sabato 29 giugno 2019

" THE WILD GOOSE LAKE " di Diao Yinan ( Cina, 2019 ) / " PARASITE " di Bong Joon Ho ( Corea, 2019 )

Due film asiatici hanno chiuso, in questi giorni, la  consueta rassegna a Milano di alcuni dei film presentati al Festival di Cannes.  Uno cinese, di un regista con all'attivo pochi titoli ma  che alcuni avvicinano ormai ai " mostri sacri" della cinematografia di quel paese ( è stato vincitore dell' " Orso d'oro " a Berlino nel 2014 ) l'altro coreano , opera di un veterano delle rassegne internazionali  e trionfatore adesso sulla Croisette, primo regista del suo paese nella storia ad aggiudicarsi una " Palma d'oro ". La cinematografia asiatica, in questo momento, è senza dubbio in piena salute. Ricorderete che l'anno scorso, sempre a Cannes, il gran premio andò ad  un film  giapponese ( " Un affare di famiglia " di Koreeda ). Ma oggi sono soprattutto cinesi e coreani ad imporsi  in Occidente. Per i primi, esplosi letteralmente  una volta finita la fase peggiore della tirannide comunista, non  è da meravigliarsi stante le proporzioni  e lo spessore di quella realtà culturale e commerciale nonché la presenza, accanto alla Cina continentale, di altri due distinti poli di produzione cinematografica: Hong Kong  e Taiwan egualmente prodighi di opere interessanti. Stupisce invece la Corea, che ha numeri ed ordini di grandezza più ridotti e  dove , benché le condizioni politico-sociali siano state , nel secondo dopoguerra, relativamente più favorevoli che in Cina per lo sviluppo di una maggiore libertà creativa, il cinema fino a pochi decenni or sono non aveva dato autori ed opere particolarmente significativi. Negli ultimi anni, complice la rapida evoluzione di quella società, anche la Corea offre con apprezzabile costanza film di  grande qualità tecnica accoppiata a brillantezza di tematiche e profondità di visione.

Il titolo originale del film cinese, per la verità, si traduce come "Appuntamento alla stazione Sud". Meno suggestivo, senza ombra di dubbio, di quello internazionale che gli è stato imposto dai distributori. Eppure molto aderente alla storia, perchè l'inizio del film  si svolge proprio in uno scalo ferroviario di una imprecisata città dell'entroterra di quell' immenso contenitore di persone e di cose che è oggi più che mai la Cina. Qui  il protagonista, un piccolo gangster specializzato nel furto di motociclette ( le due ruote a motore  sembrano aver soppiantato  laggiù le tradizionali biciclette )  e che è in fuga per aver ucciso un poliziotto, deve incontrarsi non si capisce bene se con la moglie o con il proprio capobanda, od entrambi, ma è intercettato invece da una giovane donna che gli si affianca e  gli propone di aiutarlo. Scopriremo presto che si tratta di una prostituta che, con le sue compagne, opera abitualmente sulle sponde di un laghetto circostante ( il lago, appunto, delle oche selvatiche). Specchio d'acqua presso il quale si aggirano personaggi quantomeno dalla incerta collocazione sociale e professionale e dove trovare temporaneo rifugio non è poi troppo complicato per il nostro eroe, braccato dalla polizia ma ricercato anche  dai colleghi per fini non propriamente caritatevoli. Trama che si dipana poi,a partire dal classico "incipit" del delinquente in fuga e abbandonato dai suoi, fino ad una conclusione che ovviamente non dirò. Una vicenda non sempre lineare ma  molto simile alle tante del cinema " noir " occidentale, al quale del resto chiaramente si ispira. Una storia che unisce moduli tipici di quel genere ormai stravisitato con altri propri della cinematografia estremo-orientale, in un " mix " abbastanza accattivante e tale da tenere sufficientemente desta l'attenzione dello spettatore medio.

I meriti del film, tali da  giustificare penso la sua presenza a Cannes ,risiedono proprio nella capacità del regista di rivolgersi a patrimoni visivi piuttosto disparati ( Il teatro ed il cinema classici cinesi, il balletto moderno -alcune scene di inseguimento e di baruffa sono organizzate come vere e proprie coreografie - il fotoromanzo, il fumetto perfino ) riuscendoli a fondere insieme in uno stile iperrealistico e tutto sommato unitario. Dinamico e nervoso nel ritmo per   conferire opportuno vigore alle sequenze in cui è articolato, il film è particolarmente suggestivo nelle immagini, coloratissimo, curato nei particolari, finendo però talvolta col peccare di eccessivo formalismo. Segno, questo, che la sceneggiatura non è sempre lineare ed  il regista   non riesce a dominare con continuità una materia così complessa.  Diremmo quasi che egli abbia voluto mettere  troppa carne al fuoco e si sia un po'  perso per strada  rispetto ai probabili intendimenti di partenza. Vedendosi costretto, in mancanza d'altro, a rifugiarsi nella bella inquadratura, nel movimento di macchina un po' troppo ricercato. Vizi che sono tipici del novanta per cento dei film , intendiamoci, ma che se non ci fossero stati ci avrebbero dato un'opera  più convincente. Peraltro l'interesse del film per noi  occidentali sta anche- occorre precisarlo - nella rutilante realtà cinese di oggi che l'autore offre al nostro sguardo. Un autentico caleidoscopio di immagini, di colori , di suoni, in un evidente contesto di grandi sconvolgimenti economici e culturali, fatto spesso di disordine,  di sporcizia e di squallore, di incredibile incuria, dominato dal denaro e dall'affannosa ricerca di un minimo di sicurezza, caratterizzato dall'incessante brulichio di moltitudini dalle smisurate proporzioni. Sembra quasi che l'elemento umano ivi raffigurato ( delinquenti, poliziotti, piccoli trafficanti, ristoratori e avventori dei mille localini pubblici ) non abbia limite  numerico e finisca, in definitiva con l'occupare il più piccolo quadratino dello schermo... Meno " politico " del cinema di Zhangke ( " I figli del fiume giallo", recensito da poco  ) quello di Diao Yinan finisce egualmente col parlare del suo paese e col " vederlo " con l'occhio di un osservatore attento ed emotivamente partecipe.

Più manifesti e decisi, si direbbero, gli intendimenti politico-sociali del film coreano che si è imposto a Cannes. Il regista Bong Joon Ho persegue da tempo un suo personalissimo discorso sulla lotta di classe ai giorni nostri ( convinto che esista ancora  più che mai) e lo fa senza girarci troppo intorno, attraverso allegorie e metafore che non necessitano di particolari spiegazioni. In questo " Parassiti " il distacco tra i meno fortunati e gli abbienti è  addirittura plasticamente descritto dall'abitare i primi in un angusto scantinato senza luce ed esposto a più di un pericoloso inconveniente ed i secondi in una meravigliosa villa modernissima situata sulle alture della città, creazione di un celeberrimo architetto, con tutto il lusso e le comodità che sono naturale appannaggio della loro condizione di privilegiati. Ma la situazione , apparentemente statica, si mette subito in movimento grazie alla scaltrezza dei " cavernicoli " e alla dabbenaggine dei loro ricchi datori di lavoro. Ecco così che la famiglia dei diseredati ( padre, madre e due figli adolescenti ) riesce a penetrare nella  "fortezza nemica " apparentemente inespugnabile e ad insinuarsi nella vita della famigliola agiata, simmetricamente composta, anche qui,  da una coppia sposata e dai loro due rampolli. La prima metà del film è piuttosto felice nelle notazioni di costume, sapide e mai troppo esagerate, alla ricerca di una cifra espressiva che permetta di coniugare commedia di ambiente e denuncia sociale. Ed è qui che si rinvengono le cose migliori del film, preciso nella caratterizzazione dei personaggi e sottile nel descriverne comportamenti e reazioni, abile nel sfruttare lo spazio e darci inquadrature sofisticate, morbide nella loro apparente cordialità ma taglienti come lame nella critica politica che sottendono.

Le cose, purtroppo, si guastano nella seconda parte. Da  una buona satira di costume, sospesa tra lo  sberleffo e  il teorema politico-sociale, si passa a toni più propri del genere grottesco ( molto più difficili da sostenere per l'autore )  che virano poi presto al dramma e , nel finale, addirittura all'elegiaco. La contaminazione di moduli  espressivi e di " generi " cinematografici non è di per sé da condannarsi " a priori ". Occorre però mano ferma e saldezza di visione prospettica. Cioè l'autore deve sapere molto bene dove sta andando a parare ed essere in grado di farlo in modo convincente, pena una certa oscurità di propositi complessivi ed il disorientamento finale dello spettatore. Giudicherete da voi.  Perchè il film , comunque, merita di essere visto  - mi affretto a precisare -  per la personalità manifestata ancora una volta da Bong Joon Ho e la singolarità della trama . Personalmente l' ho trovato troppo discontinuo per vincere una " Palma d'oro " a Cannes ( quando c'era in concorso un film come " Dolor y gloria ", dal vigore e dall'unità stilistica ben maggiori )  ed inferiore al film giapponese che vinse lo scorso anno. Lodevole comunque, ripeto, la capacità del regista di dominare lo spazio, facilitato dalla splendida struttura architettonica nel quale il film è in gran parte ambientato. Apprezzabile , anche, la recitazione degli attori, a cominciare da quello che fa il " pater familias " dei nullatenenti, giù giù fino all' ultimo ragazzino. In Francia, dove il film è già in distribuzione nelle sale, sta avendo un discreto successo. Vedremo da noi, quando uscirà, considerata una certa refrattarietà del nostro pubblico a passare con disinvoltura dal riso alle emozioni troppo forti.




giovedì 20 giugno 2019

" PORTRAIT DE LA JEUNE FILLE EN FEU " di Céline Sciamma ( Francia, 2019 ) / " SORRY WE MISSED YOU " di Ken Loach ( Regno Unito, 2019 )

Céline Sciamma, regista e sceneggiatrice francese, al suo quarto lungometraggio non abbandona quello che è il tema centrale del suo cinema così particolare : la ricerca dell'identità sessuale e, attraverso di essa, la crescita di una giovane donna. Anzi, lo approfondisce ulteriormente e, collocando in un certo senso la trama- al di là di una cornice puramente formale- fuori del tempo e dello spazio, lo rende ancora più assoluto, depurato di ogni fuorviante influenza storico-sociologica. La vicenda di una ragazza appena uscita di convento e destinata in sposa ad un uomo che neanche conosce e del ritratto che una pittrice, in previsione delle nozze, è chiamata a farle dalla madre di lei è sì ambientata verso la fine del Settecento, tanto per giustificare abbigliamento e ( sobrio ) arredamento. Ma del castello o palazzotto in cui si arriva dal mare, dove la storia si svolge,  nulla ci è praticamente mostrato nelle inquadrature che prediligono piuttosto la figura umana  e soprattutto i particolari di quest'ultima ; le mani, il volto, gli occhi, la bocca, l'espressività dei personaggi. Potremmo addirittura pensare  ad una situazione più sognata che reale. Non cambierebbe , per questo, il significato del film. Il desiderio nascente nei confronti di un'altra persona -  qui in chiave omoerotica - è per la Sciamma, come nei film precedenti , il detonatore o meglio il rivelatore  della propria intima essenza , il " momento di verità " cui , uomini e donne, siamo  necessariamente fronteggiati nella nostra crescita personale. Che ciò possa poi  svilupparsi nella direzione desiderata o sia destinato invece, per le circostanze avverse, a " rientrare nell'ordine " ,negli schemi prefissati, poco importa.  Quel che conta, sembra dirci la Sciamma, è la bellezza , la forza del momento stesso, delle emozioni che si liberano e che ardono dentro di noi : " ritratto della giovane in fiamme ", appunto.

Bel tema e bella storia, come si vede. Interamente scritto dalla Sciamma, il film  ha ottenuto all'ultimo Festival di Cannes il premio per la migliore sceneggiatura. Ma in verità, se c'era un premio che avrebbe meritato , era quello della regia. Qui infatti la " mise en scène ", la messa in scena, raggiunge il suo pieno significato. Storia di un quadro che per essere dipinto ( dapprima nascostamente, per vincere le ritrosie della " jeune fille " e infine col suo pieno consenso ) necessita di un complicato allestimento, di continui cambiamenti di prospettiva, di un lento appropriarsi da parte dell'artista del volto e della figura della persona da ritrarre, il film stesso è un continuo, elaboratissimo esercizio nel descrivere  l'esecuzione del ritratto stesso e, con esso, la nascita del sentimento amoroso tra le due donne. Non vi è inquadratura, per quanto ardita nel taglio o nell' illuminazione, che non trovi la sua giustificazione nella progressiva costruzione da parte  della regista di un autentico spazio visivo che dia vita e significato alla  vicenda :  spazio luminoso o fosco ma sempre  claustrofobico, anche nelle pochissime scene in esterno in cui il mare, più che una possibile speranza di libertà , rappresenta invece una barriera, un invalicabile ostacolo. Fare in modo che quanto viene raffigurato sullo schermo aderisca coerentemente all'atmosfera della vicenda e  all' assunto che essa è chiamata ad esplicitare significa, io credo,  "fare cinema " nel significato più pieno. E questo " Portrait d'une jeune fille en feu ", lungi dall'apparire lezioso o formalistico, è in realtà una prova molto convincente della capacità dell'autrice di tradurre in immagini forti e giuste ciò che vuole dirci. Peccato però, ad impedire la totale riuscita di un 'opera così impegnativa ed insolita, che le due attrici che impersonano, rispettivamente,  la ritrattista ( Noémie Merlant ) e la giovane ritratta ( Adèle Haenel ) non sempre siano all'altezza della situazione.  Un po' troppo meccanica e risaputa mi è sembrata a volte la loro recitazione per trasmettere compiutamente quel fascino, quel brivido di insolito che la scrittura e il lavoro di regia si impegnano a creare.

Altro film di Cannes, totalmente diverso dal primo per atmosfera, costruzione drammatica, assunto programmatico. Parlo dell'ultimo film di Ken Loach, " Sorry we missed you " , traducibile più o meno con " ci sei proprio mancato  ", le parole che, come si vedrà,  i familiari lasciano scritte all'intenzione del protagonista nel momento più drammatico della vicenda lavorativa ed umana di costui. Siamo ancora una volta dalle parti di Newcastle, ex bastione dell' Inghilterra industriale, oggi in preda  alla decadenza economica e allo smarrimento sociale. Il terziario ( tutt'altro che " avanzato ", almeno nell'organizzazione del lavoro ) rappresenta quel poco che rimane e a cui si rivolgono i richiedenti un impiego qualsivoglia pur di sbarcare il lunario. Ciò che trovano è presto detto : precarietà, ritmi massacranti, condizioni-capestro, " homo homini lupus ". E non è che, allargando lo sguardo ed  andando in giro tra pensionati, anziani malandati e (mal) affidati a servizi sociali sempre più evanescenti, giovani strafottenti e rissosi, l'ambiente circostante sia migliore. Il protagonista, Ricky, carpentiere in mancanza di opportunità alla sua portata, decide di entrare in un autentico " girone dantesco ". Accetta cioè di lavorare a cottimo come autista di una ditta di consegne di pacchi di ogni genere e dimensione acquistati dai clienti " on line ". Niente ferie , previdenza o  assicurazioni, niente contratto, " tu non lavori per noi ma con noi " predica pomposo e subdolo l'odioso capointesta ( ne avete mai visti di simpatici ? ) il quale gli minaccia continuamente, per giunta, multe e ritenute di paga ad ogni minimo cedimento. E in più, come se non bastasse ancora , Ricky ha una moglie che a sua volta fatica tanto e guadagna  poco come "badante volante " per i servizi comunali, con la quale, ahimè, riesce a  vedesi solo la sera quando entrambi ciondolano davanti al televisore. Una figlia adolescente, caruccia e che appare come l'unica cui stia a cuore di tenere in piedi l'unità familiare, si spende come può ma il fratello più grande, svogliato, ribelle, sembra già sulla cattiva strada.In breve, in Inghilterra per le classi laboriose(  come si usa dire ) le cose sono tornate ad essere poco meglio che ai tempi di Dickens.

Su questo materiale, già utilizzato in passate occasioni con esiti addirittura trionfali ( "I , Daniel Blake" , due anni or sono vinse proprio la " Palma d'oro ") Loach ha costruito un film  che inizia blandamente, senza fare presa sullo spettatore, abbastanza ripetitivo , ma che cresce gradatamente  sino a darci un finale convincente e , inaspettatamente, con un apertura vagamente ottimistica. In un mondo  duro, indifferente fino alla crudeltà, dove la solidarietà della defunta classe operaia è solo un ricordo nelle sbiadite fotografie detenute da una anziana donna  visitata dalla moglie di Ricky, in cui la speranza non può venire certo dalla classe politica, l'antidoto più forte, l'unico che ci dia ancora una speranza,  risiede negli affetti familiari.  nella tolleranza reciproca  e nell'amore tra tutti gli esseri umani. Un po' poco, si dirà , per raddrizzare un mondo che più storto non si potrebbe. Ma da qualcosa, va risposto, occorre pur ricominciare. Film " giusto " nel suo assunto, commovente senza soverchi lenocinii sentimentali, " Sorry we missed you " impegna un'ora e quaranta della nostra attenzione e della nostra umana partecipazione. Personaggi ben tratteggiati ed interpretati ( menzione particolare per quello di Sally, la moglie di Ricky, che ci piacerebbe incontrare per farle una carezza e dirle una parola di conforto ) non è però quel capolavoro o comunque quel film senza pecche che qualcuno pretende che sia. Fatica , come si è detto, ad ingranare e la vicenda è troppo didascalica; definirla " brechtiana " sarebbe però fare torto al rigore e alla sottigliezza del grande drammaturgo berlinese. Qui siamo piuttosto dalle parti di un Eduardo De Filippo, del  De Sica del " Tetto ", non di " Ladri di biciclette ". Qualcuno ha incautamente accostato il mondo dei poveri di Loach a quello del cinema dei fratelli Dardenne ( " Rosetta " , " Due giorni e una notte " ). Parentela soltanto apparente, tanto il cinema dei Dardenne è rigoroso, tutt'altro che romantico, geometrico nella propria costruzione. Se, per rimanere nel campo " progressista " dove sia loro che Loach certamente militano, il cinema dei " fratelli " potrebbe assimilarsi grosso modo a un  sottile editoriale di " Micromega ", quello di Loach si avvicina invece ad un vigoroso comizio di Landini o, andando più in là nel tempo, del grande Di Vittorio. Energico ma quasi sempre eccessivo, ottimo nelle intenzioni ma non sempre efficace nei risultati. Anche se, va aggiunto, lascia l'amaro in bocca ed induce a riflettere.


venerdì 14 giugno 2019

"THE DEAD DON'T DIE " di Jim Jarmush ( USA, 2019 )

Maltrattato dalla critica internazionale in occasione della sua presentazione al recente Festival di Cannes, giudicato un tentativo mal riuscito di irruzione nel genere "horror ", questo " I morti non muoiono " ( da ieri distribuito in diverse sale della penisola ) rischia di far storcere il naso a più di un critico nostrano- quelli che sono sempre alla ricerca di " contenuti "- ed è perfino incerto se piacerà al pubblico. L'ultima fatica di Jim Jarmush, il regista americano di " Stranger than Paradise ", " Daunbailò ", " Broken Flowers ", può sconcertare equamente, infatti, sia i frequentatori di "zombie movies " ( che non apprezzeranno il suo umorismo e l'insufficienza di adrenalina ) sia gli amanti del " cinema d'autore " ( che potrebbero considerarlo una piccola scivolata in una filmografia di più alto profilo ). Io stesso ammetto di ritenerlo diseguale, trovando che la seconda parte (quando i " morti viventi ", cioè gli zombi , incominciano a moltiplicarsi) è meno interessante della prima. Ma ciò non toglie che , preso nel suo insieme, il film confermi il quarantennale assoluto talento del suo autore e possa essere un'esperienza gratificante per chi lo andrà a vedere. Unica raccomandazione, soprattutto se non sapete bene cosa fanno in genere gli zombi nonchè come vanno combattuti, e siete deboli di stomaco o di cuore, mettete in conto un certo quantitativo di immagini  cruente o leggermente disgustose : del resto, fare un film che rasenta ( o piuttosto stravolge)  un film " di genere " ben collaudato come questo senza rispettarne, almeno in parte, i codici sarebbe stato un tantino ipocrita e soprattutto poco funzionale.

Siamo nella cittadina USA di Centerville, 870 abitanti (viventi) che in realtà più " periferica " di così non si potrebbe immaginare. I tre soli poliziotti del luogo ( uno anziano prossimo alla pensione, stanco ma ancora coscienzioso,un altro giovane, belloccio ed impassibile , infine una ragazza timida e sensibile ) a parte i soliti ubriaconi da schiaffare ogni tanto in guardina e uno sfuggente " uomo dei boschi" che fa strage di polli quando scende  nottetempo in paese non sembrano avere grossi problemi nel far rispettare la legge e l'ordine . Gustatevi l'inizio,compassato e sornione, con cui Jarmush ci presenta i tre personaggi e le pochissime altre persone che circolano  nella pacifica e sonnolenta  Centerville, prototipo di una America " trumpiana " che si pasce delle proprie idiosincrasie ( i neri, la limitazione delle armi da fuoco, la teoria dei cambiamenti climatici indotti dall'uomo ). Un "incipit" esemplare per affettuosa ironia, empatia per i propri personaggi, per piccini o stupidi che  possano apparire, senso dello spazio, andamento classicheggiante. E così via fino al momento in cui, complice nientedimeno che una fuoriuscita della Terra dal suo asse, strani fenomeni incominciano a prodursi e culminano, finalmente, con l'evento che i cultori del genere attendono con impazienza. Ed anche qui debbo dire- evitando di raccontarvi il seguito -  non mi è sembrato che Jarmush, sceneggiatore e regista, indulga come si potrebbe temere in eccessivi cedimenti. Gli zombi sono quelli che sono e, come dice argutamente uno dei protagonisti, "si ha la sensazione che la cosa finirà male ". Ma l'indispensabile  ricorso ad un bel po' di emoglobina e l'intervento della temibile spada giapponese di una addetta alle locali pompe funebri, appassionata di arti marziali,  non trasforma il film in un semplice " B-movie". Forse, è vero, ci divertiamo di meno ed uno scampolo di noia  minaccia di insinuarsi qua e là. Eppure l'autore, brillantemente, riesce a mantenere il proprio approccio rigoroso ed  apollineo lungo tutto il film. 

Se questo, come ho cercato di tratteggiare,è quello che lo spettatore vedrà sullo schermo, verrebbe fatto di chiedersi dove sia il problema. Perchè Jarmush viene tacciato dalla critica  di essere stato troppo deferente verso il genere "horror " senza rivisitarlo a dovere, quasi ne subisse il fascino referenziale ? A me non sembra proprio che  le cose stiano così. Quel po' di ripetitività che caratterizza la seconda parte del film, quell'insistere sull'invasione man mano più ampia degli zombi, non tradiscono  un repentino mutamento di stile, una conversione alle esigenze di un " canone " fin troppo conosciuto . Siamo di fronte, invece, alla stessa, sconsolata, ironica ( ma tutt'altro che impietosa ) visione della nostra umanità, già posta in evidenza in altre opere di quest'autore. Una umanità che pensa di essere  in controllo della situazione e che si scopre ( diremmo quasi leopardianamente ) oggetto e  non soggetto di un universo indifferente alla nostra presenza, misterioso e pronto a deragliare senza che vi si possa opporre alcuna resistenza. Senza uscire dalle righe, con umiltà di mezzi ma anche, vedrete, qualche inevitabile ricorso alle nuove tecnologie, Jarmush è riuscito a darci con il suo film qualcosa di più di quel semplice " divertissement " cui lo si vorrebbe confinare. Certo, come più di uno ha osservato, non mancano le citazioni , le strizzatine d'occhio umoristiche dirette allo spettatore, gli " a parte " diremmo in gergo teatrale, che lo rendono  godibile e che stemperano, dove è necessario, l'atmosfera tesa ed onirica.  Ma questo, diremmo, è il "tag"  che l'autore appone alla propria opera, non l'opera stessa.

Nè mi soffermerei oltre sui significati metaforici cui pure una simile vicenda può prestarsi e che un po' tutti gli esemplari del genere zombesco inevitabilmente condividono :  eccessi della civiltà dei consumi che ottunde i sensi e la ragione dell'uomo , il quale finisce col divorare sé stesso  e via discorrendo. Andate a vedere questo film, invece, senza preconcetti. Non vi aspettate un'opera che resterà negli annali del cinema. Ma neanche un filmetto stanco che tradisce gli esiti cui Jarmush era pervenuto con i film precedenti ( a cominciare, andando a ritroso, con quell'ottimo " Paterson " di pochi anni fa e  che lo segnalava già come malinconico cantore di una piccola umanità che trova nella poesia e nel sogno il proprio effimero riscatto ). Ecco, pensate , uscendo dalla proiezione, che anche qui l'autore ha voluto scrivere, mi sento di poter dire, un nuovo capitolo di un suo " work in progress " sulla bellezza, e nello sesso tempo il rischio, di essere mortali, destinati a scomparire, ma dopo qualche attimo di piccola, magari inconsapevole felicità. Felicità anche di assaporare, nonostante i suoi difetti (ma chi non ne ha ? ) un film come questo. Avvalora l'impressione di essere in presenza di  un' opera complessiva che si costruisce tassello dopo tassello, il fatto che Jarmush ami, negli ultimi tempi, circondarsi degli stessi tecnici, spesso degli stessi attori. Da ammirare, in " The dead don't die " ( che è anche  il titolo di una orecchiabile ballata " country " che fa da motivo conduttore ) l'interpretazione di tutti. Da quella di Bill Murray e di Adam Driver( i due poliziotti ) assolutamente superbi nel mantenere la stessa cifra di recitazione lungo tutto il film, a quella delle signore : Cloe Sevigny, nella congeniale parte della timida poliziotta e Tilda Swinton come eterea ma temibilissima "samurai " del " funeral parlor ". 

mercoledì 5 giugno 2019

" IL TRADITORE " di Marco Bellocchio ( Italia, 2019 )

Autore nel 2003 di uno dei pochi film italiani che hanno saputo raccontarci il terrorismo degli "anni di piombo " ( " Buongiorno notte ", sul rapimento e l'uccisione di Aldo Moro ) Marco Bellocchio, ormai ottantenne, l' ultimo maestro vivente della nostra stanca, stanchissima cinematografia, torna alle indagini sulla storia italiana di questi ultimi anni. Un campo molto fertile ma tutt'altro che facile, stante l'opacità di molte vicende ed i misteri che aleggiano su alcuni dei personaggi di quegli anni . " Il traditore " affronta addirittura il problema della mafia, raffigurata in passato da  pellicole di alterno valore e successo. E con essa la figura, centrale per le sue vicende a noi più vicine, di quel  Tommaso Buscetta  che permise più di trent'anni fa con le sue rivelazioni di capire la struttura ed  il funzionamento di questo imponente fenomeno delinquenziale. Una organizzazione fino ad allora misteriosa e che Buscetta, nelle lunghe ore di interrogatorio condotto dal magistrato Giovanni Falcone, contribuì a sottrarre al velo di connivenze  e di omertà di cui si era sempre vantaggiosamente ammantata. Centinaia, migliaia di omicidi rimasti senza un colpevole e soprattutto un mandante, traffici illeciti di ogni genere che accompagnarono per circa quarant'anni la trasformazione della mafia da associazione di mutuo soccorso contro lo Stato di stampo prevalentemente agricolo, contrassegnata da un preciso " codice d'onore ", a ricca e spietata  multinazionale del crimine, radicata nelle città, sempre più  psicopatica e sanguinaria. Buscetta  fu la prima " gola profonda " che fece tremare molti capi di " Cosa Nostra " ( il vero nome dell'organizzazione ) e giunse a sfiorare le presunte ma tutt'altro che impossibili  collusioni tra quest'ultima e i " palazzi " della politica.

Il film , presentato a Cannes due settimane or sono e subito immesso nel circuito italiano, sta avendo un ottimo successo di pubblico ed è stato accolto con generale favore dalla critica. Nulla da eccepire, lo dico subito. Il nostro  cinema è in un tale stato pietoso  (pensiamo a come se la passa invece quello francese ) che riuscire a vedere finalmente un film serio, che intende dipingere  una realtà sgradevole eppure non risulta declamatorio,  retorico o manicheo , che avvince dalla prima all'ultima sequenza ma che poco concede ad una facile spettacolarità, è già una lietissima sorpresa. Onore dunque al film di Bellocchio, nato da un suo soggetto originale ma certamente debitore delle inchieste giornalistiche , delle straordinarie interviste televisive o apparse sui giornali rilasciate dallo stesso Buscetta , dei filmati e dei resoconti scritti del " maxiprocesso" del 1986 a Palermo e degli altri dibattimenti in cui questi intervenne come "supertestimone". Tutto materiale che il regista - coautore anche della sceneggiatura - deve avere  esaminato con cura e a cui  si è voluto mantenere umilmente fedele. Ma che ha saputo ricostruire , reinventare quasi, in un'opera artistica di straordinaria intensità drammatica. Staccando, per così dire , il personaggio Buscetta dalla semplice cronistoria di violenze, lotte tra distinte fazioni, delazioni giudiziarie e connesse rappresaglie di quel determinato periodo  e rendendolo protagonista di un'esemplare tragedia tutta italiana, ancor più che semplicemente siciliana. Un paese il nostro in cui, come sappiamo, la "famiglia ", quella elettiva, accanto e ancor prima di quella biologica - il gruppo, la corporazione, qualche volta la setta, la cosca - è  la formazione sociale che finisce col riscuotere, mediamente, maggiore e più convinta adesione, sovente in contrapposizione  o comunque in assenza di  uno Stato troppo timido e ondivago. Un nero melodramma , in definitiva, come suggerisce talvolta  la fotografia del film dalle cupe tonalità ed il roboante commento musicale,  eccessivo ed un poco fastidioso , di ispirazione prettamente operistica, con tanto di coro del " Nabucco " in uno dei momenti più intensi.

Ed è qui che mi sento di avanzare qualche perplessità quanto alla " cifra " espressiva, al modo cioè con cui Bellocchio ha voluto rappresentare " Cosa Nostra ". Una congrega tristemente potentissima ed estremamente pericolosa. Ma infarcita al tempo stesso di tanta volgarità, " machismo " da strapazzo, cattivo gusto ed ignoranza da chiedersi come possa essersi imposta, ai tempi di Buscetta, su di un contesto sociale mediamente più articolato e complesso. Si dovrebbe forse vantaggiosamente ricorrere, qui,  all'opinione di Leonardo Sciascia, il quale riteneva che l' indifferenza, quasi diremmo la " non belligeranza ", con cui i siciliani guardavano al fenomeno mafioso derivasse dalla loro incapacità di giudicare chi non avesse fatto loro " direttamente del male"  . Comunque sia, un fenomeno lontano dalla materia  tipica  del melodramma cui Bellocchio ha voluto, mi sembra, artisticamente apparentarlo e che mi chiedo se meglio non si sarebbe giovato, vista la realtà implacabilmente descritta dallo stesso autore, di una chiave interpretativa più ricca di sfumature, basata magari sul " grottesco ". Quella, per dare un esempio, cui ricorre Shakespeare nel delineare i pur foschi delitti di un grande assassino  e "mafioso" ante litteram come il  Riccardo III della tragedia omonima. Il film, senza perdere nulla della sua forza drammatica,  si sarebbe magari liberato un poco da quell'aura troppo romantica  che il personaggio Buscetta fatalmente assume grazie al suo essere raffigurato quasi come un eroe , nonchè- probabilmente lo era - come un bravo padre ed un affettuoso marito. Facendo  emergere però solo a tratti quel personaggio ambiguo e controverso che , pur preziosissimo collaboratore di giustizia ( dissociato ma non pentito ) indubbiamente è stato. Un uomo , per citare ancora Sciascia che di queste cose si intendeva,"che sente in pericolo la sua vita e vuole dalla parte della legge  trovare vendetta e riparo  ".

Ciò detto per dovere di completezza, mi schiero  tra coloro che ritengono che  " Il traditore"  sia un bel film. Non un capolavoro come altri che Bellocchio ci ha dato, ma un'opera più che dignitosa, ben diretta e ancor meglio interpretata. Parlando di interpretazione, va certamente reso il dovuto a colui che riveste i panni del protagonista. Questi, Pierfrancesco Favino ( vincitore a Cannes del premio per il miglior attore ) ha studiato molto bene  il suo personaggio, impostando la voce sino a darle una impressionante somiglianza con la particolare cadenza italo-sicula-brasiliana di un vero " boss dei due mondi " quale era definito Buscetta. Più a suo agio, forse, nei momenti  di intimità familiare o nel  quasi solenne e pacato dialogo con il giudice Falcone  che in quelli più tragici e concitati, Favino è particolarmente bravo nelle scene processuali, nei quasi surreali " confronti " con Riina e con Pippo Calò, quando la sua forza tranquilla  e la sua sottile ironia riescono a tenere a bada i colleghi mafiosi, stizziti e sorpresi della sua inopinata delazione. Altrettanto valenti mi sono sembrati tutti gli attori che interpretano i personaggi minori, in gran parte interpreti siciliani poco noti ma degni eredi di una ottima tradizione recitativa . Della musica e della fotografia ho già detto. Ho trovato tutto sommato inferiore alle aspettative la sceneggiatura, oltretutto un po' lunga e meritevole di qualche taglio. Cedendo alla moda dei film biografici più recenti, i " salti all'indietro " , anzi il continuo andirivieni tra il presente ed epoche cronologicamente precedenti, turbano  lo spettatore e non aggiungono spessore drammatico ad una vicenda già intensa di per sé. Un film da vedere, anche per rendersi conto che non solo negli USA ma anche in Italia il fenomeno gangsteristico può essere incisivamente trattato al cinema, quando si abbia la forza espressiva  e la capacità di creare veri personaggi e non solo " ombre cinesi " sullo schermo, come  per nostra fortuna è riuscito indubbiamente a fare Bellocchio.