sabato 24 giugno 2017

5 film da " Cannes e dintorni ", a Milano

Finalmente, a compensare la penuria  in queste ultime settimane di nuovi film di un qualche interesse, è approdata a Milano ( credo che sia stata o sarà presto anche a Roma ) la navicella del Festival di Cannes. Carica di  alcuni dei tantissimi film presentati nelle varie sezioni ( Concorso, Quinzaine des réalisateurs , ecc.) offre annualmente la possibilità di gustare in anteprima qualche titolo che poi verrà immesso nel normale circuito durante la prossima stagione. Oppure, aspetto ancora più attraente, consente di vedere film che i distributori italiani, temendo che non rendano abbastanza in termini di soldoni, potrebbero essere tentati di sottrarre dalla nostra dieta di onnivori cinefili...
Ha aperto le danze, nel bellissimo cinema " Colosseo " ( debbo dire che negli anni Trenta sapevano costruire ancora delle autentiche " cattedrali " dello spettacolo, e lo schermo della sala principale è, come deve essere, enooorme ) l'ultimo film di Philippe Garrel, " L'amant d'un jour " , reduce dalla " Quinzaine". Garrel , che ha quasi settant'anni, ha cominciato a fare film a .. sedici, addirittura prima del fatidico 1968, forte di essere il figlio di un famoso regista ed attore, Maurice Garrel. A sua volta egli è padre di due giovani e quotati interpreti di teatro e di cinema, Louis ( l'attuale marito di Laetitia Casta ) ed Esther ( splendida protagonista proprio di quest'opera ). Regista che in genere non fa  concessioni agli aspetti più commerciali del cinema, spesso anche sceneggiatore, Garrel gira in bianco e nero, con pochi mezzi. Evidente è la sua spiccata propensione per le storie d'amore, di un romanticismo esasperato ancorchè apparentemente disinibite , per l'introspezione e l'analisi degli stati d'animo, dei minimi sommovimenti del cuore umano. Ne è uscita , anche questa volta, un'opera  suggestiva, vibrante, con inquadrature di rara e sapiente composizione, commovente quasi sempre per la sincerità che traspare. Vi è solo , occorre dirlo, in questa storia di una figlia  " in male d'amore " per una tormentata storia con il suo ragazzo e  che torna a vivere con il il padre il quale ha in casa  una nuova amante, qualche momento di stanchezza e di ripetitività dovuto ad una sceneggiatura non solidissima che affatica un pò anche lo spettatore meglio disposto. Ma Garrel sa filmare tremendamente bene, con morbido vigore, ed i suoi interpreti sono, per nostra fortuna, altrettanto efficaci. Esther Garrel ( nella parte della figlia ) è un gran bel volto, di sicuro avvenire. Louise Chevillotte ( l'amante del padre ) è anch'essa molto espressiva e non nega alla macchina da presa, direi a buon diritto, alcun centimetro di epidermide . Eric Caravaca  ( il padre , in pratica un " double"  del regista ) ha una recitazione delicata, tutta in sottotono. Un film che consiglio, anche perchè penso che , prima o poi,  lo faranno vedere sui nostri schermi. Interessante perchè getta un occhio sul " nuovo disordine amoroso " dei nostri tempi ma senza compiacimenti nè giudizi moralistici.

Secondo film che sono andato a vedere è " How to talk to girls at parties " (cioè, letteralmente, "come parlare con le ragazze alle feste ") di John Cameron Mitchell. Il regista( ed attore ) americano, non più giovanissimo ( 54 anni ) ma sempre giovanile nell'ispirazione trasgressiva e libertaria, questa volta ci porta in Inghilterra e più precisamente a Croydon, nella " Greater London ". Corre l'anno di grazia 1978, il primo " giubileo " della Regina Elisabetta, quando il paese era devastato dalla cattiva condotta dell'economia da parte del governo laburista ( di lì a poco sarebbe intervenuta, a raddrizzare le cose, una certa " dama di ferro " ) e una parte della gioventù, in aperta rottura con le generazioni precedenti, cercava ristoro nel rock " duro ", nella moda e nella filosofia " punk ". Enn ( diminutivo di Henry ) un simpatico ed intelligente ragazzotto proletario ( Alex Sharp, un volto nuovo ) abbastanza timido con le femmine, sognatore ed abile disegnatore di quelle " fanzines " musicali allora piuttosto diffuse, conosce e si innamora, ad una strana festa in una singolare casa un pò fuori mano, Wainwain ( " maggiorativo " di Wain... ). La ragazza , americana west coast ( Elle Fanning, anche lei relativamente poco conosciuta ) asettica e con una dizione perfetta ( di contro al "cockney" di Enn ed i suoi amici ) appartiene ad una bizzarra comunità, tra la  "setta " semisatanica e un avamposto fantascientifico venuto da un altro pianeta , impegnata in un misterioso " tour " europeo. Meglio non dire di più per non guastare le attese degli spettatori ( il film verrà sicuramente distribuito in Italia ) e anche perchè tutto sommato non è che una favola dei nostri tempi, senza pretesa di alcuna credibilità, un sogno ad occhi aperti. Ma ciò che conta è l'indubbia maestria del regista, la sua capacità di trovare un equivalente visivo molto accattivante alla scatenata musica dei " punk ", di rendere con humour  le peripezie di  " Henry " e dei suoi due altrettanti imbranati amici a contatto con la inquietante comunità di Wainwain. Niente di tremendamente originale ( dimenticavo, buona la caratterizzazione di Nicole Kidman nella " regina " dei punk, Bodicea ) ma più di un'ora e mezza di " insano " divertimento, belle musiche fragorosissime ma piacevole riscatto al pattume della odierna musica da discoteca. Un film che non segnerà certamente una svolta nella storia del cinema ma vi porterà in un clima di " Alice nel paese delle meraviglie " per bambini un pò cresciuti. Forse, quando uscirà da noi, meriterà che ci si torni con più calma.

E poi, il terzo giorno, ecco un autentico capolavoro senza ma e senza se. Non spreco spesso questo appellativo. Al cinema, di questi tempi, è già molto vedere una cosina spiritosa e garbata come il film di cui vi ho appena parlato qui sopra. Ci si accontenta, insomma, paghi di trascorrere novanta minuti in maniera intelligente. Se dico che " The Rider " ( " Il cavaliere " ) è un capolavoro, lo dico a ragion veduta. Certo, anche d'impeto, sull'onda dell'emozione che mi ha suscitato. Ma anche dopo averci riflettuto ed aver ricostruito tutti i passaggi di sceneggiatura, di montaggio, le inquadrature, il dialogo, di un film che riannoda sia con la migliore tradizione del cinema americano " classico " ( i Ford, gli Hawks, gli Huston perchè no ? ) che con il lascito del più problematico cinema,  sempre USA, degli anni '70 (  Scorsese, Cassavetes, Schatzberg ecc. ) mi sono nuovamente convinto che è un grande film . Un film ( distributori italiani attenti ! ) che sarebbe delittuoso non farci vedere nella prossima stagione solo perchè non ha attori conosciuti ( sono tutti non professionisti che interpretano sè stessi ) e parla quasi unicamente  di " rodeo " ( ricordate " Gli spostati " con Gable e Montgomery Clift ? ) di cavalieri e di cavalli. Con particolare riguardo a queste due categorie quando, per l'una e per l'altra, la loro parabola ascendente si è conclusa e occorre venire a patti con la dura realtà. Ma parla  anche di sogni, di speranze, di amicizia e di affetti familiari. Praticamente di tutto quello che conta, nella vita. Ma lo fa senza piagnistei ( le lacrime eccessive, ripensandoci, di " L'amant d'un jour ", vedi più sopra ). Con ciglio asciutto, dolcezza e forza al tempo stesso . Un film " virile " starei per dire, se non l'avesse scritto, diretto e prodotto,  una donna . Una piccola, giovane donna sino-americana che risponde al nome di Chloé Zhao ( ricordatevelo perchè ne sentirete parlare ). Questo è il suo secondo film, dopo " Songs my brother taught me ", del 2015, egualmente presentato nella prestigiosa sezione della " Quinzaine des réalisateurs ". " The Rider " la " Quinzaine " quest'anno l'ha vinta , conquistando il primo premio. Ma non esagero se dico che se fosse stato presentato nella competizione principale gli si sarebbe dovuto dare la Palma d'oro. Tanto questo film sa toccare con pudore - e vigore - le corde più segrete della nostra natura umana. E tanto lo fa con assoluta padronanza del mezzo cinematografico , senso del ritmo, veri personaggi che si muovono negli spazi sconfinati del Sud Dakota, inquadrature emozionanti ( che siano i cieli al tramonto, le distese di granoturco con lo sfondo delle montagne oppure un povero paraplegico che è stato un grande " cowboy " o un gruppo familiare in una dimessa " mobile home " ). Davvero eccitante  la visione di questo " The Rider ", pensando che è stato girato con quattro soldi e che si appresta ad ad avere un grande successo in patria e, speriamo, qui da noi. Una storia molto bella, dicevo , affascinante perchè è quasi un documentario o , piuttosto , una " fiction " che è però un documento di vita vera , vissuta. E l'arte, come sappiamo, insegue la vita , la trasfigura e ce la restituisce rendendola paradigmatica , unica ed emozionante. Proprio come fa questo " Rider ", sorpresa ed autentico regalo di Cannes 2017.

Poi, il quarto giorno, la delusione. L'" anticlimax " di un minifestival milanese che si stava svolgendo tutto sommato meglio del previsto. " Mobile Home " ( non credo che il titolo meriti una traduzione ) del francese, emigrato negli USA, Vladimir de Fontenay si rivela presuntuoso, immaturo e - quel che più importa - per lunghi tratti noioso. La protagonista, Ali ( nome improbabile per una vicenda che non si capisce dove sia ambientata, forse  a metà strada tra Canada e Stati Uniti ) è una " marginale ", al pari del patibolare compagno cui si unisce  in continue scorribande fatte di piccole truffe e  commerci poco legali ,  tra soste in pidocchiosi motel e vaghe speranze di avere un giorno una casa propria. Dimenticavo, con loro c'è anche un bambinello, educato alla dura scuola della vita dei " drifters " dalla coppia di cui sopra. Una materia, come si vede, sgradevole e insidiosa per un cineasta alle prime armi com'è il nostro de Fontenay  perchè richiederebbe - per evitare di farne occasione sia  di facile moralismo che di strisciante esaltazione - mano maestra, equilibrio di insieme . E , soprattutto, di un progetto estetico ben preciso ( mostrare, in maniera distaccata,  le difficoltà obiettive di una simile esistenza oppure porre l'accento sulle aspirazioni del personaggio principale, la ragazza Ali , nel tosto confronto con una realtà poco accomodante ? ). Un progetto al cui servizio porre una sceneggiatura, non dico di ferro , ma che almeno stia in piedi. Nulla , purtroppo- o troppo poco - di questo è dato intravedere nei cento minuti in cui dura il film. Il " partito preso " del regista ( co- sceneggiatore ed autore del soggetto,  tratto da un romanzo che mi è sconosciuto ) non è mai evidente, e questo inficia gravemente  quel tanto di empatia che deve stabilirsi, lo sappiamo, tra lo spettatore ed il film . Non riuscendo mai a sollevare  la figura della ragazza  da un bozzettismo anedottico,  de Fontenay ( bel nome , però ) si rivela assolutamente incapace di creare un personaggio credibile, magari sgradevole  (il cinema, come l'arte, non deve essere a tutti i costi edificante ) ma almeno  di carne e di sangue , sul quale soffermarci con interesse. Colpa, qui , occorre dirlo, anche dell'attrice che impersona Ali, tale Imogen Poots, un'inglesina  un pò troppo in carne che definirei- anche per una vaga somiglianza nel taglio degli occhi e nel sorriso - una Scarlett Johansson delle grandi praterie innevate ( quelle che si vedono nel film ). Poco artisticamente dotata, per nulla carismatica come è invece la sua illustre somigliante, non riesce assolutamente a caricarsi tutto il peso del film sulle sue spalle rotondette e a dargli almeno il senso di un ritratto di una ragazza di oggi, piena di ingiustificate speranze e travolta dalla durezza dei tempi. Ingarbugliata la sceneggiatura, la regia non brilla per particolare inventiva e non riesce a sollevare quasi mai il film su di un piano artisticamente attraente. Si intravede qualche qualità nel filmare le scene d'ambiente ( ci si chiederebbe altrimenti chi lo avrebbe invitato ad un festival internazionale ) ma troppo acerba , francamente, per consentire da dargli almeno la sufficienza. " Peut faire mieux ", come dicono i francesi. Rimandato ad un ulteriore sessione d'esame, diremmo noi.

Infine, l'ultimissimo giorno della rassegna milanese, il pubblico del " Colosseo " si è visto offrire il " premio speciale della Giuria " tra i film in concorso a Cannes. Era il bellissimo, ancorchè leggermente deprimente, film russo " Loveless " ( " Senza amore " ) dell'ormai affermato Andrey Zvyagintsev, di cui abbiamo visto il potente " Leviathan " nella stagione 2015/2016. Dovrebbe essere distribuito ( il condizionale è sempre d'obbligo in questi casi ) anche da noi nella prossima ( in Francia esce verso il 20 settembre ). Ne riparleremo quindi quando verrà il momento, anche perchè sono convinto che film così vadano visti almeno due volte per coglierne tutte le sottigliezze di inquadrature e di dialogo. Tanto il film è complesso nei temi trattati ( la trama, abbastanza semplice, nasconde però  vari " sub- testi " molto interessanti sulla Russia di oggi che meriterebbero ciascuno un film ) quanto fermo e  lineare nella cifra  stilistica , di grande rigore e formale precisione. Alle corte. Siamo, appunto, a cavallo del conflitto russo-ucraino di questi anni. Una coppia come tante altre, malassortita, ancorata per certi versi al retaggio del passato ma proiettata per altri e preminenti verso un avvenire sempre più senza punti di riferimento ideali, " senza amore ", sta per divorziare e mette in vendita la casa coniugale. L'uno e l'altra hanno già due relazioni di rimpiazzo- il marito ha addirittura messa incinta l'amante -  e tutto, diciamo così, andrebbe abbastanza bene , pur tra feroci ripicche e una totale lontananza spirituale tra i due, se non fosse che il figlio dodicenne , non resistendo allo strazio dei continui litigi tra i genitori, scappa di casa. E l'affannosa ricerca del fuggiasco, tra ritardi ed inefficienze della polizia e interventi di volontari dall'inquietante assetto paramilitare, occupa la seconda parte del film , di cui ovviamente non racconterò  l'emblematico finale. Di rara coerenza formale, girato superbamente da un grande uomo di cinema, con qualche ( ma forse è una prima impressione ) lungaggine di troppo quà e là in alcune inquadrature o sequenze , il film non è solo un incisivo dramma familiare. Esso è in realtà una impietosa radiografia di una società e di un regime che hanno dato ai cittadini-sudditi ( relativo ) benessere ma a prezzo di una totale desertificazione degli animi. Non c'è un solo personaggio del film ( ecco perchè il suo " coté " un pò deprimente ) nel quale trovare un barlume di umanità, a parte il povero ragazzo scomparso con il suo ingenuo desiderio di librarsi nel cielo abbandonando le miserie di questo mondo. Fotografia e musica entrambi di grande respiro. Interpretazione solida, soprattutto da parte dei personaggi maschili. Ma quelle donne ( egualmente brave le attrici che le interpretano ) sono davvero inquietanti nella loro superficiale determinazione verso la stabilità ed il benessere  ancor più che nel loro sostanziale smarrimento. Da brividi, e da rivalutare , nel confronto, società forse ormai altrettanto epidermiche ma ancora con qualche punto di riferimento come , tutto sommato, la nostra.


martedì 13 giugno 2017

" Una vita " di Stéphane Brizé ( Francia, 2016 )

Il rapporto tra cinema e letteratura è sempre stato, da che si fanno dei film tratti da opere letterarie , uno dei più complicati, dei più difficili da risolvere. La parola scritta e l'immagine cinematografica rispondono a logiche di composizione, a "grammatiche ", a canoni estetici molto diversi. Benchè, per taluni film, si parli di "cinema letterario" e sia stata addirittura teorizzata, da parte dei francesi,  una " camera stylo ", cioè una macchina da presa che " scriva " i film come se fosse quasi una penna stilografica, il cinema dispone, per sua natura, di una autonomia di impianto e di un linguaggio che non potrebbero mai confinarsi ad una mera trasposizione per immagini  di una narrazione letteraria. Anche i film che si vogliono più fedeli al testo da cui nascono ( romanzo o racconto che sia ) finiscono poi col conquistare una loro fisionomia indipendente. Si staccano  dal modello da cui avevano preso le mosse, per il solo fatto di vivere sullo schermo e non sulla pagina, e chiedono di essere giudicati per quelle forme nuove che hanno creato e che li distinguono ormai inesorabilmente dal loro punto di partenza.
Possono sembrare , queste che precedono, considerazioni abbastanza ovvie. Eppure , quanti ( cattivi ) film che si segnalano per aver dimenticato , in un certo senso, che l'opera cinematografica non può - non deve - essere puramente illustrativa dell'opera letteraria da cui è tratta. Adattare un romanzo o un racconto per lo schermo richiede, certo, sensibilità ed aderenza al significato del testo. Ma anche e soprattutto talento  cinematografico " puro ". Capacità, voglio dire, di " ricreare " quell'opera con un linguaggio confacente a quello straordinario mezzo di espressione artistica che è il cinema. Mezzo che occorre  saper dominare ed indurre a " far sua " l'opera letteraria da cui trae occasionalmente ispirazione al fine di esprimere le stesse emozioni che nascevano dalla pagina scritta. Un'alta e difficile attività di mediazione, in definitiva, tra due " generi " artistici contigui e diversi al tempo stesso e che non può  concludersi, nella fattispecie, che con il trionfo dell'immagine  sulla parola.

Considerazioni, queste stesse, che mi tornano in mente ogni volta che vedo un film tratto da un opera letteraria. In specie se conosco quell'opera , perchè più facile mi è il raffronto e quindi il giudizio sulla capacità di sceneggiatore e regista di dar vita ad un mondo " loro ", pur  non discostandosi dallo spirito del testo adattato per lo schermo. In effetti, trasporre opere letterarie piuttosto celebri è molto più impegnativo che esercitarsi su operine semisconosciute e che possono essere usate come un semplice canovaccio, senza che il pubblico o la critica abbiano  a storcere il naso e manifestare il loro disappunto. Ed è quanto ho pensato, alcune sere fa,  andando a vedere  la versione cinematografica del primo romanzo di Guy de Maupassant, " Una vita " (" Une vie "). Un  film sceneggiato e diretto da un regista francese , Stéphane Brizé, non molto conosciuto da noi se non per " La legge del mercato ", il suo precedente film interpretato da Vincent Lindon. Dirò subito che mi è parso un film davvero molto ben riuscito nel non tradire il testo sottostante e nell'essere capace, contemporaneamente, di dar vita a qualcosa di personale e di autarchico, del tutto corrispondente alle esigenze  di una vera creazione cinematografica. Grande cinema , insomma. E sincero omaggio al romanzo realista degli ultimi venti-trent'anni del secolo decimonono, cioè di uno dei momenti più felici della letteratura francese ( Maupassant, Flaubert, Zola ) e che ha spesso ispirato il cinema del secolo successivo e del nostro con risultati, peraltro, non sempre adeguati. Qui , invece, tutto è mirabile. Dal modo di affrontare il testo originario, di cui ora dirò, alla  composizione delle immagini, alla recitazione di tutti gli interpreti, alla fotografia, alla scenografia, alla musica, ogni aspetto della creazione artistica si fonde in un risultato assolutamente convincente .

Siamo in Normandia, negli anni immediatamente successivi al crollo dell'impero napoleonico, quando la restaurazione non solo politico-istituzionale ma sociale e dei costumi era all'apogeo. Jeanne, fatta educare in convento dai genitori,  modesti esponenti della piccola nobiltà di campagna, è praticamente " data " in sposa a Julien, un giovane nobilotto spiantato, che si rivelerà presto  un tirannello crudele ed  egoista.  Senza alcuna esperienza autonoma, mal amata, chiusa in un piccolo mondo senza " uscite di sicurezza ", tra stanchi riti di società e scarsi piaceri di una noiosa vita domestica, l'eroina del romanzo attraversa con crescente ,doloroso stupore la progressiva scoperta di un mondo così lontano dalle sue aspettative. I tradimenti del marito, la freddezza dell'ambiente circostante, la delusione di amicizie che si rivelano effimere, le disgrazie che si abbattono sulla sua casa, non ne spengono tuttavia l'intima bontà, la capacità di empatia, l'ingenua attesa di un domani migliore.Anche quando il figlio da lei tanto amato si rivela così simile al padre nella sua irrequietezza, egocentrismo e abilità menzognera- e potrebbe davvero essere questo l'ultimo colpo per la povera Jeanne - un filo di speranza ( o di nuova illusione ) si fa strada in lei facendo chiudere il romanzo con la celebre frase pronunciata dalla fedele cameriera Rosalie : " La vita, vedete, non è mai nè così buona nè così cattiva come si crederebbe ". Appropriata epigrafe della concezione filosofica di Maupassant: un pessimismo cosmico mitigato dalla simpatia verso gli umili e i vinti, venato da una sottile ironia e sorretto a volte dalla intuizione di un qualcosa di misterioso e di inspiegabile ( non ancora Dio, ma un sospetto di sacralità ) che aleggia sulle miserie della nostra vita terrena.

La " mossa " vincente di Brizé nel ridurre il romanzo e traferirlo nello stampo di un film intelligentemente di media durata ( circa due ore ) è stata quella, innanzitutto, di alterare la rigida scansione temporale degli avvenimenti narrati, tipica del romanzo " classico " ottocentesco. Pur mantenendo il filo della  successione cronologica dei principali fatti evidenziati ( fidanzamento e matrimonio di Jeanne, dissapori e delusioni della sua nuova vita, accadimenti drammatici che determinano una svolta nella sua esistenza, i difficili rapporti tra Jeanne ed il figlio che la delude così crudelmente ) completamente libera è invece la " ricostruzione " in immagini delle varie vicende e la concatenazione delle immagini stesse sullo schermo.  Tra le  scene che si svolgono nell'ordine con cui le ha narrate Maupassant- e sono in genere i momenti salienti che descrivono l'evoluzione di Jeanne, i suoi turbamenti e le sue frustrazioni - il regista intercala altre brevi sequenze, a volte semplici  e fugaci immagini prive di dialogo, che anticipano, quasi fossero delle premonizioni di ciò che deve ancora accadere, il corso degli eventi. Oppure immagini, brevi squarci di luce, che illuminano il passato e permettono di meglio comprendere, quasi come un contrappunto " ex antea ", la situazione ed il presente stato d'animo della protagonista. Il regista ( e sceneggiatore ) Brizé ha , come si dice, felicemente " destrutturato " il romanzo. E lo ha poi ricomposto utilizzando, nell'ordine che gli dettava la sua ispirazione, i vari tasselli che ne ha ricavato. Ordine che non ha nulla di arbitrario perchè rimane fedele allo spirito dell'opera letteraria ed è soprattutto cinematograficamente efficace, perchè ottiene due risultati capitali. Il primo è che questo procedimento " ellittico " gli consente di sfrondare abbondantemente tutte quelle parti che, letterariamente " credibili " e financo pregevoli, sullo schermo non avrebbero avuto la stessa forza se trascritte pedissequamente ( ad esempio il viaggio di nozze in Corsica di Jeanne e Julien, che nel libro occupa parecchie pagine ed è, nel film, sintetizzato in un paio di solari inquadrature mentre  i due sposi navigano stretti l'uno all'altro su di un piccolo veliero ). Il secondo è che, sempre nel film,  la successione degli eventi si concatena in un modo molto più rapido e drammatico che nel romanzo, creando nello spettatore  quel doloroso sentimento di ineluttabilità e quella " pietas " verso il destino della sfortunata Jeanne che proprio Maupassant  costruisce nel libro attraverso un " crescendo " più lento e necessariamente meno immediatamente evidente. Ecco dunque esemplificata come meglio non si potrebbe la necessaria autonomia dell'opera cinematografica dalla " base " letteraria da cui essa è partita. Forte , vigoroso, a tratti crudele come era indispensabile che fosse, il film di Brizé si segue come un " giallo " o un film di azione anche se non ne ha minimamente le caratteristiche. Un grande risultato di regia, perchè - lo abbiamo detto più volte in passato per altri film - capace di costruire, con gusto raffinato, " forme " e non semplici figure ( la differenza tra una statua e un bassorilievo). Ma anche un eccezionale  "tour de force " di sceneggiatura per comprimere e sistemare con mano sicura    il tanto materiale offerto da uno dei più bei romanzi della letteratura europea.

Come Maupassant, Brizé ha una spiccata sensibilità per il paesaggio, la natura , il succedersi delle stagioni. Le immagini ricorrenti della morfologia a tratti selvaggia della costa e dell'immediato retroterra normanni sono di una bellezza calma e sconvolgente al tempo stesso. Jeanne , ci è dato pensare, li deve aver visti nello stesso modo , nei suoi turbamenti, nel suo anelito ad un soprassalto di libertà. E accanto a queste, gli interni spesso angusti ( o percepiti come tali ) della  abitazione paterna, divenuta poi l'infelice dimora della giovane coppia,  un microcosmo concentrazionario fatto di umiliazioni , di piccole sopraffazioni, abitato da un " cuore semplice " che soffre silenziosamente. E quell'orticello che Jeanne coltiva, spesso coadiuvata da suo padre, con maniacale attenzione, come se da quei semi e da quelle piantine infisse nel terreno dovesse nascere una risposta alle sue ingenue aspettative o una parola di verità che avesse la forza di illuminare il buio della sua esistenza .
Lo splendore figurativo del film deve molto, dicevamo , al susseguirsi sapiente delle inquadrature, alla rapida alternanza dei primi piani con i campi lunghi, come se il regista volesse a tratti ghermire i suoi personaggi, non dare loro scampo, oppure ricollocarli nel contesto più dilatato ( umano, sociologico ) al quale appartengono. La stessa scelta di usare un formato di proiezione quasi quadrato ( identico, o forse soltanto simile a quello impiegato recentemente da Xavier Dolan in " Mommy " ) oltre a rendere bene il senso di soffocamento , di costrizione , vissuto dalla protagonista, tiene coeso l'aspetto figurativo del film , senza possibili " fughe " nel pittorico e nel descrittivo tipiche di tanti film " in costume ", richiamandolo al compito di dar conto, e null'altro, del dramma esistenziale di Jeanne. A contribuire alla riuscita totale di un film giustamente ambizioso, una fotografia a colori che sfugge anche qui alla tentazione " pittorica " di tanti film ambientati nel passato per mantenersi costantemente funzionale  allo spirito del film ( si pensi alle scene d'interno illuminate solo dalla luce delle candele,alle alternanze potenti di luci e di ombre e poi alle improvvise incursioni "en plein air"). La musica, discreta ma efficace, si fa quasi dimenticare ed è il miglior elogio che le si possa rivolgere per un film che crea da sè, senza bisogno di sottolineature ulteriori, il suo mondo poetico.

L'interpretazione è superba. Judith Chemla " è " Jeanne, non la interpreta . Raramente ricordo un'attrice che abbia saputo rendere il suo personaggio nello stesso modo, intenso, sofferto, e con altrettanta nobiltà di espressione. I due genitori ( Yolande Moreau e Jean- Pierre Darrousin ) sono patetici ed emozionanti quanto serve . L'attore che interpreta Julien e quello   che " fa " il figlio Paul da grande ,stolidi e  sinistri senza sconti. Tutti a posto i personaggi minori e i figuranti stessi, a riprova della lunga preparazione del film e dalla cura che ha avuto Brizé ( che vi ha pensato, sembra, per almeno vent'anni ) nel curarne tutti gli aspetti. Che dire di più ? Dobbiamo la possibilità di vedere questo film in Italia ( presentato solo in versione originale sottotitolata ) al coraggio ( tardivo, ma meglio che mai ) di un distributore che ci ha pensato sù ben nove mesi ( tanti ne sono passati dalla sua presentazione a Venezia 2016 ) ma , alla fine, ha deciso di rischiarci qualche soldo. Presentato, su tutto il territorio nazionale, in sole 18 sale (  6 o 700 quelle di  un qualsiasi " blockbuster " americano attualmente in circolazione ) lo si va a vedere quasi novelli " carbonari " ( a Milano in una ex sala parrocchiale trasformata in " d'essai " , come a Roma , quarant'anni fa , il leggendario " Labirinto " ). Non che a Venezia, lo scorso settembre, fosse stato accolto meglio.Assolutamente meritevole di alcuni " leoni d'oro" ( miglior film , migliore regia, migliore interprete femminile ) è ripartito con le tasche vuote. Non importa. Il tempo fa giustizia delle piccole miserie di questo mondo.Ma Maupassant sarebbe d'accordo su questa mia certezza ? .   


giovedì 1 giugno 2017

" Quaranta pistole " di Samuel Fuller ( USA, 1957 )

Ci sono registi, ci sono film, che progressivamente svaniscono nel nostro ricordo. O che non abbiamo mai visto, o di cui non abbiamo neanche sentito parlare. Succede. Il cinema, a volte, può (ingiustamente) essere effimero. Metà arte, metà spettacolo e quindi prodotto di consumo, sembra - più di qualunque altra opera dell'ingegno - destinato dopo poco all'oblio. Specie se i suoi creatori non hanno una fama che resista al tempo e che li affidi, anche diversi anni dopo la fine della loro carriera, alla memoria degli estimatori e all'inesausto piacere dei cinefili. Tra  i cineasti che oggi appaiono dimenticati e di cui probabilmente le più giovani generazioni nulla sanno vi è , con una buona dose di ingiustizia, l'americano Samuel Fuller. Il pretesto per parlarne mi è offerto dalla visione in questi giorni di quello che è senza dubbio uno dei suoi film migliori, " Quaranta pistole " ( " Forty Guns " ) realizzato e distribuito nel 1957. Un anno particolare per il regista ( e sceneggiatore di questo e di quasi tutti gli altri suoi film ) perchè  uscirono, una dietro l'altra, ben tre sue creazioni. A dire quanto il prolifico Fuller, negli anni '50, fosse reputato un nome di tutto rispetto e che richiamava senza troppe difficoltà i capitali indispensabili  per permettergli di girare. Originale, bizzarro perfino, ma autentico, grande uomo di cinema. Non sempre capito dal pubblico, che poteva preferirgli i più tradizionalisti - ma inferiori - Huston, Zinneman, Hathaway ( per citare tre " nomi " particolarmente attivi e stimati nello stesso periodo ). E neanche molto sostenuto dalla critica, specie quella europea,  che ha spesso arricciato il naso di fronte  ad un autore tacciato di volta in volta di smaccato anticomunismo, bellicismo eccessivo, apologia della violenza, insidioso maschilismo. Impresentabile in società, in altre parole. Tutt'altro che un intellettuale alla moda. O almeno un geniaccio " politically correct " alla pari di Orson Welles ( con il quale Fuller ha pur qualche lato in comune). Nato nel 1912, attivo, sostanzialmente, tra il 1948 ( " Ho ucciso Jesse il bandito" ) e il 1965 ( anno del suo diciottesimo lungometraggio ) ha poi continuato a dirigere sporadicamente negli anni ' 70 ed ' 80, ed è morto nel 1997. Di premi, nel corso della carriera, ne avrebbe meritati tra i più prestigiosi. Ma, a parte un "leone di bronzo " ad un lontano Festival di Venezia, ha solo ottenuto, nel 1993 a Locarno, un tardivo riconoscimento all' intera sua opera. Poca cosa, insomma. Eppure i suoi film sono ancora oggi godibilissimi. Autentiche lezioni di come si scrive e di come si dirige per chi li sappia ( e li voglia ) guardare con animo non preconcetto, ci restituiscono uno dei più genuini esponenti dell'arte cinematografica. Per alcuni potrebbe essere una scoperta necessaria. Per molti un'utilissima conferma.

" Quaranta pistole " è un western. E, come tale, non si sottrae alle servitù di un "genere" codificato come nessun altro. Sparatorie, cavalcate,ammazzamenti, il contrasto tra buoni e cattivi. C'è tutto per rassicurare gli adepti di quella che , fin dai primordi del cinema, si è venuta configurando come una sorta di religione di rito strettissimo. E Fuller, totalmente immerso nel sistema hollywoodiano del cinema di genere, le paga il dovuto omaggio, rispettoso della tradizione. Anzi, per certi aspetti, dimostra un fervore filologico tutto particolare. Nelle scenografie, nella minuziosa ricostruzione della solita cittadina di frontiera dove è ambientata la vicenda, nei costumi studiatissimi nei minimi particolari indossati dai protagonisti, si vede  lo scrupolo artigianale di un regista intento a restituirci, più vero del vero, uno spaccato dei territori dell' Ovest ( siamo già diversi anni dopo la Guerra civile ) ancora preda di avventurieri, proprietari terrieri semifeudali, amministratori pubblici pavidi o corrotti, dove la legge è spesso sottomessa alla violenza e all'arbitrio. Eppure la vicenda ed il suo trattamento sono assolutamente non banali, anzi originali ed entusiasmanti perchè antinaturalistici, intrisi di lirismo , rispondenti più ad una visione soggettiva, onirica e melodrammatica, che ad una narrazione  piattamente descrittiva. Il protagonista maschile e tradizionale difensore della legge ( qui un agente federale ) venuto in città per arrestare un suo collega " venduto " ad una cricca di lestofanti che terrorizzano la popolazione, è fronteggiato dal capo della pericolosa masnada, una bella ( ma non più giovanissima ) avventuriera di umili origini. L'uno e l'altra , come appunto in un melodramma di Verdi o di Puccini, sono fatalmente spinti verso un' unione, una simbiosi carnale che è la  trasparente metafora dell'indissolubilità ( quindi del  necessario ricongiungimento ) del bene e del male o , se volete, l'inevitabile attrazione ( e complementarità ) degli opposti. E poco conta che, in omaggio alla correttezza contenutistica del cinema di quegli anni, la " cattiva " debba "redimersi" per sperare in una più duratura unione con il suo persecutore. La " chimica " che li guida e la passione poi che li domina se ne ridono delle convenzioni e ci restituiscono due personaggi forti, inquietanti, "inverosimili " se misurati col metro della mera logica, ma tremendamente veri e vivi quando trasfigurati dal fuoco della creazione artistica. Grande direttore di attori, Fuller ottiene da  Barry Sullivan ( un attore essenzialmente di teatro, senza particolare carisma ma di una " giustezza " qui a tutta prova ) e da Barbara Stanwyck (allora cinquantenne ma ancora splendida, alla sua ultima prova di rilievo ) una interpretazione intensa e , come richiesta dal contesto, leggermente sopra le righe, in sintonia con la voluta " esagerazione " di una vicenda sottratta alla semplice cronaca ed affidata ad una  esemplarità che può essere raggiunta solo con la deformazione del vero e l'ingresso nel sogno.

Fuller, dicono i suoi detrattori, è un barbaro, un primitivo. Intendono, con ciò, demolirne sul nascere qualunque " sapere " cinematografico si possa rintracciare in lui, sminuirne il significato ed il valore. Ma è proprio  in questa pretesa incultura  che risiedono l'interesse ed il fascino che suscita la sua figura artistica. " Barbaro"  perchè ha il coraggio di non aggregarsi ad alcuna " scuola ", di reinventare il cinema come se questo fosse ancora alle origini e di liberarsi, quindi,  delle influenze figurative o contenutistiche  che finiscono col gravare su coloro che si cimentano in generi cinematografici troppo frequentati : il western appunto, il film di guerra, il poliziesco. Il suo incedere ( e lo vediamo molto bene in questo " Quaranta pistole " ) è personalissimo, fantasioso ed innovatore. I suoi personaggi, pur ricalcati su " stampi " ormai consolidati da una lunga tradizione, si muovono, respirano quasi, in un'aura originale, mai banale, a volte perfino grottesca, lungo moduli narrativi che definiremmo quasi, in linguaggio musicale, polifonici : estremi, talvolta addirittura eroici, e nello stesso tempo  autoironici e smitizzanti. Chi conosce o vedrà il film di cui sto parlando ne troverà riscontro in varie sequenze : dalla " confrontation " iniziale, tipo " mezzogiorno di fuoco ", tra il protagonista ed il fratello della bella capobanda, alla incredibile sequenza del fallito attentato al protagonista medesimo ad opera dello sceriffo corrotto ( vera irresistibile " pièce " in cui la tensione dell'agguato si stempera nella franca comicità del comportamento del fabbricante di bare,con un montaggio nervoso e spezzettato che corrisponde perfettamente alla drammaticità della situazione ed alla imperizia dei cospiratori ). Vedendo e rivedendo proprio questa scena si capisce quanto, nelle sue opere più sconcertanti e quindi interessanti, sia debitore al maestro americano il western all'italiana di Sergio Leone per quel piglio gagliardo ma ricco di sarcasmo che  ne ha fatto le fortune.
" Primitivo ", poi, Fuller lo è certamente se prendiamo per buona la sua professione di fede in un cinema fatto di sentimenti primigeni, di amore e di odio, di azione e di violenza, in una sola parola di emozione. " Cinema is emotion " gli fa dire , ne "Il bandito delle 11" ( "Pierrot le fou" )  l' ammiratore  riluttante Godard . E mai " pronunciamento " sul significato ultimo del cinema, forse,  fu più sincero.  Perchè il  cinema  di Fuller ci porta davvero indietro ai primordi di quel mezzo di espressione, quando - prima delle sovrastrutture ideologiche che qualche volta hanno rischiato di corromperlo - l'essenza di quest'ultimo , il suo " core business ", era davvero " immagini in movimento ( motion pictures ) che provochino emozioni ". Ma primitivo non vuol dire certo rozzo o privo di stile e di eleganza. Si guardi , sempre in " Quaranta pistole " alle mirabili inquadrature che compongono due tra le sequenze più belle. La prima è, nella prima parte del film,  quella della schermaglia erotica tra il fratello ed aiutante del protagonista e la bella armaiola che egli ha appena conosciuto ( impersonata da  una biondina niente male che si chiamava Eve Brent ma che non ha avuto molta fortuna col cinema ). Gli sguardi, il dialogo allusivo, i primi contatti , sono quasi riassunti- per così dire - in un inusuale, fantastica inquadratura "soggettiva " del malizioso sorriso della fanciulla  visto  attraverso la canna di una pistola, immagine che sfuma, in quella successiva, in un breve e rovente abbraccio tra i due. Tanto di cappello, qui, ad un fraseggio ellittico che pochi registi che avessero voluto descrivere  la nascita  del reciproco desiderio ed il suo coronamento sarebbero riusciti ad esprimere con tanta economia di mezzi . La seconda sequenza è quella del funerale ( non dirò di chi, per non togliere la sorpresa ) dove tutto il pathos, la solennità e la quieta assurdità di un momento così triste sono espressi, senza dialogo alcuno, da un lento , doppio movimento  laterale della macchina da presa che inquadra, nell'ordine, il congiunto " elegantemente " in gramaglie, uno stupendo , stilizzato, carro funebre e un personaggio minore che intona un bellissimo " spiritual " adeguato alla circostanza. Primitivo , forse, ma ricco di fascino, di  inventiva, in definitiva di autentico e inimitabile stile figurativo.

Solido narratore - le sue sceneggiature sono essenziali ma prive di " buchi " e di smagliature -  Fuller è dunque altrettanto abile ed ispirato nel dare veste figurativamente acconcia ai fantasmi partoriti dalla sua vena creatrice. Nè troppo in alto nè troppo in basso, nè troppo a destra nè troppo a sinistra: si direbbe che egli sappia sempre dove disporre la macchina da presa per trovare l'inquadratura giusta. E le immagini che ne vengono fuori, le figure cui egli dà vita, sono quasi mai banali o ininfluenti sulla progressione drammatica della vicenda. Qualcuno ha detto, cogliendo un aspetto tutt'altro che marginale del suo lavoro, che se le sceneggiature di Fuller ( per la loro pregnanza e capacità di mirare all'essenziale) sono davvero cinematografiche, le sue inquadrature sono per contro sempre squisitamente "letterarie " nel senso che contengono significati che trascendono ciò che è mostrato e che rinviano ad echi e suggestioni sottostanti e più profondi. Probabilmente è vero. Ma non insisterei su questo aspetto , che rischia di restituirci un Fuller troppo " intellettuale ", lontano da quel  genuino cineasta  che egli è. Raffinato, non sprovvisto certo di un suo retroterra più segreto, ma soprattutto istintivo e geniale nel rendere con immediata, plastica evidenza il bello ed il brutto della natura umana . " Quaranta pistole " mi è sembrato perfetto in questo senso. Capace  costantemente di appassionare lo spettatore, di tenerlo col fiato sospeso, di commuoverlo e di farlo sorridere. Spirito indipendente ma rispettoso dei necessari condizionamenti produttivi che ogni artista di cinema, prima o poi, è  costretto ad assumere, ad introiettare nella propria creazione artistica, Fuller qui ha dovuto accettare un finale che non era quello, meno lieto, che egli avrebbe voluto dare alla sua storia. Per questo ha sempre cercato in seguito di affrancarsi dal controllo delle maggiori compagnie produttive. Ma non era certamente un ribelle o un rivoluzionario. Riconosceva l'importanza del rischio corso dai finanziatori, distributori, esercenti delle sale dell'epoca ( la sua parabola artistica si è incrociata , in gran parte, con la crisi del cinema hollywoodiano negli anni cinquanta del Novecento, pesantemente insidiato dal rampante mezzo televisivo ). Amava , probabilmente, troppo il cinema per non rispettarne tutti i suoi aspetti. Quelli artistici come quelli inevitabilmente commerciali. Contemperando gli uni e gli altri in risultati che, se non sempre di pieno successo quanto a gradimento del pubblico e della critica,  erano comunque frutto di grande onestà creativa e di piena sensibilità. Qualcuno, insomma, che ha amato veramente il cinema e ha vissuto per esso. Da qualche giorno " Quaranta pistole " mi ronza nel cervello, riaffiora continuamente dal mio subconscio, batte alle porte della mia sensibilità estetica. Non tutta l'opera di Fuller penso sia  alla stessa altezza. Ed egli non possiede, nella stessa misura e  con la stessa costanza, la forza evocativa, il rigore creativo di un Ford , di un Welles o di un Hitchcock.  Ma questo film è  una vera " lezione " di cinema, un piacere per chi  crede in questa fantastica  forma di espressione artistica. Da vedere assolutamente ( uscito da pochissimo in DVD, in una copia completamente rimasterizzata che ci restituisce il formato " cinemascope " dell'epoca, con una fotografia in bianco e nero di rara suggestione ).