lunedì 15 aprile 2019

" CAFARNAO " di Nadine Labaki ( Libano / Francia, 2018 )

Cafarnao, nell'accezione più conosciuta della parola,  è un'indicazione geografica : città della Galilea ai tempi di Gesù, più volte citata nei Vangeli. Ma è anche un francesismo ( modellato sulla parola "capharnaum ") che vuol dire pressapoco un luogo dove si ammonticchiano le cose più disparate, in allegra o triste confusione. Ed è quest'ultimo il senso in cui va interpretato il titolo del film della regista libanese Nadine Labaki che l'anno scorso a Cannes ebbe un buon successo di critica. Qualcuno, in attesa dei premi finali, lo dava addirittura in predicato per la " palma d'oro"  ( andata poi meritatamente ad " Un affare di famiglia" del giapponese Koreeda ). Film che, a quasi un anno di distanza, approda ora ai nostri schermi e che sta già producendo una netta divaricazione tra chi lo giudica poco meno di un capolavoro e chi ci va molto più cauto. Apprezzandone, magari, lo spunto di partenza e l'afflato umanistico da cui è visibilmente pervaso. Ma esprimendo poi, come faccio io, forti riserve su come l'uno e l'altro si perdono presto in una sceneggiatura  troppo prevedibile e in una rappresentazione visiva sovraccarica e ripetitiva. Con il risultato che , lungi dall'essere la consacrazione nel registro drammatico di una cineasta che si era fin qui rivelata interessante ed abile nella commedia di carattere attraverso i due film precedenti da lei diretti, in particolare   "Caramel" del 2007, " Cafarnao " appare piuttosto come un deludente " soufflé " che, pur tenuto lungamente al forno, stenta  a sollevarsi. Ma procediamo con ordine.

Siamo ai giorni nostri, nella sterminata periferia di Beirut ( la " cafarnao " del titolo dove gli esseri umani più sfavoriti dalla sorte sembrano buttati lì alla rinfusa). Il giovane protagonista, forse dodicenne- i suoi poverissimi genitori, che hanno dato vita ad altra e numerosa prole, non si sono mai dati la pena  di dichiararlo allo stato civile- conduce un'esistenza quanto mai grama, allietata solo dall'affetto per la sorella di lui quasi coetanea : una ragazzinetta bellina che- lì crescono in fretta- padre e madre, come vedremo, venderanno letteralmente in sposa ad un avido commerciante del quartiere, immersi come sono nella più totale abiezione fisica e morale. Impariamo a conoscere il nostro ragazzino nella sequenza iniziale,ambientata in un aula di tribunale ( la graziosa regista del film  interpreta qui la piccola parte di uno degli avvocati ). Già condannato ed incarcerato per un fatto di sangue,  il ragazzino ha niente di meno che citato in giudizio i propri genitori, rei...di averlo messo al mondo senza essersene veramente presi cura. Di qui, da questo "incipit " alquanto fantasioso ed originale che poteva far sperare meglio quanto al tono generale del film, la vicenda  si sviluppa a  ritroso nel racconto del protagonista. Fuggito di casa in cerca di un domani migliore, che a tratti assume le sembianze di un tentativo di espatrio ( se solo avesse un certificato di nascita che, ovviamente, non possiede)  egli incontra per caso  una ragazza madre etiope che, come tanti altri, è entrata clandestinamente in Libano forse con la speranza di una successiva infiltrazione in Europa. Uscita di scena presto l'africana ( caduta in una retata delle solerti forze di sicurezza locali e gettata in carcere ) il ragazzino, con grande senso di responsabilità, si fa carico del figlioletto di  costei di appena  un anno di età e, lungi dall'abbandonarlo, lo accudisce come può e  se lo porta dietro nella sconsolata ricerca di un lavoro qualsiasi o di un " rampino " per emigrare a sua volta. Di qui alcuni incontri assai poco lusinghieri per il Libano contemporaneo ed altri accadimenti di cui non vi racconto per lasciarvi agio di scoprirli voi stessi, se vi venisse in mente di andare a vedere il film. Finale vagamente ottimistico, per fortuna, con protagonista che per la prima volta sorride ( " fermo immagine ", nell' ultimo fotogramma, sul suo volto finalmente disteso ) mentre, uscito di prigione, lo fotografano in occasione del rilascio del suo primo, agognato documento di riconoscimento. 

 " Spaccato " miserabilistico aderente alla cupa atmosfera locale, il film contiene anche, quà  e là, elementi più fantasiosi ed universali ( dopo " La Strada " tutti i registi rubacchiano a  Fellini quando debbono mostrare " poeticamente " indigenza, periferie urbane e relativi squallori ) sui quali, tutto sommato, si poteva forse costruire un canovaccio meno scontato. Malauguratamente esso sceglie invece la strada di una presentazione iperrealistica della vicenda, tipo documentario girato dall' Ufficio dell' Alto Commissario per i rifugiati, che- trattandosi qui di una " fiction " cinematografica - risulta paradossalmente ancora più artificiosa e farlocca, buona per impressionare le anime candide ma inidonea ad andare al cuore delle cose. Siamo sempre, scusatemi se probabimente mi ripeto, al vecchio equivoco del realismo al cinema.  Per risultare veritieri, sono  convinto, non basta andare in giro a riprendere con la macchina da presa portatile qualunque bruttura o laido  accadimento che si pari davanti all'obiettivo. Così in effetti, dopo le prime immagini,si crea soltanto noia ed assuefazione. Occorrono  invece misura, occhio attento di  osservatore, capacità di sintesi e di vera e propria  costruzione delle immagini e delle intere sequenze che saranno viste dagli spettatori. La " verità "delle cose, come sanno anche i buoni fotografi, non ci è mai restituita da un semplice scatto di obiettivo ma da quel particolare " taglio " che l'intuizione creatrice dell'artista sa imprimere alla materia rappresentata.Creare, mostrare in definitiva, al cinema vuol dire scegliere, far vedere ciò che è veramente essenziale. Un semplice particolare, un volto, un sorriso, un paesaggio sono, a volte, molto più veritieri e dicono molto di più di tante piatte ancorchè fedeli descrizioni;  anche quando, come in questo film, si vuole rappresentare una realtà complessa, confusa, sfuggente. I laudatori della Labaki, per difenderne il modo di procedere, hanno tirato in ballo addirittura Victor Hugo ( " Les Misérables  " , e ti pareva ) e certe raffigurazioni della Londra vittoriana di Dickens. Come a dire che la spettacolarizzazione - s'intende a fin di bene - dell' indigenza e dell'abiezione è più che legittima ed ha , ovviamente, illustri precedenti artistici. D'accordo, nessun dubbio su questo. Ma mentre la letteratura può permettersi di andarci giù pesante e di scendere nei  più minuti particolari ( " Oliver Twist " va oltre le quattrocento pagine e " I Miserabili " ne richiede circa mille e cinquecento ) il cinema, nei cento o centoventi minuti di durata media di un film, non può che praticare la virtù della velocità e dell'ellissi. Qualità, purtroppo, sorprendentemente ignote alla Labaki. Che così, oltretutto, non riesce ad imprimere un chiaro significato , una " moralità " alla vicenda, che la tiri fuori insomma dall' insidioso terreno delle buone ma generiche intenzioni.

Nel continuo, defatigante girovagare per le bidonvilles, tra lordure e squallore di ogni tipo, il film smarrisce fatalmente, infatti, quello che era il suo assunto iniziale : la rivendicazione di una piena identità, in quanto esseri umani, anche per i più piccoli, i cosiddetti marginali, i reietti della nostra società, cioè i poveri, poverissimi, i migranti, chiunque insomma non trovi utile collocazione nell'esiguo reticolo dei rapporti di scambio prevalentemente economico su cui è fondata la nostra convivenza umana. Bel tema genuinamente umanistico, che molto si sarebbe giovato- accanto all'altro assunto morale del film, la responsabilità verso di noi e verso gli altri - da un andamento più ruvido e serrato ( ah quei ripetuti, ruffianissimi primi piani o piani medi dei volti dei bambini, quell'intercalare allo spento sozzume dei ghetti gli improvvisi e meravigliosi tramonti sul mare di turistica derivazione; c' e' perfino una scena in cui il piccolo etiope di cui il protagonista si prende cura indossa - stile " United colors for Benetton " - un paio di pantaloncini rossi e una maglietta blu, un amore , vedesse signora mia ! ... ). Peccato davvero per le intenzioni della Labaki, certamente commendevoli sul piano etico ma artisticamente nate morte, una volta che sceneggiatura e regia si incaricano di accopparle sotto il peso di troppa fuffa sedicente verista. E non mi si venga a dire, come taluno incautamente ha fatto, che " Cafarnao " ricorda il nostro neorealismo o addirittura il cinema dei fratelli Dardenne. Una ripassatina a "Ladri di biciclette " o una visione alla moviola delle scene in borgata di " Europa ' 51 " ci tranquillizzerebbero subito sulla differenza di base tra il modo di procedere, forte ed allusivo, di De Sica e di Rossellini e le esangui , sovraccariche immagini della Labaki. Quanto ai Dardenne c'è più verità ed ardore  nell'accampamento di " roulottes " del loro  " Rosetta ", minuziosamente ricostruito e studiato nei minimi particolari, che nelle baracchette di lamiera fotografate piattamente " dal vero " dalla regista libanese. Almeno, accontentiamoci,  i bambini di " Cafarnao " ( specie il piccolo etiope  ) recitano benissimo. Al cinema, si sa, dirigere i bambini non è mai facile ma i minuscoli attori riescono sempre, in un modo o nell'altro, a strappare una lacrima o un sorriso al più accigliato degli spettatori.






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