sabato 29 ottobre 2016

"La ragazza senza nome " di Jean-Pierre e Luc Dardenne ( Belgio, 2016 )


Ancora un film sulla nostra coscienza e la responsabilità verso gli altri . Ricorderete forse " Un padre e una figlia " , il film romeno di cui abbiamo parlato qualche settimana fa. Questo di oggi ( in originale "La fille inconnue", e una volta tanto il titolo italiano mi sembra addirittura più indicato ) è l'ultima creazione dei fratelli Dardenne, gli eccezionali " artigiani " cinematografici che vivono ed operano da più di vent'anni nella periferia di Liegi.Non esito ad impiegare questo termine, artigiani, perchè penso che riesca a rendere l'idea di un lavoro certosino di ricerca , di scrittura ( le sceneggiature sono tutte rigorosamente loro ) di reperimento dei luoghi da filmare, di preliminare e minuzioso studio delle singole inquadrature, di controllo meticoloso degli ambienti ( tutti o quasi autentici,non solo gli esterni, veri appartamenti, case o luoghi pubblici , insomma ) . Un lavoro che può prendere, nella fase di preparazione di ogni opera, mesi o addirittura anni e che i due fratelli compiono insieme, in una continua e fruttifera collaborazione quali solo due esseri in piena simbiosi ed intensamente chini sul loro lavoro possono creare.
Jenny è una giovane dottoressa che lavora temporaneamente in uno studio di medicina pubblica , in attesa di essere presto ingaggiata da una struttura privata che le darà presumibilmente più prestigio e maggiori guadagni. Il quartiere in cui svolge la sua pesante attività è abitato da povera gente, operai, piccoli impiegati , disoccupati, anziani soli ,come si dice comunemente gente che fatica ad arrivare alla fine del mese . Ma ci rendiamo subito conto - o meglio sono gli autori che, con pochi e misurati accenni, ce lo mostrano - che al di là del disagio economico il vero problema è l'indifferenza reciproca , la scarsa comunicazione, l'usura dei sentimenti, il fatale ripiegarsi su sè stessi come ultima arma di difesa. I personaggi parlano poco e quando lo fanno ricorrono generalmente a frasi stereotipe, per prudenza , per pudore forse della loro condizione. E il medico, questa istituzione che nei tempi moderni ha laicamente sostituito il confessore o le tante guide spirituali e materiali di una volta, è diventato il perno intorno al quale ruota forzatamente un'umanità dolente e bisognosa di attenzione.
Una sera, è passata più di un'ora dalla chiusura dello studio e Jenny si trattiene all'interno solo per sistemare le cartelle cliniche con il suo assistente, suona improvvisamente il campanello dell'entrata. La dottoressa è stanca , è attesa ad un piccolo ricevimento di benvenuto nel nuovo posto di lavoro, decide così di non aprire, non risponde nemmeno al citofono, pensa giustamente di avere diritto di "staccare" ". La mattina dopo è informata dalla polizia che una giovane donna è stata trovata morta, forse una disgrazia forse qualcosa di più sospetto, poco distante dallo studio medico. La telecamera esterna all' immobile, visionata dalla polizia, mostra che la vittima, una giovanissima africana rimasta inidentificata, era proprio la persona che, senza successo, aveva suonato il campanello la sera prima. Ciò che sconvolge Jenny, oltre alla inquietante coincidenza, è che dal filmato della telecamera di sorveglianza si intuisce facilmente che la donna era terrorizzata e, inseguita probabilmente da qualcuno, cercava riparo, assistenza, un aiuto qualsiasi, prima di fuggire via non avendo avuto risposta ed andare così incontro al suo triste destino.
Di qui la progressiva presa di coscienza di Jenny, la sua decisione di " non mollare ", di declinare l'offerta di andare a lavorare nella clinica privata e di rilevare invece lo studio di medicina pubblica dove svolge adesso la sua attività. Restare sul terreno dunque, non sottrarsi alla lotta, soldato di una diuturna, difficile battaglia per continuare a prestare aiuto al suo prossimo. Il rovello principale della dottoressa diventa quello di dare un nome alla giovane morta ,probabilmente una immigrata clandestina, sperando che i suoi parenti, dei conoscenti , qualcuno insomma, si manifesti e sia disponibile a confermare la sua identità ed offrirle  quindi una degna sepoltura. Incomincia così una sua personale inchiesta che la porta ancora di più a contatto con un mondo dove la solidarietà e la pietà faticano a farsi strada tra le preoccupazioni contingenti , la paura e lo stordimento di un modo di vivere sempre più alienato e smarrito. Non racconterò il finale, affidato alle ultime , vibranti inquadrature, di un 'opera che, a tratti, ha l'andamento di un " giallo " ma non dimentica mai le sue preminenti preoccupazioni morali.
Il film- coloro di voi che lo vorranno vedere sono sicuro che lo percepiranno- termina su di una nota di speranza e di ottimismo . Non è un " lieto fine ", l'esistenza di tutti rimane difficile e precaria. Ma una luce si è accesa improvvisamente, un principio di umanità si è fatto strada. Torna quella dignità dell'uomo su cui , un giorno forse, si potrà ricostruire una società più giusta, che riscaldi i cuori ed illumini le menti. Ma non è un " miracolo "- piccolo, molto piccolo - lo scioglimento di questo come degli altri film dei Dardenne . Nè una vera presa di coscienza sociale in senso rivoluzionario. Liberi sia da una fede religiosa ( il loro non è un approccio che crede nella trascendenza ) che da una politica ( non mi sembra nemmeno che riflettano su di una trasformazione che operi sui rapporti sociali ) i due fratelli fanno un cinema eminentemente , autenticamente, "umanistico ". Credono nell'uomo , in fondo, e nella possibilità di cambiamento e di crescita attraverso una presa di coscienza che partendo dagli individui investa e trasformi l'intera società.Tutto sommato, anche se programmaticamente laica, una visione che si avvicina almeno al nucleo centrale di quella cristiana.
Ma se questo è, secondo me , il significato del film alla luce anche delle opere precedenti ( ricordiamo almeno le più interessanti, " La promessa " , " Il figlio ", " Rosetta ", " Il ragazzo con la bicicletta " ) come è il film da un punto di vista più propriamente cinematografico ?Il cinema dei Dardenne solitamente è scabro, essenziale, concede poco allo sguardo goloso dello spettatore , non vi è la ricerca della bella inquadratura o del movimento di macchina fine a se stesso che strappi, per così dire l'applauso. Coerentemente,insieme a tutti gli autori che si sono posti grandi temi morali come loro punto di arrivo - Rossellini, De Sica, Bresson, Bergman, per certi versi lo stesso Hitchcock - i loro film sono composti da immagini funzionali alla vicenda (nei Dardenne, poi, il dialogo è ridotto, manca il commento musicale , la recitazione non è eccessivamente enfatizzata ). Ma è un cinema che non è mai facile o banale. Ci sono poche descrizioni ambientali ( delizia ma anche croce, ad esempio, dei film di casa nostra ) se non quelle strettamente necessarie allo sviluppo della vicenda. Il "territorio " dei Dardenne è reso sullo schermo da rapidi ricami, spesso notturni, fatti di strade , di facciate di case, di veicoli in transito, talvolta da poche notazioni geografiche , il fiume , i vecchi stabilimenti industriali dismessi . L' uso prolungato della macchina da presa " a spalla " dà un continuo senso di urgenza, di provvisorietà ,in conformità peraltro con la stessa atmosfera generale in cui è immersa la vicenda. Gli interpreti sono quasi braccati , pressati da inquadrature ravvicinate che trasmettono allo spettatore una fisicità e un senso di clausura che bene rendono la difficoltà dei personaggi di liberarsi dalle proprie costrizioni. Diremmo quasi un cinema povero, francescano nella sua semplicità ma di grande impatto emozionale.
Non tutto è perfetto o privo di mende , questa volta . Le prime sequenze de " La ragazza senza nome " sono un pò lente e poco incisive, a differenza che nelle opere precedenti. Alcuni passaggi della vicenda non sono oliati alla perfezione e qualche personaggio minore è meno riuscito. Tra gli attori non mancano quelli che collaborano con i Dardenne dagli inizi. L'interprete principale è la francese Adèle Haenel ( con lei non perdetevi, se riuscite a trovarlo almeno in DVD, "Les combattants " ) molto giusta nella parte, perfettamente in linea con le intenzioni della regia. Ma il film, poi, molto presto incomincia a salire di tono e di intensità, sino, lo ho un pò anticipato, al bellissimo finale, semplice e commovente. Uscendo dal cinema, mi sento di dire, per qualche istante ci si sente riappacificati col mondo, più buoni e più generosi . Ci salverà il cinema ( ci salveranno la letteratura , la musica, il teatro, le arti figurative ) da questo senso di sfiducia e di noia che sembra a volte intristire le nostre esistenze ? Un compito impegnativo e che vorremmo venisse affidato anche a qualcosa di più concreto e fattuale : ad un rinnovato soprassalto di volontà, ad un impegno civile, ad un forte sentire comune, chessò. Ma nel frattempo...

lunedì 24 ottobre 2016

" Café society " di Woody Allen ( USA, 2016 )

Quando arriva l' autunno, l'appuntamento con Woody Allen al cinema è di rigore. Dal 1970, o giù di lì, sono almeno una cinquantina i film che il prolifico regista
ha diretto e - fino a qualche anno fa- quasi sempre interpretato. Da qualche tempo a questa parte, complice ( è sull'ottantina) il naturale invecchiamento, ha smesso di apparire sullo schermo con nostro grande rimpianto. Non che i suoi film che non lo vedano nel cast siano meno interessanti o riusciti degli altri. Tutt'altro. A mio avviso, "L'altra donna " ( con una sontuosa Gena Rowlands affiancata a Mia Farrow ) e soprattutto " Match point " rimangono , ancorchè lui non vi reciti ,tra i suoi capolavori assoluti. Ma, certo, lo stranulato e inconfondibile sguardo di Woody, la sua recitazione tutta " in diminuendo ", fatta di pochi ma indovinati gag visivi, le sue battute fulminanti, costituivano un efficacissimo " plus " che non ci saremmo mai stancati di apprezzare.
La sua ultima fatica, sotto una apparenza lieve e leggermente svagata, ha uno spessore e una profondità che , se devo essere sincero, non riconoscevo sempre facilmente nelle opere più recenti. Intendiamoci. Vedere uno degli ultimi sei o sette film di Allen è sempre un'esperienza piacevole. Pochi autori di commedie ( il genere da lui maggiormente frequentato ) sanno essere altrettanto intelligenti e garbatamente irriverenti, oltre che raffinati e formalmente perfetti. Ma , a volte, terminata la proiezione, non rimane molto di più nel nostro ricordo. Il film, insomma, non torna ad aleggiare nella nostra mente e non riscalda i nostri cuori : abbiamo attraversato un'esperienza gradevole ma poco incisiva, che non dà esca al nostro immaginario e non " fermenta " dentro di noi.Non è tanto una questione di ripetitività- egli è accusato spesso di raccontare , in fondo, sempre la stessa storia con personaggi più o meno identici- quanto di assenza talvolta di un " sottotesto ", di una dimensione cioè che oltrepassi la semplice trama e che dia a tutto il film vigore e sostanza . Non pretendo, badate bene, che Allen ci offra un " messaggio ", cioè una " morale " delle storie che racconta e che , come talvolta succede al cinema, rischierebbe magari di rimanere esterna alle forme, cioè all'essenziale, di cui è fatta ogni opera , bella o brutta , intelligente o stupida che sia. Ma - come mi succede ogni volta che ricado nell'antico " vizio " di guardare delle ombre che si muovono su uno schermo- mi aspetto che l'autore mi emozioni, mi commuova , mi faccia pensare, attraverso la capacità evocativa delle immagini che scorrono davanti ai miei occhi.
La storia è semplice, quasi esile nella sua voluta essenzialità. Il nostro giovane protagonista- siamo intorno al 1935- è ancora una volta un ebreo newyorchese, in fondo un Woody Allen più giovane di quasi mezzo secolo, più in bello ma egualmente timido, speranzoso , dallo sguardo eternamente stupito e pieno di emozione ( " sembri un cervo abbagliato dai fari di una macchina " ,gli dice a un certo punto la ragazza dei suoi sogni ). Emigrato a Los Angeles per lavorare con uno zio materno che fa , con successo, l'agente cinematografico, si innamora, riamato, di Vonnie, la segretaria dello zio di cui la ragazza è segretamente l'amante. Qui Allen , che tante volte ci ha dato gustosi ritrattini della nascita del sentimento amoroso, ha la mano particolarmente felice nel descrivere le emozioni e gli impacci del giovane spasimante inesperto. La vecchia abusata formula di " un ragazzo incontra una ragazza " su cui si fondano tre quarti delle storie cinematografiche di questo mondo riceve nuova linfa in chiave delicatamente tenera ed ironica, come se non fosse un tema su cui è diventato difficile scrivere o mostrare qualcosa di nuovo. Merito degli attori, ma anche dello sceneggiatore -regista Allen che imprime sapientemente un ritmo e una risonanza originale alle sequenze in cui si sviluppa la " love story" all'ombra degli studios hollywoodiani ( pretesto, a loro volta, per una gustosa rievocazione degli ambienti ricchi e sofisticati in cui veleggiavano i cinematografari di quel tempo ).
Alle corte . La storia del giovane e di Vonnie prende una brutta piega perchè lei sceglie di interrompere la relazione con lui e di sposare il suo più maturo amante , che nel frattempo si è deciso a lasciare la moglie. Sconfortato, incapace di mettersi contro lo zio e di salvare così il suo sogno d'amore, il giovane torna a New York e si mette in affari col fratello ( un poco di buono che sta salendo tutti i gradini di una bella carriera criminale ).Diventato proprietario di un locale notturno di grande successo, sposatosi con una bella ragazza che gli da un figlio, il nostro eroe potrebbe dirsi piattamente soddisfatto, ben inserito nel tran tran di quella ricca e spensierata" café society " che dà il titolo al film. Ma il destino ( o il libero arbitrio ? ) ha ancora un tiro da giocargli . Intendo dire, cioè, la ripresa del legame ( questa volta " banalmente " adulterino ) con Vonnie che , soggiornando a New York , riaccende il suo immaginario erotico-sentimentale e rischia di trasformarlo in un " borghese piccolo piccolo ", tutto lavoro,casa e amante. Il film finisce senza che sia dato capire se il protagonista si assueferà a questo " arrangiamento " o non deciderà piuttosto di troncare nuovamente la relazione con Vonnie, complice la nuova gravidanza della moglie alla quale è , in fondo, profondamente legato.
Finale aperto , dunque ( al cinema sono i più belli... ) che ci lascia con un saporo amarognolo, un vago sentimento di malinconia ma la sensazione di aver assistito ad una storia molto , molto ben raccontata, con personaggi accattivanti,tutt'altro che originali ma serviti in modo non banale. La malinconia , il gusto agrodolce che assume la vicenda non sono elementi puramente esteriori, derivanti cioè solo dagli sviluppi di quest'ultima e dalla affettuosa rievocazione di un mondo che non c'è più. Derivano invece, come dicevo all'inizio, dal robusto " sottotesto " della storia narrata da Allen. La nostra stessa vita, egli sembra dirci ancora una volta, è regolata ( o non piuttosto "sregolata " ? ) dal caso , dal destino, ma anche dalle nostre scelte : innamorarsi, condurre oppure no una vita onesta, fare o non fare del male al prossimo ( il fratello gangster del protagonista ), ingannare o essere leali verso le persone che ci vogliono bene. Sono, come sempre , questioni morali con le quali non si scherza. La vita può essere molto piacevole e, alla fine , gli uomini e le donne possono anche acconciarsi ad una esistenza basata sull'effimero, sul piacere momentaneo ( la " café society, appunto ). E non è detto- sembra implicare Allen- che proprio questo non possa essere il segreto di una vita blandamente felice, unico antidoto alla paura della morte con la quale tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti. Ma, conclude il regista, proprio la certezza della fine della nostra esistenza,il comune destino che ci attende, avvolge in un alone di malinconico " eroismo " le nostre banalissime vicende, tristi o serene che siano, e le redime consegnandole all'eternità .
Che sia questo il " senso " del film, ma preferisco dire il sottile fascino che esso irradia verso lo spettatore, lo mostra chiaramente l'ultima sequenza. Il protagonista sembra riflettere sulla sua situazione, incerto tra il grande amore ritrovato e l'affetto per la moglie che gli sta per dare un nuovo figlio. In fondo ,immaginiamo, potrebbe anche decidere di non fare nessuna scelta e di accettare l'uno e l'altro. E la dissolvenza incrociata che invade con due bellissimi primi piani lo schermo ( con il volto sorridente di Vonnie prima e poi del protagonista, estatico e pensieroso ) potrebbe lasciarci immaginare che la relazione con la ragazza non finirà tanto presto. Ma il giovane, nell'ultima inquadratura dà le spalle alla macchina da presa, cioè a noi e sembra fissare, affascinato, il riquadro luminoso sul palco del suo locale, fatto di tante piccole lampadine che , al termine della serata, stanno per spegnersi ad una ad una. Prima ancora, il film termina, lo schermo si riempie di buio e il regista sembra questa volta affidare allo spettatore stesso un'ultima meditazione sulla vita, costellata di tante gioie e di momenti felici ma confrontata alla sua inevitabile caducità.
Woody Allen , con " Café society ", non solo ci ha dato il suo film più maturo e lineare degli ultimi anni. Ci ha gratificati con una "scrittura" cinematografica molto convincente. Il ritmo , il susseguirsi delle sequenze, è veloce, brillante e mai banale, punteggiato da una musica jazz d'epoca non invadente ma funzionale alla vicenda. La fotografia, del grande Vittorio Storaro, è sontuosa e pienamente aderente all'atmosfera complessiva. Ma, soprattutto, Allen sa dove posizionare la macchina da presa , quali movimenti farle fare , come inquadrare i suoi personaggi, in modo che le immagini, prima ancora che i dialoghi ( scoppiettanti e spiritosi ) facciano progredire la vicenda e le conferiscano quel sottile fascino malinconico che , da " Io ed Annie " e " Manhattan " è il marchio di fabbrica dei suoi prodotti di alto artigianato. Sono uscito dal cinema, al termine della proiezione, felice ed intenerito . L'autunno avanza, a Milano come credo a New York. Ma l'albero dal quale Woody trae la sua ispirazione non ha ancora perso tutte le sue foglie

domenica 16 ottobre 2016

" Indivisibili " di Edoardo De Angelis ( Italia, 2016 )


" In ogni metro quadro di questa terra ci sta tutta la bellezza e la bruttezza del mondo ", dice - se ricordo bene le parole di una sua intervista- il regista napoletano Edoardo De Angelis a proposito di quella fetta di Campania ( non più " felix " ) in cui è ambientato il suo ultimo film, " Indivisibili " . Presentato in una sezione collaterale della Mostra di Venezia, lo trovate da un paio di settimane sugli schermi. Accolto con opinioni lusinghiere dalla critica, qualcuno si è spinto fino a giudicarlo il miglior film italiano dell'anno. Paolo Sorrentino ( il regista de" La grande bellezza " ) ha sostenuto che avrebbe meritato di rappresentare la nostra cinematografia agli Oscar del 2017 invece del prescelto, il documentario " Fuocammare " di Gianfranco Rosi. Ed è vero che lo scarto tra questi due film dopo che si è votato per l'opera che avrebbe dovuto concorrere per l' Italia al prestigioso riconoscimento è stato di un solo voto . Insomma , voi capite che non siamo davanti al solito filmetto di casa nostra, gracile e mal nutrito dagli stessi mezzi di informazione, ma ad un'opera di un certo rispetto che richiede tutta la nostra attenzione.
Procediamo con ordine. Siamo nei dintorni di Castelvolturno, provincia di Caserta, su di un litorale che potrebbe apparire paradisiaco per i colori del cielo e del mare se oggi non fosse sconciato da costanti roghi di immondizie e da insediamenti abitativi di raro squallore architettonico, sorti come maligne escrescenze in spregio a qualunque ( del resto inesistente ) piano regolatore. Popolata da abitanti le cui attività economiche appaiono precarie ancorchè talvolta di una qualche consistenza e da un discreto numero di immigrati africani che a quelle attività fanno a loro volta riferimento in un ruolo chiaramente ancillare , la zona - come ci rendiamo conto dalle prime inquadrature - mette angoscia e tristezza solo a guardarla. Nè le cose migliorano quando veniamo introdotti dal regista nella famigliola che sarà al centro della vicenda, scampoli di quella subcultura odierna, depressa e smarrita, confusa dalle mille lusinghe della vita contemporanea e priva ormai dei robusti anticorpi rappresentati dai valori popolari di un tempo. La madre ,quarantenne belloccia con vistosi tatuaggi, intontita dall'erba che fuma ininterrottamente. Il fratello di lei e l'amico di questi, in funzione di coro leggermente catatonico. Il padre, con folta criniera da " hippy " in ritardo, sguardo da vero " mariuolo ", tracotante e sospettoso, vittima a sua volta del vizio del gioco. E poi ci sono le due vere protagoniste del film,le figlie della coppia : due gemelle siamesi diciottenni, fisicamente indivise, tragico "scherzo" della natura ma anche, nella loro grazia e nella loro ingenuità, autentico fiore ancora incontaminato in un contesto irrimediabilmente degradato. E , soprattutto, fonte di reddito quotidiano per la famigliola che, traendo vantaggio dalla propria apparente " disgrazia ", le sfrutta come insostituibile presenza ( remunerata ) di tutte le feste e le cerimonie del circondario in veste di singolare " duo " canoro dalle risonanze quasi misticheggianti. A metà , insomma , tra il fenomeno da baraccone e l' " icona " religiosa che , come San Gennaro, " porta buono " ed alla quale è bene scaramanticamente accostarsi.
Qui, debbo dire, questo De Angelis dà le sue cose migliori. La descrizione del microcosmo che ruota intorno alle siamesi, sia quello familiare che l'ambiente del circondario, è accattivante e robusta, sorretta da capacità di autentico descrittore realista- non dunque puramente bozzettistico- ed è " vero " cinema, tutto calato nell'immagine cioè, con i personaggi, anche quelli minori, che non hanno bisogno di tante chiacchere per farci capire chi sono. Penso alla straordinaria sequenza della festa di prima comunione, perfettamente orchestrata e dove il racconto ci porta già molto avanti nella comprensione delle " ragioni " dei personaggi stessi. Guardate ( se andrete a vedere il film ) la bambina grassa , cioè la festeggiata, il padre estasiato, le nostre due gemelle, la cantante " maggiorata " ed il " boss " che ne è l'amante , sullo sfondo di un pacchiano albergo con piscina in mezzo alla desolazione urbanistica. Pagine su pagine di indagini sociologiche e tanta letteratura neo-meridionalista non saprebbero darci uno " spaccato " così preciso e potente come i primi quindici- venti minuti di " Indivisibili ".
Peccato però- occorre pur dirlo - che poi le cose, a mio modesto parere, si guastino. La vicenda ha una svolta improvvisa, che diventa l'architrave dei successivi sviluppi, quando un chirurgo di passaggio, incuriosito e mosso a pietà delle due siamesi, convince i genitori a farle visitare e dichiara che un operazione di separazione è possibile , anzi auspicabile. Emozione delle gemelle , specie di quella che aveva già manifestato primi segni di irrequietezza verso la forzata simbiosi con l'altra. Sgomento dei genitori , in particolare il padre, per la prospettiva della perdita dei cospicui guadagni che deriverebbe dal possibile ritorno alla " normalità " della prole. Di qui la narrazione prosegue tralasciando - o comunque non mettendo più nel precedente risalto- la descrizione ambientale e focalizzandosi maggiormente sul rapporto tra le due sorelle, i loro tentativi di affrancarsi dal controllo dei familiari e di reperire il denaro necessario per l'operazione. Fino all'epilogo, che non vi dirò come al solito e che si presta a più di una ( arbitraria ) spiegazione.
Il problema- da cui deriva nella fattispecie la mia perplessità ed il mio disappunto per un film che non mantiene tutte le promesse iniziali - è che una storia " difficile " come questa e che il regista , stando anche alle sue dichiarazioni, vorrebbe " caricare " di intenzioni e di simbologie più ambiziose, non può che essere raccontata, a mio giudizio, che in due modi diversi. O in chiave fortemente realistica ( ma allora ci sarebbe voluta una sceneggiatura molto più coerente e coesa per convincerci di stare assistendo ad una storia " vera " ). O in chiave, invece, del tutto fantastica , onirica ( ma questo avrebbe richiesto , oltre ad una sceneggiatura più inventiva ed articolata, grande capacità evocativa da parte del regista, una vena cioè da autentico visionario e che egli non credo possegga , a giudicare almeno da questo film ). Dò un esempio, per chi ha già visto il film. La scena che dovrebbe risultare particolarmente " forte " , quella dell' orgetta a bordo del panfilo del " boss " e relativo tentativo di quest'ultimo di sedurre una , ma forse entrambi le gemelle risulta quasi imbarazzante, e non per motivi moralistici ma puramente cinematografici. Qui , se si fosse scelta la via del realismo, il regista avrebbe dovuto immaginarsi qualcosa di più credibile dei modesti " quadretti " che una lunga carrellata offre al nostro sguardo di forzati " voyeurs ". Oppure , scelta la via dell' onirico ( e sospetto che questa fosse la volontà di sceneggiatore e regista in questa sequenza ) sarebbe occorso spingere di più il pedale in questa direzione, giocare il gioco dell' immaginario con più convinzione e coraggio. Non fermarsi , in definitiva, ai cascami felliniani e alle citazioni dello stesso Sorrentino che mi è sembrato qua e là di scorgere, ma trasportare letteralmente il film su di un altro piano , farlo "lievitare". Fare in modo, cioè, che le immagini evocassero davvero un sogno , una visione delle due protagoniste, e che quindi , in un passaggio chiave del film, il " significante " ( le immagini, i volti , i gesti dei personaggi) esprimesse realmente un " significato " qualsivoglia. Significato che così, invece, è arduo rinvenire e lascia in bocca l'amaro sapore della delusione per un film che era partito molto bene e che si è un pò perso per strada.
Non vorrei apparire troppo severo verso un regista che, mi dicono , ha al suo attivo due discrete prove prima di " Indivisibili " e verso un film che ha comunque i suoi titoli di merito, in un panorama italiano letteralmente sinistrato dalla scomparsa o dall'inaridimento della vena creativa dei suoi " maestri " e che fatica a reperire nuovi talenti duraturi. Gli attori di " Indivisibili " sono tutti molto bravi. Non parlo tanto delle due gemelle che impersonano le siamesi, " prese dalla strada " e quindi eccezionali come capacità di " entrare " nel personaggio. Mi riferisco soprattutto agli interpreti professionisti, eredi della grande tradizione attoriale napoletana , assolutamente magnifici . La fotografia è molto suggestiva, vi è anche una colonna sonora musicale di buon livello ( il sassofono di Enzo Avitabile ) e canzoni ( quelle interpretate dalle due siamesi ) che rendono perfettamente l'atmosfera e la " cultura " da cui trae ispirazione il film . Un'ultima notazione. " Indivisibili " è quasi interamente parlato in un dialetto campano ( che non è il napoletano " verace " di Di Giacomo o di Eduardo) slabbrato e " contaminato " da altre influenze. Onore ai distributori che non hanno pensato di doppiarlo e si sono limitati ai provvidenziali sottotitoli. Non sempre è successo altrettanto per film ambientati in ambienti popolari, del Sud come del Nord ( penso a " La terra trema " e a " L'albero degli zoccoli " ). Piano piano il gusto si affina ed è una cosa che, non solo ai cinefili, non può che fare piacere

lunedì 10 ottobre 2016

"Un padre, una figlia " di Cristian Mungiu ( Romania, 2016 ) - " La ragazza con la valigia " di Valerio Zurlini ( Italia, 1961 )

Il problema delle responsabilità - che abbiamo verso gli altri ma anche verso la nostra coscienza- e quello, connesso, della colpa. Come mantenersi integri, come affrontare le mille insidie che ci si parano dinnanzi, come negoziare i difficili passaggi della nostra esistenza in cui siamo costretti ad operare delle scelte: scelte che possono risultare gravide di conseguenze per noi e per gli altri.Sono temi spiacevoli, che frequentemente si pongono alla nostra attenzione,alla nostra memoria o semplicemente alla nostra fantasia e sui quali ci arrovelliamo senza - e come, altrimenti?- venirne a capo in maniera soddisfacente.
Sono argomenti che, sul piano della trasfigurazione artistica, sono stati trattati, descritti, sviscerati infinite volte. Nella letteratura soprattutto, spesso con risultati straordinari. Tutti ricordiamo i tormenti dell' Innominato manzoniano nella famosa notte che lo conduce alla conversione. A teatro, come non pensare ai tragici greci od a Shakespeare?
Al cinema però siamo più riluttanti ad accettarli, come se le trame che si dipanano sullo schermo non fossero il luogo deputato per vedervi riflesse le nostre preoccupazioni,le nostre angosce, i nostri rimpianti. Il cinema , per molti, rappresenta anzi la fuga- se mai questa fosse possibile- dalle nostre ansie quotidiane, un mitico regno alle cui porte si arrestano, appunto, quegli interrogativi che spesso ci poniamo.
Non che manchino, naturalmente, felici esempi in cui sullo schermo, per la canonica durata di novanta o centoventi minuti, questo possa avvenire .Pensiamo a tanto cinema cosiddetto " di evasione ", tutt'altro che minore nella sua deliziosa amoralità artisticamente ben riuscita. Ma anche gli sceneggiatori e i registi che maggiormente sanno "divertirci " ( i Lubitsch, i Wilder, gli autori della " commedia all'italiana" degli anni 50-60-70 ) hanno poi, nel sottofondo e nemmeno tanto, risvolti, tonalità, accenti in cui i grandi temi morali fanno tranquillamente capolino e ci ricordano della nostra condizione umana: condannati a pensare, a " sentire ", a vivere insomma. E proprio il cinema, nella potenza espressiva dei maggiori creatori di forme cinematografiche ( Fritz Lang, Welles , Hitchcock, Rossellini per non citare che i primi che mi vengono in mente ) racchiude la capacità -assolutamente alla pari di altre forme d'arte- di evocare quei fantasmi che si agitano nella nostra immaginazione e nella nostra coscienza . Nel suscitarli nel nostro immaginario visivo e nel renderli vivi e assolutamente credibili, ancorche frutto di "finzione" ,attraverso i personaggi e le situazioni che " mette in scena ", esso svolge quella funzione critica dell'individuo e della società che è imprescindibile per noi esseri pensanti e ci " purifica " e libera al tempo stesso dai nodi irrisolti e dalle paure racchiuse nelle nostre menti e nei nostri cuori.Il cinema, in definitiva , per riprendere un interrogativo che ci si pone talvolta e darvi una risposta affermativa, può davvero in questo senso contribuire a " renderci migliori".
E' quanto viene in mente assistendo alla proiezione di " Un padre, una figlia ", tuttora sugli schermi italiani dopo essere stato presentato al Festival di Cannes la scorsa primavera ed avervi vinto ( non immeritatamente ) il premio per la migliore regia.Sotto questo titolo anodino inflittogli dai distributori italiani si cela l'originario "Bacalaureat ", che è in Romania, sul modello francese,la prova conclusiva degli studi secondari che apre le porte dell' Università, insomma il nostro esame di maturità. Ed è la prova che deve affrontare la figlia del protagonista, ottima allieva, destinata nella mente del genitore a studiare in Inghilterra e a rimanervi anche dopo la laurea, visto lo stato desolante di casa sua. Siamo infatti ai giorni nostri, in una cittadina della Transilvania in cui,dopo un quarto di secolo dalla caduta di Ceaucescu, le cose non vanno molto meglio quanto a stile di vita ( corruzione, piccoli ma sistematici intrighi di potere) di come andassero sotto la dittatura. Clima pesante , dunque, aggravato dalla poco brillante situazione economica generale e dall'atmosfera grigia e priva di slancio in cui si dibattono i personaggi del regista. Il padre della ragazza non se la passerebbe poi tanto male. E'un primario del locale ospedale, ha potere e prestigio. Ha in casa una situazione difficile, con una moglie, è vero, con la quale praticamente non comunica più ma è gratificato ( od afflitto, secondo i casi ) da una amante giovane e belloccia , insegnante nelle scuole cittadine. Tuttavia, ed è qui che prende le mosse il groviglio morale che ci viene proposto nel film, un banale incidente della figlia il giorno prima della prova ( un balordo l'aggredisce per la strada e le causa un considerevole shock, mettendo a repentaglio il buon esito dell'esame e conseguente speranza di venire accolta da una Università inglese )costringerà il padre a procacciarsi l'aiuto del preside della scuola per " ammorbidire " la commissione. Questi peraltro, per dare seguito alla richiesta, richiede a sua volta al medico di far saltare, fraudolentemente, una lunga lista d'attesa ad un suo parente in attesa di venire operato. Insomma : corruzione in cambio di un altra corruttela. Una pratica non certo sconosciuta o inattuata, in contesti così moralmente labili e degradati e che taluno potrebbe considerare " colpa lieve " , tenuto conto del fine- familistico ma non del tutto immorale- cui essa tende nella fattispecie.
Ma il nostro protagonista ha ancora una coscienza, nonostante tutto, e si apre in lui una sorda , dolorosa analisi che lo porta ad interrogarsi sui compromessi cui ha dovuto ( probabilmente ) piegarsi durante tutta la vita e sulla liceità o meno dei suoi comportamenti, pubblici e privati, passati e presenti. Come d'abitudine, non dirò di più per non togliervi l'incombenza di verificare da voi stessi " come va a finire "...
Dirò solo che questa auto-indagine del protagonista è tutt'altro che letteraria ed astratta- come , raccontandola, potrebbe temersi- implicando essa invece situazioni , dialoghi e soprattutto immagini ( al cinema assolutamente essenziali ) di grande pregnanza e pertinenza. Si delinea in questo modo non solo una dolorosa vicenda privata in cui il protagonista fatica a venire a capo dei propri scrupoli, a fare luce nel groviglio delle proprie sensazioni e dei propri comportamenti per trovare una indicazione morale definitiva per la non facile scelta che è chiamato a compiere. Ma anche un quadro desolante di un ambiente sociale in cui i miti del potere e del successo economico, in assenza di solidi anticorpi,trovano scarsa o nessuna resistenza, come se la cesura politica tra prima e dopo la dittatura , in fondo, contasse assai poco.
Grande descrittore del proprio sfortunato Paese ( qualcuno forse ricorderà un suo precedente film in cui veniva raffigurato l'iter terrificante di un aborto clandestino nella Romania di Ceaucescu ) Mungiu ha mano sicura nell'evocazione del sordido microcosmo che circonda il protagonista, nella direzione degli attori ( tuuti bravissimi anche se a noi sconosciuti ) e nel " taglio " delle singole scene, una più essenziale dell'altra, da vero " artigiano " che sa molto bene come il " meglio " sia spesse volte nemico del " bene ". Un film da vedere, come si diceva all'inizio, per constatare come il cinema abbia tutti gli strumenti espressivi per affrontare temi morali, di coscienza se volete, senza risultare stucchevole o piattamente " moralistico "
Accenno appena, per non ripetere considerazioni già svolte a proposito del primo titolo, con cui ha più di una sorprendente parentela, al secondo titolo che vi consiglio questa settimana, quella " Ragazza con la valigia " che certo diversi di voi avranno già visto a suo tempo o, più giovani di età, beati loro,avranno conosciuto attraverso la televisione o le cassette o i DVD. Qui, nella vicenda del " giovin signore " appena sedicenne che è irresistibilmente attratto dalla ragazza più grande di lui e dalla morale un pò semplicistica ( ma tanto, tanto migliore dei personaggi che la circondano, descritti con un astio ed un'enfasi appena sopra alle righe ) i più colsero allora solo una delicata storia di un amore adolescenziale ( meravigliosamente resa nell'espressione intensa ed attonita dei due interpreti principali, Jacques Perrin e Claudia Cardinale ).
Ma allargando un poco l'angolo di visuale e mettendo meglio a fuoco nel contempo le motivazioni dei protagonisti e dell'ambiente circostante, ci si renderà conto che il film ha preoccupazioni e risonanze morali evidenti ( presenti del resto in tutta l'opera di Zurlini ) e che anche questa volta il problema della " scelta " e della responsabilità si impone, " a contrario ", con imperiosa e plastica evidenza. Segnalo solo a tale proposito il personaggio del sacerdote- precettore del giovane Lorenzo ( un meraviglioso " cammeo " di quel grande attore che è stato Romolo Valli ) il quale trova la soluzione per interrompere la pericolosa infatuazione che questi ha per la aspirante " soubrette " Aida e che mi ricorda , cito ancora il Manzoni , quel personaggio che aveva per divisa " sopire e troncare ".
Andate a rivedervi ( o a conoscere per la prima volta ) questo meraviglioso piccolo capolavoro di una cinematografia che non esiste più ( quella italiana ) e ponetevi l'interrogativo ( morale ) del perchè , nella nostra società , come nel mondo della creazione artistica, siano state fatte certe scelte e si siano assunte , o disattese, certe responsabilità che ci hanno portato al punto in cui ci troviamo oggi. Ma non vorrei sembrare troppo pessimista o " piagnone ". I Lorenzo e le Aide possono essere buoni o cattivi , responsabili od irresponsabili. Sta a noi , una volta di più, scegliere se vogliamo che crescano come li desidereremmo.

lunedì 3 ottobre 2016

" Frantz " di Francois Ozon ( Francia, 2016 ) - " Giovane e innocente " di Alfred Hitchcock ( Gran Bretagna, 1937 )

Il primo titolo, come si vede, è ancora un film francese . Ricorderete forse " Ma loute ", nell'ultima puntata di questa rubrichetta . Ma, avverto subito, siamo molto lontani da quel malriuscito "pastiche" farsesco e serioso al tempo stesso che non vi avevo certo consigliato...
Tutt'altro discorso per " Frantz ", ultima fatica di Francois Ozon, autore prolifico ma che, per la verità, non mi era sembrato in passato costantemente all'altezza delle sue ambizioni. Qui il regista transalpino, autore anche della sceneggiatura, ci offre probabilmente la sua opera migliore. Un film austero ma tutt'altro che noioso o dimesso. Una storia appassionante, che vi accennerò appena per non togliervi il piacere di scoprirne direttamente gli sviluppi, calata in un contesto storico-politico che le conferisce un' eco ed una dimensione drammatica puntuali ed intense. Arrivato in concorso poche settimane fa alla Mostra di Venezia ne è ripartito purtroppo senza quei riconoscimenti che avrebbe largamente meritato, se si esclude un premio minore alla protagonista , Paula Beer, come miglior attore "emergente". Se penso a tutte le opere di una certa importanza che nelle edizioni precedenti non hanno avuto miglior sorte mi consolo e mi dico convinto che il tempo, poi, saprà fare giustizia. Intanto però sarebbe bene che il pubblico, se vuole vedere un film di grande bellezza formale e di solido contenuto di idee, si affretti a cercarlo prima che una frettolosa e timida distribuzione lo tolga dagli schermi !
Occorre ricordare innanzitutto che " Frantz" ha come punto di partenza la stessa trama di un film del 1931 del grande regista tedesco , emigrato ad Hollywood, Ernst Lubitsch, a sua volta tratto da una commedia francese la quale , a distanza di qualche anno dalla fine della prima guerra mondiale, si proponeva lodevolmente, anche se non con grandi risultati artistici, di riavvicinare francesi e tedeschi, divisi dalla loro "inimicizia ereditaria". Ma il film di Ozon se ne discosta poi ed assume svolte narrative e risonanze più ampie. Siamo in una piccola cittadina tedesca , nel 1919, ed un giovane visitatore francese,ex combattente appena smobilitato, professandosi amico di anteguerra di un coetaneo tedesco morto al fronte, avvicina la famiglia del defunto composta dalla madre , dal padre e dalla fidanzata di lui. Quest'ultima, rimasta fedele al suo ricordo, è ormai l' unico sostegno morale dell'affranta coppia genitoriale e vive con essa come una figlia. Fidanzata e genitori del defunto, dopo le iniziali diffidenze e la prevedibile chiusura che oppongono verso tutti i nemici vincitori, accolgono il giovane straniero con crescente simpatia, paghi di poter ravvivare attraverso la sua frequentazione la memoria del figlio e del promesso sposo. Non così però l'ambiente circostante, fortemente nazionalistico ed avverso da sempre ai francesi.Nè il sottile ed inespresso sentimento nato nel frattempo tra il giovane e la ragazza tedesca sembra fatto per aiutare le cose, ma piuttosto per attizzare gelosie ed incomprensioni. Partito il francese per far ritorno in patria e recatasi la tedesca a sua volta in Francia per cercarlo, ci si accorgerà che gli stessi pregiudizi nazionalistici, in forme forse più sottili ma non meno devastanti, albergano anche tra i vincitori. Mi fermo per non dire di più e permettere a chi vedrà il film di scoprire la progressione di una storia raccontata benissimo e che cattura completamente lo spettatore.Una storia, come ho detto, che non deriva da un soggetto originale ma che il regista sviluppa poi in piena autonomia e secondo una eccezionale capacità di descrivere quei sentimenti complessi che ne sono alla base , soffocati o deviati a volte dalla feroce stupidità che circonda i protagonisti, rappresentata dal pregiudizio, quando non addirittura dall'odio, per il " diverso " che semplicemente parli una lingua straniera o non condivida i nostri stessi " valori ".
Ciò che mi pare particolarmente riuscito , in " Frantz ", è proprio l'intreccio tra il " privato " e il " politico", come si diceva alcuni anni fa. Cioè tra la vicenda propria dei personaggi ( il visitatore francese, la ragazza tedesca , i genitori del defunto ) e la situazione storico- ambientale in cui questa è ambientata. L'una non può prescindere dall'altra perchè ognuna è , in un certo modo , il riflesso o l'amplificazione dell'altra. Non ci sarebbero asperità o reticenze nei rapporti tra i protagonisti - in particolare tra il giovane francese e la ragazza tedesca- se i loro sentimenti non fossero inespressi, e non riuscissero a meglio precisarsi, a causa dell'ambiente ostile che li circonda, così in Germania come in Francia.E , d'altro canto, la difficoltà di accettare il " nemico" è esaltata dalle innumerevoli vicende personali di incomprensione , di diffidenza e di paura che " giustificano " in un certo senso la distanza tra le opinioni pubbliche delle due nazioni ( o fazioni ) nemiche.
Una storia raccontata da Ozon in un modo elegante e raffinato, evidenziando le difficoltà dei protagonisti a precisare il proprio stato d'animo, suggerendo l'urgenza delle pulsioni interne soffocate dai condizionamenti esterni. Dietro, prima ancora che l'elemento politico-ideologico ( il pacifismo, l'internazionalismo ) che ha certamente ispirato il regista-sceneggiatore, si percepisce la grande tradizione del romanzo e della poesia francese tra ottocento e novecento, l'attenta analisi dei sentimenti , le ragioni del cuore che la ragione non comprende, il piacere di abbandonarsi al fluire delle proprie sensazioni ( Verlaine, espressamente ricordato nel film, così come Rilke sull'opposto versante neo-romantico di lingua germanica ). Cinema dunque, quello di " Frantz ", con referenti letterari molto precisi. Come espliciti, anche qui, sono il richiamo ai film dell'età classica ( la fotografia in bianco e nero, l'enfasi nella messa in valore delle espressioni sui volti dei protagonisti) e il partito preso di evitare a tutti i costi la caduta nella banalità del melodramma " retro " che avrebbe finito con l'impoverire fatalmente la vicenda, restringendola a un semplice fattarello ambientato in quell'inizio Novecento così "deliziosamente " tipicizzato da tanto cinema odierno.
Vi ho detto tutto ( o quasi ) sul perchè occorre salutare " Frantz " come una riuscita pressochè totale . Piccole imperfezioni o incongruenze che potrebbero notarsi quà e là sono difetti veniali, quasi altrettanti nei di bellezza. Resterebbe da chiedersi- accenno appena ad un problema sul quale presto o tardi occorrerà pure soffermarsi- perchè un film con queste ambizioni e questo rigore di espressione, che fa onore alla cinematografia francese, non avrebbe probabilmente mai potuto emergere dal deludente panorama del cinema italiano, sempre più legato all'effimero , all'aneddotico, lontano dal respiro narrativo e dalle preoccupazioni sociali che pur ne hanno costituito in passato il tratto distintivo.

Un elemento non trascurabile del fascino che " Frantz " esercita sullo spettatore è costituito , l'ho accennato,dall'essere una storia basata su di una coppia di giovani poco più che ventenni,forzatamente inadeguati dinnanzi ad un mondo ostile che li circonda ma riscattati, in un certo senso, dalla loro stessa vulnerabilità . Altrettanto giovani, in un registro meno drammatico, audaci e pieni di risorse, sono i due protagonisti del secondo titolo che vorrei segnalarvi questa settimana. Si tratta di un film di Hitchcock ( sì , sempre lui ! ) del " periodo inglese ". Un periodo particolarmente intenso, terminato con la partenza negli Stati Uniti nel 1939, in cui il giovane autore- era nato nel 1899- diresse ben ventisei lungometraggi tra muti e sonori, conquistandosi fama e successo di critica e di pubblico di quà e di là dell' Atlantico. Opere che, dopo, sono state un pò dimenticate, superate dal ben più consistente esito dei film prodotti in America e che oggi , finalmente, vengono riscoperte con rinnovato interesse.
Debbo la visione di " Giovane e innocente " alla cortesia di un carissimo amico che mi ha fatto avere il DVD e che lo aveva giustamente apprezzato. Il film , perfettamente restaurato nelle immagini e nel suono grazie ai miracoli del digitale, è freschissimo e del tutto godibile. Lo consiglio a tutti caldamente per la sua intelligenza, le soluzioni cinematografiche, la fluidità dell'esposizione. Lo spunto narrativo non è originalissimo perchè altre volte, nel corso della sua carriera, Hitchcock vi ha fatto o vi farà ricorso : un uomo è sospettato di un reato che non ha commesso e deve battersi per far emergere la propria innocenza, spesso coadiuvato da una donna. Ma il procedimento in questione, qui, è particolarmente gradevole ed ingegnoso. Nella rocambolesca fuga dalla polizia che lo ricerca e nel tentativo di rintracciare al più presto la prova che potrà scagionarlo ( un impermeabile che gli è stato sottratto dal probabile assassino ) il protagonista si fa aiutare, all'inizio contro la volontà di quest'ultima, dalla stessa figlia del capo dei suoi inseguitori con la quale, conquistatane la fiducia, intreccia poi una storia d'amore .
Ma, al di là della vicenda, ciò che interessa il regista e fa la gioia dello spettatore sono le tante situazioni, talvolta cariche di " suspence ", più spesso umoristiche, alle quali i due protagonisti si trovano confrontati. Con partecipe affetto Hitchcock ci descrive la campagna inglese ( siamo in Cornovaglia ) i tipi buffi che la popolano, dalle dimore signorili alle bettole dei diseredati, le speranze, i timori e la semplice gioia dei due protagonisti. Raramente , credo , la giovinezza è stata vista nel cinema di Hitchcock con la stessa tenera indulgenza con cui il regista guarda qui ai suoi personaggi-interpreti. E chi ricorda quanto severo e distaccato fosse Hitchcock, di norma, con i suoi attori non potrà non essere sorpreso di scorgere il garbo con cui ne sottolinea le movenze, la vena di sottile malinconia con cui si sofferma sui loro volti sorridenti, ancora inconsapevoli di ciò che la vita, crescendo, potrà loro riservare.
Come in tutte le vicende comiche o leggere, il dramma, il dolore , la sofferenza, si fanno poi inevitabilmente strada. E qui il maestro inglese ci dà, quasi nelle ultime bobine, una visione dell'assassino, dunque il vero colpevole, che ci induce a pietà e ci richiama, dopo tanti sorrisi e descrizioni serene, al fondo tragico della nostra condizione umana. Non anticipo questa lunga sequenza che contiene, a detta di buona parte della critica, la più bella "carrellata" ( che inizia, a dire il vero, con un movimento di grù in discesa ) della storia del cinema e che ci rivela chi è che ha sottratto l'impermeabile al protagonista ed è dunque l'autore dell'omicidio che apre il film, conducendolo rapidamente alla sua naturale conclusione.Dirò solo che qui, ancora una volta in Hitchcock , abilità tecnica e preoccupazioni morali ( dunque visione del mondo ) si sposano perfettamente in immagini di grande coerenza formale e di impatto visivo squisitamente cinematografico. Come in tutti i grandi registi del " codice " occidentale, da Ford a Welles, da Rossellini a Visconti.
Sia infine consentito al recensore di questa rubrichetta di spendere una parola sui due interpreti di questa deliziosa pellicola, perfettamente in carattere con i loro personaggi.Se il protagonista maschile, l'attore Derrick De Mornay, ci appare sufficientemente simpatico , sorridente, davvero " young and innocent ", dunque assolutamente nella parte, per l'interprete femminile, Nova Pilbeam, penso che non si potesse fare scelta migliore di questa ragazza, allora appena diciottenne ( era nata nel 1919 ed apprendo che è morta lo scorso anno a quasi 96 anni di età ). Fresca , sbarazzina, con due grandi occhi ed una svelta figuretta che le inquadrature del regista pongono sapientemente in vista, la piccola Nova è il vero " manifesto " del film , la personificazione di una condizione umana , diremmo quasi , " prima del peccato ", vulnerabile e forte al tempo stesso, alla quale affideremmo volentieri le nostre residue speranze ed il nostro emozionato rimpianto.