lunedì 16 luglio 2018

" THREE FACES " di Jafar Panahi ( Iran,2018 ) / " COLD WAR " di Pawel Pawlikowski ( Polonia, 2018 )

Nella rassegna dei film di Cannes 2018 presentati nelle scorse settimane a Milano, di cui vi ho parlato recensendo la " Palma d'oro " giapponese ( " Shoplifters " ) e il bellissimo sindacal-thriller " En guerre ", vi erano altri due film su cui mette conto ora di soffermarsi. Perchè ? Innanzitutto perchè entrambi di un certo valore e meritevoli quindi di segnalazione, nel caso che i distributori italiani si decidano ad immetterli nel circuito commerciale, magari nella prossima stagione. E poi perchè, nella malaugurata eventualità che non ce li facciano vedere in Italia e non riusciate ad acchiapparli altrove o in video, di essi rimanga almeno traccia in questa rubrica tra i bei film  dei  quali abbiamo  se non altro discusso, Certo leggere di un film senza averlo ancora visto o sapere di poterlo vedere quando ci pare, può essere leggermente frustrante. Ma può servire a  darci egualmente dei dati e delle informazioni delle quali, se siamo interessati alle vicende della settima arte, possiamo fare tesoro per la nostra personale  enciclopedia  di nozioni, di ricordi, di sensazioni, di curiosità legate al cinema. E può rafforzarci, naturalmente se diamo credito all'opinione di chi quel film ha visto e ce ne parla, nel convincimento che ci stiamo forgiando  circa le ragioni per cui un film è bello o almeno suscettibile di piacerci. Io , questi due film , li ho trovato piuttosto buoni e cercherò ora, sinteticamente, di spiegare perchè.

Jafar Panahi è un regista iraniano che non può uscire dal proprio Paese perchè gli hanno ritirato il passaporto per motivi politici e che ad un certo punto non aveva neanche più il permesso di girare film ( di qui l'espediente di girare il film precedente, " Taxi Teheran ", fingendosi un  tassista della capitale e riprendendo, in gran parte  grazie ad una microcamera nascosta  nello specchietto retrovisore, atteggiamenti e dialoghi dei suoi occasionali  clienti ) . Questa volta il film è girato  con l'ausilio di una modesta cinecamera mobile, interamente al confine tra Iran e Turchia e quindi abbastanza lontano dagli occhi dei " controllori " iraniani per permettersi una certa libertà  nel trattare un tema sociale molto delicato : quello dell'emancipazione femminile. Per carità , il regime clerico-totalitario non è certo affrontato di petto e mancano allusioni troppo scoperte alle cause del permanere di una condizione di minorità in cui, laggiù vivono le donne. Ma gli sguardi, gli atteggiamenti, le situazioni che il film obiettivamente fissa sullo schermo sono di per sè eloquenti e racchiudono un nuovo lucido ed appassionato  richiamo all'eguaglianza, alla libertà e alla solidarietà tra tutti gli esseri umani, cioè a tre difficili itinerari che, nell'affrancamento ( un giorno ) delle donne di quel Paese, troveranno un potentissimo stimolo. I tre volti del titolo sono quelli , appunto, di altrettante donne - una, un'anziana danzatrice dell'epoca prerivoluzionaria che in verità intravediamo appena, e le altre  due attrici, una matura ed affermata, l'altra giovanissima e ancora alle prime armi -  che rappresentano in un certo senso  tre epoche successive dell' Iran contemporaneo. E l'ultima, carinissima birbante, è il motore del film  perchè costringe in pratica l'attrice più anziana , accompagnata dal suo regista ( lo stesso Panahi ) a spingersi fuori Teheran alla sua ricerca ( è scomparsa  e si teme per la sua vita , ma si scoprirà che è tutta una messa in scena per rendere più malleabili i genitori verso la sua " peccaminosa " carriera artistica ) . Il film è appassionante come un documentario sulle trasformazioni che anche se a fatica stanno avendo luogo in Iran e struggente come una bella storia intergenerazionale, un  sommesso grido  di speranza e di liberazione. Girato, come abbiamo accennato, con mezzi rudimentali, ha nondimeno una forza ed una delicatezza estetica perfettamente aderenti al suo assunto umanistico. Ancora una volta il cinema iraniano, anche se spesso semiclandestino o maltollerato dalle autorità, si rivela interessantissimo, ricco di spunti mai banali e di grandi talenti.

Dalla Polonia ci giunge invece questo " Cold War "  ( che ha giustamente vinto a Cannes il premio per la miglior regia ). Pawel Pawlikowsi, il suo artefice ( sceneggiatore e regista ) è l'erede , in un certo senso, dei due  grandi cineasti che, nel secondo dopoguerra, hanno fatto conoscere all'estero il cinema polacco : Andrzej Wajda e Krzysztof  Kieslowski. Dal primo ( il regista de " L'uomo di ferro " e " L'uomo di marmo ",entrambi sulle vicissitudini del comunismo alla polacca ) ha preso la capacità di situare le sue storie su di uno sfondo storico-politico ben preciso e che imprime subito ad esse una traiettoria  più ampia e collettiva. Dal secondo ( l'autore della serie " I dieci comandamenti " ) sposa,  in una certa misura perchè al di fuori di un preciso contesto religioso, il gusto per le vicende di anime travagliate ed in lotta permanente prima con sè stesse che con gli altri. Il suo precedente film , " Ida ", la vicenda di una giovane aspirante novizia in un convento sullo sfondo di antiche vicende immediatamente successive alla fine dell'ultima guerra, era apparso già molto convincente e sufficientemente maturo. Questo " Cold war " rinnova in un certo senso il suo interesse per gli anni immediatamente successivi all'avvento del comunismo e storicizza le vicende dei due protagonisti su di un arco di tempo che parte dal 1946 e  si spinge sino alla metà degli anni ' 60 del secolo scorso, cioè fino all' apparente e mistificatrice " liberalizzazione " del regime prima dell'avvento di Solidarnosc ed alla definitiva frattura delle masse con il regime stesso. I due personaggi  principali ( un pianista  " borghese " che si è accostato al partito comunista per mera convenienza e anela di fuggire all'Ovest , una ragazza di origini contadine molto avvenente, brava cantante ma che sembra lasciarsi trasportare dalla corrente e fatica ad individuare i suoi veri obiettivi ) sono tratteggiati con maestria e finezza di introspezione psicologica, La " guerra fredda " qui non è solo quella che separa due mondi politicamente opposti ma simboleggia quasi, mi sembra di poter osservare, lo stato di eterna belligeranza tra due esseri umani che , ancorchè si amino e si cerchino, non riescono a fondere i loro caratteri e le loro aspirazioni. Il contesto  in cui ha luogo la  vicenda, ritmata da musiche e canzoni che danno al film una dimensione particolarmente accattivante- non solo elemento decorativo  ma componente essenziale che ne accompagna e dirige quasi lo svolgimento- è vario e molto intelligentemente descritto. Dalla Polonia passiamo spesso ad altre capitali europee ed in particolare a Parigi ( quasi il polo " capitalista " e libertario per eccellenza, opposto  alla Varsavia comunista ed ipocrita ), ciascuna con le sue certezze , le sue attrattive ma anche le sue profonde insufficienze .Un insanabile conflitto : guerra  "fredda" appunto , ma non meno acuta e devastante per un giovane polacco di oggi che sia affascinato da quel periodo storico e che si interroghi, su quello sfondo, circa gli  insondabili misteri dell'animo umano. Regia fluida, modernissima, eppure classicheggiante nella chiarezza espositiva. Interpretazione sontuosa ( la giovane " prima donna " è da gran premio ) colonna sonora curatissima. Tanto di cappello, come si suol dire, per uno dei  registi più interessanti del cinema europeo di oggi. 


Termina, con questa nota odierna, la seconda serie della rubrica di approfondimento cinematografico che state seguendo. La stagione è ormai agli sgoccioli, i film buoni sono stati presentati: si attendono i prossimi festival, Locarno e poi Venezia, per dare inizio alla nuova, il prossimo autunno. 
Facendo un pò di conti, mi sono accorto che questa di oggi è la settantasettesima puntata della rubrichetta. Nata un pò per gioco e nel semplice desiderio di  condividere con i miei amici l'emozione che avevo provato rivedendo alcuni film di Hitchcock,  nel luglio del 2016, dopo due anni essa si è certamente irrobustita ed occupa ormai un posto importante  nel mio immaginario e nelle mie occupazioni ( oltre ad andare al cinema tutte le settimane , per dieci mesi all'anno, scrivere è faticoso e richiede tempo ). Ma sono, dal mio punto di vista , molto soddisfatto. Non solo per quanto mi offre in termini di riflessione sulla mia grande passione che è sempre stato il cinema. Ma anche e soprattutto perchè mi consente di stabilire un dialogo a distanza con tanti appassionati, amici di vecchia o di nuova data ( grazie, Alfredo, per diffondere ogni settimana il messaggio sul tuo vasto network... ). Un dialogo spesso concreto, fatto di apprezzamenti ma anche, talvolta, di qualche perplessità come è giusto che sia. Più ancora di frequente, un dialogo che non è fatto solo di espliciti scambi di opinione ma che è come una grande, solida, silenziosa rete che tutti ci unisce attraverso il filo invisibile della simpatia , del rispetto reciproco, dell'amore per l'arte e  per la bellezza. Come diceva Hitchcock ? " Il cinema è la vita senza le parti noiose ". Grande verità , in un mondo in cui abbiamo  sempre più bisogno di antitesi robuste alla torpida assuefazione ed al decadimento morale che ne è la naturale conseguenza,  contro il conformismo e la stupidità. Lunga vita al cinema, dunque, ed arrivederci a settembre ! 


giovedì 12 luglio 2018

" UNSANE " di Steven Soderbergh ( USA, 2018 )

Chi pensava ,ed  io per primo, che i distributori cinematografici italiani non ci avrebbero offerto più nulla di veramente valido - ora che l'estate batte il suo pieno -  deve fare ammenda almeno parzialmente. Da pochi giorni è sui nostri schermi, infatti, l'ultimissima fatica di Steven Soderbergh, il talentuoso  cinquantacinquenne regista americano. Avevamo appena finito, poche settimane or sono, di commentare il suo penultimo film in ordine di tempo ( " Logan lucky " , diventato in Italia " La truffa dei Logan " ) quando ci arriva, a ruota si può dire ,questo " Unsane " ( stesso titolo italiano ) che, ancorchè girato lo scorso anno , è uscito negli " States" questa primavera ed è stato presentato in contemporanea al Festival di Berlino. Se " Logan lucky " era un ottimo " divertissement ", appesantito solo nel finale da una sceneggiatura un pò contorta, questo " Unsane ", scaraventato quasi per caso in una programmazione ormai da imminente chiusura estiva, è ancora meglio. Mi rafforza in pieno nell'idea che Soderbergh sia uno dei registi tecnicamente più preparati tra quelli  oggi in circolazione ed uno che mastica, come si dice, pane e cinema con la stessa naturalezza. 

Intendiamoci, in " Unsane " sembra di trovarsi in pieno in quello che una volta si sarebbe chiamato un " B movie ", cioè quei film " di genere "  che costituivano, ancora trenta o quarant'anni fa, prima dell'offensiva in grande stile delle serie televisive, il nerbo della produzione di Hollywood e che attiravano vaste platee. Il " genere " qui potremmo definirlo  l' horror  psichiatrico, tipo il celeberrimo " La fossa dei serpenti ", con tanto di cliniche-lager che nascondono più di un  segreto nei loro lugubri sotterranei, infermieri sadici e, ovviamente, una " demselle in distress ", cioè una giovane donna presa al laccio e  che fa una tremenda fatica ad uscirne fuori. Insomma, gli ingredienti classici ci sono tutti, attualizzati solo  per convincerci che siamo al giorno d'oggi e che non stiamo rivivendo un lontano ricordo cinematografico, ma sufficienti per farci provare le stesse emozioni, lo stesso brivido di paura.
La protagonista, che ha un bizzarro primo nome, Sawyer ( come Tom... ) , ci appare nelle prime scene come una giovane donna in carriera, normale per quanto si possa esserlo in un'epoca così disumanizzata come la nostra, magari un pò spigolosa con clienti e capi, abbastanza solitaria. Sapremo presto che ha dovuto trasferirsi dalla sua città natale perchè perseguitata da uno " stalker " particolarmente ostinato e che essa, in preda ad una forte depressione,  " sente " ancora presente accanto a lei. Indotta con un artificio, durante una visita di routine, a ricoverarsi " per  accertamenti sul suo stato" in una clinica nitida e asettica quanto basterebbe per diffidarne (c'è dietro una sordida " combine " tra assicurazione privata e istituzione sanitaria volta a riempirne  i posti letto ) Sawyer presto  si rende conto che la sua volontà non conta più nulla e che ormai è prigioniera come una mosca incappata nella tela di un ragno. " Pazza " tra autentici deboli di mente, le sue tribolazioni ( di cui non dirò ) incominciano appena, in un crescendo di angoscie e  di disavventure  che, in capo ad un'ora e quaranta di film, giungeranno all'epilogo in un modo brillantemente rocambolesco.

Ridotto così all'osso, il film può apparire marginale nella filmografia dell'autore (che ha comunque alternato, senza complessi, opere ambiziose ad altre maggiormente commerciali)   e destare qualche dubbio preliminare quanto agli apprezzamenti critici molto positivi con cui è stato accolto. Sarebbe peraltro un errore, a conti fatti, non rilevare almeno due  grossi meriti che esso presenta e che ne fanno, a mio parere, il miglior film di Soderbergh da diverso tempo a questa parte.
Innanzitutto va rilevato come la storia di pazzia, vera o presunta, della protagonista e i suoi traumi di " stalkerizzata " ( che avrebbero potuto darci un mélo scontato ed  abbastanza pesante ) interessino il regista fino ad un certo punto, almeno in quanto tali. Non vi è infatti alcun approfondimento psicologico del personaggio, nè ci vengono offerti soverchi dettagli sulla sua passata esistenza , salvo rapidi flashback di sobria efficacia narrativa. Di tutta evidenza  il centro del film sta altrove. Esso risiede cioè nella descrizione stessa, asettica e oggettivata il più possibile, del sinistro stabilimento psichiatrico, dei personaggi che lo abitano, delle vicissitudini della protagonista. Potremmo essere in un " fumetto " ( sempre fumetto d'autore, beninteso ) dinnanzi ad una serie di immagini che si susseguono davanti ai notri occhi per il  tormento e la gioia di semplici " voyeurs ". Tutto è nella struttura esteriore del film , nel suo essere un puro, scintillante, oggetto cinematografico, la cui  ragion d'essere non va cercata in alcun particolare significato o progetto che ne sia alla base ma nel chiaro  piacere di filmare di cui dà prova il regista. Cinema allo scopo di fare cinema, che si risolve nell'atto stesso della creazione, insomma. E tenendo fede con coerenza al suo assunto anti-intellettualistico Soderbergh giganteggia in messa in scena , solida scansione del susseguirsi delle inquadrature, perfetta direzione di attori ( su tutti la protagonista , l'inglese Claire Foy, famosa per alcune serie televisive, come " The Crown ", in cui interpretava una giovane Elisabetta II )

Il secondo punto a favore del film  sta nell'essere stato girato ( per mano dello stesso Soderbergh, grande esperto di luci e di immagini fotografiche ) grazie alla microcamera di un normale telefono cellulare, un Iphone 7, per la precisione. La grande libertà che offre questo mezzo in fase di ripresa è stato utilizzata dal regista non tanto per risolvere gli usuali problemi tecnici  che si sarebbero posti con i mezzi tradizionali o per abbattere i costi di produzione (il film è costato in tutto un milione e mezzo di dollari,una vera sciocchezza) quanto per dare vita ad un particolare ed innovativo linguaggio cinematografico. La bellezza del film ( davvero un bell'oggetto da ammirare in sè ) sta proprio in questa libertà dal condizionamento imposto dagli usuali strumenti di ripresa che gli ha consentito una fluidità ed una " sintassi " perfettamente congeniale ad una storia di menti che vacillano, di realtà oggettiva e di rappresentazioni distorte di tale realtà. Molti grandi angolari, prospettive " falsate ",  immagini leggermente deformate, frequente ricorso al piano- sequenza e , di conseguenza, pochi campo-controcampo, un andamento a tratti sornione ed a tratti improvvisamente nervoso, in perfetta sintonia con l'atmosfera generale della vicenda. Una lezione di cinema  quanto mai stimolante e che ci permette in pratica di archiviare con soddisfazione una stagione  non avara certamente di qualche opera che resterà nel ricordo. 


giovedì 5 luglio 2018

" L'AFFIDO " di Xavier Legrand ( Francia, 2017 )

Qualunque film , al pari di un'opera letteraria o drammatica o di un brano di musica,  cioè di ogni creazione artistica che, a causa della  sua struttura, può essere  fruita solo  "in progressione " secondo una sequenza preordinata dall'autore, ci dovrebbe apparire  fin dall'inizio  sorretto ed animato da un' idea centrale che ne determini la traiettoria e  ne irradi tutte le parti.  Una idea forte,   che si mantenga  e si  sviluppi inesorabilmente fino alla fine , fino alla conclusione di quell'esperienza sensoriale e  allo scioglimento del particolare stato d'animo che ci ha accompagnati lungo il suo  percorso. Una " rivelazione " del significato, direi quasi della " ragione " del film , che può talvolta non essere facilmente scorta dallo spettatore e  che gli sfugge, quindi, quando non emerga con la dovuta chiarezza. Oppure, caso anch'esso  non infrequente, quando quello che credevamo di avere identificato come l'intento o " l'animus " dell'autore  risulti poi una  pista illusoria che non ci consente di arrivare alla " verità " dell' opera. In entrambi i casi , se si esclude l'ipotesi di una insensibilità o non  sufficiente reattività degli stessi spettatori, la responsabilità di quanto accaduto  va attribuita necessariamente agli autori, regista e sceneggiatore in primo luogo . Sono essi , in definitiva, che se "non si sono fatti capire ", hanno fallito il loro compito, o per non averci permesso di cogliere  la " ragione " del film o per non aver tenuto fede a questa fino alla fine. Insomma, personalmente non credo ai geni incompresi e al mito di uno spettatore troppo pigro per fare la fatica di comprenderli. Poichè sono essi, gli artisti , che debbono saperci trasmettere, con continuità e coerenza, l'emozione che ci permetterà così di cogliere le loro intenzioni e di pervenire ad un pieno godimento della loro opera. 

Lunga premessa - ma non credo superflua - per affermare che " L'affido " , da poco sui nostri schermi, potrà anche essere, come qualcuno ha rilevato, non privo di difetti di costruzione che ne inficiano in ultima analisi l'impatto ed il valore specifico. Ma che certo non può essere accusato di  celare il suo gioco, di nascondere insomma quale sia appunto quella inesorabile traiettoria che è al suo interno e che viene sviluppata in modo che a me appare quanto mai convincente. Film francese che rivendica la sua origine " grand public ", non elitista,   si fa apprezzare per l' " umiltà " programmatica con cui  affronta  un argomento che è molto sentito dall'opinione pubblica di oggi, cioè le drammatiche lacerazioni  che possono determinarsi nella vita di coppia e le loro conseguenze sui figli  E per la capacità, ripeto,  di far emergere fin dall'inizio il suo tema centrale- il disadattamento sociale e la forza distruttrice dell'individuo che ne sia affetto - senza mai deflettervi, in una progressione drammatica che diviene   sempre più coerente e che ci rivela  man mano con assoluta evidenza quale sia il punto di vista " morale" del regista-sceneggiatore Xavier Legrand, qui al suo primo  e promettente lungometraggio. Se si riflette al suo titolo originale ( " Jusqu' à la garde " )  le intenzioni dell'autore   dovrebbero risultare abbastanza trasparenti fin dall'inizio. La " garde ", è vero,   evoca letteralmente  "l'affido " della versione italiana, cioè il provvedimento di un giudice minorile che decide che il figlio maschio della coppia formata dai nostri personaggi,  Antoine e Miriam, da poco separati, sia affidato ad entrambi a rotazione,  secondo una crudele spartizione del tempo e degli affetti. Ma la " garde ", in francese , è anche l'elsa di una spada e l'espressione " jusqu' à la garde "  vuol dire, metaforicamente, " fino in fondo ", " fino alle estreme conseguenze ", come di chi , appunto, affondasse una spada fino all'elsa nel corpo di un avversario E questa inesorabile traiettoria , questo crescendo di incomprensione , di incomunicabilità , di lotta  e di orrore che dividerà sempre di più Antoine da un lato , Miriam e il figlio dall'altra, è il tema declinato senza alcuna flessione o perdita di ritmo da questo bel film . Avevo potuto vederlo a Parigi l'inverno scorso ed è triste che  giunga a noi in un momento nettamente meno favorevole, quando la stagione sta finendo ed i distributori, in tutta evidenza, non ripongono grandi speranze negli ultimi " scampoli " che ci offrono mentre le sale si fanno sempre più deserte. 

Dunque Antoine e Miriam sono i protagonisti di questa storia. Due persone come tante, banali, estrazione sociale medio-inferiore, cultura presumibilmente modesta. Un tempo ( quando ?) devono pur essersi amati,  aver deciso di fondare una famiglia, avuto dei figli. Da quanto capiamo e molto presto incominciamo a vedere con i nostri occhi , se Miriam ha avuto forse le sue " colpe "( introversa, poco trasparente, leggermente manipolatrice ) Antoine è l'uomo che probabilmente non avrebbe dovuto mai sposarsi e diventare padre. Scarsamente cosciente delle sue responsabilità, tendenzialmente infantile, portato al vittimismo, niente affatto  empatico, si aggrappa alle prerogative che la legge ancora gli riconosce per tormentare la moglie, non concederle l'affido esclusivo del figlio ( la figlia adolescente vive già con la madre e non intende avere più alcun rapporto col padre ) angariare e umiliare il ragazzino che ha il diritto di tenere con sè tutti i fine settimana. Questo Antoine ( bravissimo l'attore che impersona un personaggio così sgradevole ) è in un certo senso anch'egli una vittima ( forse dei propri genitori, certo della nostra società ) ma è al tempo stesso il carnefice della moglie separata e del figlio : minacciati, tormentati, spiati e seguiti, in un crescendo di folle persecuzione che , nel finale , sembra quasi virare pericolosamente verso il filone horror, alla " Shining " per intenderci. Ed è qui che i detrattori di Legrand lo hanno accusato di scarsa coerenza , di improvvisa rottura della tonalità impiegata fino ad allora dal film : dal dramma familiare mantenuto nell'alveo dello psicologismo e di un  sociologismo, diremmo,  da aula di tribunale si  passerebbe di colpo, spezzando l'unità concettuale ed estetica dell'opera, ad un film sopra le righe, quasi granguignolesco e con un finale "inverosimile " . Niente di meno vero. In realtà- ed è qui che Legrand riesce a legare convincentemente l'uno e l'altro registro della vicenda - la parabola di Antoine, il suo scendere sempre di più nel disadattamento e in un sordo vittimismo senza costrutto, sino alle scene parossistiche del finale, è annunciata fin dalle prime scene, fin dal suo presentarsi come una brav'uomo, comprensibilmente solo un po' depresso, al suo piagnucolare con la moglie , al tentare puerilmente di riconquistare la simpatia del figlio.

Insomma, sembra  dirci Legrand ( che ha dilatato, per questo primo lungometraggio, un suo precedente "corto " sulla stessa vicenda che gli aveva valso molti apprezzamenti  ) un comportamento malato o violento non nasce all'improvviso. Ma è preannunciato da una serie di segnali , magari non subito percettibili o agevolmente decifrabili, che sono premonitori del tormento prima e poi della tempesta che agiterà quel cuore e quella mente. E il cinema, incaricandosi di seguire, riferire o ricostruire, come più si preferisce, quel percorso di dolore e di follia, tanto più riuscirà nel suo intento quanto saprà creare un clima di inquietudine, di minaccia e di attesa che faccia presagire che qualcosa sta per accadere, che siamo in direzione " borderline ", sicchè tutto quel che succede poi  appaia non come una sorpresa ma come la naturale , inevitabile conseguenza di premesse così dubbie e pericolose. Tutto quanto  ho appena detto riesce molto bene a " L'affido ", che si conferma così film intelligente,  oltre che moderno e  vibrante. Passi per i difetti di sceneggiatura o per qualche " citazione " di troppo nella parte finale. Siamo in presenza di una gran bella opera prima e di un autentico artigiano del cinema che sa quel che fa e quel che fa lo fa bene. Fotografia un pò troppo smagliante per un film abbastanza " dalle mezze tinte ", gli attori sono a posto, inclusi i minorenni . Miriam è Léa Drucker, vista in altri film . Qui è sufficientemente ambigua e distante perchè lo spettatore ( giustamente ) non parteggi subito per lei. A questo povero Antoine, prototipo di tanti maschi confusi e rancorosi di oggi, non vogliamo almeno lasciare il beneficio del dubbio, del nostro  dubbio,  che- pur se titolare di comportamenti meno  violenti - la moglie non sia poi tanto meglio di lui ?