giovedì 20 giugno 2019

" PORTRAIT DE LA JEUNE FILLE EN FEU " di Céline Sciamma ( Francia, 2019 ) / " SORRY WE MISSED YOU " di Ken Loach ( Regno Unito, 2019 )

Céline Sciamma, regista e sceneggiatrice francese, al suo quarto lungometraggio non abbandona quello che è il tema centrale del suo cinema così particolare : la ricerca dell'identità sessuale e, attraverso di essa, la crescita di una giovane donna. Anzi, lo approfondisce ulteriormente e, collocando in un certo senso la trama- al di là di una cornice puramente formale- fuori del tempo e dello spazio, lo rende ancora più assoluto, depurato di ogni fuorviante influenza storico-sociologica. La vicenda di una ragazza appena uscita di convento e destinata in sposa ad un uomo che neanche conosce e del ritratto che una pittrice, in previsione delle nozze, è chiamata a farle dalla madre di lei è sì ambientata verso la fine del Settecento, tanto per giustificare abbigliamento e ( sobrio ) arredamento. Ma del castello o palazzotto in cui si arriva dal mare, dove la storia si svolge,  nulla ci è praticamente mostrato nelle inquadrature che prediligono piuttosto la figura umana  e soprattutto i particolari di quest'ultima ; le mani, il volto, gli occhi, la bocca, l'espressività dei personaggi. Potremmo addirittura pensare  ad una situazione più sognata che reale. Non cambierebbe , per questo, il significato del film. Il desiderio nascente nei confronti di un'altra persona -  qui in chiave omoerotica - è per la Sciamma, come nei film precedenti , il detonatore o meglio il rivelatore  della propria intima essenza , il " momento di verità " cui , uomini e donne, siamo  necessariamente fronteggiati nella nostra crescita personale. Che ciò possa poi  svilupparsi nella direzione desiderata o sia destinato invece, per le circostanze avverse, a " rientrare nell'ordine " ,negli schemi prefissati, poco importa.  Quel che conta, sembra dirci la Sciamma, è la bellezza , la forza del momento stesso, delle emozioni che si liberano e che ardono dentro di noi : " ritratto della giovane in fiamme ", appunto.

Bel tema e bella storia, come si vede. Interamente scritto dalla Sciamma, il film  ha ottenuto all'ultimo Festival di Cannes il premio per la migliore sceneggiatura. Ma in verità, se c'era un premio che avrebbe meritato , era quello della regia. Qui infatti la " mise en scène ", la messa in scena, raggiunge il suo pieno significato. Storia di un quadro che per essere dipinto ( dapprima nascostamente, per vincere le ritrosie della " jeune fille " e infine col suo pieno consenso ) necessita di un complicato allestimento, di continui cambiamenti di prospettiva, di un lento appropriarsi da parte dell'artista del volto e della figura della persona da ritrarre, il film stesso è un continuo, elaboratissimo esercizio nel descrivere  l'esecuzione del ritratto stesso e, con esso, la nascita del sentimento amoroso tra le due donne. Non vi è inquadratura, per quanto ardita nel taglio o nell' illuminazione, che non trovi la sua giustificazione nella progressiva costruzione da parte  della regista di un autentico spazio visivo che dia vita e significato alla  vicenda :  spazio luminoso o fosco ma sempre  claustrofobico, anche nelle pochissime scene in esterno in cui il mare, più che una possibile speranza di libertà , rappresenta invece una barriera, un invalicabile ostacolo. Fare in modo che quanto viene raffigurato sullo schermo aderisca coerentemente all'atmosfera della vicenda e  all' assunto che essa è chiamata ad esplicitare significa, io credo,  "fare cinema " nel significato più pieno. E questo " Portrait d'une jeune fille en feu ", lungi dall'apparire lezioso o formalistico, è in realtà una prova molto convincente della capacità dell'autrice di tradurre in immagini forti e giuste ciò che vuole dirci. Peccato però, ad impedire la totale riuscita di un 'opera così impegnativa ed insolita, che le due attrici che impersonano, rispettivamente,  la ritrattista ( Noémie Merlant ) e la giovane ritratta ( Adèle Haenel ) non sempre siano all'altezza della situazione.  Un po' troppo meccanica e risaputa mi è sembrata a volte la loro recitazione per trasmettere compiutamente quel fascino, quel brivido di insolito che la scrittura e il lavoro di regia si impegnano a creare.

Altro film di Cannes, totalmente diverso dal primo per atmosfera, costruzione drammatica, assunto programmatico. Parlo dell'ultimo film di Ken Loach, " Sorry we missed you " , traducibile più o meno con " ci sei proprio mancato  ", le parole che, come si vedrà,  i familiari lasciano scritte all'intenzione del protagonista nel momento più drammatico della vicenda lavorativa ed umana di costui. Siamo ancora una volta dalle parti di Newcastle, ex bastione dell' Inghilterra industriale, oggi in preda  alla decadenza economica e allo smarrimento sociale. Il terziario ( tutt'altro che " avanzato ", almeno nell'organizzazione del lavoro ) rappresenta quel poco che rimane e a cui si rivolgono i richiedenti un impiego qualsivoglia pur di sbarcare il lunario. Ciò che trovano è presto detto : precarietà, ritmi massacranti, condizioni-capestro, " homo homini lupus ". E non è che, allargando lo sguardo ed  andando in giro tra pensionati, anziani malandati e (mal) affidati a servizi sociali sempre più evanescenti, giovani strafottenti e rissosi, l'ambiente circostante sia migliore. Il protagonista, Ricky, carpentiere in mancanza di opportunità alla sua portata, decide di entrare in un autentico " girone dantesco ". Accetta cioè di lavorare a cottimo come autista di una ditta di consegne di pacchi di ogni genere e dimensione acquistati dai clienti " on line ". Niente ferie , previdenza o  assicurazioni, niente contratto, " tu non lavori per noi ma con noi " predica pomposo e subdolo l'odioso capointesta ( ne avete mai visti di simpatici ? ) il quale gli minaccia continuamente, per giunta, multe e ritenute di paga ad ogni minimo cedimento. E in più, come se non bastasse ancora , Ricky ha una moglie che a sua volta fatica tanto e guadagna  poco come "badante volante " per i servizi comunali, con la quale, ahimè, riesce a  vedesi solo la sera quando entrambi ciondolano davanti al televisore. Una figlia adolescente, caruccia e che appare come l'unica cui stia a cuore di tenere in piedi l'unità familiare, si spende come può ma il fratello più grande, svogliato, ribelle, sembra già sulla cattiva strada.In breve, in Inghilterra per le classi laboriose(  come si usa dire ) le cose sono tornate ad essere poco meglio che ai tempi di Dickens.

Su questo materiale, già utilizzato in passate occasioni con esiti addirittura trionfali ( "I , Daniel Blake" , due anni or sono vinse proprio la " Palma d'oro ") Loach ha costruito un film  che inizia blandamente, senza fare presa sullo spettatore, abbastanza ripetitivo , ma che cresce gradatamente  sino a darci un finale convincente e , inaspettatamente, con un apertura vagamente ottimistica. In un mondo  duro, indifferente fino alla crudeltà, dove la solidarietà della defunta classe operaia è solo un ricordo nelle sbiadite fotografie detenute da una anziana donna  visitata dalla moglie di Ricky, in cui la speranza non può venire certo dalla classe politica, l'antidoto più forte, l'unico che ci dia ancora una speranza,  risiede negli affetti familiari.  nella tolleranza reciproca  e nell'amore tra tutti gli esseri umani. Un po' poco, si dirà , per raddrizzare un mondo che più storto non si potrebbe. Ma da qualcosa, va risposto, occorre pur ricominciare. Film " giusto " nel suo assunto, commovente senza soverchi lenocinii sentimentali, " Sorry we missed you " impegna un'ora e quaranta della nostra attenzione e della nostra umana partecipazione. Personaggi ben tratteggiati ed interpretati ( menzione particolare per quello di Sally, la moglie di Ricky, che ci piacerebbe incontrare per farle una carezza e dirle una parola di conforto ) non è però quel capolavoro o comunque quel film senza pecche che qualcuno pretende che sia. Fatica , come si è detto, ad ingranare e la vicenda è troppo didascalica; definirla " brechtiana " sarebbe però fare torto al rigore e alla sottigliezza del grande drammaturgo berlinese. Qui siamo piuttosto dalle parti di un Eduardo De Filippo, del  De Sica del " Tetto ", non di " Ladri di biciclette ". Qualcuno ha incautamente accostato il mondo dei poveri di Loach a quello del cinema dei fratelli Dardenne ( " Rosetta " , " Due giorni e una notte " ). Parentela soltanto apparente, tanto il cinema dei Dardenne è rigoroso, tutt'altro che romantico, geometrico nella propria costruzione. Se, per rimanere nel campo " progressista " dove sia loro che Loach certamente militano, il cinema dei " fratelli " potrebbe assimilarsi grosso modo a un  sottile editoriale di " Micromega ", quello di Loach si avvicina invece ad un vigoroso comizio di Landini o, andando più in là nel tempo, del grande Di Vittorio. Energico ma quasi sempre eccessivo, ottimo nelle intenzioni ma non sempre efficace nei risultati. Anche se, va aggiunto, lascia l'amaro in bocca ed induce a riflettere.


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