lunedì 22 aprile 2019

" CYRANO " di Alexis Michalik ( Francia, 2019 )

Ecco ( finalmente ! , qualcuno dirà ) un film divertente , ben girato e niente affatto stupido. Che una certa critica però, come se fosse un reato saper intrattenere il pubblico in maniera piacevole ed intelligente, si è  subito incaricata di bastonare. " Eccessivo ",  "sovraccarico ", " artificioso ": questi alcuni degli aggettivi che, specie in Francia, terra di origine del film,  sono stati impiegati per giustificare il nasino arricciato di più di un  recensore. Che cosa gli si rimprovera , in definitiva  ? Forse di essere troppo semplice e diretto,  non abbastanza sofisticato, involuto, arcano, nel raccontare, sia pure con qualche licenza, il concepimento e la messa in scena a Parigi, l'anno 1897, del capolavoro di Edmond Rostand che porta lo stesso titolo, qui da noi, del film ( nell'originale  quest'ultimo si chiama invece " Edmond " ). Un dramma in versi e in cinque atti scritto da un Rostand non ancora trentenne ma già autore di un certo peso e che trovò appunto, con la bizzarra e suggestiva vicenda ispirata alla figura di Cyrano de Bergérac, poeta e soldato del diciassettesimo secolo, la sua definitiva consacrazione.  E ancor oggi rappresentato  ed amato da un pubblico che permane sensibile al suo efficace misto di romanticismo e di invenzione fantastica. Trasposizione cinematografica di una commedia  scritta e diretta, a sua volta,  dallo stesso regista e sceneggiatore del film, il giovane ma dotatissimo Alexis  Michalik, grande successo negli ultimi tre anni,  " Edmond " o se preferite " Cyrano ", sarebbe, secondo una critica che ho letto, addirittura troppo "cinematografico ". Quasi a rovesciare il rimprovero che si muove spesso alle opere nate per la scena di essere, quando trasferite sullo schermo, ancora troppo teatrali. Con tutta evidenza questo Michalik, ricco di talento ed uomo di successo, deve dar fastidio a più d'un collega.

La vicenda del film immagina dunque ( non posso dire con quanta verità storica , ma non sta qui il punto ) che il giovane Rostand, già sposato , con due figli piccolissimi, a corto di quattrini e con poco credito verso gli impresari che diffidavano delle sue opere rigorosamente in versi , sia stato costretto  per esigenze professionali a mettere in piedi in fretta e furia una nuova "pièce " per  darla al famoso attore Constant Coquelin che era ben disposto a rappresentarla. Trovando ispirazione - qui la pura invenzione di Michalik -  nella curiosa, romantica vicenda  che lo aveva fatto diventare, nella vita, " consigliere galante "  di un suo amico, un giovane attore di lui molto più attraente ma letterariamente sprovveduto, innamorato della sarta di scena Jeanne da cui anche Rostand era , più  platonicamente, affascinato. Il commediografo, per aiutare l'amico,  scriveva a suo nome lettere piene di " charme " e di poesia alla bella Jeanne che così ( all'oscuro di quel maneggio ) si  accendeva sempre di più di passione per il bello ma insulso commediante.  Ecco così che nell'opera che prepara di gran lena perchè possa essere messa in scena al più presto, Edmond immagina che Cyrano, gran poeta ma poco avvenente e dotato di un naso a dir poco ...enfatico, sacrifichi ancorchè innamorato della bella cugina Roxanne il proprio impossibile obiettivo sublimandolo nel successo amoroso dell'amico Christian da lui aiutato a scrivere dolcissimi versi per la donna amata da entrambi. Anzi, in una famosissima scena della " pièce " teatrale, Cyrano fingendosi nell'oscurità addirittura Christian rivolge a Roxanne affacciata ad un balcone le più belle parole d'amore che la propria personale e  sfortunata passione gli ispira. Proprio come, nella realtà  era occorso di fare ad Edmond nei confronti di Jeanne per dare una mano a Léo.  Può sembrare , tutto questo, un tantino forzato. Ma la recitazione degli attori del film, il ritmo e la disinvoltura filmica del regista gli conferiscono invece una patina di verità che colpisce ed alla fine commuove. Crediamo anche noi spettatori che Rostand , scrivendo le parti di Cyrano, Léo e Roxanne,abbia voluto in un certo senso  rivivere poeticamente la propria vicenda reale, le proprie emozioni, le proprie irrealizzabili illusioni. L'arte che non tanto imita la vita , come a volte banalmente si dice, ma sussume piuttosto nel regno magico della poesia ogni umana vicenda.

Se questi, molto in sintesi, ne sono il punto di partenza e l'ossatura centrale, il film  è in realtà molto più ricco di vicende parallele, di spunti comici e brillanti che ne fanno, complessivamente, un gran bell'omaggio al teatro di una volta e a tutti coloro che , trovandovi gioia e ragione di vita, vi hanno dedicato la propria esistenza. Si va dalla compagnia di attori  che debbono mettere in scena " Cyrano de Bergérac " ( prime donne bizzose e colleriche, capicomici gigioni, comprimari frustrati e brontoloni, ma tutti sinceramente dedicati al palcoscenico ) ai proprietari di teatro sempre preda di  mille difficoltà, ai finanziatori avidi ma in fondo disponibili a rischiare, a tutto il piccolo mondo degli addetti alle scene , alle luci , ai costumi. Tutto quanto era, all'epoca, dedicato ad un pubblico che  gremiva letteralmente le sale , idolatrava gli autori e gli attori e dal teatro incominciava appena a lasciarsi distogliere   grazie ad un'arte cinematografica ancora agli albori.  La ricostruzione che fa  Michalik di quest'epoca e di questo ambiente è frastagliata, iconograficamente splendida, vivace e divertente quanto serve. La Francia e l'Europa vivevano gli ultimi anni di una temperie storica irriproducibile, mentre si avvertivanono i primi scricchiolii dello spalancarsi di un  nuovo secolo foriero di lutti e di distruzioni ( Rostand farà in tempo, prima di morire ancora giovane nel 1918 , a conoscere il crollo degli Imperi centrali e della Russia zarista, autentica cesura storica con un vecchio mondo destinato alla totale disparizione ).C'è, in tutto il film, che pur riesce a  mantenere  fede al suo intento principale di divertire il pubblico, quasi il presentimento di questa fine di un'epoca, dell'inevitabile venir meno di tante illusioni e  convenzioni sociali ; ma anche, più dolorosamente, del decadimento della poesia, della grazia, dei buoni sentimenti. Un film , quindi, assorto nella descrizione di un mondo che , come Cyrano nell'ultima scena, è destinato a scomparire per sempre.

Quanto ho appena osservato serve a fare giustizia di un 'altra critica che ho visto muovere al film. Quella di superficialità, unita alla scarsa originalità della trama. Superficiale il film non lo è per niente. Le situazioni , umane , sociali, storiche, artistiche che vengono presentate sono sempre trattate, come ho detto,  con toni molto giusti ed indicati. Si ride spesso in " Cyrano " , questo è vero. Se ciò è merito di Michalik, non certo difetto, l'autore sa anche toccare con delicatezza e misura i tasti del rimpianto, della rinuncia, del sacrificio ( si veda la scena dell'addio tra Edmond e Jeanne ). Il mondo del teatro, questo è vero, non è certo la prima volta che viene portato allo schermo. Ma ancora Michalik riesce a conservare un tocco di originalità, un singolare " mix " di verismo ed illusione che impedisce al film di scivolare nel corrivo, nell'aneddotico, nel banale.Gli uomini e le donne , teatranti, borghesi, gente del popolo, che ci vengono posti sotto gli occhi hanno il fascino discreto della vera vita sublimata dall'arte, di un mondo cioè che partendo dalla realtà contingente si solleva verso quell'assoluto  che è rappresentato dai valori ideali ( la bellezza, la grazia , l'amore ) verso i quali tutti, magari inconsapevolmente, tendiamo. Per evidenziare ciò erano necessari attori capaci di immedesimarsi relisticamente nella parte loro assegnata, ma in grado sempre di far intuire anche  qualcosa di più, uno spiraglio appunto verso una dimensione che realistica non è più tanto. Operazione riuscitissima per il protagonista, Olivier Gourmet, magistrale come sempre, ora che si è pienamente affermato nel cinema d'Oltralpe. Ma tentata, sostanzialmente con successo,  da tutti gli altri attori. Come non citare qui la splendida, vibrante , Jeanne di Lucie Boujenah : un'autentica rivelazione. Resta da parlare brevemente del regista ( al suo primo lungometraggio ) . Alexis Michalik - e qui dò una  piccola parte di ragione ai suoi critici- è tecnicamente bravissimo : sa dove mettere la macchina da presa, cura le inquadrature con grande precisione. Ma a volte vuole strafare. Abusa un pò dei movimenti di macchina , carrellate che non finiscono mai, movimenti di gru non sempre indispensabili. Peccati di un neofita, verrebbe fatto di dire. E diciamogli grazie, piuttosto, per averci regalato cento minuti di serenità, di gioia e di sottile emozione.


lunedì 15 aprile 2019

" CAFARNAO " di Nadine Labaki ( Libano / Francia, 2018 )

Cafarnao, nell'accezione più conosciuta della parola,  è un'indicazione geografica : città della Galilea ai tempi di Gesù, più volte citata nei Vangeli. Ma è anche un francesismo ( modellato sulla parola "capharnaum ") che vuol dire pressapoco un luogo dove si ammonticchiano le cose più disparate, in allegra o triste confusione. Ed è quest'ultimo il senso in cui va interpretato il titolo del film della regista libanese Nadine Labaki che l'anno scorso a Cannes ebbe un buon successo di critica. Qualcuno, in attesa dei premi finali, lo dava addirittura in predicato per la " palma d'oro"  ( andata poi meritatamente ad " Un affare di famiglia" del giapponese Koreeda ). Film che, a quasi un anno di distanza, approda ora ai nostri schermi e che sta già producendo una netta divaricazione tra chi lo giudica poco meno di un capolavoro e chi ci va molto più cauto. Apprezzandone, magari, lo spunto di partenza e l'afflato umanistico da cui è visibilmente pervaso. Ma esprimendo poi, come faccio io, forti riserve su come l'uno e l'altro si perdono presto in una sceneggiatura  troppo prevedibile e in una rappresentazione visiva sovraccarica e ripetitiva. Con il risultato che , lungi dall'essere la consacrazione nel registro drammatico di una cineasta che si era fin qui rivelata interessante ed abile nella commedia di carattere attraverso i due film precedenti da lei diretti, in particolare   "Caramel" del 2007, " Cafarnao " appare piuttosto come un deludente " soufflé " che, pur tenuto lungamente al forno, stenta  a sollevarsi. Ma procediamo con ordine.

Siamo ai giorni nostri, nella sterminata periferia di Beirut ( la " cafarnao " del titolo dove gli esseri umani più sfavoriti dalla sorte sembrano buttati lì alla rinfusa). Il giovane protagonista, forse dodicenne- i suoi poverissimi genitori, che hanno dato vita ad altra e numerosa prole, non si sono mai dati la pena  di dichiararlo allo stato civile- conduce un'esistenza quanto mai grama, allietata solo dall'affetto per la sorella di lui quasi coetanea : una ragazzinetta bellina che- lì crescono in fretta- padre e madre, come vedremo, venderanno letteralmente in sposa ad un avido commerciante del quartiere, immersi come sono nella più totale abiezione fisica e morale. Impariamo a conoscere il nostro ragazzino nella sequenza iniziale,ambientata in un aula di tribunale ( la graziosa regista del film  interpreta qui la piccola parte di uno degli avvocati ). Già condannato ed incarcerato per un fatto di sangue,  il ragazzino ha niente di meno che citato in giudizio i propri genitori, rei...di averlo messo al mondo senza essersene veramente presi cura. Di qui, da questo "incipit " alquanto fantasioso ed originale che poteva far sperare meglio quanto al tono generale del film, la vicenda  si sviluppa a  ritroso nel racconto del protagonista. Fuggito di casa in cerca di un domani migliore, che a tratti assume le sembianze di un tentativo di espatrio ( se solo avesse un certificato di nascita che, ovviamente, non possiede)  egli incontra per caso  una ragazza madre etiope che, come tanti altri, è entrata clandestinamente in Libano forse con la speranza di una successiva infiltrazione in Europa. Uscita di scena presto l'africana ( caduta in una retata delle solerti forze di sicurezza locali e gettata in carcere ) il ragazzino, con grande senso di responsabilità, si fa carico del figlioletto di  costei di appena  un anno di età e, lungi dall'abbandonarlo, lo accudisce come può e  se lo porta dietro nella sconsolata ricerca di un lavoro qualsiasi o di un " rampino " per emigrare a sua volta. Di qui alcuni incontri assai poco lusinghieri per il Libano contemporaneo ed altri accadimenti di cui non vi racconto per lasciarvi agio di scoprirli voi stessi, se vi venisse in mente di andare a vedere il film. Finale vagamente ottimistico, per fortuna, con protagonista che per la prima volta sorride ( " fermo immagine ", nell' ultimo fotogramma, sul suo volto finalmente disteso ) mentre, uscito di prigione, lo fotografano in occasione del rilascio del suo primo, agognato documento di riconoscimento. 

 " Spaccato " miserabilistico aderente alla cupa atmosfera locale, il film contiene anche, quà  e là, elementi più fantasiosi ed universali ( dopo " La Strada " tutti i registi rubacchiano a  Fellini quando debbono mostrare " poeticamente " indigenza, periferie urbane e relativi squallori ) sui quali, tutto sommato, si poteva forse costruire un canovaccio meno scontato. Malauguratamente esso sceglie invece la strada di una presentazione iperrealistica della vicenda, tipo documentario girato dall' Ufficio dell' Alto Commissario per i rifugiati, che- trattandosi qui di una " fiction " cinematografica - risulta paradossalmente ancora più artificiosa e farlocca, buona per impressionare le anime candide ma inidonea ad andare al cuore delle cose. Siamo sempre, scusatemi se probabimente mi ripeto, al vecchio equivoco del realismo al cinema.  Per risultare veritieri, sono  convinto, non basta andare in giro a riprendere con la macchina da presa portatile qualunque bruttura o laido  accadimento che si pari davanti all'obiettivo. Così in effetti, dopo le prime immagini,si crea soltanto noia ed assuefazione. Occorrono  invece misura, occhio attento di  osservatore, capacità di sintesi e di vera e propria  costruzione delle immagini e delle intere sequenze che saranno viste dagli spettatori. La " verità "delle cose, come sanno anche i buoni fotografi, non ci è mai restituita da un semplice scatto di obiettivo ma da quel particolare " taglio " che l'intuizione creatrice dell'artista sa imprimere alla materia rappresentata.Creare, mostrare in definitiva, al cinema vuol dire scegliere, far vedere ciò che è veramente essenziale. Un semplice particolare, un volto, un sorriso, un paesaggio sono, a volte, molto più veritieri e dicono molto di più di tante piatte ancorchè fedeli descrizioni;  anche quando, come in questo film, si vuole rappresentare una realtà complessa, confusa, sfuggente. I laudatori della Labaki, per difenderne il modo di procedere, hanno tirato in ballo addirittura Victor Hugo ( " Les Misérables  " , e ti pareva ) e certe raffigurazioni della Londra vittoriana di Dickens. Come a dire che la spettacolarizzazione - s'intende a fin di bene - dell' indigenza e dell'abiezione è più che legittima ed ha , ovviamente, illustri precedenti artistici. D'accordo, nessun dubbio su questo. Ma mentre la letteratura può permettersi di andarci giù pesante e di scendere nei  più minuti particolari ( " Oliver Twist " va oltre le quattrocento pagine e " I Miserabili " ne richiede circa mille e cinquecento ) il cinema, nei cento o centoventi minuti di durata media di un film, non può che praticare la virtù della velocità e dell'ellissi. Qualità, purtroppo, sorprendentemente ignote alla Labaki. Che così, oltretutto, non riesce ad imprimere un chiaro significato , una " moralità " alla vicenda, che la tiri fuori insomma dall' insidioso terreno delle buone ma generiche intenzioni.

Nel continuo, defatigante girovagare per le bidonvilles, tra lordure e squallore di ogni tipo, il film smarrisce fatalmente, infatti, quello che era il suo assunto iniziale : la rivendicazione di una piena identità, in quanto esseri umani, anche per i più piccoli, i cosiddetti marginali, i reietti della nostra società, cioè i poveri, poverissimi, i migranti, chiunque insomma non trovi utile collocazione nell'esiguo reticolo dei rapporti di scambio prevalentemente economico su cui è fondata la nostra convivenza umana. Bel tema genuinamente umanistico, che molto si sarebbe giovato- accanto all'altro assunto morale del film, la responsabilità verso di noi e verso gli altri - da un andamento più ruvido e serrato ( ah quei ripetuti, ruffianissimi primi piani o piani medi dei volti dei bambini, quell'intercalare allo spento sozzume dei ghetti gli improvvisi e meravigliosi tramonti sul mare di turistica derivazione; c' e' perfino una scena in cui il piccolo etiope di cui il protagonista si prende cura indossa - stile " United colors for Benetton " - un paio di pantaloncini rossi e una maglietta blu, un amore , vedesse signora mia ! ... ). Peccato davvero per le intenzioni della Labaki, certamente commendevoli sul piano etico ma artisticamente nate morte, una volta che sceneggiatura e regia si incaricano di accopparle sotto il peso di troppa fuffa sedicente verista. E non mi si venga a dire, come taluno incautamente ha fatto, che " Cafarnao " ricorda il nostro neorealismo o addirittura il cinema dei fratelli Dardenne. Una ripassatina a "Ladri di biciclette " o una visione alla moviola delle scene in borgata di " Europa ' 51 " ci tranquillizzerebbero subito sulla differenza di base tra il modo di procedere, forte ed allusivo, di De Sica e di Rossellini e le esangui , sovraccariche immagini della Labaki. Quanto ai Dardenne c'è più verità ed ardore  nell'accampamento di " roulottes " del loro  " Rosetta ", minuziosamente ricostruito e studiato nei minimi particolari, che nelle baracchette di lamiera fotografate piattamente " dal vero " dalla regista libanese. Almeno, accontentiamoci,  i bambini di " Cafarnao " ( specie il piccolo etiope  ) recitano benissimo. Al cinema, si sa, dirigere i bambini non è mai facile ma i minuscoli attori riescono sempre, in un modo o nell'altro, a strappare una lacrima o un sorriso al più accigliato degli spettatori.






domenica 7 aprile 2019

" TOM A' LA FERME " di Xavier Dolan ( Canada,2013 )

Folgorante inizio, quello di " Tom à la ferme " ( " Tom nella fattoria " ) del canadese Xavier Dolan. Vista dall'alto, una automobile che sembra piccola piccola nell'immensità desolata della campagna autunnale procede spedita verso il suo obiettivo. Obiettivo che, scopriremo nella inquadratura successiva, è una grande fattoria persa nel nulla ( le distanze  nell'immenso  Canada  sembrano a volte siderali )  e dove niente testimonia  una qualunque forma di presenza umana. Questo almeno è quanto sembra al giovane protagonista che, sceso di vettura, bussa inutilmente alla porta controllando che l'indirizzo che gli hanno scritto su un pezzetto di carta sia quello giusto. Entrato finalmente ( un mazzo di chiavi si trova a terra davanti all'uscio come se aspettasse semplicemente di essere raccolto ) ci rendiamo conto che in casa non vi è nessuno. Addormentatosi il giovanotto alla tavola di cucina dove,stanco per il viaggio, si è seduto, nella inquadratura successiva scorgiamo un nuovo personaggio, una donna anziana  che, immobile e in silenzio, lo osserva prima che egli si risvegli ed inizi  così il dialogo del film.

Mette conto di partire da qui, da questo straordinario " incipit " che , per la tensione ed il mistero che avvolgono l'intera sequenza, ricorda Hitchcock e le sue inquadrature cariche di controllatissima suspense, per sottolineare quanto nel cinema di questo giovanissimo autore (24 anni al'epoca del film ) i confini tra realtà ed irrealtà, verità ed artifizio, siano volutamente labili, filtrati come sono attraverso la mente ed i sensi dei suoi personaggi, ingannevoli e cangianti come accade spesso per ognuno di noi. In parallelo, del resto, verrebbe fatto di aggiungere, con il cinema stesso, con la sua essenza manipolatrice della nostra coscienza-incoscienza di spettatori disposti a farci catturare dalla finzione che si sviluppa davanti ai nostri occhi. Ed anche in questa storia ( se " storia " è, e non invece un sogno partorito dall'inconscio del protagonista ) siamo subito immersi in una atmosfera ambigua e mistificante. Possiamo vivere, infatti,  le situazioni che ci vengono mostrate sullo schermo come un dramma veristico-rurale dove l'intolleranza e la chiusura animalesca fanno da violento contrasto all'autenticità dei sentimenti ed all'ingenuità dei propositi del protagonista, oppure come uno di quegli incubi che possiamo vivere anche da svegli e che quanto più sono assurdi , tanto più assumono le sembianze del reale e del vero. O, meglio ancora, un incrocio tra questi due estremi uniti, come sempre nell'arte, dall'immaginazione creatrice dell'autore stesso.

Giunto  nella campagna quebecchese da Montréal per dare l'estremo saluto alla salma del collega di lavoro Guillaume, appena defunto ed al quale, in città,  lo univa un legame amoroso, Tom si accorge che nella fattoria della famiglia del compagno la madre di questi , Agathe, è totalmente all'oscuro degli orientamenti affettivi del figlio ( il quale, come copertura, si era perfino inventato una fidanzata, una compiacente " ragazza delle fotocopie" giù in ufficio ).Al contrario di quanto  non sospettasse invece il fratello del defunto, Francis - un vero bruto dedito solo al pesante lavoro nella stalla, con qualche bottiglia di birra ed una sniffata di coca ogni tanto -  il quale non vuole però ora che Tom, come pur si proponeva di fare, effettui postumo  e pubblico "outing "  a nome di Guillaume, togliendo alla madre  ogni illusione sul figliolo scomparso. Pressato violentemente da Francis ( cui, a sua volta, non sono del tutto estranee oscure pulsioni omofile ) Tom non solo è costretto al silenzio ma in pratica, anche su invito di Agathe  che in lui rivede probabilmente qualcosa del figlio, si scopre impossibilitato a lasciare la fattoria. Rivestito dai panni del defunto Guillaume ed indotto al duro lavoro di stalliere e di contadino, insidiato sempre di più dalle oscure minacce che sembrano gravare su di lui in quell'atmosfera falsa e soffocante... il finale non si racconta come in ogni " thriller " che si rispetti.

Ho voluto raccontare la trama ( sarebbe meglio dire l'apparente intelaiatura del film ) per rendere l'idea di come questa si presti a quegli infingimenti e a quel giochi a rimpiattino tra realtà e finzione cui Dolan , da " J'ai tué ma mère " del 2009 a " Mommy " del 2014, ci ha ormai abituato. Accusato di essere talvolta troppo lezioso o cerebrale, il suo cinema non è in realtà nè l'uno nè l'altro. " Costruito " lo è senz'altro, questo sì. Ma ditemi quale autore non lo sia ( Dolan , oltre che sceneggiatore e regista, monta da sè i propri film e ne cura il sonoro e l'accompagnamento musicale ) una volta dato per scontato che ogni opera d'arte è frutto certamente di una intuizione, un moto dello spirito creativo. Ma è poi necessariamente anche " forma ", cioè un involucro fatto di immagini, suggestioni estetiche e perfino strizzatine d'occhio, che quel moto avvolge ed esplicita e che va quindi studiata e curata in ogni minimo particolare perchè risulti ad esso coerente e meglio lo traduca ai nostri occhi. Dubitare della "sincerità" di Dolan o lamentarsi per quel tanto di eccesso e di spiazzante  goliardia che  è dato rinvenire anche in " Tom à la ferme " non ha quindi senso. E, nello stesso ordine d'idee, vanno accettate le non poche battute di spirito, quasi surreali, che spuntano qua e là nel dialogo di una storia tanto cupa e violenta. A ricordarci che si tratta dell'adattamento di un dramma , sempre di un autore quebecchese, che Dolan ha voluto assumesse echi e sonorità proprie del teatro dell'assurdo e della minaccia, denso di spunti umoristici, tipico del grande commediografo inglese ( e sceneggiatore lui stesso ) Harold Pinter, con il quale non pochi sono i punti di contatto intrattenuti dal giovane canadese.

Visivamente il film è bellissimo ( merito anche della fotografia ). Senza troppe " cartoline turistiche " sul fiammeggiante autunno canadese, prevalgono qui le brume e le piogge che preludono al gelo dell'inverno. Un'atmosfera soffocante, rischiarata a tratti da una luce irreale , come può essere a volte proprio quella dei nostri sogni, vedasi ad esempio nella scena del capannone in cui Tom e Francis ballano un tango con tanto di ironico " casché ". E gli ambienti troppo illuminati al néon delle taverne stradali ( quella della sequenza  prima del finale ) sembrano beffardamente rinviare all'oscurità della distesa dei campi circostanti gravidi di insidie. Proprio la campagna, dipinta idillicamente rispetto ai mille pericoli della città da tanto cinema e letteratura, acquista qui una tonalità inquietante , da cui  riusciamo a liberarci solo alla fine , quando torniamo alle mille luci scintillanti nella rassicurante, protettiva verticalità delle metropoli nordamericane. Tom è lo stesso Xavier Dolan,intrigante ed ambivalente quanto è necessario al personaggio. Efficaci anche gli altri attori,tutti dal saporito timbro di voce franco-canadese. Ma non vi illudete di vedere la versione originale senza dover fatalmente fare ricorso ai sottotitoli. La lingua che parlano  correntemente in Québec ha, come saprete, nel modo in cui è pronunziata e in certe espressioni idiomatiche,pochi punti di contatto con il francese che conosciamo. Elemento ulteriore di " straniamento " e di  singolarità in un film che  di sorprese ne riserva più d'una.


lunedì 1 aprile 2019

" I TRE AQUILOTTI " di Mario Mattoli ( Italia, 1942 ) / " CLEO DALLE CINQUE ALLE SETTE " di Agnès Varda ( Francia, 1962 )

A distanza di vent'anni uno dall'altro, due vecchi film ( del 1942, quasi la...preistoria , il primo e del 1962 il secondo ) mettono in evidenza, nelle rispettive trame,   una progressiva crescita,  una significativa evoluzione del personaggio principale. Anche qui, come la settimana scorsa, siamo di fronte ad  opere diversissime per significato, valore artistico, e quindi godibilità per lo spettatore di oggi che, prendendosi una forzata vacanza dall'attualità, si abbandoni momentaneamente al piacere di frugare nei reperti del passato. Eppure si tratta di opere,in entrambi i casi,  che  vogliono illustrarci  un cambiamento positivo, se non proprio una vera presa di coscienza , di due esseri umani inizialmente deboli,ripiegati sul loro piccolo egoismo, incapaci di amare veramente gli altri. Un itinerario esistenziale, questo, che è alla base della fortuna di tanto cinema e di tanta narrativa di ogni epoca dacchè la speranza di tutti noi - quella che alimenta le nostre stesse esistenze - sta proprio nella possibilità di trasformarci in meglio, di diventare più buoni, più coraggiosi, più saggi. C' è spazio per un nostro autentico miglioramento, se solo lo cerchiamo e lo vogliamo , sembrano dirci le più interessanti  "fiction " di ieri e di oggi. Ed è per questo che l'arte, talvolta, ha un valore non solo consolatorio dagli affanni e dalle delusioni della vita ma di autentico stimolo  per la nostra coscienza.

Il primo film , immagino poco noto ai più e di cui debbo la conoscenza  ad un mio caro amico, è un puro prodotto della cinematografia italiana negli anni  della seconda guerra mondiale. " I tre aquilotti ", diretto da Mario Mattoli ( regista che, dopo il conflitto, si specializzerà   in film leggeri, tra cui diversi quelli con Totò ) racconta la vicenda di un allievo ufficiale pilota inizialmente un pò  troppo disinvolto e superficiale, incline alla scarsa considerazione degli altri e ad un certo dongiovannismo da strapazzo. Il giovanotto, come vedremo nella seconda parte della pellicola,  cambierà però atteggiamento di fronte alle piccole avversità della vita: un amore contrastato a causa della cattiva fama che lo accompagna ed una contemporanea delusione professionale ( perde l'attitudine al volo ed è mestamente confinato, una volta al fronte, a compiti puramente di supporto ). Un incidente bellico occorso ad uno dei suoi due inseparabili compagni di vita militare, fratello oltretutto della ragazza da lui amata, gli darà però occasione  di riscattarsi salvando eroicamente l'amico ed ottenendo finalmente la mano della fanciulla.Fornito di una trama esile, trattata spesso con qualche approssimazione psicologica ma senza soggiacere troppo a quei richiami propagandistici che sarebbe stato lecito attendersi, il film vale per la sincerità del proposito, la linearità esemplare del racconto ed il taglio quasi documentaristico delle numerose scene ambientate all'interno dell' Accademia Aeronautica, ubicata allora nella splendida reggia di Caserta. Il protagonista è un convincente, scanzonato e signorile Leonardo Cortese. Uno degli altri due "aquilotti"  è un sorprendente e misurato Alberto Sordi, qui alla sua prima prova cinematografica di un certo peso, quasi commovente, giovane giovane, nell' elegante uniforme con spadino degli " accademisti ". Al di là del soggetto (concepito dal figlio di Mussolini, Vittorio, grande appassionato di cinema ) di sceneggiatura e regia, il film può essere visto anche come una utile testimonianza del nostro passato, indipendentemente dal giudizio storico che occorre riservargli, e spinge ad una più attenta rivisitazione della cinematografia del Ventennio, che è fin qui mancata per tante ragioni.

L'altro film , " Cléo dalle cinque alle sette ", è più conosciuto. Rivelò al pubblico internazionale una regista allora trentatreenne, Agnès Varda, una delle non molte donne in un mestiere ritenuto per tanto tempo poco consono alle signore, che si è andata in seguito costruendo con merito una sua statura di artista. La sfida tecnica e contenutistica era qui  quella di far condividere allo spettatore, quasi in tempo reale sullo schermo, le peregrinazioni, gli incontri , i tormenti del personaggio principale, una giovane donna parigina,che si estendono per  due ore ( in realtà poco più di un'ora e mezza , quanto dura il film ) di un pomeriggio d'estate. Unità di tempo e di azione, quindi, anche se i luoghi, dalla riva destra ai quartieri sulla riva sinistra della Senna , mutano continuamente .Cléo è una cantante di musica leggera che si crogiola nelle sue modeste ma rassicuranti certezze : un piccolo pubblico di affezionati " fans ", una governante-factotum che la protegge dalle noie  minute della quotidianità, musicisti e parolieri rassegnati ai suoi capricci, perfino un amante ricco ed elegante ma poco ingombrante. Un brutto giorno -  lì incomincia  il  film - Cléo ha un presagio di morte consultando una cartomante ( in effetti è malata , forse anche gravemente, apprendiamo che quello stesso pomeriggio un medico deve darle il risultato di una biopsia ) e la sua vita incomincia improvvisamente a vacillare. Abbandonati i suoi  gracili punti di riferimento, in preda ad una agitazione che è prodromo di mutamento, esce senza meta precisa da sola per Parigi. Si reca a trovare un'amica meno fortunata ma più spensierata che fa la modella di nudo per sopravvivere, erra per il parco di Montsouris, si imbatte in un giovane soldato in licenza che sta per ripartire per fare la guerra in Algeria e con lui, col quale ha simpatizzato ritrovando l'innocenza dei primi incontri, va all' Ospedale della Salpetrière per incontrare il medico che le deve dare il  responso. La sua esistenza sta cambiando. E non soltanto per la circostanza, come scopriremo,  che le sue condizioni di salute necessiteranno forse di una lunga cura. Ma soprattutto perchè  Cléo , che fino a qui si è sempre e solo " vista " attraverso lo sguardo degli altri rivolto verso di lei, alla sua bellezza ed eleganza un pò artefatte, ha incominciato  a " vedere "  ciò che la circonda, ad avvertire, come si dice,   empatia  per il proprio prossimo. Ora è pronta, probabilmente, per accettare la vera vita , anche con le sue inevitabili avversità.

Trama molto originale, itinerario esistenziale davvero esemplare, " Cléo " è anche un magnifico ritratto di donna dei nostri tempi( ancorchè girato quasi sessant'anni fa ) che trova nel malinconico sguardo di Corinne Marchand , la splendida interprete del personaggio, una luce, una risonanza di grande suggestione. La donna ha conquistato ormai la propria indipendenza economica, la propria autonomia di giudizio. Ma è ancora emotivamente fragile, vittima del modo con cui la società continua a guardarla, a classificarla : così come  succede per la sua amica modella, che nuda davanti agli apprendisti scultori, non è vista nella sua interezza di " persona " ma  piuttosto come un assemblaggio di parti anatomiche da riprodurre e modellare. " Une femme qui se cherche ", direbbero i francesi e coglierebbero perfettamente quel vuoto, quella mancanza esistenziale che impedisce al personaggio femminile la sua compiuta realizzazione fino al momento in cui un fatto esterno ( la malattia ) non si incarica di schiuderle le porte della vera vita. Ma se Cléo regge sulle sue morbide spalle gran parte di quest' opera così delicata e  struggente  , Parigi non è da meno nel ritagliarsi un'altra porzione consistente del fascino che ancora oggi emana dal film. Ricordandosi dei suoi freschissimi trascorsi di fotografa e di documentarista, autrice di saporiti cortometraggi, Varda ci offre nel lungo vagabondare della protagonista un meraviglioso ritratto di questa singolare, suggestiva città, dai quartieri popolari ancora brulicanti di vita alle rive del fiume e dei canali, sui marciapiedi invasi dai tavolini dei caffè al traffico  che scorre come un incessante e disordinato corso d'acqua. Agnès è morta a novant'anni qualche giorno fa, dopo avere molto vissuto , molto amato e avendoci lasciato, oltre a " Cléo "  che è il suo capolavoro, diversi altri film ( ricorderete almeno l'ultimo, " Visages villages ", di cui parlammo l'anno scorso ). Mi piace, mentre scrivo, rivedere il suo sorriso, il suo caschetto di capelli, riudire la sua intonazione di voce così chiara e semplice, senza affettazioni di sorta, lei che ha lasciato una traccia non trascurabile nella storia del cinema europeo.