sabato 26 maggio 2018

" MONTPARNASSE ; FEMMINILE SINGOLARE " di Léonor Serraille ( Francia, 20178 ) /" LA RAGAZZA DEL SECOLO " di George Cukor ( USA, 1954

Avendoli visti uno dopo l'altro la settimana scorsa, ecco due bei film che vi raccomando entrambi. Separati  da un intervallo temporale di 63 anni ( il film del veterano Cukor è del 1954, quello della esordiente Serraille del 2017)  e diversissimi quanto a stile e concezione del cinema da essi sottesa, hanno nondimeno un punto in comune. Sono entrambi, infatti, delle vicende che hanno per protagonista una giovane donna.  Ed il film francese reca proprio come titolo originale " Jeune femme " ( mi chiedo se non andrebbe dato  un bel  premio ai distributori italiani per averlo rinominato in modo così fantasioso...). Due giovani donne alla ricerca - diremmo oggi - della loro realizzazione sul piano personale,  su quelli del lavoro, dell'amore, del rapporto con gli altri. L'America degli anni cinquanta del secolo scorso e l' Europa di oggi sono   realtà molto lontane tra di loro. Ma la volontà di inserimento ( o di non inserimento ) di chi appartiene al genere femminile  in un mondo sostanzialmente forgiato  dai maschi, resta , mi pare di poter dire, un tema centrale per la nostra società e, soprattutto, ricco al cinema  di  continue variazioni  in funzione della sensibilità degli artisti che vi si sono  via via cimentati.
Aggiungo che  se il recente film della Serraille è da poco nelle sale italiane, almeno a  Roma e a Milano, il  vecchio film di Cukor si trova facilmente in DVD ( provare magari su Internet ) e forse passa qualche volta alla televisione. Interpretato da Judy Holliday ( che cinque anni prima, sotto la direzione del medesimo regista, era stata rivelata dal delizioso e caustico " Nata ieri " ) e da un Jack Lemmon  al suo esordio assoluto, ha una sceneggiatura solidissima  scritta dallo stesso Cukor  ( il quale, si sa,  dimostra particolare predilezione per i personaggi femminili ) e  dal commediografo Garson Kanin. Le descrizioni delle situazioni e dei luoghi sono molto piacevoli, le battute scoppiettanti secondo la migliore tradizione  della " commedia sofisticata " americana.

Gladys Glover ( parlo  sempre del film di Cukor, titolo originale " It should happen to you " ) è una ragazza giunta a New York dalla provincia per fare fortuna e sfuggire così alla noia di un futuro che giudica troppo scontato ( un matrimonio, dei figli, il solito tran tran familiare). Oscura modella che ha perso il lavoro, ha la folle idea di affittare , con i risparmi che le sono rimasti, un enorme spazio pubblicitario in pieno Columbus Circle  a Manhattan per farci scrivere sopra semplicemente il suo nome a caratteri cubitali,  nella speranza che questo la  faccia uscire in qualche modo da un triste anonimato. La singolare forma di autopubblicità dopo qualche tempo ha successo e Gladys , grazie alla semplice suggestione del nome, impostosi nel subconscio di coloro che lo hanno meccanicamente letto per vari giorni di seguito, si trova improvvisamente proiettata nella notorietà. Sommersa dagli impegni di lavoro che le piovono addosso e che non le lasciano tempo per una vita privata appena decente, alla fine pianterà tutto ( compreso un ricco industrialotto che le fa la corte ) e convolerà a giuste nozze con un uomo semplice, un fotografo e documentarista squattrinato che però la ama sinceramente e con il quale ( c'è da scommetterci ) farà tanti bambini e sarà felice "ever after" A parte il finale tipicamente hollywoodiano e rassicurante, il film è tutt'altro che semplicistico e ha una morale, per i tempi, non poi tanto banale. Una donna, una ragazza, nell'avanzata società americana del secondo dopoguerra, per sollevarsi dal suo stato di minorità in un mondo plasmato da evidenti valori maschili, non ha che il lavoro, meglio se coronato dal successo e dalla fama. Può rinunciarci, se questo non le piace. Ma dietro l'angolo l'aspetta allora il destino della  brava " menagère ", cioè l'unica alternativa possibile. Non si sfugge, in sostanza, a un inquadramento in una delle caselle preordinate per il genere femminile: moglie/madre oppure, come esperienza residuale, "donna in carriera " ( ed era, allora, già un gran passo in avanti... ).

Non poi tanto diversa ( ci giurereste ? ) la situazione di oggi. Le possibilità, è vero, sono molto cresciute, in un mondo che bene o male,  ha imparato a convivere con la sua componente femminile. La diversificazione dei ruoli e delle mansioni, in una società molto più complessa di quella di una volta, sia pure all'insegna del precariato ( nelle occupazioni, nei legami, perfino nei sentimenti ) sembrerebbe offrire alle donne maggiori occasioni di appagamento e di realizzazione personale. Ma gli schemi, le " categorie " preordinate che vorrebbero incasellare il genere umano ( ed ancora una volta, in particolare, la sua parte più debole ) permangono e creano una ragnatela fin troppo visibile, dalla quale non è facile districarsi. Prendiamo Paula, il personaggio principale del bel film di Leonor  Serraille. Essere catalogata  dalla società come " jeune femme " ( ha 31 anni ed una situazione lavorativa ed affettiva che più appesa ad un filo non si può ) non sembra  poi farle così piacere. Paula non vorrebbe attendere una " maturità " che le convenzioni di oggi spingono sempre più in là nel tempo per riuscire a  godersi la sua piccola parte di felicità. Gioiosa eppure riflessiva, piena di affetto per gli altri  ancorchè spirito autenticamente libero, collaborativa ma di carattere indipendente ed insofferente delle gerarchie, cerca di resistere al ripetuto tentativo del contesto sociale di affibbiarle un'etichetta ( lavoratrice temporanea, studentessa largamente fuori corso, amante da dieci anni di un uomo importante e molto più grande di lei e così via ). Anche nei rapporti  più superficiali con le persone che  incontra nel suo errare per Parigi ( sbattuta fuori di casa dal convivente, non ha dove andare ) le maledette " caselle " ricompaiono sempre. Così con la coetanea di colore che la abborda in metro credendo  che sia un'antica compagna di scuola  persa di vista da tempo e che la ospita una notte tentando un approccio omoerotico ( e, al suo rifiuto, la  cataloga troppo frettolosamente, e vedremo perchè, nella schiera  per lei non interessante delle " etéro " ). Come con la giovane madre separata di una bambina smorfiosetta, ma che si rivelerà semplicemente maleamata, la quale la assume come baby sitter ma non riesce ad inquadrarla in una precisa categoria sociale e , sconcertata dalla inclassificabilità di Paula, finisce col licenziarla. Attraverso il girovagare di Paula tra metropolitana parigina, negozi di abbigliamento, agenzie del lavoro, " discos ", letti e divani di case dove riesce temporaneamente a rifugiarsi , emerge un personaggio accattivante di donna che non si lascia abbattere dalla sfortuna, desiderosa di libertà, appassionata di rapporti umani sinceri e duraturi ( bellissima la frase che rivolge al suo amante e padre della creatura che attende e che  lei deciderà, come suprema forma di affrancamento, di non tenere  : " se trovassimo il tempo di discorrere più a lungo tra di noi, forse riusciremmo finalmente a parlarci... " ).

Per sfruttare a pieno le risorse di due personaggi complessi ed attraenti come Gladys Glover e Paula e renderle al meglio sullo schermo occorrevano due grandi attrici. E se Judy Holliday ( Gladys ) recita in un modo sopraffino, rifacendo solo appena un po' il verso alla " Born yesterday "che ne marcò il debutto, Laetitia Dosch ( Paula ) è un'autentica rivelazione. Un pò più anziana della sua regista Serraille ( quest'ultima ne ha 32, la Dosch 37 o 38 ) questa ancor giovane attrice- sempre le caselle ! - regge buona parte del peso del film sulle sue gracili spalle. Minuta, con un corpo semiefebico, non si può dire certo una bellezza .Ma il viso intelligente e mobilissimo,a tratti quasi da simpatica " scimmietta ", esprime perfettamente tutta la gamma degli stati d'animo, i momenti di gioia o di sconforto, le contraddizioni e i punti di forza del suo personaggio. Non ancora conosciuta fuori di Francia, è facile pronosticare ora per lei una brillante carriera ( con il consiglio però, se potrà, di non interpretare sempre la stessa parte ). Dicevo delle evidenti diversità stilistiche tra due film nati in contesti storico-artistici molto diversi. Se " La ragazza del secolo " è la quintessenza dello stile classico, brillante e vivace eppure mai sopra le righe, del suo autore ( Cukor ha sempre fatto un cinema raffinato ed equilibrato ), " Jeune femme " si muove in tutt'altro registro. Strizza l'occhio alla " Nouvelle vague ", a Truffaut, a Godard , a  Rohmer, cioè al " pantheon " della tradizione francese. Ma tiene in debito conto le trasformazioni intervenute nel gusto degli spettatori, del successo riportato ad esempio da personalità più bizzarre , come i fratelli Coen, o dai tanti registi francesi giovani che hanno reso nuovamente appassionante il cinema francese. Girato con particolare verve e gusto del continuo cambio di tono ( dal comico al patetico, dal cinico al sentimentale ) denota una personalità molto interessante, quella di questa regista esordiente ( vincitrice della " Caméra d'or " , lo scorso anno a Cannes ), Léonor Serraille, che ha scritto tutto il film da sola. Una cineasta di cui sentiremo senz'altro parlare ancora. Certo, il secondo film è sempre più difficile da indovinare del primo. Ma qui mi sembra che le idee ci siano e che dunque non rischino di esaurirsi troppo presto.

domenica 20 maggio 2018

" DOGMAN " di Matteo Garrone ( Italia, 2018 )

Le scene iniziali del film si aprono su di un panorama urbano desolato. Un agglomerato di caseggiati, contemporanei eppure preistorici tanto sono fatiscenti, nella periferia o nelle vicinanze della nostra capitale. Un intero quartiere che sembra in realtà un moderno villaggio western dove , scopriremo subito, brilla l'assenza di qualunque  forma di legalità e dominano invece la violenza e la sopraffazione a danno dei più deboli. Tra questi il protagonista , Marcello, un ometto stortignaccolo e dalla faccia deragliata  che di mestiere fa il toelettatore di cani di tutte le dimensioni nel suo sgangherato locale, più antro che negozio,  sul quale campeggia la fiera scritta " Dogman ", illuminata da un pallido neon. Questo Marcello, mite di carattere, ottimo lavoratore, piccolo spacciatore per arrotondare i propri introiti quotidiani e non far mancare nulla alla figlia ancora bambina che vive con la madre da cui lui è divorziato, intrattiene un complesso rapporto con il " cattivo " della vicenda. Questi , Simone detto Simoncino , è un  autentico bestione , ex pugile, affezionato alle droghe ed assai poco al genere umano, prepotente e violento quanto basta per essere cordialmente detestato da tutti. Solo Marcello gli dimostra un pò di amicizia , anche se ne viene ripagato  con  piccole vessazioni quando non  vere e proprie angherie. Ma Marcello è incapace di concepire il male, o forse vuole solo andare d'accordo con chiunque nel proprio affannoso desiderio di omologazione  in quello slabbrato tessuto sociale  che lo circonda e che costituisce la sua unica realtà .Quindi sopporta fino all'inverosimile, probabilmente preda anche  di una sorta di  oscura attrazione verso il suo violento persecutore. Fintanto chè un episodio più grave non lo spinge ad un soprassalto di ribellione che  non potrà che avere un tragico finale.

 Ricorderete che la volta scorsa, in epigrafe al bel film di Guédiguian, " La casa sul mare ",mi ero lasciato un po' andare a deprecare l'attuale, triste situazione di un  cinema italiano per lo più  incapace di darci opere solide, di buon livello anche se non eccezionali, come spesso sanno fare i francesi. Mi è sembrato quindi doveroso non  frapporre indugio nel correre a vedere quello che molti giudicano  addirittura " un capolavoro ", e cioè questo" Dogman ", presentato appena tre giorni fà al Festival di Cannes ed, in contemporanea, sui nostri schermi. Il film è la creazione più recente di Matteo Garrone ( " L'imbalsamatore", "Gomorra" ) coadiuvato ancora per la sceneggiatura da Ugo Chiti e Massimo Gaudioso. Cito subito i due sceneggiatori perchè mi sembrano emblematici del difficile momento  vissuto da coloro che lavorano nello spettacolo in Italia: nel cinema di finzione come anche nel documentario e poi nel teatro, nella scrittura come nella messa in scena. Sono due persone non più giovanissime (il primo ha addirittura 75 primavere e il secondo 60 ) che hanno fatto un po' di tutto partendo dalla gavetta ma senza mai approdare al grande successo. Due onesti artigiani, non c'è dubbio. Ma che non mi sembrano avere quella forza e quella originalità che permisero a suo tempo  ad una Suso Cecchi d'Amico o a un Rodolfo Sonego di  scrivere già dei film importanti tra i trenta e i quaranta anni di età. E che hanno avuto la sfortuna di percorrere la loro carriera ( e qui torniamo al vecchio discorso ) in una ormai lunga fase di obiettiva stanchezza del nostro cinema e del nostro teatro . Andando a vedere la loro filmografia scopriamo infatti diverse loro collaborazioni con i filmetti di Pieraccioni,  Benvenuti, Nuti ed  altri  modesti esponenti della neo-commedia all'italiana e poco altro davvero. Le cose che hanno fatto con Garrone sono in fondo  i loro esiti migliori. Con l'avvertenza però che quei film debbono la loro riuscita più alla capacità visionaria ed affabulatrice del regista che ad una qualità di scrittura che non sempre è apparsa altrettanto eccellente.

Matteo Garrone, a sua volta, di anni ne ha cinquanta ( l'età alla quale Rossellini, De Sica, Fellini ci avevano  già dato le loro cose migliori ). Ma in fotografia non li dimostra,  con quel sorriso accattivante , come dicono a Roma, da  autentico" piacione ". Le sue qualità  artistiche  poi sono solide. Se Sorrentino si è un po' perso dopo il folgorante esordio e se  Muccino e Guadagnino - per citare registi che hanno debuttato negli stessi anni- ancora cercano un sicuro ancoraggio, lui ha già una carriera non disprezzabile alle spalle. " Gomorra ", più ancora de " L'imbalsamatore ", gli ha dato una fama internazionale ed i  successivi ma meno riusciti " Reality " e " Il  racconto dei racconti " non hanno inciso  negativamente sul credito di cui gode. Per dirvi come, nel disastrato panorama di casa nostra, egli faccia una buona , anzi un'ottima figura. Autore che ama sempre partire dal dato reale e sociologicamente preciso, il suo cinema si apre gradatamente a suggestioni più sottili ed incisive. Come , per intenderci, se i suoi personaggi e le sue storie cercassero una dimensione, un significato capace di superare gli angusti limiti della cronaca. E' la lezione questa, se ci pensiamo, del neorealismo nel nostro immediato dopoguerra e poi del cinema dei Visconti, degli Antonioni, dei Fellini. Tutti nomi con i quali Garrone, fatte le dovute proporzioni, ha senza dubbio qualche affinità. Ed anche questo odierno " Dogman " vorrebbe , in fondo, essere opera veristica ma al tempo stesso assurgere ad apologo della condizione umana, del Bene in eterna lotta col Male, pur avendo chiaro quanto sia difficile separare i buoni dai cattivi stante anche l'attrazione che a volte questi ultimi possono esercitare sui primi.  Un obiettivo, quello di  sublimare la realtà, che è di ogni vera opera d'arte. E  che richiede, per essere raggiunto,  non solo capacità tecnica ma anche robustezza di ispirazione e saldezza di disegno realizzativo.

Ecco, non mi voglio sottrarre  in conclusione al diritto/dovere di dire la mia su di un film che farà discutere ( e che, comunque, è il miglior film italiano di questa stagione ). L'ambientazione è magistrale, autentico compendio visivo dei tristissimi tempi che ci tocca attraversare e che non possiamo fare finta di ignorare. Con poche robuste inquadrature che non cincischiano ma vanno diritte a colpire il bersaglio, cioè a renderci con plastica evidenza lo squallore di esistenze  per lo più lontane da qualunque residuo di umanità, Garrone ci introduce nella vicenda con l'approccio giusto. Come nel cinema migliore, le " forme "  ( le immagini, il loro movimento,  i volti ed i corpi dei personaggi ) qui creano il "contenuto" ( le emozioni, il punto di vista morale che il film vuole trasmetterci). Sorretto da attori straordinari ( Marcello Fonte, il " dogman ", ha vinto il premio della migliore interpretazione a Cannes ) il film non fa una grinza nella descrizione visiva dei personaggi e della vicenda. Ma  è da chiedersi se riesca poi, come credo ambirebbe,  a superare il semplice fatto di cronaca ( la vicenda si ispira all'efferato delitto del " canaro " della Magliana , avvenuto trenta anni or sono ) e ad assurgere a significati più ampi. A librarsi, in definitiva, in una  atmosfera più rarefatta dove si muovono, appunto, il Bene ed il Male, la capacità di sopportazione e l'istinto di sopraffazione, il fascino della perversione e la carità cristiana . A conti fatti non  sono sicuro che ce la faccia. Questo Marcello , in fondo, non è che una  "Gelsomina " felliniana che  si fosse  violentemente ribellata al proprio " Zampanò ". Ma senza quegli echi spirituali, quella desolata eppure salvifica constatazione che dal male può nascere il bene, che vi è ne " La strada ". Resta il fatto di cronaca. Tremendo nella sua efficacia plastica e visiva, ma incapace forse di condurci ad una lezione più alta. L'ultima immagine , un poco insistita, di Marcello dopo il suo delitto, fermo, ansimante, incapace di rendersi conto di ciò che ha fatto e di cosa voglia ancora fare, è quasi una dichiarazione di impotenza. Incapacità del personaggio di comprendere la via da seguire. Ma anche impossibilità per gli autori di farci transitare ad un'altra dimensione, di fare insomma della pur perfetta descrizione di una tragica vicenda un' autentico viaggio nella nostra dolente coscienza di fragili, impauriti esseri umani.




venerdì 11 maggio 2018

" LA CASA SUL MARE " di Robert Guédiguian ( Francia, 2017 )

Non seguo con particolare assiduità il cinema di Robert Guédiguian, regista francese, come suggerisce il nome, di lontana origine armena. Come i fratelli Dardenne ambientano tutti i loro film nella periferia di Liegi, così Guédiguian ha Marsiglia, la sua città natale,  quale luogo di elezione delle proprie storie. Ma le analogie si fermano lì. Tanto scabro ed essenziale  è il mondo dei Dardenne  quanto sanguigno, incline all'effusione dei sentimenti, è quello di Guédiguian. Se i primi sono due belgi, figli del " plat pays "  di Jacques Brel, tra resti del passato minerario e brume del neocapitalismo, Guédiguian è  mediterraneo e solare, cantore di un proletariato restio a farsi imborghesire. Entrambi, certo, credono nell'uomo e diffidano dell' evoluzione della  nostra civiltà. Ma l'approccio del secondo è più politico e terragno, laddove i primi attendono una Grazia che tarda a manifestarsi qui in basso.
Questo per confessarvi come sia andato a vedere questo film più perchè non vi erano film maggiormente attraenti, in questo momento sugli schermi della mia città, che per necessità  interiore. E invece ho fatto bene, debbo riconoscerlo. Invecchiando Guédiguian si è depurato, in un certo senso, dell'eccesso di sentimentalismo populista  e declamatorio che appesantiva i suoi film. Ora i suoi personaggi e le situazioni in cui  questi sono posti da lui e dai suoi cosceneggiatori sembrano più scarni e quindi tanto più efficaci. Il significato libertario e solidaristico che vuol dargli l'autore resta intatto, anzi acquista maggiore forza. Debbo  avvertirvi che questo " La casa sul mare " è un film di fronte al quale è difficile restare indifferenti. Commuove, fino alle lacrime. Penso che almeno quelli della mia generazione, i quali sanno cosa vuol dire il peso dei ricordi, delle speranze andate deluse, delle cose che rimpiangiamo di non aver detto e di non aver fatto, capiranno perchè.

State a sentire. Al capezzale di un padre colpito da ictus irreversibile, assistito dal figlio sessantenne che è sempre rimasto con lui nella bella casa affacciata sul golfo di Marsiglia,  convergono gli altri due figli, più o meno della stessa fascia di età. Lui un intellettualoide con passate smanie rivoluzionarie, oggi preoccupato dall'età che avanza ed accompagnato da giovane amante; lei una famosa attrice , rimasta più di vent'anni senza tornare nella casa paterna per il trauma della tragica morte della figlioletta occorsa in quel luogo e che ella oscuramente imputa alla disattenzione del proprio genitore. Accanto a loro un giovane  pescatore locale appassionato di teatro ed invaghitosi a distanza dell'attrice tanto più anziana di lui, un  brillante medico e la coppia dei genitori ex proletari che hanno fatto a suo tempo tanti sacrifici per far studiare il figlio. Personaggi, va detto, non certo nuovissimi sugli schermi. Trama esile, senza clamorosi sviluppi narrativi ( se si eccettua , nell'ultima parte, la comparsa di tre giovanissimi rifugiati clandestini che permette all'autore di tirare una morale tutt'altro che peregrina ). Ma grandissima suggestione derivante dall'intreccio delle traiettorie esistenziali e morali dei diversi protagonisti della vicenda, tutti tesi ( gli anziani ) a recuperare il meglio del loro passato e a trarre dalla vita quanto questa ancora può dargli, timidamente affacciati gli altri ( come sono i giovani d'oggi ) ad un futuro dalle incerte prospettive. Se la raffigurazione sociologica di Guédiguian è precisa e convincente, emotivamente coinvolgente, senza riserve, mi è parso l'incontro tra i vari personaggi, l'effusione dei loro sentimenti, ciò che essi dicono e ciò che non dicono. Per tratteggiare un intreccio drammatico, l'onda delle emozioni che sale e poi ridiscende , Guédiguian ha trovato in questo film una cifra stilistica di rara coerenza, tutta intessuta di brevi dialoghi , di scene molto contenute che si susseguono con ritmo pacato ed avvolgente, al pari di  una sonata di Brahms o di Beethoven : sottile e tagliente come una lama che va diritto al cuore, ma che non ferisce anzi cauterizza le ferite precedenti.

Film , potremmo dire qualora volessimo sembrare riduttivi, "dei buoni sentimenti " ( non c'è un solo personaggio sgradevole , se si eccettuano in secondo pieno alcuni inquietanti " youppies " che volteggiano su di un motoscafone d'altomare di fronte alla casa dei protagonisti ). Ma avremmo torto. I buoni sentimenti sono quelli, lo sappiamo, senza i quali non potremmo probabilmente sopportare, nella nostra vita, " i colpi e i dardi di una oltraggiosa fortuna " di cui parla Amleto. E raffigurarli al cinema, quei sentimenti,  con la forza evocatrice, la calda ma sobria commozione di un regista che non ha paura di far piangere i suoi personaggi , non è cosa da poco, io credo. Bel film , dunque, questa " Casa sul mare " ( un titolo italiano stupidamente balneare invece che, nell'originale,  il più contenuto " La villa ") e bravissimo un regista che ha tutta la saggezza di un gran signore di sessantacinque anni e l'entusiasmo di un ragazzino che si accosti per la prima volta al mezzo cinematografico. Entusiasmo e dedizione egualmente evidenti in tutti i compagni del regista in questa impresa i quali, del resto, sono per la maggior parte "habitués " dei suoi film . A cominciare dalla moglie , Ariane Ascaride, grande attrice dalla finissima recitazione , passando per Gérard Meylan, solido prototipo dei vecchi proletari cari al regista, e finendo con l'inquietante maschera di Jean - Pierre Darroussin, uno degli attori francesi più completi che io conosca. Menzione d'onore alla giovane Anais Demoustier nella parte della bella, tormentata Berangère, l'amica dell'intellettualoide Joseph : ecco una giovane tanto graziosa quanto valente. Insomma , un gran bel film, uno dei migliori film francesi delle ultime stagioni, da vedere se possibile ( distribuzione italiana molto precaria, come se non vi fosse soverchia fiducia sulle posibilità di un tal film nelle nostre  sale ).

Breve ma doverosa postilla. Ogni volta che vedo un bel film francese- ormai ce ne sono tanti, in quella che è per dignità artistica e qualità  produttiva la seconda cinematografia al mondo e la prima in Europa - mi chiedo perchè in Italia non ci siano film di valore equivalente : storie interessanti, vicende anche semplici ma genuine , ben filmate , con attori tutti a posto e , soprattutto , sceneggiature che stiano perfettamente in piedi ( noi , la patria per quarant'anni e passa dei più grandi scrittori di cinema ! ). No, noi oscilliamo tra la ricerca del " capolavoro assoluto ", stile Fellini o Visconti, che poi ci offre solo ampie delusioni e un basso artigianato di filmetti senza pretese, opera di registi che si fermano quasi sempre al secondo o terzo film , assolutamente inesportabili. Perchè non riusciamo a produrre , a scrivere, a dirigere un film come " La casa sul mare " ? Non un capolavoro che farà data nella storia del cinema, ma un bel film di ottima fattura che si fa apprezzare e riempie in pieno la sua funzione : creare emozioni genuine e far riflettere in modo intelligente. A parte le spiegazioni inerenti al sistema produttivo francese e a quello italiano ( supportato dallo Stato il primo, semiabbandonato a sè stesso il secondo ) io credo che le ragioni profonde vadano trovate altrove. Probabilmente, noi non ci siamo liberati ancora della potente suggestione dei due grandi momenti storici del nostro cinema del dopoguerra : il neorealismo da un lato e la commedia all'italiana dall'altro . Ecco allora i tanti film  che attingono alla cronaca , che vogliono fare " più vero del vero ", film di denuncia della malavita , della degradata situazione del nostro Paese. E che , lungi dal ritrovare la fonte genuinamente ideale del cinema di quel periodo- che molto doveva ad una temperie politico-spirituale oggi scomparsa - si limitano a tracciare i contorni sfuggenti di una sorta di arcadia malavitosa scialba od esangue ( i film del filone " Gomorra " tra i primi ). Ed ecco dall'altra parte i film che scadono nel macchiettismo , sovraccarichi di notazioni ambientali, spesso a tendenza dialettale, da ridere o più seriosi non importa, ma che egualmente si perdono nel descriverci un' Italia  troppo marcatamente caratterizzata per essere vera.

In sintesi. L'Italia oggi è profondamente cambiata. La nostra società, almeno nelle classi medie, si va omologando a quella dei principali Paesi  evoluti. Possibile che il cinema debba  essere incapace di coglierne l'essenza se non ricorrendo ai resti stantii di un pur significativo passato ? A quando un bel film che parli di famiglie, di sentimenti , di vecchi e di giovani, di speranze e di sogni , senza gratuite violenze da baraccone, battutacce dialettali e il solito irridere tutto e tutti che è diventato ormai il terribile, assolutamente inane suggello di gran parte della nostra triste produzione cinematogragfica ?


venerdì 4 maggio 2018

" IL FILO NASCOSTO " di Paul Thomas Anderson ( Usa/ Regno Unito, 2017 ) ; " I SEGRETI DI WIND RIVER " di Taylor Sheridan ( USA, 2017 )

I non molti film di Paul Thomas Anderson (solo  otto in ventun anni di attività ) piacciono in genere ai critici, che di lui ammirano il virtuosismo tecnico e la capacità di tenere insieme storie complicate e con numerosi personaggi. A sua volta appassionato cinefilo, Anderson declina come propri punti di riferimento nel grande cinema americano, oltre ad Orson Welles - ma questo lo dicono quasi tutti i cineasti di oggi - Robert Altman e Martin Scorsese. Dal primo degli ultimi due ha certamente preso il gusto per le vicende corali e l'andamento avvolgente delle trame.Dal secondo, probabilmente, il gusto per i personaggi fuori misura nonchè la precisione di una messa in scena vibrante come un arco che si tende. Personalmente ho trovato meritevoli i suoi  film che ho visto ( " Magnolia " , " The master ", " Vizio di forma " ) ma mi ha sempre lasciato,debbo dire, con una sensazione di non totale soddisfacimento. Autore più " di testa " che " di cuore " ( inutile tornare su questa distinzione, già fatta altre volte ) ne apprezzavo l' appetito per un  cinema inteso come spettacolo totale, capace di impadronirsi dello spettatore senza dargli quasi respiro. Ma ne diffidavo, nel contempo, quanto a capacità di commuovere realmente, di  fabbricare cioè vere emozioni che, come il grande Samuel Fuller insegna, rimane poi  il vero obiettivo ultimo di questa come di ogni altra espressione artistica.
Ecco forse perchè , inconsciamente o meno, ho fatto di tutto per ritardare il momento di andare a vedere questa sua ultima fatica, uscita da noi poco prima della cerimonia degli Oscar. Premi cui quest'anno era pluricandidata , senza peraltro ottenerne poi  nessuno dei maggiori ( miglior film , migliore regia, migliore sceneggiatura, migliori interpretazioni ). Ora che l'ho visto ( consiglio, ove disponibile, la versione originale ) posso sostenere che almeno un paio di riconoscimenti ( regia ed interpretazione maschile ,  magari a pari merito, questa, con il Gary Oldman di " L'ora più buia " ) avrebbe potuto ottenerli. Ma si sa, " nemo propheta in patria " e l'americano Anderson è più stimato, in fondo , da questa parte dell' Oceano Atlantico.

La vicenda al cuore del film è così conosciuta ormai , dacchè ne hanno parlato tutti, da esimermi dal tornarvi . E del resto, come in quelli precedenti dello stesso Anderson,si può dire che  il soggetto conti solo fino ad un certo punto. Più rilevanti ai fini dello sviluppo narrativo e dell'impatto che questo ha sullo spettatore appaiono infatti i tanti significati che possono essere dati alle creature frutto della sua fantasia, alle loro azioni , al loro modo di interagire. Cultore dell' ambiguità che domina gli eventi umani e dà ad essi l'inconfondibile sapore che rende, in fondo,  così varia ed interessante la vita, egli adora i personaggi che sotto l'apparente linearità delle loro caratteristiche nascondono insospettate propensioni verso l'eccesso, la fuga nell'irrealtà, la sublimazione in un certo senso di quella che definiremmo una sorta di disadattabilità esistenziale. Così, ne " Il filo nascosto ", il raffinato sarto londinese Reynolds ( forse l'ultima , indimenticabile interpretazione cinematografica del grande Daniel Day Lewis ) nasconde , sotto la maschera del demiurgo freddo e sicuro di sè, una fragilità di fondo  ed una dolcezza disarmata  che l'incontro e l'unione con la solida ma inesperta cameriera Alma si incaricherà di portare progressivamente alla superficie. Ma la stessa Alma, tranquilla e gentile esponente di una classe sociale inferiore a quella di Reynolds, contiene poi in sè, inaspettatamente, pulsioni autoritarie e prevaricatrici che conduranno ad un apparente rovesciamento della situazione di partenza. Un punto di arrivo ( provvisorio, come tutto è transeunte per definizione ) che avrà messo a nudo i due protagonisti. Non so se li avrà anche  resi più felici. Certamente li lascerà soli, isolati dagli altri, chini sull'appassionante ma a tratti doloroso confronto tra due esseri umani. Esemplare in questo senso la bellissima scena in cui Reynolds va a " recuperare " Alma nella sala da ballo in cui lei si è recata da sola per affermare la propria indipendenza. L'inquadratura ci mostra il sarto e la moglie di profilo, contrapposti, non udiamo le loro parole ma dai loro volti , dalla determinazione che vi appare, dalla posizione dei due corpi tesi l'uno verso l'altro, capiamo perfettamente le ragioni del loro confronto, l'eterna ricerca del "potere " nei confronti del partner ed il sostanziale sconforto che ne deriva per entrambi. Anche se il film offre tante piste che invitano ad essere percorse, questo della inevitabile lotta che si apre, e mai si chiude, tra due esseri che decidono di vivere insieme,mi sembra la più interessante e convincente.

Insomma,vorrei che  non si giudicasse " Il filo nascosto " semplicemente come un film sulla moda, sugli " scicchissimi " anni cinquanta del secolo scorso, sul singolare ménage tra un affascinante eccentrico di mezza età ed una modesta ed inesperta giovane di più modesto lignaggio. Sì, certamente vi è anche questo nel film di Anderson e tutto esposto con rilievo plastico di eccezionale risalto. I costumi e le scenografie sono perfetti nei minimi particolari, la ricostruzione d'epoca è sorprendentemente giusta. Il dialogo, raffinato e tagliente quanto è necessario,accresce il piacere dello spettatore. Anderson regista non è poi certo secondo , qui, all' Anderson sceneggiatore. Fluido nel suo scorrimento, veloce ed ellittico nella raffigurazione dei personaggi e degli snodi narrativi, il film è potentemente suggestivo nei momenti più forti, quelli che sanno trasmetterci , questa volta senza ombra di  dubbio, vere ed indimenticabili emozioni .Tanto più ambigua è la situazione descritta, tanti i significati che possono esserle attribuiti, tanto più crescono il nostro coinvolgimento , lo smarrimento emozionale , le risonanze profonde che questo bellissimo film produce in noi. Ho detto prima del mio convincimento  che la caratteristica dei due personaggi ( ma anche di quello, poi,  della gelida sorella di Reynolds ) sia la solitudine, l'incapacità di entrare in simbiosi con gli altri. C'è- verso la fine del film- una scena di struggente significato, a questo proposito. In una grande sala da ballo pubblica londinese Alma e Reynolds ballano al centro della pista, dapprima soli e poi circondati da altre coppie che man mano entrano nella danza. Sembrerebbe quasi un finale ottimistico,alla Fellini  ( " Le notti di Cabiria " , " Otto e mezzo"). Una nota, cioè , di speranza in un mondo che- ci piaccia o no - continua a girare intorno a noi e che riesce, in fondo,  a sublimare le nostre ansie e le nostre preoccupazioni. Ma il distacco , la distanza fisica, l'indifferenza che intercorre tra le varie coppie di ballerini pur nell' apparente ,ordinata armonia dell'insieme, ci rivela che, secondo Anderson,  non vi  può essere ponte tra individuo e individuo, non vera intesa, non unità di intenti. Sommessa, dolorosa constatazione finale di un film, finalmente, emotivamente palpitante, caldo ed avvolgente.

Discorso completamente diverso per " I segreti di Wind River ", scritto e diretto da Taylor Sheridan, regista e sceneggiatore che ha dato il meglio di sè - dicono - in qualche serie televisiva, qui alla seconda prova per il grande schermo. Che cosa c'è che non va in questo film che pure non è totalmente disprezzabile ma non consiglierei a chi vuole limitarsi a vedere ogni stagione quei quindici-venti film che veramente valgono ? La storia non è banale ( il mistero della fuga nel gelo dell'inverno di una giovane autoctona ritrovata assiderata cui si sovrappone il doloroso ricordo della scomparsa , in circostanze analoghe,  della figlia del protagonista-investigatore ) e l'ambientazione , in una riserva indiana a nord del Wyoming, alla frontiera con il Canada, anche se non nuovissima, presenta qualche profilo di interesse per i bei paesaggi innevati. Ma la pochezza degli interpreti ( Jeremy Renner è tropo inespressivo e non suscita alcuna empatia nello spettatore, la giovane attrice che fa l'improbabile agente dello FBI  sembra francamente fuori parte ) non aiuta affatto una sceneggiatura discreta nella prima parte e che poi si incarta nella seconda , come se questo Sheridan non sapesse più che pesci pigliare per concludere  onorevolmente tutta la faccenda. Regia così così ( quanti danni può fare la televisione a chi ne pratica troppa... ) e ingiustificato amore ( a mio avviso ) per l'onnipresente  moto spazzaneve, " snowbike " o come diavolo si chiama quel veicolo a motore dal rombo che ti perfora i timpani  e che il protagonista usa  costantemente per spostarsi superando spaventose pendenze . Va bene che in una sorta di " western " contemporaneo ed invernale , qual'è in fondo questo film , esso sostituisce opportunamente il buon vecchio  esemplare equino che, nei film d' antan ,  rispondeva al  fischio del padrone e galoppava senza sosta. Ma a quella dannata moto che ci perseguita sullo schermo , non le finisce mai la benzina ?