lunedì 27 novembre 2017

" THE BIG SICK " di Michael Showalter ( USA, 2017 ) ; " MY NAME IS EMILY " di Simon Fitzmaurice (Irlanda, 2015 )

Perchè alcune commedie al cinema funzionano bene ( tutte quelle di Billy Wilder o di Blake Edwards, ad esempio ) ed altre assai meno ? Qual'è il segreto per far "montare"- sì, proprio come la panna - una storia piacevole, destinata a farci passare due ore con quella serenità e quell'ottimismo che certe volte  chiediamo ad un cinematografo inteso semplicemente come benigna ed inesauribile " fabbrica dei sogni" ? Due film che mi è capitato di vedere a distanza di pochi giorni uno dall'altro sembrano in grado di darci qualche schiarimento in proposito.  Che il primo, di cui vi consiglio caldamente la visione, sia il frutto di un sistema produttivo  prolifico e ben collaudato  mentre il secondo, per cui non saprei fare altrettanto, provenga da una piccola industria senza grandi precedenti in materia, potrebbe sembrare una circostanza, tutto sommato, ininfluente .E non dico che, in questo, non  vi sia un pizzico di verità. Anche una cinematografia marginale, con pochi film all'attivo, può riservarci ogni tanto una piacevole sorpresa. Più facile però che ci dia qualche opera coraggiosa nel registro drammatico che in quello leggero e sentimentale. Per i film che facciano ridere o almeno sorridere, meglio, molto meglio, andare a cercarli- parlo del cinema occidentale - nella mastodontica produzione USA o in quella francese ( un tempo sarebbe stato così anche per quella di casa nostra , ma si sa come è andata a finire ).

Ecco, prendiamo il cinema americano, così entriamo subito in argomento per quanto riguarda l'ottimo " Big Sick ". A parte le opere destinate, in prima battuta, al grande schermo, laggiù la macchina produttiva oggi lavora soprattutto per la televisione : " sitcom " e serie di tutti i generi, con una cospicua presenza di commedie, storie leggere fatte per farci divertire, consolarci magari ( e qui è il loro limite, ne sono consapevole). Ma che  fucina di sceneggiatori e " battutisti ", che palestra di attori ed attrici, protagonisti o semplici comprimari ! Hollywood stava morendo - e, in verità, non se la passa ancora bene - se la televisione non  avesse infuso nuova vita, nuovo vigore intellettuale ed artistico nell'intero sistema. D'accordo, una bella fetta dei programmi televisivi di " fiction " sono modesti ed alcuni addirittura esecrabili. Ma ne restano tanti altri di ottima fattura e che hanno rinnovato quei " generi " che erano la forza del cinema dei bei tempi che furono.  Tra questi, in primo luogo, proprio la commedia. Stimolata dalla continua crescita  di scrittori  di testi di ottimo livello, per le varie " sitcom " televisive o i " talk show" di intrattenimento , la commedia è  nuovamente  tornata sugli schermi ed ha arricchito e rivitalizzato un " filone " che sembrava a corto di talenti e di idee. Certo, ormai una commedia come " Ninotchka "( Lubitsch, 1939 ) o anche solo " Victor Victoria " ( Edwards, 1983 ) non la si saprebbe ( o potrebbe ) più concepire. I gusti delle più giovani generazioni - il nerbo dei frequentatori delle sale cinematografiche - sono cambiati e diverso è il meccanismo che suscita interesse, induce simpatia e coinvolgimento nelle vicende e nei personaggi. Ma film, anche recentissimi, capaci di farsi ammirare senza offendere la nostra intelligenza e di unire, nello spazio di una proiezione, le vecchie e le nuove categorie di spettatori ce ne sono ancora. Cambia il ritmo, le battute sono più rapide e un tantino pepate, si ride in un modo diverso. Ma ci si continua a divertire. Ed è il caso di questo " Big Sick " ( titolo originale rimasto invariato per la distribuzione in Italia ) prodotto da quel Judd Apatow che , come sceneggiatore e regista, aveva già dato interessanti prove del suo talento a cavallo tra televisione e cinema.

La sceneggiatura , scritta dal comico di origine pakistana Kemail Nanjiani e dalla moglie Emily Gordon, non è altro che la narrazione della vicenda personale della coppia, cioè di un sodalizio   costituitosi attraverso non poche difficoltà da superare : l' incapacità di Kemail di sottrarsi alla cultura d'origine e alla propria famiglia ligia alle tradizioni anche dopo l'ingresso negli USA , una grave ed improvvisa malattia di Emily, la diffidenza poi venuta meno dei genitori di lei nei confronti del giovane immigrato. Storia vera ma roba vecchia, verrebbe fatto di dire, pensando che non è certo la prima volta che il cinema ci rappresenta -ora in chiave leggera ora in chiave più drammatica -  differenze " etniche " tra innamorati, incomprensioni di coppia su cui influiscono le famiglie, persino malattie che rischiano di mettere la parola fine ad una bella storia d'amore. Un pò " Indovina chi viene a cena ", un pò  " The perfect couple " di altmaniana memoria e non senza un pizzico del lacrimoso " Love Story ", questo " Big Sick " riesce ad evitare, in realtà, tutti gli scogli del " copia incolla " in agguato e  se la cava brillantemente , rivisitando con garbo  i moduli della " romcom " e  trovando, in ultima analisi, un tono fresco e genuinamente umoristico. Da manuale, tra le tante, la sequenza del primo incontro tra Kemail ed Emily,le gustose scene con i  familiari di lui e la baruffa all'ospedale tra i genitori di lei. Ulteriore prova che anche con pochi mezzi ( il film è costato " solo " 15 milioni di dollari e negli USA ne ha già incassati 45 ) ma con una buona dose di intelligenza e qualcosa da dire, si possono raggiungere non disprezzabili risultati in termini di piacevolezza e di dignitoso " entertainement ". Bravi gli attori ( oltre al simpatico e pacioso Nanjiani, va citata  Zoe Kazan nella non semplice parte di Emily e la strepitosa coppia dei genitori di lei , gli " evergreen " Holly Hunter e Ray Romano ). Il registaMichael Showalter, di franca derivazione televisiva, dal canto suo rinuncia saggiamente a qualunque superfluo virtuosismo.

Per venire invece al secondo dei film di questa puntata, l'irlandese DOC " My name is Emily ",  naufraga proprio  sull' assenza di un solido e collaudato retroterra di " genere ". Eppure non si può certo dire che nella verde isola  manchi una tradizione di umorismo e di commedia leggera, di stampo almeno teatrale, e soprattutto che  non vi siano schiere di ottimi attori ( alcuni dei quali, nelle parti minori,  sono stati poi  effettivamente utilizzati). Ma un film che , per partito preso, voglia essere  al 100 % autoctono rischia di essere penalizzato dalla indisponibilità di sceneggiatori di tratto svelto  e genuino ( la televisione in Irlanda, soffocata da quella inglese e " massacrata " dai programmi provenienti dagli USA, praticamente non decolla ). Non ci sono neanche  gli attori adatti, forse - chissà - manca anche un pubblico che ci creda. Risultato: invece di essere quella  piccola ma simpatica commediola, " rosa " e divertente, che pur sarebbe stato lecito attendersi, questa " Emily "  è un filmetto pretenzioso e sbagliato. Nè racconto filosofico sul significato dell'esistenza così come può vederlo un'adolescente - cui pure ambirebbe -  nè romanzetto  " di formazione " e d'amore come poi potrebbe limitarsi  ad essere, finisce col deragliare totalmente e rimane solo un " road movie " con due giovani scriteriati. Una lei ed un lui, impegnati in una poco comprensibile  fuga dalla capitale, metà amorosa e metà alla ricerca del padre di lei  : più sopportabile lui, non ricordo il nome dell'attore, e nettamente meno la protagonista , tal Evanna Lynch, che non trovando mai il passo giusto della commedia rovina definitivamente con il proprio debolissimo personaggio . Peccato davvero perchè il film  non è minimamente avvicinabile al solare e festoso " Sing Street " della scorsa stagione, egualmente girato in Irlanda ( regia di John Carney ) ma con idee e propositi fortunatamente più rivolti al mercato globale . Quindi, forzatamente, con occhio attento a quanto si è fatto e si fa in Inghilterra e negli " States ", senza scimmiottature ma avendo introitato le  esperienze di particolare successo  che da quei lidi provengono. Ed avvalendosi, anche, di   strutture produttive ed artistiche più solide e convincenti di quanto un piccolo film della piccola Irlanda potrebbe permettersi se non volesse spaziare al di là dei propri confini. La cosa  può piacere o no. Ma ho il fondato convincimento che , in fatto di commedia, complice la televisione " senza frontiere " ed una diffusa omologazione degli stili di vita,  i gusti dei vari pubblici nazionali si vadano uniformando. E  a  non tenerne conto il cinema rischierebbe di perdere la sua straordinaria capacità di rinnovarsi continuamente.    

sabato 11 novembre 2017

" UNA QUESTIONE PRIVATA " di Paolo Taviani ( Italia, 2017 )

I film sulla Resistenza ( 1943-45 ) sono tanti. Ed alcuni davvero pregevoli, anche a prescindere dal  quadro ambientale, per noi italiani così emotivamente intenso. Penso, tanto per citare un paio di titoli,  a " Roma città aperta " e a " Paisà ". Ma queste, mi rendo conto, sono opere che vanno al di là della loro cornice storica, per assurgere , in assoluto, ad una ricerca sulla stessa condizione umana, né più né meno che tutte quelle del loro autore, Roberto Rossellini. La Resistenza come "pretesto ", verrebbe fatto di aggiungere. O meglio, come punto di partenza davvero particolare ( il momento in cui ognuno, dopo quel terribile 8 settembre, dovette spesso e in fretta operare scelte decisive per sè e per gli altri ) da cui sviluppare poi il tema della responsabilità, del rapporto con gli altri, del dovere, del sacrificio. Non tutti i film " resistenziali " (numerosi soprattutto nell'immediato dopoguerra e poi negli anni '60 -70 ) si sono posti gli stessi interrogativi, le stesse preoccupazioni etiche dei due capolavori di Rossellini. Paghi, mi sembra di poter dire, di celebrare momenti salienti dell'epica insita nella tradizionale " narrazione " di quelle vicende ( " Le quattro giornate di Napoli " di Nanni Loy ) ovvero di utilizzare quella specialissima lotta per improbabili  trasposizioni trionfalistiche nella  temperie politica coeva all'autore ( " Novecento " , parte seconda, di Bernardo Bertolucci ). 
Ambizioni non semplicemente illustrative o consolatorie sono quelle invece del film di questa settimana , egualmente situato nel periodo della guerra civile e più precisamente nell'autunno del 1944, prima dell'ultimo, terribile inverno che in Alta Italia fu preludio, e presagio,  del 25 aprile. Ne fanno fede, in partenza, la personalità e la carriera davvero esemplare dei fratelli Paolo e Vittorio  Taviani che hanno scritto questo film , " Una questione privata ", traendolo " liberamente " come dicono i titoli di testa (e su questo torneremo ) dall'omonimo romanzo - o racconto lungo, se preferite - di Beppe Fenoglio.  Sceneggiatura quindi, come sempre , a quattro mani ma regia affidata questa volta al solo Paolo, probabilmente per l'età più avanzata di Vittorio ( entrambi comunque hanno ormai oltrepassato brillantemente l'ottantina ! ). E che avevano già in passato creato un'opera di singolare bellezza collocata egualmente nell ' incandescente 1944, "  La notte di San Lorenzo ". Sceneggiatori e registi di una ventina di film , con qualche inevitabile scivolone ma diversi film all'attivo che restano tra i migliori italiani dell'ultimo mezzo secolo. Autori impegnati , come si diceva un tempo ( ed anche politicamente " schierati " ) discutibili per alcuni aspetti del loro cinema ma onesti e mai banali.

La storia , nel suo dipanarsi fattuale, è abbastanza fedele al libro di Fenoglio. Questo -va ricordato - è non solo uno dei migliori che siano stati scritti sulla Resistenza . E' anche, come sosteneva  Italo Calvino, uno dei più bei romanzi italiani del Novecento, carico di una fortissima suggestione che deriva dai personaggi, dalla vicenda, dall'ambientazione. Ed i primi due elementi, sostanzialmente,  ci sono. Milton , il protagonista, è un giovanissimo partigiano, un intellettuale timido e idealista che, come tanti coetanei, ha lasciato gli studi universitari per andare in montagna ad aggregarsi ai gruppi combattenti spontaneamente creatisi dopo l'armistizio e l'occupazione tedesca. Ossessionato dal ricordo di Fulvia, una ragazza di condizione superiore di cui si era perdutamente innamorato in una precedente estate, egli  torna col ricordo ai  lunghi pomeriggi trascorsi nella bella villa di lei ascoltando dischi americani ( " Over the rainbow " ) ed intessendo timidi approcci amorosi  senza speranza. Vuota ormai la villa perchè i suoi occupanti sono tornati in città per sottrarsi ai pericoli della guerriglia partigiana che infuria nella zona,  alcune fortuite confidenze avute dalla custode gli instillano improvvisamente il dubbio che , mentre egli era lontano, militare prima dell'8 settembre,la ragazza possa essersi abbandonata con il comune amico Giorgio - bello e molto più sicuro di sé - ad assai meno platonici interludi. Roso dal tarlo della gelosia, ma forse più ancora dal desiderio di chiarezza, di qualcosa che possa soddisfare la sua sete di verità, Milton non ha che un mezzo. Rintracciare Giorgio, partigiano anche lui in una zona limitrofa, parlargli, farlo parlare. Ma Giorgio, si apprende nel frattempo, è stato malauguratamente preso prigioniero dai fascisti, rischia anzi di venire fucilato  e di portare quindi con sè nella tomba la testimonianza di ciò che può essere  accaduto. Di qui prende le mosse l'affannosa ricerca di Milton, il suo incontro con altri gruppi partigiani, con gli abitanti del posto cui si rivolge per informazoni , il tentativo addirittura di catturare un fascista per scambiarlo ed ottenere la liberazione di Giorgio. Sino al concitato finale che non vi rivelo.
 Milton, che sopravviva o meno al termine della vicenda, ha intrecciato, dovremmo forse dire sovrapposto, la propria " questione privata " alla lotta contro il comune nemico, allo sforzo collettivo.Un venir meno ai propri doveri, potremmo frettolosamente concludere. O forse no, non del tutto, se riflettiamo al forte sentire morale di Milton , alla sua  purezza ed alla sua giovinezza, al " diritto " all'amore  ed alla propria autodeterminazione, sacrificati inevitabilmente nello scontro che lo oppone ad altri giovani, egualmente prigonieri di una contingenza storica che  spinge incessantemente gli uni e gli altri verso l'autodistruzione.

Bellissimo tema, come vedete. Una descrizione della Resistenza priva di retorica, problematica e a mio avviso modernissima anche se non certo " revisionista " ( il romanzo è stato scritto diversi  anni dopo la Liberazione ed è uscito, postumo , nel 1963 ). Non  è questione in essa  di disconoscere quale fosse, nella guerra civile, la " parte giusta ". Ma piuttosto di collocare retrospettivamente tutto quel magma , quel ribollire di sentimenti e di passioni, nel grande fiume della memoria, la memoria di una straordinaria esperienza umana  in cui gioia e dolore, amore e morte,  vicende private e pubblici accadimenti costituiscono un nodo ormai inestricabile. Ed il tono del romanzo, ora secco e puramente descrittivo, ora  tenero ed elegiaco , gli da un sapore particolare, il gusto delle cose buone e semplici. Priva di sovrastrutture intellettualistiche, la " cifra " romanzesca balza purissima e ci dà una vicenda esemplare, capace di scolpirsi per sempre nella nostra mente e nel nostro cuore.
Qui sorge l'interrogativo. E mi ricollego a ciò che avevo preannunciato all'inizio di questo scritto. Cosa volevano dire i titoli di testa  del film stabilendo, tra questo e  il testo di Fenoglio, quell'ambiguo rapporto che è forzatamente insito nella piccola frase " liberamente tratto da " ? I fatti ci sono tutti o quasi e quelle piccole aggiunte o modifiche operate in sede di sceneggiatura non stravolgono l'impianto complessivo della vicenda ed anche il suo significato ultimo che ho cercato di individuare dianzi. Ma il tono, il gusto così tipicamente legato al retroterra geografico e culturale di Fenoglio ( ricordiamolo, nato e vissuto ad Alba, in Piemonte ) quello è rimasto ? Certamente no. E ce ne rendiamo conto fin dall'inizio, quando ci accorgiamo che gli interpreti, fino all'ultimo comprimario, parlano con cadenze dialettali che tutto ricordano salvo che il piemontese. In breve , la storia è stata, bella e buona,  " delanghizzata " dai fratelli Taviani. Non siamo più in quella lingua di territorio così caratteristica in provincia di Cuneo, le Langhe appunto, in cui sono ambientati quasi tutti i testi narrativi dello scrittore ( e che del resto non costituisce neanche il " set " dove è stato girato il film  )  ma in una sorta di " non territorio ", da qualche parte nell' Italia del 1944. Ma neanche il riferimento storico-temporale è chiaramente evocato.  Le divise dei militi fascisti certo sono quelle e le armi da fuoco degli uni e degli altri sembrano d'epoca. Ma i personaggi evitano quasi sempra e con cura di citare nomi e fatti che possano suffragare l'ipotesi che si tratti veramente del conflitto così apertamente descritto da Fenoglio nel romanzo. Potrebbe anche essere una qualunque altra, insensata ed indecifrabile tenzone, eminentemente tra giovani.
Capisco il desiderio dei Taviani, conforme al cinema di tipo non naturalistico ma politico e brechtiano che vanno facendo da sempre, di liberare la vicenda da una caratterizzazione localistica e troppo intimamente legata alla Storia che le avrebbero tolto quel significato universale e paradigmatico che essi probabilmente ricercavano. Ma occorre dire che la doppia "decontestualizzazione " in tal modo operata ( dalle Langhe e dai precisi contorni del conflitto tra fascisti ed antifascisti ) non rafforza il senso umanissimo della vicenda ma anzi l'intristisce e lo banalizza, svirilizzandolo. E con  questo non intendo certo contestare l' autonomia, in generale, del cinema rispetto all'opera letteraria. Ma piuttosto militare per una necessaria fedeltà a quel  " minimo " essenzialissimo, fatto di luoghi e di riferimenti, che quest'ultima racchiude e senza il quale essa  non avrebbe neanche potuto vedere la luce. Potreste immaginare , faccio solo un esempio, " Guerra e pace "  senza la steppa russa e l'invasione napoleonica ? Oppure i " Promessi  Sposi " lontani da quel ramo del lago di Como e  con i bravi trasformati in semplici rubagalline ? Peccato per questo duplice errore che non sarebbe certo piaciuto all'autore, fosse stato ancora in vita.

Detto questo, il film non è certo da buttare. Fratelli Taviani  è un marchio che vuol dire garanzia di  rigore stilistico, di inquadrature perfette, di movimenti di macchina semplici ed essenziali.  Si guardi alle prime scene, quando viene introdotto il personaggio principale e vengono poi evocate le figure, quasi trasfigurate nel ricordo di Milton, dei compagni di vacanza e di schermaglie amorose, la soave Fulvia e l'audace Giorgio. Qui sì, siamo vicini alla pagina di Fenoglio, al suo narrare trasognato, delicato eppure denso e terragno ( ancora le Langhe... ). Non più quando entrano in scena i compagni di Giorgio gravidi di improbabili accenti umbro-laziali ed il particolare incanto della narrazione perde mordente. Resta una descrizione puntuale e a tratti persino convincente della insensatezza di quel cruento ,crudele e forzato giocare a rimpiattino con la morte ad opera di giovani che avrebbero molto più diritto di cimentarsi in altre imprese. E resta, tratteggiato con mano sicura, l'affannoso prodigarsi del protagonista nella sua " ariostesca " follia d'amore e nel pervicace tentativo di raggiungere  quella  privata " verità " che gli interessa,  in mezzo a tanti infingimenti collettivi che ne contrastano il progredire.
Merito anche, occorre dirlo, dell'ottima interpretazione di Luca Marinelli nella parte di Milton : sensibile, partecipe ed attenta, una prova davvero convincente. Meno bene gli altri due giovani attori principali. Un pò troppo leziosa la Fulvia di Valentina Bellè, ancorché graziosissima. Abbastanza anonimo e di scarso risalto il Giorgio del Richelmy (che essendo poi, contrariamente che nel libro, meno bello del Milton del Marinelli, non si capisce proprio come Fulvia potrebbe farne il preferito ).
Fotografia sempre molto curata, con un'abbondanza forse di vapori che avvolgono alcune scene e che poco hanno a che fare con la fitta nebbia magistralmente evocata da Fenoglio. Musica così così, con un eccesso di " Over the rainbow " in tutte le salse.  Dietro le quinte, il mago di Oz sommessamente ringrazia.





giovedì 2 novembre 2017

" VITTORIA E ABDUL " di Stephen Frears ( Regno Unito, 2017 )

Tra i film attualmente in programmazione, questo " Vittoria e Abdul " mi è sembrato così, ad occhio e croce, uno che andandolo a vedere non potesse poi  deluderci del tutto . Anzi, che fosse perfino in grado di riappacificarci con un cinema di qualità ma  senza troppe ambizioni ( non si può  mirare sempre a fare il capolavoro di cui parleranno un giorno le storie del cinema ) e con il regista, il britannico Stephen Frears. Forse ricorderete che costui ci deluse, lo scorso anno,  col ruffianesco e mal riuscito "Florence ", la storia della miliardaria che si ostinava a credere di essere una grande cantante, interpretato (ahimè) da una eccessiva Merryl Streep. Autore particolarmente interessante a cavallo tra gli anni '80 e '90, libero e corrosivo , si è poi lasciato riassorbire dal cinema più commerciale, continuando a darci , quà e là , qualche titolo interessante  ( " The Queen " , " Tamara Drewe " ). Fino all'infortunio  di " Florence " appunto, dove alle prese con una  " success story " tipicamente americana, con due attori  che gli avevano troppo preso la mano ( a dar la replica alla Streep era il bolso Hugh Grant ) Frears non è stato capace di tirarne fuori un film autenticamente personale : solo un pallido " divertissement ", insomma, che mal sfruttava un soggetto tutt'altro che scialbo e che nelle mani di un regista di casa - un Clint Eastwood ad esempio - sarebbe forse  diventato una storia interessante, non priva di evidenti risvolti drammatici.
Mi attirava poi il fatto di vedere, ancora una  volta in un film di Frears, la più grande attrice inglese,   "Dame " Judi Dench, oggi ottantatreenne ma sulla breccia più che mai. Una garanzia, si capisce. E poi, terza ed ultima ragione per andare abbastanza sul sicuro con questo " Vittoria ed Abdul ", il fatto che al centro della vicenda c'è un personaggio come la Regina Vittoria, con la quale proprio la Dench si era già misurata alcuni anni or sono. Un grande monarca, che ha regnato su un autentico impero per quasi sessantaquattro anni e che ha dato il suo nome ad una intera epoca che si voleva ispirata da forti valori morali e che propiziò l'ascesa, quasi dovunque in Europa,  della borghesia produttiva. Un tipetto oltretutto abbastanza tosto, capace di confrontarsi con le  altre teste coronate della sua epoca e con la stessa corte d' Inghilterra, non proprio un giardino d'infanzia.

Qui la trama è, ancora una volta, una storia vera. Una storia  già nota a suo tempo ma che la scoperta, pochi anni or sono, dello scambio epistolare  avvenuto  tra Vittoria  e questo Abdul, un giovane indiano mussulmano diventato cameriere ed in seguito segretario particolare e confidente della regina  ultrasessantenne ( siamo nel 1987, l'anno del giubileo del suo regno )  ha arricchito di nuovi particolari permettendo di meglio caratterizzarla. Proiettato un pò dalla mera casualità e un pò dal suo spirito di intraprendenza a stretto contatto con la sovrana, Abdul riesce ad attrarre prima la curiosità di costei per il mondo culturalmente così diverso da cui egli proviene . Poi a far nascere nei suoi confronti, sempre da parte di Vittoria, un complesso sentimento   che oscilla da una specie di protettivo paternalismo ad una vera e propria dipendenza psicologica cui non è estranea probabilmente , ancorchè rimanga inespressa, una forma  di attrazione fisica e , conseguentemente , di natura sentimentale. Ormai personaggio imprescindibile dello stretto " entourage " della regina, Abdul  diviene inevitabilmente il bersaglio dell'astio e dell'invidia  degli altri membri della Casa reale i quali cercano di disfarsi di lui con tutti i mezzi più o meno leciti. Vittoria resisterà peraltro a tutte le pressioni volte ad allontanare Abdul e lo terrà con sè fino alla sua morte, avvenuta quindici anni dopo. L'attrazione reciproca ed il frastagliato rapporto tra i due , cementato dal desiderio di evasione di una donna stanca dei vincoli cui è assoggettata per i doveri del suo stato e, per converso, dallo spirito di avventura di un giovane straniero, povero ed ambizioso, avranno dunque avuto partita vinta sulle regole di un mondo ingessato nelle sue forme e nei suoi pregiudizi.

Libertà e costrizione. Sono questi i due poli, l'alfa e l'omega tra cui si muove una vicenda senza dubbio affascinante e ricca di chiaroscuri. Vi è dentro lo stato d'animo di una donna non più giovane, rimasta vedova e sola negli affetti più elementari, l'attrazione tra due esseri così  diversi, l'esotismo di un mondo colonizzato ma ricco di una prorompente spiritualità, il fascino che esercitava indubbiamente il dominio britannico sui sudditi di paesi lontani ( Abdul è galvanizzato, all'inizio del film, dall'idea di  poter andare in Inghilterra per consegnare una medaglia commemorativa a colei che è anche imperatrice dell' India ). Nasce così, tra i due personaggi della vicenda, un sentimento che acquista forza crescente man mano che il nuovo vincolo di amicizia si precisa sempre di più. Una amicizia, sia pure diseguale, che sorta inizialmente , nell' animo della sovrana, come curiosità e  quasi capriccio da soddisfare , trova dall'altra parte una reazione di riconoscenza e di affetto per vedersi elevato ad un ruolo così prominente. Sentimenti cui peraltro non è estraneo -  come riusciamo ad intravedere -  un umanissimo calcolo di convenienza sociale ed economica che conferisce al personaggio di Abdul  un pizzico di ambiguità e di cinismo che sfugge alla stessa Vittoria.
Ed è qui che il film , godibilissimo nella descrizione dell'ambiente reale, con un Frears tornato caustico ed irriverente quanto basta, avrebbe potuto arricchirsi di una ulteriore ed ancora più coinvolgente dimensione, se gli sceneggiatori ed i registi lo avessero voluto. Vittoria ed Abdul, prigionieri l'una dei riti della Corte e l'altro della sua condizione di suddito colonizzato, cercano entrambi nel loro legame la possibilità di sfuggire alle imposizioni, di  autodeterminarsi, di vivere il destino cui si si sentono sollecitati. Ma così facendo si affidano, in un certo senso, ad una nuova costrizione che li rende psicologicamente e materialmente dipendenti l'una dell'altro e quindi , irrisoriamente, non più liberi di quanto non fossero prima. Suprema ironia - verrebbe fatto di dire - della condizione umana che più cerca di sbarazzarsi dei suoi  condizionamenti e più ricade in nuove forme di sudditanza. Tema,  come vedete, che era già  " in re ipsa", nel legame così singolare che si stabilisce tra i due personaggi, ma che il regista ha solo sfiorato, pago probabilmente della buona, puntuale  trattazione  dell'ossatura centrale, diciamo così , della vicenda  e della pittura d'ambiente, come dicevo, sempre vivida e accattivante per lo spettatore . Il Frears di trent'anni fa probabilmente avrebbe scavato più a fondo. Quello di oggi si accontenta di rimanere alla superficie, peraltro perfettamente levigata e resa scintillante dalla mano  di un professionista consumato.


Se questa è la ( piccola ) riserva di fondo che mi sento di fare ad un film  che , almeno nella seconda metà, cade a tratti in un eccesso di sentimentalismo  ed appare un pò troppo " politically correct ", assolutamente evidenti sono comunque i suoi non pochi meriti . A cominciare da una fluidità di narrazione, specie nella prima parte,  che va tutta accreditata al  regista. Si vedano le scene dell'arrivo presso la Corte inglese  di Abdul e del suo compagno grassottello, la sequenza del banchetto reale durante il quale avviene l'incontro tra Vittoria ed il suo futuro confidente indiano ( un capolavoro , questa, di intreccio tra piani medi, primi piani e piani lunghi  che " spiegano " molto meglio di qualunque dialogo ). Si scorge qui l'abilità - e perchè no l'ispirazione - di un vero uomo di cinema. Continuando, la cura con cui sono stati arredati gli ambienti in cui si svolge la vicenda, la magnificenza e la precisione dell'abbigliamento costituiscono particolari di grande importanza in un film che voglia porsi come una fedele ricostruzione di un'epoca , non per sfuggire al suo assunto principale  ma per cogliere meglio le implicazioni di carattere storico-ambientale che quel nucleo centrale, quel " focus " del film ( il legame che si stabilisce tra due esseri tanto diversi ) fanno emergere con ancora maggiore evidenza drammatica . Per concludere poi con l'interpretazione, davvero superlativa. Qui , a differenza che in " Florence ", Frears ha avuto la fortuna di avvalersi di un'attrice molto sorvegliata nell'incarnare un personaggio che pur si sarebbe prestato a  qualche deprecabile  gigioneria . L'interpretazione della Dench è un miracolo di sottigliezza,  orgoglio e malinconia, illusione e disincanto di un personaggio regale che è prima di tutto una donna sola e destinata, fondamentalmente, ad essere ingannata, l'epitome della condizione femminile stessa di quegli anni, che si nascesse regina o semplice borghese. A Dame Judi basta socchiudere gli occhi, piegare leggermente il capo, accennare una frase ( che splendida voce, andate, se potete, a vedere il film in versione originale ) per evocare tutto un mondo, tutta una gamma di sentimenti che richiederebbero molti maggiori sforzi ed impegno da parte di regista ed interprete se non ci fosse lei, con la sua meravigliosa capacità di calarsi perfettamente nel personaggio, senza nulla togliere e nulla aggiungere. Mirabile Judi ! Ce la farà questa volta a conquistare l' Oscar per la migliore interpretazione da protagonista che le sfugge da tempo ?. Ne prese uno, quasi vent'anni fa, come " best supporting actress ", per " Shakespeare in love ". Sarebbe ora che ne avesse uno che suggellasse in modo degno una carriera esemplare.