanno subito  come  seminare tracce di vita che vanno al di là di quella esperienza tanto circoscritta, arrivando così a significati universali. Senza mai uscire però, e questo è la forza del loro modo di raccontare delle storie e di filmarle, da quella precisa realtà, descritta con precisione e rigore quasi documentaristico . Una realtà evidentemente ben conosciuta ed amata da questa singolare coppia di sceneggiatori e registi, decisi a parlare solo di quanto i loro stessi occhi hanno veramente visto, alla stregua di un Rossellini o di un Pasolini prima maniera (da "Accattone" a "Mamma Roma ") sia pure dilatandone lo spazio concettuale e portandolo a coincidere con quello che, idealmente o  materialmente, circonda ognuno di noi. Ahmed, il ragazzino appena entrato nell'adolescenza, timido come lo sono tutti a quell'età ma reso baldanzoso e aggressivo da una lettura tendenziosa del Corano ispiratagli da un imam locale, metà bottegaio e metà agitatore di giovanili coscienze, è un personaggio che a Seraing o a Flémalle, nella cerchia esterna urbana di Liegi, potremmo facilmente incontrare. Non so altrove. Ma la problematica che si agita nel suo cuore, quel rancore verso la supposta corruzione dei costumi, quel desiderio di difendere i principi della tradizione fino a colpire ed eliminare chiunque vi si opponga, infedele o apostata, soprattutto quell'essere prigioniero di una ideologia tanto più stringente quanto più dura, sono fenomeni, stati d'animo, frammenti di vita reale che  non hanno confini e con i quali tutti potremmo prima o poi trovarci a fare i conti.

" L'età giovane " ha il raro pregio di essere breve, anzi brevissimo (84 minuti, contro le due ore-due ore e mezza di tanti odierni " capolavori "). In letteratura lo definiremmo un racconto lungo, più ancora che un romanzo breve, per la compattezza, la coerenza stilistica, la secchezza della narrazione (non priva peraltro di momenti di intensa anche se pudica drammaticità, si pensi al primo colloquio di Ahmed detenuto con la madre). E' un film, starei per dire,  che non ha solo tenerezza e "pietas" per i suoi personaggi, nessuno dei quali dipinto in modo spregevole- nemmeno l'imam - ma che vuole bene anche agli spettatori facendo loro comprendere chiaramente (mai ambiguo od oscuro) le intenzioni degli autori : qualità non da poco se si pensa ai troppi film che trasmettono solo incertezze, esitazioni nel riconoscere la posizione morale di chi li ha scritti e diretti. Ma il cinema dei fratelli Dardenne,  che non a caso vengono dal documentario e da una significativa esperienza di insegnamento nel " dopo scuola ", a contatto  quindi con i giovani, muove da un forte afflato morale e si propone di educare il pubblico ad una visione del mondo non manichea,  ricca di comprensione e di  amore per l'altro. Ricordo un critico americano che si chiedeva in un suo libro se il cinema " ci può rendere migliori ". Arduo dargli una risposta di carattere generale, che abbracci tutti i tipi di film, belli o brutti, intelligenti o stupidi. Ma un " certo " tipo di cinema  direi che senz'altro ha il magico potere di renderci ottimisti, di riconciliarci con la vita, anche nei suoi aspetti più problematici. Ed è il cinema che altra volta abbiamo definito " maggiorenne " : capace di emozionarci e di farci pensare al tempo stesso, dando ordine al tumulto del nostro cuore. Jean- Pierre e Luc Dardenne, persone buone (lo si capisce al primo sguardo) ed autentici umanisti, infondono nelle loro opere- dunque anche in questa - quella vena di ottimismo , quella possibilità di riscatto dai tanti piccoli e grandi torti della vita, che rende quest'ultima un'esperienza- rovesciando quel che credeva Shakespeare- " da bramarsi devotamente ".



Veilleuz bien trouver ci-dessous un court commentaire en francais :

 Palme d'or pour la mise en scéne au dernier Festival de Cannes, " Le jeune Ahmed " est le dernier né des films des frères Dardenne, Jean- Pierre et Luc, ce couple de cinéastes belges (vous avez bien lu: belges et non pas francais, tellement il portent haut le flambeau de cette vaillante cinématographie !) qui sont aujourd'hui parmi les plus grands au monde. Leur cinéma part toujours d'un terroir bien déterminé (la commune de Seraing, dans la banlieue liégeoise, où ils habitent et travaillent) et s'élargit, au fur et à mésure que leurs histoires progressent et acquièrent une signification plus large, à une véritable dimension universelle, capable de percer la réalité du quotidien,et d'agiter en meme temps les problèmes  qui accompagnent la vie de tous les hommes : la conscience de soi, le rapport avec l'autre, les valeurs moraux, la haine et le pardon.
De meme pour ce film , qui se déroule à partir d'un garcon magrébin issu d'une famille immigrée en Belgique, le Ahmed du titre, fervent musulman, radicalisé par un imam fondamentaliste , pret à agresser, voire à tuer pour " protéger " sa religion et ses prétendues valeurs. Mais le film devient vite l'histoire d'un difficile apprentissage d'un vrai rapport avec les autres etres humains, un itinéraire vers  le développement d'une conscience et vers la libération de tout  schéma idéologique à travers l'apprehension du réel et la souffrance. Quelle belle histoire ! On est ému juste à la raconter, mais il faut voir le film pour admirer la facon dont les Dardenne l'ont rendue tout à fait cinématographique, loin de toute suggestion littéraire, passionante grace à la force et à la justesse de l'élement visuel  (quoique le scénario soit , comme d'habitude, très bien ficelé ) . Une réussite totale et un des plus beaux film de cette année 2019.



Please find here a short commentary in english on this film :

Latest work by the Dardenne brothers (Jean- Pierre et Luc, the talented belgian couple of movie directors, among the greatest of today) " The young Ahmed ", winner of the " Palme d'or " for the best direction at this springtime Cannes Festival, is definitely one of their best.
As usual, the story starts from a precise microcosm, the tiny multiethnic town of Seraing, near Liège, where the two authors live and work, and soon becomes a tale of universal significance : self conscience, interaction with the other, human values, hate and forgiveness. The main character, a moroccan boy from a family immigrated to Belgium and perfectly integrated, is instead a fervent muslim, radicalised by a fundementalist local imam and raised to hate and kill in order to " protect " the so called " purity " of his religion . A reality well known, unfortunately, by several european countries where many criminal episodes  of this kind have recently spread the knowledge of this dangerous problem. But the film is less interested in describing how Ahmed has become a fondamentaist than in accompanying him in a difficult itinerary towards a psychological liberation and apprehension of reality.
A truly moving story, full of sentiment (but not sentimentalist) where the beauty and the force of the theme developed by the Dardenne brothers is perfectly matched by superb visual description of the space and the characters within. Youd could appropriately say that everything is in the cinematic frame, nothing of the author's intentions sounds purely ideological or litterary. A real joy for the eyes if you feel that this, as it is, is true and pure cinematic art.

domenica 20 ottobre 2019

" GRAZIE A DIO " di Francois Ozon ( Francia, 2019 )

( Commentaire en francais après le texte italien/Commentary in english after the italian text )

Di questo straordinario film, da giovedì scorso sugli schermi italiani, avevo avuto modo di parlare su questo stesso blog in " Lettera da Parigi ", quando lo vidi appena uscito in Francia nello scorso febbraio. Regista prolifico ed eclettico (quindici film in vent'anni , molto diversi per temi ed ambientazione) Francois Ozon non ha avuto timore nell'affrontare un argomento controverso come quello dei preti pedofili, già oggetto in passato di trasposizioni cinematografiche non esenti da un pizzico di morbosità e da una buona dose di pregiudizio verso il sacerdozio  e la religione cattolica. 
Nulla di tutto ciò in " Grazie a Dio ", giacchè qui non è tanto in questione la maggiore o minore colpevolezza del religioso che si è reso responsabile di odiosi abusi sessuali sui fanciulli affidati a lui in una colonia estiva, reo confesso e apparentemente pentito, quanto la richiesta, da parte di un professionista quarantenne che da ragazzo fu tra le vittime del pedofilo, di verità e giustizia da parte delle autorità ecclesiastiche della diocesi. All'arcivescovo ed ai suoi collaboratori che lo invitano al perdono e all'oblio, il protagonista del film oppone l'esigenza morale che la Chiesa ammetta la responsabilità consistita nel non aver dato seguito a suo tempo alle segnalazioni degli interessati e delle loro famiglie  allontanando  il colpevole e  facendo intervenire la stessa giustizia civile. Il film , e lo ricorda una scritta che appare sullo schermo, si ispira ad un caso giudiziario occorso a Lione e giunto  proprio ora ad una svolta clamorosa : l'arcivescovo di quella città, Barbarin, è stato infatti condannato con la condizionale ad una pena detentiva, pochi giorni dopo l'uscita del film,  per omessa denuncia e non assistenza a persone in pericolo.Si tratta dello  stesso prelato che, in occasione del  precedente non luogo a procedere per prescrizione nei confronti del sacerdote pedofilo della sua diocesi, in una conferenza stampa si era maldestramente felicitato (" grazie a Dio") per tale esito, chiaramente pregiudizievole agli interessi delle vittime e delle loro famiglie e contrario ad una vera giustizia.

Nessuna descrizione delle violenze commesse - appena suggerite da una  tenue e quasi onirica rievocazione del triste accaduto- e soprattutto nessun infierire del film sul diretto responsabile, in tutta evidenza un povero malato, ormai vecchio e non pienamente consapevole della gravità delle sue azioni.  " Grazie a Dio " si concentra invece sulla esigenza di verità e di trasparenza fatta valere dal protagonista nei confronti di una istituzione, la Chiesa, poco adusa ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti dei fedeli che hanno ricevuto un torto al suo interno, visti  da essa non come individui meritevoli di ascolto ma come sudditi tenuti all'obbedienza e soprattutto al silenzio nei confronti del mondo. Ed al centro del film è dunque piuttosto l'itinerario morale e psicologico del protagonista, uomo di fede ma sempre più dubbioso e critico verso un potere che rifiuta quella esigenza di verità e di trasparenza che egli persegue con forza crescente e che gli viene dal proprio foro interiore, dalla sua stessa natura di cristiano : una richiesta che i suoi pastori, per un malinteso senso di autoprotezione, non sono disposti ad accogliere. Ed il film, tratteggiando tale tormentato percorso, mostra anche quanto sia importante il sostegno che il protagonista riceve da due suoi compagni di sventure, egualmente tesi al raggiungimento della verità, con i quali, stretto un fruttifero sodalizio di sentimenti ed intenti, crea un'associazione che raccoglie tutte le vittime dei preti pedofili della diocesi. Restituendo ad esse, questo il punto veramente centrale della vicenda, quel diritto di parola che era stato loro lungamente negato non solo dalle autorità ecclesiastiche ma dagli stessi timori retrospettivi e dal senso di inadeguatezza e di vergogna che essi provavano  in precedenza verso un'esperienza personale così traumatica e dolorosa. Una storia, questa di " Grazie a Dio" ,  che potremmo definire di liberazione dai fantasmi del passato e di riconciliazione con la vita. Un tema bellissimo, commovente, trattato in modo drammatico ma sempre sereno e virile, lontano da ogni partito preso, tutto calato nel magma doloroso della natura umana e delle umane vicissitudini.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che il film lo affronti in modo troppo retorico, con il tono sovente sopra le righe dei tanti film " di denuncia " che il cinema ci ha dispensato a iosa negli ultimi anni. Se si eccettua una sola scena simbolica, peraltro potente ed efficace, in cui si vede l'arcivescovo che  da un'altura sovrastante Lione solleva l'ostensorio, brandendolo quasi come un'arma verso la città ai suoi piedi, mancano le scene " forti ", magniloquenti, tese apoditticamente a dimostrare una tesi. Il cinema di Ozon ( e chi ha visto in passato anche uno solo dei suoi film, penso ad esempio a " Franz ", spero me ne darà ragione) è asciutto, essenziale, a volte tenero od ironico , ma sempre privo di quell'atteggiamento sornione e un pò paternalistico con cui, a volte , il cinema vuole imporci un punto di vista, una regola di vita. La " lezione " morale (ed estetica) del regista, anche sceneggiatore dei suoi film, scaturisce non da un " a priori " che si cala nella vicenda e nelle immagini di cui questa è rivestita, ma dalla reazione intellettuale e dalle emozioni visive dello spettatore, posto di fronte alle semplici, nude risultanze di quanto viene offerto al suo sguardo. Cinema, pertanto,  di grande suggestione, che fa appello alla sensibilità e all'autonomia di chi osserva e che di queste si alimenta,non cibo precotto nel solo immaginario dell'autore e scodellato in tavola.
Film in cui il dialogo e la recitazione sono altrettanto importanti , se non di più, dell'elemento puramente visivo, " Grazie a Dio " si avvale di una eccellente interpretazione di Melvil Poupaud ( il protagonista ) coadiuvato in modo egregio da due altri attori poco conosciuti da noi ma assai validi, Denis Ménochet e Swann Arlaud nella parte degli amici. Girato con uno stile che diremmo da inchiesta televisiva ( abbondanza di primi piani, montaggio serrato ) il film lascia pienamente soddisfatti e, dopo un moderato successo in Francia ( paese troppo laico, forse , per apprezzare fino in fondo i temi del film)si raccomanda ora ad una difficile, ancorchè non impossibile carriera in un paese come l' Italia in cui, ad un cattolicesimo di facciata, fa da molto tempo riscontro un sostanzioso agnosticismo. Importante comunque vederlo, al di là del problema religioso e morale che agita, per apprezzare un'ottima pagina di cinema ed il coraggio di un autore sempre più completo.

















Veuillez trouver ci-dessous un court  commentaire sur ce film à l'intention des lecteurs francophones

" Grace à Dieu " ( le titre original du film ) est l'expression bien maladroite avec laquelle l'archeveque de Lyon, Monseigneur Barbarin, salua il y quelques années, dans une conférence de presse, le non-lieu prononcé par un tribunal sur les poursuites judiciaires afférant un pretre de sa dyocèse inculpé  pour comportements criminels pédophiles rémontant à plusieures années en arrière et couverts déshormais par la préscription. Suivant les démelés de son protagoniste- un homme qui fut jadis victime de ce pretre et qui démande maintenant justice, épaulé par sa famille et d'autres camarades- le film de Francois Ozon ( sorti en France en février  dernier et à présent sur les écrans italiens ) est moins un film sur une  affaire de moeurs qui a sévi dans l' eglise catholique de plusieurs pays que un plaidoyer trés convaincant au nom de  principes de vérité et de  transparence dont l'institution ecclésiastique manifestément n'intend pas  se rendre interprète.
Problème de société ( " fiction fondée sur de faits réels " , dit le scénariste et metteur en scéne Ozon ) le noyau dur du film ne saurait pas néanmoins  se cantonner  à un simple fait divers. Il s'agit-là d'une belle histoire d'amitié ( celle qui s'instaure entre le protagoniste et deux des autres victimes du pretre pédophile, unis dans la lutte pour faire emérger leur histoire personnelle  ) et de l'essor d'un sentiment individuel et collectif de courage et de véritable libération vis-à -vis du passé.
Comme souvent dans les films de ce vaillant artiste transalpin, la mise en scène est sèche, dépourvue de tout artifice et l'interprétation très soignée. Vraiement une belle réussite pour une oeuvre qui,tout en faisant honneur à la tradition du cinéma francais classique, est d'une modernité épatante dès par son thème et la facon très captivante avec laquelle elle a été tournée.


Please find here a short commentary on this film for english speaking readers.

" Thank God " ( the film's original title ) is the most unfortunate wording by the archbishop of Lyon , Monsignor Barbarin, in a press conference at the outcome of a controversial  case involving a catholic priest of his diocese accused of sexual abuse on some children. Due to the long lapse of time between the facts and the formal judicial proceedings the priest, who has confessed his wrongdoing, has been acquitted. So,contrary to the satisfaction shown by the religious authorities, justice has not been made. But the main character of the film , a courageous man in his forties who as a child had been a victim of the priest, is still bent, with two of his unhappy companions, on trying to obtain a public recognition of accountability by the Church and his clerical representatives.
Based on a true story, the film is nonetheless something more than a simple " court movie " or a  story of an ancient crime unpunished. It's a tale of friendship and solidarity among men who find within themselves the courage to question a powerful and silent institution. asking for truth and justice. Handsomely crafted by a clever and eclectic director like Francois Ozon, the film is a good piece of cinema, a " classic " film on the path of the wellknown " french tradition ", rejuvinated by a tight visual style and a vibrant command of several themes underlying the plot. 


venerdì 11 ottobre 2019

" JOKER " di Tod Phillips ( USA, 2019 )

" Joker " ha vinto il Leone d'oro per il miglior film alla recente Mostra cinematografica di Venezia raccogliendo unanimi plausi da parte sia  della critica che del pubblico. Proiettato da pochi giorni in America e in  Italia, sta battendo tutti i record di incassi e si avvia ad una trionfale carriera commerciale. Poichè di questi tempi non è comune che un film metta tutti d'accordo, commentatori specializzati e semplici spettatori, vale la pena che si cerchi di andare un pò più a fondo nelle ragioni dello straordinario successo che sta salutando un'opera di grande pregio e che ha meritato di trionfare in un concorso dove pure non mancavano  alternative sicuramente interessanti. 
Lasciamo da parte la popolarità di cui godono, grazie ai " fumetti " e ad alcune pellicole accattivanti ma  di diseguale valore, i personaggi delle avventure di Batman e , in particolare, il diabolico " Joker " dalla sinistra e  compulsiva risata. Ciò può spiegare un certo seguito da parte del pubblico che ama un determinato tipo di cinema, lieto di ritrovare i propri beniamini in  nuovi "sequel " o " prequel " delle vicende che già ha  conosciuto. Ma non ci dà le vere ragioni del successo di questo film. Credo che esse vadano trovate invece nel non aver avuto timore, sceneggiatori e regista, di dare vita ad un prodotto che si inserisce senza complessi nel novero dei " blockbuster ", cioè dei film spettacolari che non lesinano sulle avventure, anche fantasiose, di personaggi ben tipicizzati (il buono spinto verso la cattiveria dalla incomprensione degli altri ) con quel tanto di emozioni, sorprese , violenza, battute fulminanti, un pizzico di irriverenza, che piacciono al pubblico meno smaliziato : e il cinema , beninteso , è sempre stato anche questo dalle origini ad oggi.

Ma qui c'è anche altro, tanto da poter  distinguere nettamente il film vincitore a Venezia da quelli che, nella stessa " saga ", lo hanno preceduto e dagli altri consimili film " di azione " che vengono continuamente sfornati dal mercato. L''idea vincente, prima di tutto, è stata quella di ricorrere ad una storia " minimalista ", andando ad inventarsi le origini giovanili del  personaggio " Joker "e facendo del criminale folle uno " sfigato ", un certo Arthur Fleck, povero, costretto a guadagnarsi da vivere con una piccola attività di clown da strapazzo, affetto da una grave nevrosi che lo porta ad improvvise risate senza senso, ma mite di indole, attaccato alla madre inferma. Moscerino senza alcuna importanza nella classica  " Gotham "  delle avventure dei "detective comics ", epitome delle  metropoli di oggi prossime al collasso, il futuro joker  può essere visto, poi, come la vittima di una società  spietata, il simbolo di una umanità derisa, cui viene man mano negata  ogni forma di assistenza dal malgoverno e dalla cupidigia dei potenti così come un poco di calore umano e di affetto da parte di un mondo arido e frettoloso. Tradito nelle sue speranze e nelle sue illusioni  (diventare famoso partecipando ad uno dei tanti talk show televisivi  ribaldi e paternalistici )ad Arthur non  rimarrà che la rivolta e il crimine. Una conclusione, questa, in perfetta simbiosi con una città in progressivo, turbolento disfacimento, incapace di incanalare pacificamente la collera e la protesta di tutti gli " have not ",sempre  più difficili da convincere che anche per essi, un giorno, come dice la canzone , pioveranno " pennies from heaven ".

Ora mi si potrà dire che l'inquadramento politico-sociale della vicenda non è poi così originale, avendolo visto in tanti altri film americani a sfondo anche più acre e  drammatico. Ma qui , l'intelligenza del regista , Todd Philips, e degli sceneggiatori, è di aver tenuto in perfetto equilibrio vicenda privata del personaggio principale- con " in nuce " il suo istinto criminale - e dramma collettivo. La prima è certamente ampliata, resa ancora più evidente dal secondo. Ma non ne è mai schiacciata in un  rapporto di causa ed effetto. Il " Joker " , è vero , è una raffigurazione della miseria dei nostri tempi, uno di noi nel senso che abbiamo ricordato prima. Ma rimane, ad ogni passo della sua traiettoria, anche un personaggio fantastico, una pura costruzione del nostro intelletto, capace di farci uscire per un momento dalle trite banalità del quotidiano, un rifugio nell'irrazionale così comune per  quegli eterni fanciulli che torniamo ad essere quando andiamo al cinema e in sala si spengono le luci. Ed è in questo sagace, abilissimo " mix " di realtà e fantasia che il film sferra un colpo da maestro. Nè opera realistica nè pura evasione nel sogno, ma un pò una e un pò l'altra,  "Joker " acquista una forza , una tensione interna che ne fanno un'esperienza intellettuale ed estetica di sicuro spessore. Se il cinema, è stato detto tante volte, deve essere "emozione ", qui ci siamo senz'altro. Se vogliamo anche riflettere e non fermarci alla superficie delle cose, c'è materia per farlo.

Merito degli sceneggiatori e del regista, abbiamo detto poc'anzi. Se lo " script ", il testo intorno al quale si costruisce un  film (come un albero, per disporre tutti i rami e le foglie, ha bisogno del tronco) rappresenta almeno il 50% della sua maggiore o minore riuscita, qui molto è dovuto ad una sceneggiatura solida, ben calibrata, che tende a non strafare ma a darci tutti gli elementi narrativi, e solo quelli, di cui dobbiamo disporre. Todd Phillips, che ha anche diretto il film , non è nuovo nella scrittura di un film e qui si è avvalso della collaborazione di un ottimo professionista, Scott Silver, in predicato per l' Oscar nel 2012 con " The Fighter " e che con  Joker  potrebbe  ora finalmente conseguirlo. Ma anche la regia dello stesso Phillips è  assolutamente degna di lode. Conosciuto fin qui soprattutto per commediole leggere, come " The Hangover" ( In Italia " Una notte da leoni " ) questo regista dimostra di essere pienamente padrone del materiale a disposizione, secco ed incisivo nei momenti drammatici, sciolto e sinuoso in alcune emozionanti raffigurazioni della fatiscente "Gotham " (una riconoscibilissima New York anni '70, prima della cura Giuliani).
Ma una menzione a parte la merita l'interpretazione, ancora una volta eccellente, di Joaquim Phoenix nella parte del Joker. Questo attore ha ormai raggiunto una capacità di calarsi nei personaggi, anzi di farli propri e in un certo senso di ricrearli, da meritare  riconoscimenti sempre più ampi. Non ci dimenticheremo tanto presto della sua sinistra, agghiacciante risata, autentico sigillo di una tragica condizione esistenziale e terribile monito per ognuno di noi.E un'ultima citazione, infine , al vecchio ed indomito Robert De Niro nei panni di Murray, il subdolo, condiscendente presentatore televisivo. Se Phillips lo ha voluto e lui ha accettato la parte è anche per rendere retrospettivamente omaggio a  " Taxi Driver ",
il film che negli anni '70 dipinse meglio il degrado di New York e la rivolta di un altro "sfigato"  di quei tempi.
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Please find here a short commentary on the film in English:
  
"Joker " won the first prize  ( the so called " Golden lion " ) at the recent Venice International Film Festival, widely acclaimed both by the critics and the audience. Its commercial career started under the best auspices on the two shores of the Atlantic and the film is likely to be prized also at the Oscar ceremony next february.
I regard it as a very intelligent, well crafted mix of  traditional elements of any good blockbuster : a strong main character-  the " Joker " made popular by comics and films on Batman - the difficulties this character has to overcome to succeed,  a tasty dialogue, a fair dose of action and violence, a bit of irreverence. Cleverly associated, in this case, with some more evident social and political scope. The Joker  here is not only a  lunatic who becomes a  psichopatic criminal. He is the victim of our society, of the rising division between well-off and poor people, magnified by the lack of proper public policies for coping with  inequality and discrimination. Like the disabled people, the dropouts, the shy or unhappy persons , all those that cannot seize the opportunities provided by  our  tough times, he suffers from the indifference, and sometimes the contempt, of his " square "neighbors.  Suffering from the absence of warmth and tenderness by his fellow citizens of " Gotham ", the Joker cannot but grow wild and unsympathetic himself . His crazy, compulsive laughter sounds as the seal to a tragic existence and a sinister reminder for everybody.
Nevertheless, having read that, don't assume erroneously that the film might be a bit boring, unattractive  or kind of biased by too easy anti-Trump or anti-Wall Street rhetoric. The story on wich it is built is good, solid stuff, developed in a clever and convincing way through a wellwritten script . " Joker " is also a truly , magnificent piece of cinematic art to watch. Full of action, nervous, with no " dead zones ", shot in a highly professional way, it conveys to the wiewers a sense of  formally splendid plenitude. Having paid due tribute to the director and screenwriter Todd Phillips , so far more reputed for light comedies ( " The Hungover " ) but   always perfectly in control of the movie, most of the credit goes to the extraordinary performance of Joaquim Phoenix. Quite impressive in his characterization of a young " Joker " at the beginning of his criminal record, Mr. Phoenix is abosolutely superb and worth of praise.

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Veuillez trouver ici un court commentaire sur le film en francais:


" Joker "  a gagné en septembre dernier, à la " Mostra " de Venise, le Lion d'or pour le meilleur film. Fort bien accueilli par le public en salle et considéré par la critique,  pour une fois unanime, une oeuvre très brillante, il vient d'entamer depuis quelque semaine une belle carrière commerciale  en Amerique et en Europe. Il est à parier qu'il  obtiendra encore beaucoup de succès  aux prochains Oscar.
La raison de cette belle réussite réside dans le mélange, astucieux et bien équilibré, de  certains motifs traditionnels dans tout bon " blockbuster ": un personnage central  bien construit et aux prises avec pas mal de difficultés qui lui entravent la voie, beaucoup d'action, un peu de violence,  des savoureuses répliques. Mélange toutefois associé, ici, à une perspective plus large et intelligente, sociale et politique, qu'on rétrouve en général dans de films qui ne sont pas forcemment " grand spectacle " mais font appel à un  public plus averti.  Le Joker  est moins, dans ce film,  le masque classique qu'on connait, un homme cérébralement dérangé qui devient un criminel, que une victime de la société, un produit de  notre époque bien difficile où le clivage entre  les richissimes et les couches défavorisées se fait de plus en plus  important et les moins favorisés ont bien du mal à saisir les maigres opportunités qui leur sont réservés. Son fou rire déchainé et soudain est, à ce regard, le témoignage poignant d'une existence tragique et un bien sinistre avertissement pour nous tous.
Mais il ne faut pas s'imaginer qu'il s'agisse d'une oeuvre quelque peu rhétorique et ennuyeuse. Ceux qui iront  la voir découvriront un scénario bien ficélé, écrit par de très bons professionels, un film passionant  à chaque instant. " Joker " est toujours éblouissant du point de vue aussi purement visuel, avec  pas mal de plans à vous couper le souffle,  un accomplissement d'une splendeur formelle et d'une évidence plastique dignes des meilleurs films d' Hollywood d'antan. Le metteur en scène ( et co-scénariste ) Todd Phillips était jusqu'ici mieux connu pour ses comédies légères (" The Hangover") mais il démontre ici une aisance et un style unsoupconnés. En lui réconnaissant une bonne partie du mérite de la réussite du film il ne faudra néanmoins  pas oublier l'interprétation de Joaquim Phoenix, un " Joker "  au jeu très subtil, très interiorisé , un clown triste classique, de toute évidence , mais capable de vous prendre aux tripes et de vous bouleverser carrément. A voir absolument.

venerdì 4 ottobre 2019

" AD ASTRA" di James Gray ( USA, 2019 )

Vi ricorderete, forse, di come io la pensi sul cinema di fantascienza. Ne abbiamo già parlato e non starò a dirvi un'altra volta perchè sia una categoria che mi attira poco, nonostante qualche lodevolissima eccezione  di fronte alla quale anche la mia idiosincrasia ha dovuto in passato cedere il passo. Ritengo però che con " Ad Astra ", uscito da pochissimi giorni qui da noi, siamo nuovamente di fronte ad un'opera che sfugge vittoriosamente alle costrizioni di un " genere " ormai troppo  codificato e tale da consentire difficilmente ai grandi cineasti di essere pienamente sé stessi. L'ultimo film di James Gray, il talentuoso regista americano che è senza dubbio tra i migliori eredi della tradizione degli Scorsese e dei Coppola, sposa  solo fino ad un certo punto l'architettura esteriore, quella che piacerà comunque ai patiti della " science fiction ", nonchè i moduli espressivi ed i contenuti tipici dei  film sull'esplorazione dello spazio. Ma al debole o scontato significato della maggior parte di questi ultimi riesce a sottrarsi con intelligenza.  Il fulcro del film, infatti, non è tanto la conquista dello spazio in sé quanto l'eco, la risonanza nei comportamenti e  nelle coscienze degli esseri umani che questa vivono da protagonisti e che sono stati avviati verso di essa da un mondo in cui la scienza e soprattutto la tecnologia sono gli incontrastati padroni. Eco indiretto ,risonanza psicologica, scavo delle coscienze, che già sullo schermo, parecchi anni addietro si insinuarono in un genere popolare ed amato come il " western " trasformandolo da mero catalogo di lotte e di avventure in un cinema " maggiorenne ", cioè  capace di riflettere su di sé e quindi libero di atteggiarsi secondo l'estro creativo e la sensibilità dei suoi autori . Mi sembra , in quest'ordine di idee, di poter dire  che " Ad Astra", ricollegandosi  nell'ispirazione e nell'esito ad un altro grande  film di fantascienza di alcuni anni fa, "Zardoz"  di John Boorman, si avvicini per intensità di analisi non disgiunta da grande splendore formale a quelle opere che,rompendo l'involucro ( la categoria, il genere) nelle quali rischiavano di venire incapsulate, sono riuscite a conquistare pienamente la loro autonomia artistica.

Per situarci subito nella dimensione temporale del film , sullo schermo appare, nella prima inquadratura, la dicitura sibillina " Nel futuro prossimo ", accompagnata dalla chiosa " un'epoca di intelligenza e di amore ", così tanto per renderci curiosi di vedere cosa sia questa specie di epoca dell'oro che ,inesorabile, ci attende. Ed incominciamo a scoprire il protagonista, Roy,  un'astronauta appena reduce da una  rischiosa operazione (riparare con successo un'avaria di un'astronave spaziale aggravata da una misteriosa tempesta di materiali cosmici che, diretti verso la terra , stanno ivi causando ingenti danni e molte perdite di vite umane ). Dopo pochi e reticenti elogi dei suoi superiori,  vediamo come egli venga  da costoro incaricato sull'istante di altra e ben più perigliosa  missione. Questa volta si tratta infatti di dirigersi, partendo dalla Luna, verso Marte per rintracciare una spedizione spaziale partita più di quindici anni prima per tentare di raggiungere quel pianeta e guidata da uno scienziato spaziale, McBride, da cui non si ricevono  più notizie e che potrebbe essere impossibilitata a fare rientro. Quando si pensi che McBride non è altro che il padre (peraltro molto assente ) di Roy, il quale spera  ancora che il genitore possa essere in vita, il nucleo drammatico del film è già bello e servito. Senza che vi riveli cosa succederà, se cioè Roy troverà suo padre e cosa si diranno, mette conto che si ponga attenzione invece  alla particolare atmosfera in cui si svolge la vicenda e che circonda il suo  protagonista. Di "intelligenza " l'ambiente dovrebbe essere pieno, visto che grazie ad essa l'uomo è andato nello spazio e ne ha conquistato sempre più ampie porzioni. Eppure lo sguardo ed il comportamento delle persone ( alti ufficiali o semplici assistenti ) che ruotano intorno a Roy esprimono più  pedissequa obbedienza a " protocolli " routinari, mitigata da una chiara insicurezza di fondo, che vivido fervore intellettuale. Quanto all' "amore ", non se ne vede grande traccia, sepolto dall'aridità dei rapporti umani che il gigantesco sforzo tecnologico della conquista spaziale, con la gerarchizzazione sempre più accentuata dei ruoli, ha probabilmente determinato. Insomma , o io ho capito male o lo sceneggiatore - regista Gray ci dà qui la maggiore critica riscontrabile in un film di fantascienza al sogno dell'uomo di arrivare sempre più in alto, di raggiungere traguardi iperuranei che lo facciano uscire dal nostro caro, vecchio pianeta Terra. " Ad astra ", appunto, verso le stelle. Gettando altresì , con l'occasione , uno sguardo obliquo a quella sovrastima delle conquiste tecnologiche sempre più avanzate che l'uomo pensa erroneamente possano dare risposta alla sua insoddisfazione esistenziale.

Che sia questo ciò che voleva dirci Gray è possibile, anzi probabile, vista la grande coerenza formale e contenutistica delle descrizioni ambientali, ispirate a toni plumbei, gravidi di ambiguità e di sottintesa minaccia. E tutta la vicenda di Roy alla ricerca del padre - novello Telemaco che soffre per l'assenza di Ulisse - è un pò l'epitome delle difficili relazioni  interpersonali in questa umanità del futuro : sottomessa, attenta a non turbare l'ordine costituito ma in acuta, dolorosa mancanza di reciproca " pietas ". Un paradigma molto bello, declinato da par suo da un grande cineasta come è ormai Gray. E non si storca il naso affermando che erano " meglio"  i primi film del regista ( magari " Little Odessa " o " I padroni della notte " ) perchè più articolati intorno ad  una tematica accattivante e di presa immediata ( la realtà della New York delle bande gangsteristiche degli immigrati ) che non le più recenti incursioni verso molteplici direzioni ( le spedizioni in contrade inesplorate  di " Civiltà perduta " o appunto la fantascienza di questo " Ad Astra " ). Oltre a testimoniare l'inesauribile vena artistica e la curiosità intellettuale di Gray, pronta anche a sfidare i " generi ", l'apparente erraticità del suo cinema trova un ancoraggio sicuro nelle costanti preoccupazioni dell'autore, che potremmo sintetizzare in due temi che da sempre ( e pertanto anche in " Ad Astra " ) costituiscono il nerbo concettuale delle sue opere. Da un lato il rapporto tra l'individuo e il gruppo, il desiderio di affrancarsi da parte del singolo opposto alla vischiosità dell'ambiente ove è costretto a muoversi. Dall'altra la dicotomia padre-figlio come espressione , anche qui di un vecchio mondo che deve cedere necessariamente il passo a quello nuovo. Ed a coronare il tutto la ricerca continua dell'amore come unico antidoto alle paure ed alle delusioni di una esistenza che espone l'uomo sempre di più ad una vita conflittuale, povera e alienante. Tutto questo , in " Ad Astra",  è ancora più evidente che nei film precedenti di Gray ed assume un rilievo plastico di grande forza ed intensità.
Gli adepti del genere  fantascienza  possono comunque stare tranquilli. Avranno tutti i motivi ed i passaggi narrativi classici che questo genere di film porta con sé : mistero, emozione, eroismo sapientemente dosati per consentire anche una lettura immediata e più semplice di una vicenda che , come ho cercato di dimostrare, si presta ad altra e più convincente decifrazione. Di Gray regista, creatore di forme cinematografiche piene, splendide nella loro bellezza, in questo film ce n'è quanto se ne vuole, a conferma della circostanza che , al cinema, quando si hanno le idee chiare è infinitamente più facile calarle in uno stampo esteriore di piena soddisfazione  e chiarezza per lo spettatore. Una parola sull'interpretazione. Brad Pitt ( che ha coprodotto il film ) è praticamente in scena dalla prima all'ultima sequenza. Simpatico, con un bel sorriso costantemente accennato ma pronto a trasformarsi in una smorfia di dolore, combatte vittoriosamente con un personaggio non facile, pugnace e al tempo stesso combattuto al suo interno, e ne rende convincentemente speranze e timori.



giovedì 26 settembre 2019

" LA MAFIA NON E' PIU' QUELLA DI UNA VOLTA " di Franco Maresco ( Italia, 2019 ) / " IL COLPO DEL CANE " di Fulvio Risuleo ( Italia, 2019 )

Ancora sotto l'effetto della delusione e dello sconcerto causatomi dal " capolavoro " della nostra cinematografia proiettato a Venezia ( " Martin Eden " ) di cui ho parlato due settimane or sono, sono andato a vedere il secondo dei tre film italiani in concorso alla " Mostra ", premiato con una speciale menzione dalla giuria, senza peraltro nutrire eccessive aspettative. Mi incuriosiva, in questo film , il titolo leggermente sornione ( " La mafia non è più quella di una volta " ) e la fama del regista, quel Franco Maresco, palermitano, che , insieme al conterraneo Daniele Ciprì e da qualche tempo da solo, ci ha regalato ottimi film satirici e d'inchiesta al confine tra realtà  e finzione ( o meglio, artistico infingimento ). Penso a " Totò che visse due volte " , a " Come inguaiammo il cinema italiano",a " Belluscone". Insomma, avevo bisogno di capire se nel panorama dissestato della nostra cinematografia ci sia ancora posto per un film di buona fattura, capace di appassionarti, di parlare al tuo cuore e alla tua mente senza bisogno di ricorrere ad " astratti furori " ma semplicemente sgattaiolando dall'uscio di casa, tra la gente vera, dove pulsa la vera vita, fatta di cose concrete. Ebbene, fin dalle primissime inquadrature, quest' ultimo film non può lasciarti indifferente, anzi ti prende e non ti molla fino alla fine. Merito dell'andamento serrato e dell'abilità dello sceneggiatore-regista Maresco di tenere lo spettatore continuamente desto, sul chi vive, ansioso di saperne di più. La Mafia (per passeggera e spensierata distrazione, vi assicuro,  ne ho scritto il nome con la maiuscola... ) è un argomento delicato e  appassionante, certamente. E che ha innescato opere letterarie a volte di buona fattura ed anche più di un'opera cinematografica dal non effimero successo. Per molti un soggetto di studio o di semplice conversazione, per i siciliani una realtà  quasi quotidiana e , a Palermo, in determinati ambienti, una presenza silenziosa e costante. Ma il film , lungi dall'assumere toni di condanna  declamatori e scontati, preferisce sottilmente condurci a  toccare quasi per mano cosa vuol dire , oggi, convivere con la mafia a più di un quarto di secolo dall'emblematico sacrificio di Falcone e Borsellino.

" La mafia non è più quella di una volta " ( è anche l'affermazione di un personaggio del film che se ne intende ) inizia con la sconsolata constatazione che i palermitani, quelli più umili che dalla " onorata società " hanno subito in fondo i guai maggiori , non vogliono più ricordarsi dei due eroici magistrati che caddero sull'accidentato fronte della " legalità ". Li hanno rimossi, fanno finta che non siano mai esistiti, ostili probabilmente a tutto quanto li costringerebbe a rimettere in discussione il proprio modo di pensare e di agire,  quel " farsi i fatti propri ", il  " non impicciarsi ", che sono poi  il letto di coltura di qualunque organizzazione criminosa fondata sulla paura e sull'omertà. Rimane solo il guscio vuoto delle ritualistiche celebrazioni annuali della data delle due stragi, fatte di ovvietà e di retorica, senza un autentico coinvolgimento ( dovremmo forse dire " sconvolgimento" ) delle coscienze. Troppo rapide queste ultime, dopo l'iniziale emozione, a chiudersi a difesa di una  atavica " cultura " del silenzio e del distacco. Perfino nelle  disastrate ed insidiose periferie di Palermo, ad esempio quello " Zen " che è il simbolo di tutte le sconfitte dello Stato, la ricorrenza dei due tragici attentati diventa occasione di una bizzarra "celebrazione"  a base di esibizioni di cantanti " neomelodici ", danze rock e strampalati discorsetti di maniera. Ed è qui che la sagacia descrittiva, ai confini del grottesco, di Franco Maresco ( è lui il " Virgilio" che ci conduce per mano , di cui ascoltiamo la dolce cadenza sicula ma che non vedremo mai ) dà il meglio di sé. Interviste con coraggiosi intellettuali del luogo, come la grande fotografa Letizia Battaglia, o con  personaggi incredibili , come  il pirotecnico impresario di spettacoli popolari Ciccio Marra ( tanto vero da sembrare inventato) si incrociano con inquadrature a volte inquietanti, a volte francamente assurde se non fossero autentiche, a comporre un insieme che risulta sempre vivace e significativo. Meglio di un " reportage " giornalistico o di un documentario televisivo, il film ci trasporta per soli novanta, densissimi minuti ( finalmente ! ) in un mondo sconcertante. Si ride e ci si diverte perfino guardando le immagini di un film come questo, mai noioso e costantemente sorprendente. Ma, quasi sempre, si ride amaro. Paghi, alla fine, di una creazione intelligente e artisticamente tutt'altro che banale.

In questa stessa settimana, trascurando per il momento gli spettacolari film americani da poco in programmazione,ho proseguito nell' esplorazione di quel che offre oggi il cinema italiano, " Martin Eden " a parte, e parlerò così di un piccolo film ( " piccolo " per il budget modesto e la scarsa fama degli interpreti, ma non  per il suo valore ) che  probabilmente non sarei mai andato a vedere se la valente critica del " Foglio ", Mariarosa Mancuso,non ne avesse parlato bene destando la mia curiosità . Troppo infatti  sono rimasto deluso, in passato, da film di giovani autori nostrani ( è, questo, solo  il secondo film del regista  ) che sembravano promettenti all'inizio e finivano poi col cadere nel banale o nel risaputo. Non così, invece, "Il colpo del cane ", opera  di un cineasta - sceneggiatore unico e regista - appena ventottenne (auguri per la carriera ! ) che risponde al nome di Fulvio Risuleo e di cui ignoro il primo film, che pare si chiamasse " Guarda in alto ". Scrivere un film,trovare chi te lo produca e poi dirigerlo, quando non hai un nome molto conosciuto od eccellenti credenziali che ti vengono da una lunga e positiva attività, non è così semplice. Tra tanta pellicola sprecata ( come si diceva prima dell'epoca del digitale ) imbattersi in un film italiano ben fatto, senza tante ambizioni se non quella, peraltro fondamentale, di guadagnarsi l'attenzione prima , e l'adesione poi, dello spettatore, è cosa che va sottolineata con piacere. Prima di passare ad una breve analisi dei pregi ( più d'uno ) e dei difetti ( non gravissimi ) del film, visto che in un certo senso si tratta di un " giallo ", sia pure di genere molto particolare, accennerò appena alla trama.  Dunque, da un lato abbiamo due ragazze , come tante loro coetanee in disperata ricerca di un lavoretto per tirare avanti, costrette ad improvvisarsi " dogsitter " per un intero fine settimana. Dall'altra un " capellone " rimasto senza impiego, appassionato un  pò tardivo della musica " metallica ", alle prese anche lui con il sempiterno problema di raggranellare qualche soldo. Ed in mezzo lui, il vero protagonista del film, uno splendido esemplare di bulldog francese nano, dal nome di Ugo. E la storia può partire.

Quando si dispone di una trama abbastanza esile- e questa del " Colpo del cane " lo è - due sono le vie per cavarsela con onore. La prima è dotarsi di una sceneggiatura sufficientemente ingegnosa, che spiazzi un pò lo spettatore che crede di aver già capito tutto e conduca il film su un terreno un tantino più impervio ma che gli  garantisca egualmente la necessaria coerenza. La seconda è curare al massimo l'ambientazione,in modo da conferire all'opera quel respiro, quell'ariosità che la vicenda, da sola, non saprebbe dargli. Quanto alla sceneggiatura, chi vedrà il film capirà cosa voglio dire e confermerà, spero, la mia impressione che Risuleo  è riuscito a  far ripartire bene, nella seconda parte, un film che, dopo un inizio scoppiettante, rischiava di afflosciarsi su sé stesso, Unico neo, la poca fluidità del passaggio tra i due piani del racconto che avrebbe forse necessitato un raccordo più chiaro evitando un  momento di disorientamento per lo spettatore anche il più attento.
Quanto all'ambientazione , ecco finalmente una commedia italiana collocata a Roma che non  si limita a rifare penosamente il verso alle scenette di sapore televisivo o a ripercorrere  sentieri battutissimi ma cerca di costruire un contesto per i suoi personaggi che sia sufficientemente autentico e realmente funzionale alla vicenda : non semplici " cartoline illustrate ", battute vecchissime e situazioni anche qui troppo scontate, ma personaggi veri nella dimensione giusta perchè la vicenda assuma quel tanto di spessore( ne basta poco, in fondo ) che la renda veritiera ed attraente. Operazione, nonostante piccole scivolate nel  comico o nel  patetico che rompono un pò il tono generale del film, in gran parte riuscita e non certo merito secondario di un film che, nel situare la vicenda  in una Roma abbastanza insolita e non troppo bozzettistica, acquista- quel che non è comune nel cinema italiano di oggi - un sapore finalmente non legato ad una realtà territoriale troppo precisa. Molto buona mi è sembrata la fotografia, efficace la colonna musicale. Eccellente soprattutto la recitazione di Edoardo Pesce ( il " capellone " ) che ricorderete forse come il truce antagonista del " canaro " nell'impressionante " Dogman " della scorsa stagione. Carine e a posto le due ragazze. Clamorosa e da... " nastro d'argento " l'interpretazione del piccolo bulldog Ugo. Quando si dice  " recitare da cani "   non si ha certo in mente quel bravissimo animale che gioca un ruolo non  secondario nell'economia di questo simpatico filmetto.