lunedì 25 giugno 2018

" EN GUERRE " di Stéphane Brizé ( Francia, 2018 )

Che cosa succede quando la filiale francese di una multinazionale tedesca decide di chiudere uno dei suoi impianti al fine di delocalizzare la produzione in Romania, gettando praticamente sul lastrico i mille e cento dipendenti ? E tutto ciò non  per una  mancanza assoluta di redditività di quello stabilimento. Ma semplicemente perchè i profitti che esso genera , a detta della Società e dei suoi azionisti, non sono abbastanza remunerativi del capitale investito. In pratica, perchè producendo altrove - con un costo della manodopera inferiore e maggiori sgravi fiscali -  la Società ricaverebbe ancora  di più. E tanto peggio per il personale dell'unità destinata alla chiusura, anche se, due anni prima ,  i sindacati interni avevano sottoscritto - e sempre rispettato -  un accordo quinquennale con la direzione con il quale, in cambio della  conservazione dell'attività produttiva e dei livelli di occupazione, si impegnavano dal canto loro a rinunciare a qualunque richiesta di aumento salariale.
Ecco una storia come purtroppo se ne sentono e vedono tante, in quest'epoca di globalizzazione  e di progressiva  deindustrializzazione di regioni europee un tempo fervide di attività ed oggi preda di una  crisi difficile da superare. E poco importa se, da un punto di vista strettamente economicistico, abbiano ragione azionisti e  amministratori delegati, forti oltretutto della libertà di intraprendere  assicurata loro dalle leggi vigenti. Per gli operai della fabbrica è un'autentica tragedia , specie se vivono in una zona industrialmente troppo " matura " e  dove non vi siano quindi concrete alternative di impiego.
Del tutto umano e comprensibile, quindi, che i salariati della filiale francese della multinazionale tedesca di cui stiamo parlando decidano di non accettare l'indennità di licenziamento offerta loro dalla Società e scendano in agitazione permanente a difesa dei loro posti di lavoro.

Ecco il punto di partenza del bellissimo film presentato a Cannes  poche settimane or sono e visto adesso nella rassegna milanese appena conclusasi. Il suo titolo , " En guerre ", richiama un vero e proprio scontro, quella che diventa fatalmente una  contrapposizione dai toni sempre più alti e concitati. Da un lato  i sindacati dei lavoratori della fabbrica destinata alla chiusura ( la CGT, molto di sinistra e particolarmente combattiva più una sigla indipendente e meno ideologicizzata ). Dall'altro la  coriacea direzione della filiale francese , in un primo momento, e poi  lo stesso , quasi irraggiungibile e pertanto mitico,  amministratore delegato della casa madre tedesca. Come in una vera guerra, strategia e tattica guidano le iniziative dei due contendenti, in un'altalena di speranze e di delusioni soprattutto da parte dei lavoratori. Questi ultimi, economicamente la parte più debole nella tenzone, riescono dapprima a tenere in scacco la controparte con un lungo sciopero che se rischia di ridurre il fatturato della fabbrica ( e pertanto, paradossalmente, di accelerarne la chiusura ) attira loro, d'altro canto,  un benevolo intervento dei poteri pubblici   e una certa simpatia dell'opinione pubblica . Ma i rapporti di forza  appaiono subito troppo sbilanciati. L'esasperazione cui giungono alcuni dei lavoratori, indotti a veri e propri atti di violenza nei confronti dei rappresentanti della locale confindustria e dello stesso " grand patron " tedesco, e le divisioni interne al movimento sindacale ( estremisti contro elementi  portati invece ad un tentativo di conciliazione economicamente più soddisfacente ancorchè perdente quanto alla conservazione dei posti di lavoro ) finiscono col minare la popolarità dell'azione  di lotta presso il grande pubblico. E quindi, fatalmente, col ritorcersi contro le tenui speranze  dei salariati stessi. L'epilogo - che non vi dirò - lascia l'amaro in bocca . Ma una appropriata postilla, aggiungo, potrebbe essere quello slogan del " maggio '68 ", di cui proprio adesso festeggiamo il cinquantenario, che affermava "  ce n'est que un début : continuons le combat !". La strada da percorrere, in effetti, è ancora molto lunga prima di arrivare ad una equa e soddisfacente composizione del fisiologico conflitto tra capitale e lavoro. Conflitto che sembrava andare attenuandosi, per la verità, negli scorsi decenni ed oggi appare  destinato a riacutizzarsi  a causa degli avversi fenomeni globali che sono sotto gli occhi di tutti.

Il film descrive la vicenda che ho cercato di riassumere adottando il punto di vista dei lavoratori in stato di agitazione, sposandone le inquietudini, la collera , le inevitabili rigidità di ragionamento ma anche la passione genuina, lo slancio teso in difesa del loro lavoro. Non è un film " neutrale ", voglio dire con questo. E' vero cinema politico, forzatamente " pedagogico " e dimostrativo.  Come quello di Loach ("Io,Daniel Blake " ) come quello di Guédiguian ( " La casa sul mare " ) come, almeno in parte, quello di Cantet ( " L'atelier " ), per restare alle opere delle ultime stagioni.  Ma, al pari dei film che ho appena citato non è manicheo. Non esalta come santi i sindacalisti e gli operai in sciopero e non bolla come démoni gli industriali ed i loro funzionari. Ognuno, proprio come in guerra, difende il suo " territorio ", le sue posizioni. L'altro, il " nemico ",  lo è indipendentemente dai suoi meriti o dalle sue colpe. Per una sorta di fatale, incoercibile dialettica economica che non può che spingere entrambi sulla via del conflitto, diremmo. Ecco dunque perchè lo scontro è doloroso, a volte tragico, privo di  un possibile " lieto fine " per gli uni e per gli altri , ma soprattutto per i lavoratori che rischiano ogni giorno riduzioni di orario e quindi di salario, licenziamenti, disoccupazione. Il regista e sceneggiatore Brizé, da questa situazione così apparentemente senza sbocco, ha tratto un film che ha il merito di emozionare, commuovere, far riflettere lo spettatore, magari turbarne la coscienza. Non  è necessario parteggiare per  uno dei due campi ( ma il regista " sa ", e ce lo fa vedere, chi rischia di più nella lotta ) quanto  prendere atto che il sistema economico attuale- pur se, con tutti i suoi difetti,secondo me resti razionalmente il migliore -  sia a volte profondamente  ingiusto e foriero di ulteriori divisioni e lacerazioni.  Senza una vera comprensione reciproca ed un'autentica volontà di superare il cozzo degli interessi contrapposti. " In guerra ", appunto, finchè qualcuno vinca e qualcuno sia sconfitto.

Un film che potrebbe essere monocorde e scontato, se raccontato in modo " classico ", diventa invece , miracolosamente, uno dei più cinematograficamente eccitanti di questo scorcio di stagione.  Brizé impiega una tecnica espressiva vicina a quella di un " réportage " televisivo, alternando alle lunghe ma movimentate sequenze delle riunioni tra sindacati e direzione della fabbrica, finti " telegiornali " che danno notizie ed immagini, forzatamente parziali e prive dell' antefatto e delle cause, sull'andamento della controversia. Ne deriva un ulteriore senso di " straniamento " rispetto alla virulenza del conflitto di cui noi spettatori seguiamo invece ogni più piccola evoluzione ed uno di "soffocamento" per la ripetitività degli argomenti delle due parti in causa e l'incomunicabilità tra di esse che ne consegue. Nervoso, spesso ripreso con una camera portatile ( tipo vero " film di guerra " ) ricco di primi piani in cui le reazioni dei protagonisti assumono una evidenza plastica di drammatica intensità,  " En guerre " non è mai noioso. Dà, è vero, come qualcuno ha notato, un vago senso di angoscia per l'incalzare delle sequenze e l'acutizzarsi del conflitto. Ma è adrenalina " buona " per lo spettatore, che lo spinge al coinvolgimento, all' emozione catartica, alla riflessione ricca dei continui stimoli che egli riceve. Grande cinema , dunque, e non solo semplice cinema militante ( che si esurisce cioè nella dimostrazione di una tesi preconcetta) ma opera che spinge in avanti le possibilità del cinema di raccontare una vicenda senza togliere ad essa quell'ambiguità - o ambivalenza - che ogni evento umano porta inevitabilmente con sè. La regia di Brizé è sovrana nelle descrizioni di ambiente, nel tratteggiare le tipologie umane , nel far continuamente " sobbalzare " l'azione drammatica, senza lasciarla adagiare nella prevedibile routine degli interminabili conciliaboli o dimostrazioni di forza di cui essa è inevitabilmente punteggiata. Fotografia splendida, con tinte ( necessariamente ) cupe ma smaglianti. Interpretazione ( quasi tutti attori non professionisti ) di sorprendente forza e misura al tempo stesso. Su tutti, l'unica " vedette ", quel Vincent Lindon che era già al fianco di Brizé ne " La legge del mercato " : espressivo, potente, tragico nella sua chiusura ideologica e nel suo idealismo " victorhughiano ". A Cannes il film non ha avuto neanche il più piccolo premio ma è stato ricompensato, dicono le cronache, dal più lungo applauso- quasi venti minuti - che sia stato registrato quest'anno.


martedì 19 giugno 2018

" SHOPLIFTERS " di Hirokozu Koreeda ( Giappone, 2018 )

Un plauso alle " Vie del Cinema ", la manifestazione che da qualche anno porta alcuni dei film di Cannes e di Venezia in anteprima a Roma e a Milano, per averci permesso di vedere " Shoplifters " ( titolo internazionale ) del giapponese Hirokozu Koreeda, vincitore della Palma d'oro di quest'anno, in anticipo rispetto ad  una sua auspicabile uscita nel circuito commerciale italiano. Che avverrà speriamo presto, considerato anche il consenso unanime che ne ha salutato la proiezione prima ed il massimo riconoscimento poi sulla " Croisette ". Ma le vie della nostra distribuzione,  si sa,  sono imperscrutabili ed è per questo che mi è parso opportuno  cogliere ora l'occasione per poterlo valutare .
Va premesso che quello del  regista e sceneggiatore del film in questione, pur noto ed apprezzato nei festival internazionali dove le sue opere hanno avuto spesso lusinghiera accoglienza, è un nome ancora poco conosciuto dal pubblico occidentale. Tutto il cinema giapponese, del resto, negli ultimi anni non ha riscosso  il forte interesse che hanno destato invece, per restare nella cinematografia asiatica, il cinema cinese o quello coreano. Lontani insomma i tempi di Ozu, Kurosawa , Mizoguchi, per citare i tre maggiori registi del cinema nipponico di tutti i tempi che, nel secondo dopoguerra, lo resero popolare in Europa e in Nord America.Questo Koreeda, autore da una ventina d'anni a questa parte  di film intimisti e imperniati prevalentemente sui rapporti all'interno di una famiglia, era passato qui da noi  abbastanza inosservato sino ad oggi. Ed è quindi un bene che l'attenzione mediatica , dovuta proprio alla incontrastata vittoria della sua ultima opera in una competizione che  presentava tanti ottimi concorrenti, ce lo faccia ora  conoscere meglio.

Dunque, vediamo. Siamo nella periferia di Tokio, in mezzo ad un intruglio abitativo da far impallidire perfino i più sfacciati "palazzinari" romani.  Alti casoni popolari ed abitazioni dall'apparenza più borghese  si giustappongono senza una qualche logica urbanistica, tra sopraelevate che si intersecano e sulle quali sfrecciano auto e treni superveloci, tra  centri commerciali tristi e levigati come in qualunque altra megalopoli del pianeta. In basso, rasoterra, in mezzo ad una stenta vegetazione sopravvissuta non si sa come, qualche misera baracchetta di pochi metri quadrati, lamiere e legno compensato, in cui vive l'umanità più minuta. Una di queste famigliole di diseredati che ci vivono ammassati l'uno sull'altro ( ma la maggior parte degli abitanti,anche di maggior reddito, non ha a disposizione spazi molto più ampi, nella capitale giapponese ) è quella nella quale siamo introdotti dopo poche inquadrature e che  è la protagonista del film. Il capofamiglia lavora saltuariamente come manovale, la donna con cui egli vive (forse sua moglie) porta a casa una paghetta come operaia in una fabbrica di vestiario, una figlia poco più che adolescente, bellina, si industria a guadagnare pochi spiccioli come ballerina in un "peep show " di infima categoria . C'è poi un ragazzino preadolescente  ( che, causa i lunghi capelli sulle spalle ed i tratti gentili, confesso di aver scambiato all'inizio per una femminuccia ) il quale ,da solo od  insieme ai genitori ( ecco il titolo del film ) pratica spesso e volentieri l'arte di trafugare con destrezza prodotti, alimentari e non, dalle scansie di negozietti e supermercati. Per sopravvivere , certamente. Ma taluni accenni di dialogo contenuti nel film  lasciano supporre che potrebbe anche esserci, da parte del padre che è il suo istruttore ed  istigatore, un desiderio di ribellione e di rivalsa per le ingiustzie della società. Sia come sia, se non abitasse una vecchia con loro, che tutti chiamano " nonna " e che  mette in comune la pensione di riversibilità del defunto marito ed arrotonda a sua volta in modo abbastanza misterioso, c'è da credere che se la passerebbero tutti molto, molto peggio. Anzi,  la loro generosità e disponibilità  li porta addirittura, come vediamo nella sequenza d'apertura del film, ad ospitare e praticamente adottare, sfamandola e vestendola, una povera bambinella infreddolita che vive nelle vicinanze, trascurata e lasciata sola dai suoi genitori immemori, che diverrà così la sesta abitante della loro baracchetta.

Raccontato così, il film potrebbe indurci a ritenerlo un nuovo esemplare di cinema miserabilista, costruito per  commuoverci e suscitare magari in noi un vago sentimento di protesta per la precaria condizione  di questa famigliola "sui generis". Un film di denuncia, insomma. Ma non è questo l'intento di Koreeda, anche se ovviamente nulla lascia supporre che egli  giustifichi il permanere di cospicue sacche di miseria nei paesi economicamente più avanzati come il Giappone. Il film , infatti, ed è qui il suo aspetto più nuovo ed  interessante,  alla misera esistenza della famigliola in termini di possesso di beni materiali contrappone   una autentica e  prepotente gioia di vivere tra i suoi componenti, una serena aspettativa di ciò che la vita ci riserva e che non ci è dato conoscere, unite ad  un grande amore ed attaccamento reciproco. Sensazioni, stati d'animo, che non annullano certo le difficoltà in cui essi si dibattono ma le sublimano, per così dire, in un sentimento panico in cui tutto trova la sua collocazione e la sua ragion d'essere : così la soddisfazione di un buon pasto ( i protagonisti ingurgitano, sgranocchiano , sbocconcellano  lungo tutto il film, quasi ad esorcizzare lo spettro della fame ) come  la comprensibile tristezza per un inconveniente o una improvvisa difficoltà, il piacere che può dare una povera gita al mare o  la stretta tra due corpi , il freddo ed il caldo , il sole e la pioggia, l'alternanza sovrana delle stagioni. Il sentimento profondo della natura, l'osservazione amorevole delle piccole cose  (un insetto su di una pianta, come una biglia di vetro che il ragazzino nel suo bugigattolo illumina con una piccola torcia elettrica e sembra rivelargli ogni volta immagini meravigliose) sono, come sappiamo,   caratteristiche proprie della civiltà e della filosofia orientale.  Qui divengono altrettante vie da percorrere  per lo spettatore occidentale che lo aiutano a capire meglio come questa famigliola di diseredati possa vivere in sostanziale serenità e in  un equilibrio emotivo davvero per noi sorprendenti. Mentre poi , e qui il regista introduce nella seconda parte del film la sua polemica garbatamentele politica, le istituzioni pubbliche di una società come quella giapponese, che ha pur  rimedi  e sollecitudine encomiabili per contrastare il "disagio sociale ", mancano proprio - nella loro fredda ed asettica efficienza -  di quella flessibilità, di quella compassione, in breve di quell'amore che abbiamo visto dominare i rapporti della stramba famigliola. Amore che è poi, sembra ricordarci questo film, l'unica ricetta  sicura per mitigare, dandole un senso,  la nostra  triste condizione umana.

Un film, come si può capire, che poggia su solidi valori : fiducia nell'uomo, amore universale, tolleranza reciproca. Ma non un film banalmente " buonista ". I personaggi vengono posti di fronte alle loro responsabilità, Koreeda sa che viviamo in un mondo duro e che ognuno deve fare la sua parte, crescere, migliorare sè stesso e gli altri, anche se poi il corso della natura e l'evoluzione ineluttabile degli eventi umani si incaricano di indirizzare la nostra esistenza. " Grazie " , questa è  la  semplice parola che sentiamo pronunciare dalla vecchia e saggia nonna quando sulla misera  spiaggia libera dove la famigliola è andata a prendersi un momento di vacanza osserva con affetto gli altri componenti che sguazzano felici nell'acqua. Ecco, essere grati alla vita, così come viene , per quel poco o quel tanto che ci dà. Basterebbe questo, da un punto di vista contenutistico, per battere le mani a Koreeda ed amare il suo film. Ma il film, siatene certi, ha pregi e significati " alti " anche da un punto di vista strettamente cinematografico. Se si entra nella sua  particolare  estetica  (tempi più dilatati che in una normale inquadratura del cinema occidentale, insistenza sulle piccole cose, volti dei personaggi scrutati, si direbbe, in ogni minimo anfratto delle loro espressioni, sovrano dominio della natura che incombe , l'estate, l'inverno, il sole e la pioggia ) il film è di una coerenza esemplare. Ogni immagine trasmette con delicatezza eppure con potenza espressiva i sentimenti e i valori di cui si è detto prima. Apparentemente con superiore semplicità, senza sforzo apparente. Ma Koreeda, pur ispirato, non lascia nulla all'improvvisazione e compie, in realtà,  un lavoro da certosino con i suoi collaboratori tecnici abituali. La fotografia è curatissima, netta e luminosa così nelle scene invernali come in quelle delle altre stagioni. La musica è particolarmente suggestiva , come  lo sono i suoni  dell'ambiente circostante ( quella pioggia che batte sulle lamiera della baracchetta quando il padre e la madre sono soli e si abbandonano ad un momento di intimità .. ).
Ho lasciato da ultimo gli attori, a noi ovviamente totalmente sconosciuti. Non perchè non meritino, ma perchè sono tutti egualmente bravi, grandi e piccini, mirabilmente fusi in unico , solido e delicato magma di emozioni, speranze e paure dalla abilissima direzione di Koreeda. Una menzione particolare, tuttavia,  per Sakura Ando, la madre. Quando, nell'ultima parte del film , il regista le dedica un lunghissimo primo piano in cui la vediamo mentre cerca di ricacciare indietro il pianto incombente, la recitazione regala all'intero film il suo momento più delicato e poetico. Ci porteremo dietro , per molto tempo, quello sguardo, quelle mani che cercano di frenare le lacrime sul viso. Un'ottima attrice, per un film che resterà a lungo nella nostra memoria.






sabato 9 giugno 2018

" L' ATELIER " di Laurent Cantet ( Francia, 2017 )

Ancora un bel film francese. Fortunatamente, un distributore italiano indipendente ce lo propone , sia pure in fine di stagione. Uscito in patria nell'ottobre del 2017- dopo essere stato presentato a Cannes nel maggio dello stesso anno- qui da noi rischiavamo di non vederlo affatto : non ha attori famosi, anzi tolta Marina Fois ( la protagonista femminile ) gli altri sono tutti esordienti, la storia non prevede  particolari colpi di scena, il regista poi  (Laurent Cantet)  è un austero quasi sessantenne che concede poco allo spettatore e, spesso, fa il "contropelo"alle sue aspettative. Insomma, il classico film da cineclub ? Non mi sembra. I temi che tocca ci interessano tutti ed il modo con cui sono esposti non può  lasciarci indifferenti.
Antoine ( il bravissimo , espressivo Mathieu Lucci ) è un giovane sui vent'anni che abita a la Ciotat, città portuale a 30 km.ad Est di Marsiglia. Disoccupato, incerto sul proprio futuro, partecipa con altri coetanei che si trovano più o meno nelle stesse condizioni ad un laboratorio di scrittura "creativa  "  ( l' "atelier " del titolo  ) organizzato dai servizi sociali  per tenere impegnati i giovani del luogo ed offrire loro  un'alternativa all'ozio forzato ed ai  rischi che solitamente ne derivano. Il laboratorio è animato da una famosa scrittrice ( una perfetta, inquietante Marina Fois ) calata dalla capitale, ci vien fatto di credere, più per trascorrere un periodo sulle rive del Mediterraneo e lavorare in pace al suo nuovo libro che per autentica vocazione didattica. Sia come sia, lo sviluppo della storia che i  sette giovani iscritti al laboratorio dovrebbero tentare di scrivere insieme procede abbastanza lentamente.  Con maggiore rapidità, invece, emergono i caratteri dei personaggi del film che stiamo vedendo, in particolare quello di Olivia ( la romanziera ) e quello di Antoine.

Alla base del film - che si muove, come dirò, almeno su tre piani - possiamo  individuare  uno sguardo attento sul reticolo di rapporti che si instaura in una comunità votata ad un medesimo obiettivo ( in questo caso scrivere una " fiction " ) ma mossa da stati d'animo e situazioni abbastanza diverse ( i sette giovani hanno provenienza etnica e anzianità di residenza nella zona non omogenee , la spinta motivazionale a partecipare all'atelier non ha per tutti la stessa intensità, anzi uno di essi dichiara apertamente di essersi iscritto   per forza di inerzia e di voler restare quindi una mera presenza nel gruppo, senza prendere parte al lavoro collettivo).  Viene subito in mente , per analogia, " La classe " ( " Entre les murs" ) cioè  il bellissimo film del 2008 che fece vincere allo stesso Cantet la Palma d' Oro a Cannes. Lì veniva ripresa una vera  scolaresca di liceo nella periferia parigina- composta da alunni egualmente di condizioni e di  origini disparate - che  discuteva , si accapigliava , interagiva con il suo professore di francese , lungo  un intero anno scolastico.  Tutt'altro , ovviamente , che un semplice documentario , bensì uno straordinario, energetico saggio sulla tensione e la " chimica " che si instaurano  in una comunità " chiusa" quale può essere la scuola ( appunto," dentro le mura ", tagliata fuori, in un certo senso, dal resto del mondo).  Ne " L'atelier ", questo tema - come vedremo -  non è, invece, quello che ci  sembra assorbire prevalentemente l'interesse dell'autore ( Cantet, qui,  è ancora una volta sceneggiatore, insieme a Robin Campillo ). Ma gli " schieramenti " che si creano all'interno del gruppo di lavoro formato dai giovani disoccupati, le simpatie e le antipatie, i contrasti etnici, le diffidenze reciproche che si compongono provvisoriamente nello sforzo comune, sono rappresentati comunque con plastica evidenza, come già in " La classe ", e con una progressione drammatica di grande coerenza stilistica (  sono frequenti i  primi piani, la macchina da presa bracca i personaggi, ne scruta ogni reazione, i corpi stessi dei protagonisti sembrano anticipare l'azione nella loro fisicità protesa verso un'affermazione o una negazione ).

L'indagine antropologico-comportamentale di " La classe "che, come si è visto, è anche una componente di questo film, cede peraltro il passo (e siamo al   secondo " piano di lettura" de " L'atelier " )  ad una ancora più incisiva e convincente analisi del contesto politico-sociale in cui si inquadra la vicenda. La Ciotat è stata sede, fino ad alcuni anni fa, di importanti cantieri navali poi dismessi per la crisi del settore, non senza importanti lotte sindacali. I giovani partecipanti al laboratorio hanno sentimenti confusi e contrastanti su quel passato operaio (quando c'era lavoro per tutti ) che sembra oggi così lontano, nell'era del precariato e del "ciascuno per sé ". Pochi, anche tra di loro,  sembrano averlo introiettato. Meno che mai gli immigrati, preoccupati solo di una legittimazione socio-economica che prescinde forzatamente da quella particolare temperie. I giovani, bianchi, meticci o di colore, sognano  tutti , del resto, un'autoaffermazione legata piuttosto ai miti del presente : la ricchezza, il successo, la bellezza del corpo , l'ammirazione da parte degli altri. Ed i più deboli e pieni di complessi (ecco il nostro Antoine di cui dicevamo all'inizio ) occhieggiano addirittura dal lato dell'estrema destra con le sue parole d'ordine : esaltazione della forza,  superominismo, l disprezzo dei più deboli, " prima i francesi ", e così via in un lungo tunnel alla cui estremità ci sono le armi da fuoco, la violenza pura e semplice, il disordine sociale mascherato da "ordine nuovo ". Qui il tema , non certo mai prima visitato, di una gioventù inquieta e prona alle tentazioni autoritarie, si fa in Cantet rinnovata,  sobria eppur efficace passione civile. Ma, prima ancora, preoccupazione umana verso strati della società sempre più bisognosi di recuperare la  fierezza e l' identità che è stata loro carpita. L'autore registra, con ciglio asciutto ma evidente partecipazione, il dramma di una intera generazione, senza enunciare ricette nè farci intravedere possibili soluzioni ( siamo lontani, come può vedersi, dal tenue ottimismo de  "La casa sul mare " di Guédiguian , affidato al coraggio e alla dignità dei giovani migranti clandestini  ).

Il terzo piano su cui sembra muoversi " L'Atelier "- il più interessante e difficile- affronta l'analisi della società, più in generale , in cui siamo tutti immersi, consapevoli e non. Un mondo, prescindendo anche dalle generazioni e dal contesto politico-sociale, in cui, come intendono sottolineare le immagini del regista, tutti siamo in realtà prigionieri di una "gabbia" : la gabbia delle istituzioni, dei rapporti interpersonali, familiari ecc, che soffoca l'individuo e ne condiziona pesantemente la piena realizzazione quale essere umano avente diritto a quel tanto di felicità che la vita gli riserva.Cantet si dimostra convincente nel  descrivere un ambiente chiuso ( anche nella ingannevole solarità degli " esterni " ) in cui, ad esempio, alla  "dominazione"  che esercita Olivia, la scrittrice, sui suoi giovani allievi ( guardate come li tratta,a volte con bonario  paternalismo ma in realtà pronta a passare all'ironia che ferisce, al comando, all'espulsione ) fa da riscontro la ruvida insofferenza prima e poi l'aperta ribellione di Antoine, il suo vero antagonista. Un braccio di ferro , questo, che è l'epitome non tanto della lotta di classe quanto degli inani rapporti di forza che si instaurano fatalmente tra gli esseri umani, tra le generazioni, tra le istituzioni ed i sudditi. Uno scontro dialettico che ha come termine l'autoesclusione del più debole ( o del più forte ? ) senza che vi sia una possibilità di autentica intesa. " Voglio aiutarti " è la frase che Olivia ripete come un  "mantra"  ad Antoine, ma senza possedere minimamente le coordinate di un possibile aiuto. " Non ti preoccupare " è l'ostinata risposta del giovane a tutti coloro ( genitori, compagni, scrittrice ) che fanno mostra di interessarsi a lui.  Sospesa tra queste due espressioni si declina così quella incomunicabilità che, nelle secche immagini di Cantet, sembra quasi la cifra obbligata dei rapporti umani nel mondo di oggi : arido. impietoso, votato all'autodistruzione come nei violenti videogiochi  di cui Antoine è infaticabile consumatore .

domenica 3 giugno 2018

" LA TRUFFA DEI LOGAN ", di Steven Soderbergh ( USA, 2017 ) / " PADRI E FIGLI " di Mario Monicelli ( Italia, 1957 )

" La truffa dei Logan ", da pochi giorni nei nostri cinematografi ancorchè sia uscito negli Usa quasi un anno fa, segna il ritorno sul grande schermo di Steven Soderbergh, il regista che  nel 1989 vinse giovanissimo a Cannes con il suo  primo e molto promettente lungometraggio ( " Sex, lies and videotapes " ) e che ha poi avuto una carriera con qualche cedimento alle esigenze commerciali ("  Ocean's eleven " e i due seguiti) ma nella quale compaiono anche opere  tutt'altro che banali ( " Traffic " , " Contagion ", " Side effects " ). Avevamo perso le sue tracce da qualche anno , da quel " Dietro i candelabri " ( magistrale melodramma omoerotico sul pianista Liberace ) che , girato per la televisione, fu distribuito nelle sale soltanto in Europa e che rischiava peraltro di essere il suo definitivo addio, tutto preso come egli era ,ormai, a girare solo  episodi di serie televisive. Prima di parlare del film, il solito appunto ( purtroppo ) ai distributori italiani. Questi, non contenti di averlo immesso nel circuito quando la  bassa frequentazione delle sale dovuta alla incipiente stagione estiva non lascia sperare  grande successo di pubblico, gli hanno affibbiato un titolo italiano che non solo tradisce l'originale ( " Logan Lucky " ) ma annuncia una " truffa " che non c'è : furti ed inganni sì, quelli ci sono, ma perchè inventarsi qualcosa che assolutamente nella trama non compare ?
Sia come sia, andate a vedere  il film se vi piacciono le storie ricche di personaggi e di intrighi, al limite del verosimile ma raccontate benissimo . Un " divertissement ", in sostanza, che punta molto sull'incalzare dei colpi di scena, sul ritmo e sulle battute di un dialogo mai scontato. Ma che è anche, a suo modo, un divertente ritratto,  caustico eppure affettuoso a tratti,  dell' America  minore :  quella lontana dai grandi centri, con tanta gente sfigata e che si arrabatta per uscire dalla mediocrità. Un film che la perfetta sceneggiatura ( opera di una sconosciuta, Rebecca Blunt, sotto il cui nome si celerebbe secondo alcuni lo stesso regista)  la buonissima interpretazione e soprattutto l'elegante regia si incaricano di sollevare dal semplice e scontato " cinema d'azione ".

Questi Logan sono due fratelli abbastanza sfortunati che vivono in West Virginia,  dediti a  lavoretti e piccoli inghippi per sbarcare il lunario ma sempre con la speranza , un giorno, di sistemarsi per benino. Venuti fortuitamente a conoscenza della possibilità di fare un grosso colpo impadrenendosi dell'incasso di una affollata ed assai redditiva  " kermesse " automobilistica che si svolge annualmente  a Charleston ( La " Coca Cola 400 " o qualcosa del genere ) mettono in piedi, con l'aiuto della loro intraprendente sorella e di un abilissimo scassinatore, un " colpo " capace di procurare loro una fortuna ( ingegnosa, non so se vera o inventata, la circostanza che i biglietti di banca da "prelevare " e frutto delle varie transazioni commerciali che avvengono durante la corsa vengano man mano  convogliati in speciali contenitori trasparenti immessi poi, tipo posta pneumatica, in un complicato circuito sotterraneo di tubi che li riversano infine, tutti ammassati l'uno sull'altro,  in un gigantesco caveau simile a quello in cui il Paperone dei fumetti di Walt Disney fa il suo bagno mattutino ). Ma la storia, per rendersi interessante, deve naturalmente moltiplicare le difficoltà e le sorprese cui si trovano confrontati i nostri eroi, costringendoli a continui espedienti ed intrighi di pregevole concezione e fattura e consentendo così al film di presentarci sempre nuovi personaggi minori ma tutti gustosissimi, quali un direttore di carcere preoccupato del " rating " del suo stabilimento ed una coppia di investigatori del FBI dallo sguardo inquietante. Non dirò, naturalmente, se il colpo riuscirà per non togliervi la sorpresa. Vedrete da voi , ed occhio al finale.

Avrete capito, dal riassunto che vi ho fatto della trama, che film del genere devono avere una sceneggiatura di ferro : e questo ce l'ha, per giunta  sufficientemente credibile e divertente. Debbono avvalersi poi di una interpretazione puntuale ed accattivante per evitare che i personaggi risultino troppo stereotipati. E qui gli attori principali sono tutti bravi, a cominciare da Adam Driver ( il "Logan senza una mano" ), uno degli attori americani più interessanti degli ultimi anni, per andare a Channing Tatum ( misurato e toccante "Logan claudicante" ) e chiudere con Daniel Craig ( ex James Bond ) giusto leggermente un pò sopra le righe nella parte del " re delle cassaforti ". Senza parlare, poi, dei caratteristi che danno corpo ai gustosi personaggi minori cui si è accennato. Tra questi, una menzione particolare va certamente a Hilary Swank ( la ex " million dollar baby " del bel film omonimo di Clint Eastwood ) nella piccola ma incisiva parte dell'agente FBI chiamata ad indagare sul furto al circuito di Charleston. Ma il merito principale della riuscita del film ( una " piccola " riuscita per un piccolo film, ma molto godibile ) va senza dubbio a lui, Steven Soderbergh, cui si deve anche la fotografia e il montaggio ( e forse, come si è detto, la stessa sceneggiatura ). L'intelligenza della messa in scena ( precisa, mai invadente eppure " significante " quanto basta ) lo si vede nelle piccole cose. Quella descrizione del suburbio semirurale dove vivono i protagonisti, metà periferia urbana , metà " frontiera ", accresce di un nuovo tassello una appassionata ancorchè disincantata descrizione del suo  Paese, iniziata fin dal suo primo film. Si è detto che quella di Soderbergh è l' America di Trump : deideologicizzata, incerta sul proprio destino, preda dei miti consumistici più retrivi. Può darsi. Ma è anche l' America di sempre: quella del " self made man " nel bene e nel male, del delitto e del castigo, del diritto di tutti alla felicità e dell'impossibilità per molti di raggiungere qualcosa che appena  le somigli. 

Tutt'altra storia con il secondo dei film di cui volevo parlarvi questa settimana. Siamo sempre nella commedia e nel " divertissement " di un regista importante e che ha fatto sicuramente film migliori di questo,il nostro  Mario Monicelli. Eppure, in questo delizioso film di più di sessant'anni fa , c'è tutto il suo gusto per la descrizione degli ambienti popolari e piccolo- borghesi, fatta diremmo in punta di penna, senza enfasi o critica eccessiva o quel gusto per il grottesco e lo sberleffo che sono il punto limite della pur pregevole " commedia all'italiana " degli anno 50-60-70 del secolo scorso. Il primo cinema di Monicelli ( da " Guardie e ladri " , 1950, a " Risate di gioia ", 1960,  ha un tocco lieve, pensoso, con qualche venatura di elegia e di ironia appena accennate, che lo distingue dal maggiormente impegnato " cinema civile " del periodo seguente : " La grande guerra " , " Tutti a casa " e poi via via sino a " Amici miei " quando il tono si fa più amaro e convulso ). Nelle storie filmate  da Monicelli , come in questo " Padre e figli ", i personaggi sono appena abbozzati eppure conservano una loro grazia , una loro verità, che anni dopo il regista faticherà a ritrovare  con altrettanta eleganza e la stessa scioltezza. Vorrei davvero che lo (ri)vedeste, dato  che ne esiste un DVD di ottima fattura. Ritrovereste un' Italia così diversa da quella attuale. Forse più incerta nel suo cammino, piena di residui del passato, certamente ingiusta nella sua stratificazione sociale, nella moralità di facciata, nelle limitazioni poste alla componente femminile. Ma molto più speranzosa, ricca di vitalità, piena di possibilità ( anche quelle che poi non si sono realizzate).Un'Italia a suo modo commovente , almeno nel ricordo di coloro che quel tempo lo hanno vissuto.

La trama di un film come " Padri e figli " non si racconta. Sono tante piccole vicende , come si usava allora , tenute insieme dalla ubiquità di alcuni personaggi, dall'unità di luogo e di azione, proprio come nel teatro , comico o leggero,  di una volta ,. Storie che si intrecciano, leggere , esili certamente ma condotte con sottile maestria  ( soggettisti e sceneggiatori , oltre allo stesso Monicelli, Age e Scarpelli, allora la coppia regina nella scrittura dei film, con un giovane Leo Benvenuti ). Il tema, come suggerisce il titolo, è quello del rapporto tra le generazioni : padri severi ( lo sarebbero stati ancora per poco ) e figli scalpitanti di modernità e di emancipazione. Ma tutto, come dicevamo, senza toni troppo netti, esasperati o drammatici. Solo il lento fluire della vita, con molta tolleranza reciproca  e non poca saggezza da parte, in fondo , degli uni e degli altri.Oltre alla regia di Monicelli , attenta , delicata eppure sicura, e alla sceneggiatura di cui abbiamo detto, qui pure ( come  già in " La truffa dei Logan " ) è da lodare l'interpretazione. Nelle parti principali un Vittorio De Sica ben più misurato ed umano che in altre  operine della stessa epoca , un Marcello Mastroianni su cui non pesava ancora il successo mondiale de " La dolce vita ", una Marisa Merlini tenera ed ironica, una graziosa Lorella De Luca appena fresca del successo di " Poveri ma belli " .Ma i " comprimari " non sono certo da meno, da uno straordinario Ruggero Marchi nella parte del ginecologo, a Memmo Carotenuto, a Raffaele Pisu, a Franco Interlenghi ed Antonella Lualdi. Ecco la vera forza del cinema italiano di quei tempi. Non solo grandi registi e sceneggiatori ispirati. ma attori e " caratteristi " come oggi, nel nostro cinema, purtroppo non ce ne sono più molti. E questo , insieme a quei fattori di cui altre volte si è detto, spiega perchè abbiamo perso quel primato europeo che un tempo tutti ci invidiavano. Ma oggi ( ancora per pochi minuti ) è la Festa Nazionale ed è d'uopo nutrire solo pensieri  di speranza e di ottimismo...