sabato 29 febbraio 2020

LETTERA DA PARIGI ( " Les Misérables " ed altro... )

Reduce dall'annuale viaggio a Parigi, imposto questa letterina per riferire  ciò che ho visto  di interessante tra i film francesi più recenti. Una cinematografia, secondo me, in ottima salute per vivacità di ispirazione, varietà dei temi trattati e capacità di creare opere piacevoli ed emozionanti, pur nella diversità dei risultati artistici. Se volessi farmi del male ricorderei " en passant " che queste erano  le caratteristiche del cinema italiano degli anni '60 del secolo scorso  (decisamente l' "età d'oro" della società e della cultura del nostro paese ). Caratteristiche che abbiamo in gran parte smarrito e che permangono invece, anche se con altro sapore, nel cinema " esagonale ".
Ricco di contributi etnici e culturali provenienti da fuori, in particolare da aree geografiche a marcata influenza francese, il nostro vicino d'oltralpe ha sempre ospitato  cineasti provenienti dal Magreb, producendo le loro opere. E' la volta, ora, di una giovane franco-tunisina, Manele Labidi, alla prima esperienza come sceneggiatrice e regista di un lungometraggio. E occorre salutare con simpatia ed approvazione una prova come questa, certo non de tutto perfetta, ma fresca, spontanea , fertile di riflessioni e di emozioni nei confronti di un paese- quello di origine- che, dopo la " primavera " di qualche anno fa, è ancora alla ricerca di un difficile equilibrio tra conservazione ed innovazione, libertà personale e costrizioni sociali. "Un divan à Tunis " ( questo il titolo del film ) prende le mosse dal tentativo di una giovane franco-tunisina, Selma ( la bella ed intensa attrice iraniana Golshifteh Farahani ) di impiantare nientedimeno che un modesto  "gabinetto di psicanalisi"  in un quartiere popolare della capitale. Sul divano della psicanalista in erba ( laurea alla Sorbona e spiritoso " collage " di Freud... con il fez, affisso al muro del suo studio ) ecco dunque, con i primi pazienti attratti dalla assoluta novità, avvicendarsi i problemi, i fantasmi, i sogni irrealizzabili e le speranze inespresse di una umanità spesso pittoresca ma sempre degna di affettuosa simpatia.  Pazienti che guardano di volta in volta la graziosa ed intraprendente dottoressa con curiosità, sospetto, desiderio più o meno represso, ansia di  comunicazione, descritti dalla Labidi con tratto a volte  un pò indulgente ma sempre con  sincera partecipazione e mano felice. Film scorrevole nella piacevole galleria di situazioni e di tipi umani, messi in scena con qualche riconoscibile omaggio alla " commedia all'italiana " di un tempo ( annunciato, del resto, da due belle canzoni di Mina inserite nella colonna sonora ) " Un divan à Tunis "è ben girato e molto ben interpretato. E soprattutto coglie  con grande verità e sottile struggimento  il doloroso " impasse " di una società , e prima ancora di una condizione umana, quella del mondo arabo di oggi, a metà del guado tra tradizione e modernità.

Un film che, da qualche giorno sugli schermi parigini, sta incontrando un buon successo di pubblico e di critica è il più maturo " La fille au bracelet " del regista Stéphane Demoustier, alla sua terza prova nel lungometraggio. Quarantatreenne, uscito da una famiglia ben presente nel cinema francese  ( una sorella, Anais, gode già di una discreta fama- ha appena vinto un " César " -  e recita nel film ) Demoustier ambisce ad una analisi della società asettica, spassionata, quasi da entomologo, un po' sulla scia, conservando le dovute proporzioni, di un Claude Chabrol. E la storia che viene narrata sarebbe potuta certamente piacere al regista transalpino scomparso alcuni anni fa, il quale vi avrebbe senza dubbio infuso un po' più di cattiveria che non Demoustier. E probabilmente avrebbe dipinto con maggiore vigore l'ambiente familiare claustrofobico nel quale è immersa la ragazza del titolo. Questo non per togliere meriti alla fatica del giovane regista ( che può fare, comunque, di più ) ma per sottolineare come ci siano ottimi spunti nel suo film che, in mani  più ispirate, avrebbero dato probabilmente un ancor più interessante risultato. Lise, la giovanissima protagonista del film, è giudicata in corte d'assise, accusata di aver ucciso la propria migliore amica per " futili motivi " ( un video compromettente postato su internet ). Avendo sempre affermato la sua innocenza durante l'inchiesta , messa in libertà provvisoria in attesa del verdetto, porta, come in casi consimili, un braccialetto elettronico alla caviglia che ne controlla i movimenti. Simbolo quest'ultimo, fin troppo evidente, del tentativo della società, del " contesto " diremmo noi , di coartarne, limitarne la prorompente,  sorda e quasi animalesca vitalità . Una vitalità prossima alla sregolatezza nei costumi ma forse ( lo scoprirà chi vedrà il film ) non necessariamente propedeutica alla violenza. Ben girato, felpato, sornione quasi nella descrizione del " milieu " familiare della giovane ( la madre è interpretata da Chiara Mastroianni, figlia di Marcello e di Cathérine Deneuve ) la seconda parte del film si svolge quasi interamente nell'aula di tribunale dove viene processata la ragazza. Qui, pur mantenendo sufficiente vigore drammatico e finezza nel ritratto dei personaggi, Demoustier si arena un po', non trovando quel colpo d'ala che  avrebbe dato probabilmente all'intero film maggior respiro e più convincente epilogo. Rimane l'atmosfera serrata, inquietante quasi, della pittura familiare, la buona prova degli attori ( la sorella del regista, Anais,  interpreta con scioltezza un pubblico ministero che sembra, anche caratterialmente, l'antitesi dell'imputata ) e la sensazione che il giovane Stéphane potrà darci , in futuro, prove ancor  più consistenti.

Ma il film più ambizioso, e più riuscito, di questa terna parigina è senza dubbio " Les Misérables ",  annunciato (coronavirus permettendo ) sui nostri schermi per le prossime settimane, grande successo di pubblico in Francia ormai da qualche mese anche perchè tratta del problema esplosivo delle " banlieues " intorno alla capitale abitate dalle seconde e terze generazioni di immigrati. L'opera, come si può intuire, prende provocatoriamente il titolo dal capolavoro di Victor Hugo per manifestare il convincimento  che la questione sociale, ai nostri giorni, ha cambiato pelle ma resta, come nel secolo XIX°, una spina nel fianco di una società dove le diseguaglianze, ma soprattutto la colpevole indifferenza dei poteri pubblici, costituiscono ancora un elemento caratterizzante. Presentato a Cannes la scorsa primavera e vincitore del premio speciale della giuria del Festival, è il primo lungometraggio di un giovane francese originario dell' Africa Occidentale, Ladj Ly, che quell'esperienza umana conosce bene perchè, prima di darsi al cinema, dapprima  con mezzi di fortuna e poi in forma sempre più professionale,  essa è stata la sua. Per la prima metà il film sembra quasi un documentario, certamente impressionante ma a volte un pò lento, della vita nel sobborgo di Montfermeil, nei grandi casermoni dove vive , e spesso forzatamente ozia o delinque, un'umanità composita (magrebini e africani in prevalenza ma anche immigrati di altra provenienza ). Una popolazione  verso la quale lo sforzo di integrazione- certamente insufficiente - non riesce a dare soddisfacenti risultati e finisce coll'alimentare crescenti sentimenti di  irrequietezza , di sfiducia e di astio verso la società francese ed i suoi rappresentanti ufficiali. Nella seconda parte, focalizzatosi su un banale episodio che sfocia peraltro in un tesissimo confronto con la polizia, il film prende decisamente quota ed assume connotazioni altamente drammatiche ed un respiro ben più ampio, non immeritevole dell'accostamento alla polemica sociale e all'afflato umanitario del romanzo di cui riproduce il titolo. Ly sa indubbiamente come si manovra la macchina da presa e ci regala a tratti immagini vigorose, di dolorosa bellezza, autentiche, senza lenocini. Nel suo film non ci sono buoni e cattivi e tutti - potremmo dire -  hanno le loro ragioni, il che naturalmente rende la questione ancora più difficile ed impossibile, per lo spettatore, il prendere partito per gli uni o per gli altri. Al termine delle quasi due ore di proiezione si conserva ancora una forte emozione ed il ricordo di uno spaccato sociale descritto con toni giusti ed efficaci nella sua potenziale tragicità. Purtroppo la questione della violenza nelle "banlieues " non farà probabilmente un passo in avanti con questo film. Ma certo il cinema francese ha trovato con Ly, se questi saprà tener fede alle promesse evidenziate con il  primo film, una nuova voce piuttosto interessante e ricca di talento. Intanto ieri sera , nella cerimonia di consegna degli" Oscar " francesi (i " Césars ") " Les Misérables " è stato consacrato miglior film  del 2019.


Veuillez trouver, svp, ci-dessous mon court commentaire en francais sur ces films :

Parmi les films les plus récents de ces derniers mois tournés ou produits en France, le premier film de la jeune metteuse en scène franco-tunisienne Manele Labidi, " Un divan à Tunis " fait preuve de beaucoup de subtilité et d'adresse en maitrisant fort bien son histoire de psychanaliste débutante en plein milieu arabe et musulman, entre espoir d'une libéralisation des moeurs et contraintes sociales omniprésentes.
" La fille au bracelet " par contre , du  metteur en scène Stéphane Demoustier, jeune et prometteur, nous déplace dans une Cour d'Assises ou est jugée une très jeune fille accusée du meurtre de sa meilleure amie. Moins film policier que portrait psychologique et social facon Chabrol, le film est convaincant de par le jeu des acteurs et une mise en scène sèche et presque volontairement effacée qui aurait quand meme profité d'un souffle plus vigoureux dans sa deuxième partie.
" Les Misérables " par le jeune lui aussi Ladj Ly,francais originaire de l'Afrique de L' Ouest, est le film le plus intéressant qu'on puisse voir en ce moment à Paris. Il vient tout juste de remporter, d'ailleurs , le " César " pour le meilleur film francais de 2019. Cette puissante incursion dans la banlieue parisiènne de Montfermeil  ou les difficultés d'intégration et les dérapages de tout genre  sont à l'ordre du jour, nous impressionne pour l'esprit humanitaire et l'objectivité dont elle fait preuve, tout comme pour la maitrise du moyen cinématographique montrée dans le filmage de scènes d' émeute pas faciles à tourner.


Please find here my short commentary in English on these films :

Three french films may be wiewed, among others, on the parisian screens these days which are of some interest and artistic value.
" Un divan à Tunis "  ( " A couch in Tunis " ) by the franco-tunisian Manele Labidi is very amusing, though bitter-sweet, showing what may happen to a young woman who wants to introduce psychoanalysis sessions in an arab muslim world predominantly male and chauvinistic.
" La fille au bracelet " ( " The girl with an electronic tag " ) is mainly  set in a grand jury court where a young girl is judged for having killed , according to the prosecution, her best female friend. Directed by Stéphane Demoustier, the fim  depicts with  cinematic " bravura " and sociological exactitude a story of family network and  youth incertitude.
" Les Misérables " ( borrowing the title from the Victor Hugo colossal novel ) has recently been awarded the " César " prize for the best french film of 2019 and deserves the public acclaim surrounding its screening. The highly dramatic plot, though fictionary, is kind of a documentary on a Parisian outskirts town called Montfermeil , inhabited mostly by second and third generations of arab and african immigrants,and on the difficulties of their integration within the french society. Great film indeed, vibrant, powerful, absolutely worthseeing.







sabato 15 febbraio 2020

" ALICE E IL SINDACO " di Nicolas Pariser ( Francia,2019 ) / UNA POSTILLA SUGLI OSCAR

Il cinema francese, in passato piuttosto disattento alle problematiche pubbliche, si dedica da qualche tempo con maggiore intensità a vicende e personaggi in presa diretta con la società, la politica, le lotte sindacali che agitano questi nostri anni di complessivo declino. "Gilets jaunes " e gli ultimi ripetuti scioperi  hanno nuovamente acceso i riflettori sulle condizioni economico-sociali del nostro vicino d'Oltralpe, mostrando quanto esse siano preoccupanti e controverse nella percezione dei più . Di conserva anche i film che ci arrivano dalla Francia evidenziano  un maggiore interesse in tale direzione, traducendolo in storie in cui l'elemento politico sociale non è più soltanto sullo sfondo ma balza spesso in primo piano. E' della scorsa stagione il bellissimo " En guerre ", di cui abbiamo parlato, su di un lungo, disperato sciopero volto a scongiurare la chiusura della filiale francese di una grande multinazionale. Ed altri film recenti, anche se apparentemente trattano d'altro, non possono non richiamare  problemi e drammi della collettività.
Non c'è dramma invece, ma sottile dialettica, nel discreto film di un regista alla sua seconda prova, Nicolas Pariser, arrivato ora anche qui da noi. Non si può dire peraltro che " Alice e il sindaco ", pur con toni ed accenti meno concitati di quelli di altre opere delle ultime stagioni, non affronti anch'esso un tema centrale per la vita collettiva. Lo fa a livello di comunità locale  giacchè la finzione ci porta nel municipio della seconda città di Francia, Lione, ma il discorso può allargarsi facilmente a quella nazionale. La politica, sembrano chiedersi i personaggi ( il sindaco, appunto, ed una giovane laureata in belle lettere che è chiamata ad affiancarlo come " elaboratrice di idee " ) risiede tutta e soltanto nel pragmatismo e nella flessibilità che sempre di più apertamente la caratterizzano ? Oppure anche  il semplice amministrare  una città chiama ancora in causa quell'elemento idealistico, diremmo quasi quell' anima, quella visione dello sviluppo dell'uomo e della società, che si impone alla riflessione di chiunque voglia impegnarsi nella vita pubblica ? Bellissimo tema, naturalmente, che l'autore ( regista e sceneggiatore ) tratta con delicatezza, senza l'atteggiamento moralistico ed infiammato che ci si potrebbe attendere. Il dilemma, naturalmente, rimane tale anche alla fine del film.

 L'immaginario (ma non tanto) sindaco di sinistra Théraneau, che dice di vivere per la politica 24 ore su 24 e di non poterne fare a meno, sembra in verità totalmente affogato in una routine sempre più distaccata dalla realtà sociale. La giovane Alice che gli viene affiancata per ridargli un pò del necessario carburante di concetti e di idee, consiglia saggiamente umiltà, realismo ma anche coraggio ideale ed autentico (ri)contatto con la base dei militanti e dei cittadini. Nè l'uno nè l'altra riusciranno nell'obiettivo di ridare speranza alla politica con la "p" maiuscola. Ma l'esperienza condotta in comune li avrà (forse ) fatti maturare. Finale aperto , come si vede, non necessariamente pessimista ma solo moderatamente speranzoso. E come potrebbe essere diversamente, alla luce delle difficoltà che governanti ed amministratori provano nel mediare attraverso la politica i confitti e le problematiche sempre crescenti nella odierna realtà del quotidiano " vivere insieme " ?
Coraggioso nell'affrontare un tema così delicato e complesso, il film ha il merito di introdurre in un ordinario spettacolo cinematografico concetti e stimoli di particolare levatura. Non direi peraltro, che al di là del tono garbato ed insolito per un film " politico ", esso si distingua per valori cinematografici particolarmente spiccati. La sceneggiatura è a volte un pò troppo disinvolta e l personaggi di contorno appena abbozzati. Nè la psicologia di Alice e quella del sindaco sono sempre totalmente chiare. Se questi sono i limiti di un film tutto sommato gradevole e stimolante, i suoi punti di forza risiedono nella regia e nell'interpretazione. Pariser ha grande abilità nel costruire le scene, muovere la macchina da presa con precisione e fluidità capaci di imprimere al film il giusto ritmo. I due interpreti principali sono altrettanto encomiabili per immedesimazione nei rispettivi personaggi. Fabrice Luchini, grandissimo commediante con il rischio di eccedere  talvolta nel suo amore per la parola " recitata ", qui mi è parso assai misurato, a tratti perfino commovente nella immagine disarmata di un  politico in " panne " di forza propulsiva. Giudico sulla base della copia che ho visto con il doppiaggio in italiano e quindi faccio riserva di verifica se mai dovessi cogliere al volo la versione originale. Così come  Anais Demoustier, nella parte di Alice,mi è parsa fresca, spontanea, con quel tanto di ingenuità e di spregiudicatezza che si addice al personaggio. Forse, anzi certamente, tutto questo non basta per trasformare un film abbastanza blando nel suo sviluppo drammatico in una opera serrata e convincente al cento per cento. Onore peraltro a chi, almeno in Francia,  ha il coraggio di darci, come dicono gli inglesi, cibo per la nostra mente.

Se dovessi dire, passando ad una sintetica riflessione sulla recente assegnazione degli " Oscar",quanto sia rimasto sorpreso dovrei rispondere che lo sono stato parecchio. Abbiamo ricordato altra volta che gli " Academy Awards " sono il frutto di una votazione che riunisce più di 8.000 ( ! ) giurati appartenenti a tutte le professioni, anche le più " parcellizzate " dell'industria cinematografica. Non è un premio dato dai giornalisti o dai critici ed i relativi verdetti, nelle varie categorie, possono essere a volte alquanto discutibili. Oltretutto  il processo decisionale è abbastanza opaco e quindi è difficile ricostruire, in mancanza di esplicita motivazione, cosa abbia influenzato i giurati. Il premio al miglior film ( che , trattandosi di film non di lingua inglese  meglio sarebbe stato confinare nella categoria degli " stranieri " dove ha egualmente vinto ) è andato , come si sa , al coreano " Parasite ". Ed addirittura il suo regista e sceneggiatore si è aggiudicato anche  i relativi premi di settore. Non posso essere d'accordo , anche se il film ha il suo indubbio valore. Ho l'impressione che- come succede ormai anche per il " Nobel " letterario - si sia voluto premiare soprattutto una particolare cinematografia o addirittura un'intera area geografica. La Corea del Sud e l' Asia in generale producono oggi opere assai interessanti e ben riuscite. Ma allora, in questo spirito e negli anni scorsi, altri registi ed altri film avrebbero con maggior merito potuto essere premiati con i massimi riconoscimenti. Il mio favorito, guardando la " short list " de papabili, era " Piccole donne ", sia come miglior film , migliore regia ( grandissima Greta Gerwig ) e migliore sceneggiatura . Peccato, ma sono sicuro che la giovane cineasta americana saprà rifarsi in avvenire. Nulla da dire sul premio al miglior interprete principale maschile ( il formidabile Joaquin Phoenix di " Joker " ), non posso giudicare l'Oscar " femminile " andato a Renée Zellwegger ( "Judy" ) perchè non ho visto il film . E comunque, questo voglio dirlo, in concorso non c'erano due o tre dei migliori film americani del 2019 : " Ad astra " di James Gray, " " Un giorno di pioggia a New York " di Woody Allen e " Richard Jewell " di Clint Eastwood. Gli ultimi due, purtroppo va ricordato, esclusi per ragioni contenutistiche o antipatie per i loro autori, non certo per demeriti estetici. Anche il cinema appare sempre più influenzato, nella percezione dei suoi valori, da fattori estranei al merito artistico, volti piuttosto ad assecondare lo " spirito dei tempi " e a seguire la corrente della " correttezza ideologica ".


Veuillez trouver ci-dessous, svp, mon court commentaire en francais sur le film :

" Alice et le maire " est un gentil petit film sur la politique. Politique des villes, puisque la fiction nous emmène à la mairie de Lyon. Mais le discours sur la politique  forcemment "politicienne " , qui ne saurait pas néanmoins négliger les idées et une clairté idéologique suffisante, peut evidemment s'élargir à d'autre niveaux plus hauts et plus amples. La dialectique entre le maire de gauche Théraneau ( Fabrice Luchini toujours superbe ) et Alice, la jeune  attachée à son cabinet qui doit lui "donner des idées " pour son action municipale ( attrayante Alice Demoustier ) est presque toujours intéressante dans un film qui a des mérites aussi pour la mise en scène de Nicolas Pariser. Si le film nous laisse un peu sur notre faim cela est du plutot à un scénario qui aurait démandé davantage de véritable tension dramatique et un peu plus de courage en traitant l'argument . A voir quand meme si on a du temps. Curieux et fort peu intéressés au sujet du film , s'abstenir.

Please find here my short commentary in English on the film :

" Alice and the Mayor " is a film on politics, the necessary underlying pragmatism and ideas that should support any political action. Set in the city of Lyon, the problem is tackled at municipal level. But its meaning goes clearly beyond ,being relevant at the highest level. Very well performed by Fabrice Luchini, one of the " monstres sacrés " of French cinema and the  handsome, intelligent ,young actress Anais Demoustier, the story is remarkably directed by moviedirector and screenwriter Nicolas Pariser. Dialogues, as usual in French films, are mostly interesting and entertaining but this " Alice and the Mayor " lacks perhaps a bit in dramatic tension and more clarity in the psychological evolution of the main characters. To be seen, anyway, by the fans of contemporary French film and the ones to whom politics is the favourite subject.




giovedì 6 febbraio 2020

" PICCOLE DONNE " di Greta Gerwig ( USA, 2019 )

Ridurre un romanzo  per lo schermo cinematografico (e già il termine " ridurre " suggerisce una costrizione, una compressione del testo  nel particolare " format " di un film e quindi  un'operazione tutt'altro che semplice ) è impresa tentata mille volte con esiti alterni. Abbiamo opere letterarie di grande valore che hanno avuto trasposizioni francamente deludenti  ed altre di assai minore risalto estetico - paradossalmente il caso più frequente - che  al cinema hanno acquistato, per così dire, qualità che alla semplice lettura non erano affatto evidenti. Pleonastico chiosare sul fatto che esprimersi per immagini in movimento, sia pure qua e là accompagnate dal dialogo, differisce assai, come tecnica, dal costruire un racconto, dall'evocare psicologie e stati d'animo, con il solo ricorso alla parola. Più  utile soffermarsi sulla circostanza che  colui o colei che pone mano ad un'opera letteraria, romanzo o racconto che sia, allo scopo di farne un film, trova dinnanzi un  importante nodo da sciogliere. Prima ancora, infatti, della scelta della misura in cui mantenersi  fedele al  contenuto del testo, l'interrogativo è quello sul modo in cui dar vita ad un immaginario visivo che corrisponda, nello stile e nell' atmosfera complessiva, alle intenzioni, diremmo alle " ragioni narrative "  del suo autore. Di qui opere cinematografiche che, nel timore forse di tradire l'ispirazione originaria del libro, ne seguono passo passo il percorso espositivo dei fatti e delle situazioni, scorciando naturalmente dove necessario  per contenere la vicenda nei tempi  concessi ad un film. Mentre altri, coraggiosamente, si inoltrano su vie più ardimentose. Invece di un semplice "adattamento ", sia pure a volte di grande gusto e sostanziale aderenza allo spirito dell'opera letteraria, preferiscono tentare un'operazione più personale : quella, in sostanza, di dar vita ad una creazione che, pur traendo spunto dal libro e mantenendosi  in linea con il suo significato, risulti da questo  maggiormente autonoma e più propriamente cinematografica. Tale è il cammino intrapreso oggi con successo dalla giovane americana,appena trentaseienne, Greta Gerwig, nel portare sullo schermo il bel libro " Piccole donne " di Louisa May Alcott che già  altre tre volte era stato adattato per il cinema nell'epoca del sonoro dandoci opere di importanza diversa ma tutte interessanti.

Cosa ha fatto, dunque, la Gerwig per scrivere e dirigere quello che, a tutt'oggi, è il miglior " Piccole donne " della breve storia del cinema, riuscendo a mantenersi fedele all'atmosfera  calda ed ottimistica del libro, cristallizzata nel ricordo di milioni di lettori, ma al tempo stesso firmando un'opera molto personale e che aggiunge ulteriore spessore al testo letterario ? Con coraggio e a rischio magari di scontentare qualcuno ha destrutturato il racconto e lo ha ricomposto secondo una sintassi, cioè un susseguirsi di sequenze, che non è più quella cronologica e lineare del libro ma risponde invece alle sue motivazioni più profonde, a quella vena che come un fiume carsico scorre nascostamente lungo tutte le pagine. Le quattro ragazze March,solidali tra di loro ma diverse per aspirazioni, capacità e carattere, non sono infatti solo le protagoniste di una gradevole storia sentimentale e moraleggiante, costellata di episodi ora buffi e vivaci, ora patetici e romantici. Nelle loro vicende , in un' America che sta uscendo dalla guerra civile abbandonando le illusioni dei padri fondatori ed in cui le differenze sociali e di genere si vanno consolidando, il libro della Alcott è sorprendentemente anticipatore , infatti, di inquietudini e tensioni ideali verso una vita più giusta ed autentica, verso un mondo più egualitario nei rapporti tra uomini e donne, che daranno vita, nei decenni successivi , a robuste correnti di pensiero e di azione fino all'odierno femminismo.Essere povere e donne, con un padre in guerra, negli anni sessanta del secolo XIX, è un'aspetto del libro non secondario, anzi il necessario contesto per dare un senso meno epidermico all'ascesa personale, sociale e professionale, sognata e tenacemente perseguita dalle "piccole donne". Ecco allora che il film della Gerwig prende intelligentemente le mosse dall'aspirazione letteraria di Jo ( in cui si delinea la figura della stessa Alcott ), una Jo che vediamo, all'inizio del film, già a New York  ad intraprendere una problematica carriera di scrittrice. E si conclude proprio quando Jo, sposate Meg ed Amy, morta prematuramente Beth- il personaggio più fragile e toccante - può dare alle stampe il libro in cui ha adombrato autobiograficamente le vicende della sua famiglia. E all'interno di questo percorso circolare, imperniato sulla figura  " forte " ed emblematica dell'intera storia raccontata dalla Alcott, ecco collocati i vari episodi significativi del libro. Non più organizzati, come si diceva, secondo l'ordine originario , in un rigida successione temporale, ma evocati  più liberamente di volta in volta dai sentimenti , dal ricordo, dalle emozioni dei vari personaggi , in una serie spesso di " flash back", di visioni retrospettive. Procedimento che può leggermente lasciare perplesso, all'inizio, lo spettatore. Ma che si rivela man mano quanto mai funzionale, fluido e scorrevole, per ricomporre nella giusta prospettiva episodi, situazioni e stati d'animo che fanno di questo piccolo-grande libro un testo  autenticamente " moderno ".

L'eccezionale bravura di Greta Gerwig nel dare vita ad una versione cinematografica estrememamente convincente di " Piccole donne " e, nel contempo, ad una opera personalissima e sofferta qual può essere la storia di giovani donne che aspirano a misurarsi con il potere ( economico e/o patriarcale ) per realizzare le loro aspirazioni, risiede innanzitutto nella sceneggiatura, come si è cercato di spiegare. E la Gerwig, autentica cineasta " globale " ( sceneggiatrice, regista ed in passato anche attrice ) ha " scritto " un film cucito a meraviglia in tutte le sue parti, solido e coeso, ironico e pensoso al tempo stesso. Ma dove forse è stata ancora più brava è nella regia. Fatte le sue esperienze iniziali di direzione con un discreto primo lungometraggio due o tre anni fa, " Lady Bird ", che rievocava la sua adolescenza in California, qui la Gerwig ci offre immagini davvero sontuose, di rara armonia plastica, di una sapiente eppur istintiva composizione: figure umane che acquistano rilievo quasi tridimensionale tanto sono vive e palpitanti, interni ed esterni di struggente bellezza, movimenti scenici di un ritmo e di un brio che li assimila - è stato giustamente notato - a quelli di un " musical ", senza canzoni ma con un commento musicale di grande finezza.  Se  dirigere un film vuol dire, nella terminologia francese , " mise en scène " credo che pochi, in questa stagione ( forse Gray, Eastwood o Allen per rimanere negli USA ) hano saputo come lei far letteralmente balzare fuori del quadro, per la loro immediatezza evocativa, personaggi ed ambientazione. E che dire della recitazione, cui va reso egualmente un vibrante omaggio per l'esito trionfale del film .Jo è Soirse Ronan, ormai matura ( a soli 25 anni ! ) per personaggi sempre più complessi e le sue sorelline ( tra cui la migliore è Amy, nel mondo Florence Pugh ) tutte molto brave. Accattivante, e molto personale, l'interpretazione della veterana Laura Dern nella parte della Mamma. Saporito il " cameo " di Zia March della grande Meryl Streep. Ma il  più interessante come recitazione mi è sembrato Timothé Chalamet ( il giovane protagonista di " A rainy day in New York " ) davvero abile ed ispirato nell'ingrata parte del ricco Laurie. Scenografie e costumi  non solo di maniacale precisione nel riprodurre l'epoca della vicenda ma appropriati, come tono, tinte, volumi, in ciascuna scena. Fotografia, infine , calda , avvolgente, ora luminosa ora ricca di ombre e di contrasti, quali poche simili si son viste in questa stagione. In definitiva, un film davvero bello ed intelligente, da salutare come l' epifania di una eccezionale autrice di cinema.

Please, find here my short commentary in English on the film :

" Little Women " by Greta Gerwig, young and talented screenwriter and movie director, innovates on the traditional way of adapting for the screen Louisa Alcott's novel ( the most celebrated version being Merwin Le Roy's one,  shot in 1949,  starring June Allyson, Elizabeth Taylor, Janet Leigh, and an incredible Rossano Brazzi in a " cameo " role). Instead of following, step by step, the succession of episodes related in  the book, the film takes more than some narrative and visual liberties  reconstructing in a very personal mode the atmosphere and the significance of the story. Picture of an emerging, more conscious and self-liberating womanhood  in the midst of the  American Civil War, this " Little Women " is nevertheless a warm, intimate tale of love, dedication to family values and yet aspiration to success, money and...power ( women power, of course ). Beautifully directed, rich in superb and superior images, the actors are outstanding, starting with Saoirse Ronan ( Jo ) with the remarkable presence of Timothé Chalamet ( Laurie ) and veteran actresses Laura Dern and Meryl Streep. Design, photography and musical score all  deserving a particular mention.


Veuillez trouver, s.v.p. mon court commentaire en francais sur le film :

" Les filles du docteur March ", livre de chevet de plusieures générations de jeunes filles ( et de quelque garcon ) a été transposé à l'écran maintes fois. Cette dernière version , qui porte la signature ( scénario et mise en scène ) de la jeune et très douée cinéaste américaine Greta Gerwig, est la plus bouleversante de par sa liberté et modernité de ton. Au lieu de suivre la stricte succession des épisodes du livre, Gerwig réconstruit , pour ainsi dire,un itinéraire plus correspondant à la géographie intime des  sentiments et des  idéaux arborés par les différents personnages , en particulier Jo, l'écrivain en herbe qui reve d'une carrière dans la littérature. Il en sort non sulement une histoire passionante de croissance humaine et professionelle de jeunes créatures de la gens féminine, mais aussi un film ironique et vibrant, riche en description somptueuse d'une époque, merveulleusement juste et bien joué par les différents acteurs. Si à ca et à une mise en scène d'une étonnante beauté visuelle on ajoute de décors très soignés, une musique bien captivante et une superbe photographie, on aura là un véritable , petit chef-d'oeuvre.

sabato 1 febbraio 2020

" 1917 " di Sam Mendes ( Gran Bretagna / USA, 2019 )

L'ultimo film di Sam Mendes (il regista di " American Beauty " nel 1998 e, più di recente, di  un paio di James Bond ) sta avendo dovunque, in questo mese di gennaio, un successo strepitoso. La critica - almeno quella che si è espressa sin qui - lo va incensando come una sorta di capolavoro. Il pubblico riempie le sale per vederlo e, anche qui in Italia,questo  "1917 " promette di raggiungere e superare un autentico primato di incassi. Mi dispiace quindi, sinceramente, dover ammettere che a me non è piaciuto  per niente. Sarà un mio difetto ma sono rimasto estraneo al fascino che, sento dire, il film eserciterebbe su chiunque lo vada a vedere. E il mio atteggiamento, vi assicuro, non è figlio di una sorta di pregiudizio sfavorevole verso i film che ottengono grande successo di cassetta riscuotendo nel contempo i giudizi entusiastici degli addetti ai lavori . "La dolce vita" di Fellini, esattamente sessant'anni or sono nel febbraio del 1960 suscitò, appena uscito, grandissimo clamore per le novità di forma e di contenuto e piacque tremendamente al pubblico ( tra cui, emozionato  nella folla del cinema "Fiamma " di Roma, c'ero anch'io). Un film che è graditissimo a folte schiere di spettatori non può essere etichettato, per questo, sempre e solo come un "film di cassetta" . Né la circostanza che i primi giudizi critici siano molto favorevoli  è un motivo per pensare ad una sorta di cospirazione volta, mentendo spudoratamente, ad amplificarne il successo commerciale. Penso piuttosto, in questo caso, ad una sorta di diffuso equivoco  sulla natura del cinema come forma di espressione o, se preferite, di nebbia estetica e morale che ha causato qualche confusione e che, per fare chiarezza, occorrerà  dissipare.

 Il film - ormai anche chi non lo ha visto ne è al corrente - è la storia di due giovanissimi soldati inglesi incaricati,  sul fronte francese durante la prima guerra mondiale, di una missione davvero "impossibile". Contro i mille pericoli costituiti da un nemico insidioso e contro il poco tempo a disposizione essi, soli, appiedati e senza alcun supporto, debbono raggiungere infatti prima dell'alba un altro reparto del loro esercito per avvertirlo di non attaccare, contrariamente agli ordini ricevuti in precedenza, lo schieramento tedesco evitando così di cadere in un mortale, sopravvenuto tranello.Per le due ore o poco più di durata del film la cinepresa bracca letteralmente i due soldatini nella loro affannosa missione mediante quello che sembra un unico, ininterrotto "piano sequenza" ( cioè una ripresa senza " stacchi " da una inquadratura all'altra, fluida e continua , con la cinepresa che si muove all' interno del piano medesimo per seguire i movimenti dei personaggi e lo sviluppo dell'azione ).In realtà, come risulta  evidente, il " montaggio " c'è anche qui, appena mascherato, anche se le inquadrature restano insolitamente lunghe e costituiscono comunque un risultato tecnico non indifferente. L'obiettivo insito in  una scelta formale come questa è quello, intuitivamente, di coinvolgere maggiormente lo spettatore, di farlo sentire come se vivesse realmente gli avvenimenti raffigurati sullo schermo : emozionarlo, impaurirlo, condurlo conseguentemente ( si presume ) a riflettere sull'orrore e l'inanità della guerra, ogni guerra. Bene, non sarò certo io a condannare finalità di questo genere. I film di guerra e quelli, tra di essi, apertamente antimilitaristi sono una folta schiera e vi si annida più di un capolavoro.Il primo nome ad emergere, visto che si parla della " grande " guerra, è quello di "Orizzonti di gloria ", lo splendido film di Stanley Kubrick, girato nel 1957 ed ambientato su quello stesso fronte francese dove si svolge l'azione di "1917". Fare confronti è sempre un tantino ingeneroso e non tiene conto dell' " unicum " che in fondo rappresenta ogni film , come del resto ogni altra opera d'arte. Eppure, come non rifarsi al film di Kubrick- esteticamente superbo, rapido ed asciutto, ideologicamente coerente ed onesto - per accorgersi di quanto il film di Mendes sia figurativamente debole e politicamente inconsistente. Con grande economia di mezzi, uno stile semplice eppure potente,  "Orizzonti di gloria " ( che ha anche al suo interno uno o più,  ma ben  contenuti, piani-sequenza nelle trincee di ardimentosa bellezza ) riusciva a far condividere allo spettatore emozionato e sconvolto un sicuro, forte sentimento antibellicista. " 1917 ",con tutto il suo sfoggio di bravura formale e di orrori di ogni sorta, non riesce che ad ingenerare reazioni di epidermica paura, quasi fossimo entrati in uno di quegli innocui  " tunnel dell'orrore " che abbondavano un tempo in ogni luna-park, e a sollecitare, al più,  la scontata sensazione dello spettatore che è certamente meglio starsene sul divano di  casa propria ( o su una comoda poltrona di cinema ) che andare in guerra  a rischiare la pelle .

Spettacolare, nel senso più strettamente letterale del termine, il film lo è certamente. La bravura dell'operatore alla cinepresa- che ha certamente, specie all'aperto, dovuto sormontare difficoltà non indifferenti - è fuori discussione. Ma il partito preso formale del regista, quel lungo vero o falso che sia piano-sequenza, è esteticamente e ideologicamente valido ? Riesce a comunicarci, come probabilmente vorrebbe, un vero senso di sgomento e di angoscia e, insieme, il ripudio della violenza bellica, della inutile , sanguinosa " matta bestialite " che assale l'uomo quando va in guerra ? Sulla scorta di quanto ho visto e "non" provato, ne dubito fortemente.La tecnica di per sé non è sufficiente per convincerci delle intenzioni dell'autore. Queste possono anche essere "vestite" da questa o quella inquadratura, dal ritmo impresso alla successione delle sequenze, dal tono generale del  film così come emerge dalla fotografia, dalla scenografia, dalla musica, dalla stessa recitazione. Ma " dietro " , o meglio " prima ", occorre pure che a sorreggere la tecnica vi siano - e siano appunto visibili, almeno in filigrana - le " ragioni morali " ( nel senso della specifica visione della vita, con il bene , il male, il peccato, la redenzione eccetera ) che l'artista non può non avere ed è naturalmente portato, quando è vero artista, a riversare nella propria opera. Non so più quale critico francese ( forse André Bazin ) dicesse una volta che, al cinema,   " il travelling implica una morale ".  Intendeva così sottolineare che la tecnica, anche quella apparentemente più neutra ( il " travelling " è il movimento della macchina da presa impiantata su di una rotaia scorrevole per poter effettuare, appunto, una carrellata laterale, oppure in avanti o all'indietro ) deve corrispondere ad un preciso " punto di vista " ideologico del regista. Qui , purtroppo, Mendes non è  minimamente riuscito ad uscire dalla trappola di una bravura tecnica fine a sé stessa, avulsa da qualunque contenuto morale. Incapace di trasmettere autentiche emozioni perchè privo, all'origine, di una visione che superi l' angusto ambito della " forma " nel quale ha scelto di confinarsi. Film " di " violenza più che " sulla " violenza , semplice " avatar ", a tratti, delle figure iperrealistiche di tanti video-giochi che concorrono oggi a formare l'immaginario visuale dello spettatore medio, specie il più giovane, " 1917 "  resta ancorato ad un " significante " inibito di qualunque significato. Paradigma di morte che non trova riscatto in nessuna speranza di vita, cinema spogliatosi di qualunque trascendenza,  mezzo di espressione irrimediabilmente senza uno sbocco.

Please find here a short commentary in English on this film :

" 1917 ", the latest film by the english director Sam Mendes ( " American Beauty ", "Revolutionary Road " ) is having considerable success both by the public and the critics. As a matter of fact, this story of the First World War is purely based on technical elements of  some interest ( an apparent long single frame shot following two british soldiers on a dangerous and frightening mission ). What is totally missing here is a " vision " that might raise the film to something more substantial and morally consistent than some kind of " video-game ",  less a violent film than an appropriate reflexion on violence itself. Pity, "1917" ( candidate to 10 Academy Awards ! ) will not last in our memory of cinema lovers.


Veuillez trouver ci-dessous s.v.p. un court commentaire sur ce film en francais :

" 1917 ", dernier film de Sam Mendes, directeteur anglo-américain plutot controversé, est une grande déception. Pourvu d'une technique époustouflante ( tourné en digital, on le dirait  fait, en grand partie, d'un très long plan-séquence en extérieur qui a du surmonter pas mal de difficultés pour etre réalisé ) il est tristement dépourvu de toute " vision " personnelle sur la guerre et la violence qui puisse l'élever du statut de simple avatar des pires vidéo- jeux à  une véritable  réflexion sur ce qui emmène l'homme à tuer d' autres hommes. Dommage, voilà un film qui ménace de rester fort peu de temps dans la mémoire du spectateur cinéphile.