venerdì 22 novembre 2019

"L'UFFICIALE E LA SPIA " di Roman Polanski ( Francia,2019 ) / " TIRO AL PICCIONE " di Giuliano Montaldo ( Italia, 1961 )

Il primo premio per il più brutto titolo della stagione cinematografica va, almeno fin qui, a  "L'ufficiale e la spia". Sotto queste mentite spoglie, degne più di un poliziesco di terza categoria che di un serissimo e documentatissimo film storico, si cela infatti "J'accuse", l'ultimo e bellissimo film di Roman Polanski ( pleonastico dire chi egli  sia agli amanti del cinema). Evidentemente i soliti distributori non avranno avuto fiducia nel fatto che il pubblico italiano potesse ricordarsi che il titolo originale riprende quello del famoso, esplosivo, "pamphlet" di Emile Zola, pubblicato in prima pagina - siamo nel 1898 - dal quotidiano parigino " L'Aurore ". Una vera requisitoria con il quale il grande romanziere smontava pezzo per pezzo il castello di accuse menzognere che era stato costruito dall'Esercito francese per incastrare come pretesa spia al soldo dei tedeschi un capitano dello Stato Maggiore, Alfred Dreyfus, colpevole in realtà di essere solamente ebreo e quindi una facile preda da offrire in pasto ad una opinione pubblica interna in larga parte violentemente antisemita.
Dandoci, sulla scorta del libro di Robert Harris che ripercorre l'intera vicenda, un'affresco misurato ma possente dei personaggi e dei fatti che portarono  a due riprese alla condanna di Dreyfus ( anni dopo, come mostra l'epilogo del film, finalmente discolpato e riabilitato ) Polanski ha senza dubbio inteso elevare a sua volta un sofferto atto di accusa, lui ebreo polacco scampato fortunosamente ai campi di sterminio nazisti dove perì la sua famiglia, contro il perdurare lungo tutto il secolo XX di una robusta, tragica vena di antisemitismo di cui proprio i recenti rigurgiti, specie in Francia, testimoniano l'insidiosa sopravvivenza. E come non pensare che nella storia del piccolo capitano ingiustamente perseguitato possa rinvenirsi anche più che una semplice allusione alle personalissime vicende del regista, accusato senza prove convincenti di un reato sessuale commesso cinquant'anni fa e per il quale, oltre ad essere incalzato dalla solerte giustizia americana, è stato fatto letteralmente a pezzi dal movimento neofemminista " Metoo ". Persecuzione quest'ultima che ne ha decretato l'ostracismo in molti ambienti artistici, anche europei, e che gli ha probabilmente sottratto il " Leone d'oro " all'ultima mostra veneziana cui ha partecipato proprio con questo assai meritevole film.

Il film, dicevamo, è bellissimo. Iniziando dalla  pubblica degradazione di Dreyfus (una sequenza tutt'altro che magniloquente ma egualmente, più sottilmente drammatica ) ci mostra poi come proprio un ufficiale che era stato superiore del capitano ( il maggiore, poi tenente colonnello Picquart ) incominci ad avere dubbi sulla sua colpevolezza che man mano si infittiscono e si intrecciano ai risvolti politici che, proprio facendo leva sull' " affaire ", vedono l'opposizione decisa a mettere in forte imbarazzo il governo. Picquart, che non ama gli ebrei, è mosso ciononostante da un forte senso del dovere e da un desiderio di giustizia che gli metteranno contro l'intero establishment militare , fino a che l'innocenza di Dreyfus non sarà definitivamente provata. Preciso nella ricostruzione storica, mai  piattamente decorativo, il film procede con  uno svolgimento  contenuto eppure di crescente impatto emozionale. Se il personaggio Picquart è assolutamente anti retorico nella propria appassionata ricerca della verità, i suoi avversari si chiudono compatti, dal canto loro, nella corazza dell'onore  e della sicurezza nazionale, accecati dalla loro xenofobia e dal disprezzo per il " diverso " . Il film è splendido dal punto di vista figurativo ( si vedano certi interni polverosi degli uffici militari dove l'aria e la luce sembrano penetrare con difficoltà o le scene in esterni  di una Parigi livida e minacciosa ). Ma ancora di più lo è dal punto di vista  della regia : regia che qui diventa realmente " messa in scena ", per la cura quasi maniacale con cui Polanski sistema e fa muovere  i suoi attori, in inquadrature sempre efficaci, mai banali, rispondenti sempre al significato che debbono esprimere, all'emozione che debbono suscitare nello spettatore.
La recitazione , infine, è degna di ogni elogio per Jean Dujardin che interpreta Picquart, coadiuvato da Emmanuelle Seigner nella parte dell'amante del tenente colonnello e da Louis Garrel in quella di Dreyfus. Ma poi, sotto i vestiti ed il trucco dei personaggi minori si scoprono man mano altri grandi e bravissimi attori francesi, ad ennesima riprova della eccellente qualità complessiva di quella cinematografia.

Ancora uomini in divisa, questa volta in tempo di guerra, in un film italiano del 1961 che, scomparso  presto dalle sale e praticamente introvabile in tutti questi anni, è stato ora  splendidamente restaurato dalla Cineteca di Bologna e riaffiora sul grande schermo in qualche cineclub. Opera prima di un regista italiano dal rendimento artistico diseguale, Giuliano Montaldo, è più interessante per l'ambientazione e la vicenda che per i risultati estetici ottenuti. Se molti film italiani , proprio tra il finire degli anni '50 e l'inizio del successivo decennio, raccontano storie della resistenza partigiana nel 1943-45 o comunque si soffermano su quel tormentato periodo, " Tiro al piccione " , riprendendo la trama di un bel libro di Giose Rimanelli pubblicato qualche anno prima, ci mostra invece un gruppo di soldati  " repubblichini ", cioè dell'esercito della  Repubblica sociale italiana, semisbandati, privi di un obiettivo di qualche respiro, stretti tra l'indifferenza o l'odio della popolazione del Nord Italia e l'incertezza sempre crescente di una esperienza politico-militare votata al fallimento. Vista attraverso gli occhi di un giovane milite non ancora ventenne, idealista ma immaturo nella sua capacità di giudizio, la vicenda acquista i toni semifiabeschi di una " grande vacanza " in cui, però, il dubbio e la morte  fanno costante, minaccioso capolino. Potenzialmente una gran bella storia che, in mani più esperte, avrebbe potuto darci un film migliore. Debole nella costruzione drammatica, non sempre recitato come si sarebbe dovuto dall'attore principale ( Jacques Charrier, allora marito di Brigitte Bardot, è belloccio e simpatico ma piuttosto monocorde ) e da Eleonora Rossi Drago: sensuale, bellissima ma inferiore come interpretazione a quella che aveva dato del personaggio della vedova di cui si invaghisce il protagonista in " Estate violenta " di Zurlini, girato tre anni prima. Il film avrebbe avuto una grande occasione, quella di raccontare i "seicento giorni " di Mussolini dalla parte dei vinti, quella sbagliata, ma non meno degna di ascolto. Per motivi di politica contingente , Montaldo ed i suoi sceneggiatori non hanno avuto il coraggio di spingersi  in profondità e sembra che ad ogni piè sospinto vogliano quasi farsi perdonare di parlare di " brigate nere " e non di partigiani. Resta la regia, buona in alcune scene di esterni , più a suo agio peraltro negli interni contadini o borghesi, dove un certo estro di Montaldo nel piazzare la macchina da presa alla giusta distanza dei personaggi ha maggiore, plastico risalto. Un film , comunque , da vedere per  la sua unicità nel panorama cinematografico italiano di quegli anni e per la ricostruzione storica davvero accurata ma non troppo invadente.


Please find here a short commentary  in english on the most recent film   by Polanski : 

" J'accuse "  ( "I accuse " )  was the title of a long , devastating article published by Emile Zola, the well-known french novelist, at the end of the XIX century that revealed the false accusations made by the Army four years before against an officer  suspected of being a spy  working for the Germans,  a certain captain Alfred Dreyfus, recognized guilty by a military court and deported to a harsh imprisonment in  a small, deserted island. " L'affaire ", as the French would call it, started a bit later thanks to the doubts and new evidence gathered by an other officer, lieutenant colonel Picquard who, risking his reputation and his job, tried to affirm the innocence of Dreyfus who , being a jew, seemed an easy target to hit for a chauvinist and antisemitic  french public opinion. The film by Roman Polanski, the acclaimed but sometimes controversial director living now in France,is a fine account of this historical episode, full of passion  and morality: Picquard does not love the jews himself but struggles for  the truth and the honour of an officer falsely accused. Beautifully interpreted by all the actors involved ( Jean Dujardin , first of all, acting as  Picquard ) the plot is well crafted and the direction by Polanski absolutely remarkable, worth the entire film. Simply a must  for the  intelligent moviegoer.


Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur " J'accuse " :

" J'accuse ", inutile de le rappeler, ce fut le titre d'un article célèbre publié par Emile Zola en 1898 sur le quotidien " L'Aurore " qui démontait les fausses accusations adressées par l' Armée francaise à un capitaine de l'Etat Majeur, Alfred Dreyfus, soupconné d'etre un espion au solde des Allemands. Condamné à deux réprises par une Cour Militaire, Dreyfus fut déporté à l'Ile du Diable dans de conditions épouvantables jusqu'au moment ou son innocence fut prouvé et les intrigues de ses adversaires, poussés par la haine du juif, furent démasquées. Protagoniste de la lutte pour affirmer l'innocence de Dreyfus était un lieutenant colonel , Picquard , qui s'acharna à démontrer la machination des accusateurs de Dreyfus par pur ésprit de justice et respect de la dignité  de l'homme. En retracant les évènements avec  beaucoup de soin et une véritable passion historique, Polanski , qui a réduit le roman de Richard Harris sur l' " affaire ", se montre particulièrement inspiré, quoique  fort rétenu dans la forme, en rendant cinématographique à l'ennième puissance ce film courageux et humaniste. Le metteur en scène, aidé par des interprètes fort vaillants, arrive à nous donner une réconstitution historique très convaincante et un beau drame, efficace et  modéré en meme temps,digne d'un grand homme de cinéma sur son personnel boulevard du crépuscule. A signaler que,  en concours à Venise cette année, il aurait pu tranquillement gagner le premier prix ne fut-ce l'histoire véreuse dont Polanski après 50 ans est encore accusé aux Etats -Unis !



mercoledì 13 novembre 2019

" PARASITE " di Bong Joon Ho ( Corea,2019 ) / " NEVIA " di Nunzia De Stefano ( Italia,2019 )

Uscito da poco  nella normale programmazione commerciale dopo le anteprime a Roma e Milano della scorsa estate, il vincitore di Cannes 2019 , il film coreano " Parasite ", attira il pubblico  innanzitutto per la sua " Palma d'oro" e poi perchè è perfettamente inserito in quella tendenza ideologico-salottiera che vuole, anzi pretende che il cinema " impegnato " sia (talora falsamente) spregiudicato e  comunque antiborghese. Anzi, più lo è, meglio è. Siccome questo "Parasite" non lesina quanto a visione  blandamente sovvertitrice dell'ordine e a scontata presa in giro dei " ricchi ", ecco trovato il "capolavoro". Non che il film -metto subito le mani avanti- non abbia meriti e non si lasci ammirare per l'ironia , a volte azzeccata, con cui descrive  i benestanti e, a volte, i loro stessi meno fortunati antagonisti, e per un gran ritmo della regia nella sua prima parte (nella seconda, l'ingresso di nuovi personaggi in scena e il repentino passaggio da una sorta di asiatico " Fascino discreto della borghesia " ad una vicenda  più sconcertante e grottesca che sottilmente sarcastica finisce francamente con lo sbilanciare  l'equilibrio stilistico mantenuto fino allora). Comunque, anche se il giudizio rispetto a quando lo vidi nella rassegna dei film di Cannes ad oggi si è fatto più severo, rinvio alla lettura di quanto ne scrissi il 29 giugno scorso su questo blog. E pensare che i giurati, per dargli il massimo premio, trascurarono un film - questo sì- drammaticamente efficace, austero eppure carico di amore e di saggezza, come l'ottimo " Dolor y gloria " di Pedro Almodovar....

Quest'anno, complice il fatto che ho dovuto fare da giurato in una rassegna del nuovo cinema italiano organizzato dalla Cineteca milanese, ho visto in una settimana più film nostrani che , d'abitudine, in un solo anno. Tanto da permettermi di avere una discreta panoramica degli autori esordienti. Povero ormai di grandi, consolidati talenti,  il cinema di casa stenta da tempo a sfornare nuovi registi dalla personalità interessante. Vi ho parlato la volta scorsa di "Maternal" andato nel frattempo al Festival mitteleuropeo del cinema italiano ( Budapest, quanti ricordi... ) ed ora vorrei soffermarmi su quello che, a conti fatti, è risultato il migliore dei film in competizione rivelando un autentico talento di regia. Parlo di " Nevia " , scritto e diretto ancora da una donna, Nunzia De Stefano . Già presentato con lusinghieri apprezzamenti nella sezione " Orizzonti " dell'ultima Mostra di Venezia, il film sta per uscire nelle sale e spero che qualcuno, magari invogliato da ciò che sto per dire, lo andrà a vedere. Intendiamoci, neanche questo film , come già " Maternal " di Maura Delpero, è privo di difetti. Ma rispetto a quest'ultimo mi pare che abbia anche il pregio di una maggiore sincerità, essendo in parte ispirato a vicende che la De Stefano ha vissuto personalmente. Ultima di undici fratelli e sorelle, Nunzia ha vissuto per dieci anni, a seguito del terremoto del 1980,  in un "container"  nel quartiere di Ponticelli, alla periferia di Napoli, là dove è ambientata la vicenda del suo semiautobiografico personaggio principale. Nevia, prossima ai diciott'anni, minuta ma con una volontà di ferro, sfugge ai mille pericoli di un'ambiente assai degradato e anzi tiene in piedi una famiglia alquanto complicata : padre in carcere, madre ex prostituta dedita ad ogni sorta di commercio illecito, sorellina precoce e con poca voglia di andare a scuola. La protagonista, tosta e coraggiosa ma sognatrice al tempo stesso di un futuro migliore, tenta di evadere dalla trita e triste realtà che la circonda. Ci riuscirà ? Il finale è aperto, sembrerebbe di sì,  ma l'ultimo saluto che essa ci rivolge dallo schermo  nel bel primo piano finale non è privo di malinconia e di consapevolezza che nella vita nulla può essere dato per scontato.

Schivando con intelligenza il pericolo di darci un ennesimo capitolo di quella saga miserabilista di cui si compiace una larga parte del "giovane" cinema italiano, tutto dedito a ripetere i vari "Gomorra" o "Romanzo criminale" in cui è sceso ad accanirsi nell'illusione di riprodurre una sorta di neo-neorealismo peraltro privo di autentico sostrato ideale, la De Stefano incamera la lezione di un  cinema diverso. Un cinema "alto", ricco di dignità e di autentico umanesimo, studioso dei minuti comportamenti di una povera umanità che, mutuandolo dal primo Pasolini,  la De Stefano ha rinvenuto poi nella lezione dei fratelli Dardenne, dell'inglese Ken Loach e, perchè no ?, in Italia  di Matteo Garrone ( che, quanto a lui,  ha risentito poi anche del cinema più apertamente fantasioso di Fellini). Del resto , Nunzia è la ex moglie proprio di Garrone, col quale ha collaborato alla regia  dai primi film fino a " Dogman ", traendone certamente alcuni spunti tematici e una evidente predilezione per uno stile asciutto, senza sbavature, fatto spesso di lunghi piani sequenza con macchina da presa a spalla che insegue, bracca praticamente i personaggi come se volesse costringerli a dire tutta la verità, nient'altro che la verità. Montaggio serrato, primi piani solo dove strettamente necessario, poi c'è anche, evidente, qualche influenza dell'inevitabile Fellini, il gusto per l'insolito, il magico. Se la regia è molto interessante, già sorprendentemente matura per chi non conoscesse il lungo apprendistato della De Stefano, anche l'interpretazione è  meritevole di una particolare lode. Lasciando da parte i personaggi minori, interpretati da veraci attori napoletani di lungo corso (la migliore scuola al mondo,forse,accanto a quella anglo-irlandese ) la protagonista, Nevia, è la giovanissima Virginia Apicella, una delicata ma vigorosa  attrice di sicuro avvenire. Ottimamente diretto ed interpretato , al film manca però ( e non è poco ) una tensione drammatica capace di dargli quella corposità, quello spessore che una vicenda del genere avrebbe sicuramente meritato. Difetto, con molta verosimiglianza, imputabile ad una sceneggiatura un pò lasca, paga di restituirci il bel personaggio di Nevia ma inidonea a crearle intorno qualcosa di più di una simpatica favola che infonde allo spettatore tanto ottimismo ma non sazia il suo desiderio di ancor maggiore verità. Come per tutti coloro che indovinano un buon primo film, la De Stefano è attesa ora, magari alle prese con una storia diversa, a darci conferma del suo indubbio talento.


Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur ces deux films : 

" Parasite" a remporté la Palme d'or au dernier Festival de Cannes ( d'autres films, à notre avis, l'auraient meritée davantage... ) et est en train, à présent, de faire une belle carrière commerciale aux Etats-Unis et en Europe. Ce film coréen du talentueux metteur en scène Bong Joon Ho, a plusieurs mérites évidents, dont une ironie parfois amusante envers soit les riches soit les plus pauvres qui essayent d'en imiter le style de vie, mais souffre d'un manque d'unité de ton entre la première et la deuxième partie, en finissant par paraitre  un peu confus et dépourvu de cette vigueur dramatique qui aurait été souhaitable. A voir un après -midi de pluie, faute d'un beau bouquin.
" Nevia " par contre, premier film d'une femme issue de Naples, assistante de Matteo Garrone, semble plutot intéressant et digne d'etre vu. En racontant d'une jeune fille qui habite un quartier misérable de la banlieue napolitaine, De Stefano échappe aux poncifs d'un prétendu néo-néorealisme, si commun chez les jeunes auteurs de la péninsule, pour arriver à un cinéma de vérité, plus proche de Olmi, Pasolini, voire les Frères Dardenne, Ken Loach. Dommage que autour d'un beau personnage de jeune femme courageuse la scénariste ( Mme De Stefano elle-meme ) n'ait pas réussi à construire une histoire plus riche de tension dramatique et capable de satisfaire un peu plus notre soif d'un cinéma en prise directe avec la réalité des choses et des sentiments . En tous cas ,un beau petit prémier film.


Please find here a short commentary in english about these two films :

" Parasite " by the korean director Bong Joon Ho, won the " Golden Palm " at the recent Cannes Film Festival and, at present,  is doing very well at the box office in the States and in Europe. Having said that it is well directed and sometimes amusing for its irony in describing the well-off and the poor people who would like to replace them,  it is worth noting that its lack of unity in style and its rather confuse story, especially at the end, do not contribute very much in making a great, remarkable film.
" Nevia " by a woman director, here at her first film, Nunzia De Stefano, is on the contrary a little, unpretentious work wich nevertheless commands some attention  for the style of its  direction and the freshness of its story ( a young neapolitan girl living in a derelict area trys to escape from her destiny and be able to run her own life independently ). Just a dose of more dramatic intensity  would have helped in making of this delicate film  a truly successful  " prémière " in the cinematic art. To be seen.


lunedì 4 novembre 2019

" DOWNTON ABBEY " di Michael Engler ( Gran Bretagna, 2019 ) / " MATERNAL " di Maura Del Pero ( Italia e Argentina, 2019 )o

" Downton Abbey " (il film) era attesissimo dai  "fans" della serie televisiva, andata in onda dal 2009 al 2015 su di una emittente indipendente britannica e ripresa poi dalle televisioni di tutto il mondo. Giustificato quindi l'entusiasmo che si era diffuso alla notizia che, esclusa dopo sei stagioni la possibilità di una settima per volontà concorde di autori ed interpreti, il vero addio dei personaggi che hanno allietato tante nostre serate sarebbe stato dato tramite un ultimo episodio scritto e  girato appositamente per il grande schermo. Tranquillizzerò subito gli adepti della serie televisiva ( credo che esistano perfino club, in Europa e negli Stati Uniti, che li riuniscano in perpetuo ricordo dei loro beniamini ) rivelando che il film non tradisce il tono generale, l'atmosfera ben collaudata, la concisione espositiva,  che le vicende degli abitatori della magnifica dimora avevano saputo offrirci con così tanto successo sul piccolo schermo. Complicato qui, naturalmente, addentrarci su ciò che differenzia il cinema dalla televisione e dilungarci magari nell'analizzare se le avventure narrate da " Downton Abbey " abbiano una " resa " diversa , passando dal televisore al telone di una sala cinematografica. Basterà dire due cose, che ogni appassionato potrà verificare vedendo il film, se già non lo conosce.
 Il grande schermo, dilatando in senso fisico ambientazione e personaggi ben noti- riprodotti  peraltro qui  senza eccessivo ricorso a  specifici canoni "cinematografici" - sottrae forzatamente quel tanto di intimo, di caldo, di "privato " starei quasi per dire, che gli schermi televisivi avevano conferito alla serie. "Downton Abbey " è nato per la televisione ed ha contribuito ad elevare gli standard artistico-produttivi delle tante serie che occupano ormai buona parte della programmazione. E alla televisione resterà legato, come è naturale, il successo che ha avuto mondialmente e quel particolare, inconfondibile fascino che emana dalle sue cinquantadue puntate.
Nello stesso tempo il film è un buon film. Rinunciando a rendersi concettualmente ed esteticamente autonomo rispetto alla serie (in fondo è quasi un episodio un pò più lungo degli altri, come lo erano gli "special" natalizi che chiudevano ogni singola stagione) nondimeno riesce ad imporsi come  riassunto, od antologia se preferite, "bigger than life",  dei vari personaggi e delle varie situazioni  visti questa volta, sia pure con gli inevitabili schematismi,  con la lente di ingrandimento e consegnati in tal modo al nostro accorato e definitivo rimpianto di collezionisti.

Farei torto ai tanti ottimi conoscitori della serie ripercorrendo qui i diversi " caratteri " tratteggiati con tanta sagacia da Julian Fellowes, il vero demiurgo della serie uscita dalla sua fervida fantasia. Padroni e servitori si muovono , pur nella diversità dei propri rispettivi ruoli e di destino sociale, con l' innegabile fierezza  dettata dalla loro " britishness " e dalla consapevolezza di vivere, da una parte e dall'altra della linea che li separa, le stesse emozioni, grandi e piccine : simpatia, amicizia, amore, gelosia, invidia, gioie e dolori. Ed è qui, credo, nella calda, affettuosa interazione tra personaggi che appaiono autentici e non semplici stereotipi, più che nella ripetizione di una intelaiatura già collaudata da precedenti serie televisive (ad esempio, negli anni '70 del secolo scorso, " Upstairs and downstairs " della BBC) che risiede la vera chiave del successo planetario di " Downton Abbey ". Il film ha il grande merito di non voler innovare- come già si è detto- rispetto alla particolare "aura" creata in sei anni dalla serie televisiva. Racconta un ultimo gustoso episodio ( che preferisco non riassumere per non togliervi alcuna sorpresa ) permettendo a ciascuno dei personaggi che ben conosciamo di esprimere le sue caratteristiche migliori e di chiudere in bellezza il dialogo ideale che aveva instaurato con noi spettatori. Dopo non vi sarà che il ricordo di una bella storia, storicamente plausibile ma quasi fiabesca nel suo costante concludersi con il lieto fine che tutti ci attendiamo. Corretto nella regia ( anche il regista è lo stesso della serie televisiva ) sontuoso come sempre nelle scenografie che, sul grande schermo, hanno ancora maggiore risalto, il fulcro del film,come per la serie, ancora una volta sta nell'interpretazione. Leggermente appesantiti e comprensibilmente più stagionati dal trascorrere del tempo ( quello nella finzione e quello nella vita reale ) gli attori sono ancora tutti bravissimi. Sono tanti i personaggi della saga, ricorderete, e li vediamo entrare in scena con la piacevole emozione di chi rivede vecchi amici spariti da qualche tempo. Sia concesso, nell'impossibilità di parlare di tutti, menzionare almeno  Lady Violet Crawley interpretata dalla "evergreen " Maggie Smith ( 85 primavere ! ), decana della casata dei proprietari di Downton Abbey e  capace , con graziosa fierezza, di non sfigurare certo- come in questa occasione- anche di fronte ad un re e ad una  regina.

Con " Maternal ", il bel film dell'esordiente italiana Maura Del Pero, siamo invece su tutt'altra sponda. Qui le ambizioni sono maggiori giacchè ci muoviamo sul terreno cosiddetto  "autoriale",  quello cioè di chi scrive un film e poi lo dirige, puntando a comunicare il proprio mondo interiore e la propria idea di cinema senza preoccuparsi  eccessivamente di considerazioni commerciali. Il che non vuol dire che così facendo non ne escano poi  opere anche gradevoli ed interessanti, capaci di trovare un proprio pubblico e di avere successo. Sarà così anche per questo primo lungometraggio di una simpatica regista di 44 anni, che si era accostata al cinema attraverso i documentari e qualche cortometraggio di finzione ? Difficile saperlo perchè, per il momento, il suo film circola solo in qualche cineclub dopo essere stato presentato (unico titolo italiano in concorso) al Festival di Locarno l'estate scorsa. Io l'ho visto ad una mini rassegna di " opere prime " organizzata in questi giorni dalla Cineteca milanese e debbo dire che mi è piaciuto, consigliandone la visione a chi avrà l'occasione di trovarlo. Poichè tra i produttori vi è anche Rai Cinema non è escluso che sia destinato ad uno o più passaggi  in televisione
Prima di riassumerne i pregi (e qualche difetto) dirò subito che primo merito della Del Pero- non so  se per sua scelta o per ragioni produttive- è stato quello di aver ambientato e girato il film in Argentina (dove ha vissuto per qualche tempo) e non in Italia. Mi spiego meglio. Lontano dalle patrie sponde, dovendo far parlare i suoi interpreti (quasi tutti locali) in spagnolo, la regista ha evitato lo scoglio maggiore su cui vanno ad impattare pericolosamente tanti film italiani: quello di un malinteso "realismo" che rischia di tradursi poi in bozzettismo di sapore inevitabilmente regionalistico o  in una sorta di sceneggiata sospesa tra i cascami di un tardo pasolinismo e le insidie della "commedia all'italiana". "Maternal" è come concezione e realizzazione un vero film italiano, intendiamoci, anche se la sua vicenda si svolge in un paese straniero. Opera di un'autrice genuinamente nostrana per tradizione culturale ed ispirazione, mantiene nella vicenda narrata una sana, oserei dire indispensabile distanziazione rispetto alla subcultura nazionale dominante. Assumendo  i toni più sorvegliati di un vero dramma psicologico, non ancorato necessariamente ad una specifica realtà ambientale,il film approda così ad una convincente ed autentica realtà universale.

" Maternal " è ambientato in una "Home " o "focolare" se preferite, gestito da suore per accogliere minorenni che hanno partorito fuori dal matrimonio e non hanno dove andare a stare con la loro prole (il titolo argentino del film è infatti " Hogar ", casa o focolare). L'arrivo di una giovane suora italiana, Suor Paola, che deve ancora pronunciare i voti definitivi, spontaneamente protesa ad aiutare le giovanissime madri ed i loro pargoli e soprattutto non immune al richiamo dell'istinto materno, innesta  una  sotterranea dialettica  con il severo e un pò chiuso ambiente delle altre religiose sfociando infine  in un vero e proprio scioglimento drammatico, Riassumere la trama in poche righe, mi rendo conto, non rende giustizia alla pluralità dei temi sottesi alla vicenda, dal contrasto tra una certa idea di ordine e di rispettabilità rappresentata dalle monache e la sfrenata , esibita vitalità di alcune delle pensionarie,  dal dissidio tra le ragioni dell'anima e della spiritualità e quelle, altrettanto impellenti, dei sensi e degli istinti più terreni. Come si vede, una grande ricchezza di motivi e di spunti narrativi che la sapiente scrittura della Del Pero riesce a dominare quasi sempre con successo, infondendo dolcezza ed insieme forza genuina nei suoi personaggi, visti con quel tanto di coinvolgimento emotivo ma anche di obiettività di espressione che evitano la caduta sia nel sentimentalismo che nella  predicozza anticlericale. Abile, già sorprendentemente "adulta" per un primo film, la regia imprime vita e credibilità a  personaggi che rischierebbero altrimenti di apparire un pò troppo schematici. Ed è qui, a mio parere , in una a tratti leggera artificiosità di talune scene "chiave", che si cela l'insidia di un film non facile da concepire e girare come questo. Ottima l'interpretazione ( in parte di attori professionisti come Lydia Liberman, l'intensa attrice ucraina che interpreta Suor Paola, ed in parte di persone prese " dalla strada " come la maggior parte delle giovani " traviate " ) e  molto buona la fotografia . Un esordio , dunque, piuttosto promettente e che mostra la via al giovane cinema italiano che voglia veramente rinnovarsi.


Please find here a short commentary in english on " Downton Abbey ":

" Downton Abbey ", who in the world does not  know   that  it's  the title of a highly successful TV serial (six seasons between 2009 and 2015)? And now the film, made for the  big screen by the same people ( writer, director, various technical advisors and  the actors ) who made great the televised story of a noble english family living in a beautiful mansion in Yorkshire countryside and their servants, is most certainly going to renew the success of the 52 original episodes of the serial. Mostly reassuring for all the fans of the Crawley family's saga is the circumstance that the film doesn't  betray the genuine warm atmosphere, the special "british " flavour, which were the trade-mark of the TV dramatization. You will find in the film all the characters You loved in the serial, just a little grown older but still in business like in the previous episodes. Credit should be given to the film, as a matter of fact, for not having tried to make something " different " or truly movielike to distance itself from the TV serial. In a sense, the film is really just as if it were the last episode of the saga, the final one for good. And here, in its modesty and its cleverness,  the film finds a remarkable way to affirm a genuine " raison d'etre " and be able to give us joy and genuine cinematic satisfaction.  "Downton Abbey" is over. Long live  "Downton Abbey" in our memory.



Veuillez trouver ci-dessous un court commentaire en francais sur "Downton Abbey " :

" Downton Abbey " c'est le nom , comme chacun le sait, d'une série TV britannique qui a eu,  entre 2009 et 2015, un immense succès planetaire. Le film , qui réprend le nom de la série, ne décevra pas, c'est à parier, les très nombreux estimateurs de la  saga de la famille Crawley, habitant une somptueuse démeure nichée dans le Yorkshire avec un escadron de serviteurs abiles et dévoués. Mérite du meme scenariste, metteur en scène, décorateur et autres conseillers téchniques de la série TV qui ont travaillé au film avec autant de  vaillance et de passion. Mérite surtout de la volonté de rien toucher à l'atmosphère "british"  ni au style bien rodé de l'histoire telle qui nous a été livrée par notre appareil de télévision. En somme, rénoncant à faire un film en quelque sorte indépendent par rapport à la série, les auteurs ont préféré sagement de nous donner un nouvel episode, un peu plus longuet que d'habitude, de la fiction télévisée, et le tout dernier ( c'est promis ...). Les spectateurs seront ainsi gatés de retrouver tous les personnages qu'ils avaient aimés, en pleine forme quoique tous , forcemment, un peu plus agés. Intelligente opération de marketing du spectacle (genre "Le retour de... ") le film est néanmoins un bon film qui mérite amplement d'etre vu et aimé pour son cadre historique toujours très soigné et l'interprétation  vraiement rémarquable.

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