venerdì 24 marzo 2017

" Loving " di Jeff Nichols ( USA, 2016 )

 Che cos'è un " diritto naturale " ? Un desiderio, una pretesa  che sgorga  dalla natura umana, prima ancora che le leggi ne sanzionino l'esistenza e ne proteggano l'esercizio. Un prepotente, innato bisogno di autorealizzazione che avvertiamo come individui o nell' associarci con gli altri. Qualcosa - qui sta il punto - che non sempre  le leggi del raggruppamento sociale di cui facciamo parte sono disposte a riconoscerci. Ed ecco allora gli ostacoli,quando non  il divieto, che il " diritto positivo "(cioè  il complesso di norme vigenti in un determinato luogo e periodo storico) ha posto, pone o potrebbe porre alla concreta acquisizione di quel diritto che sentiamo profondamente come   "nostro". L'evoluzione stessa dell' umanità - nella dimensione giuridica del fenomeno - può essere vista proprio, io credo,   come una continua tensione tra l' inverarsi del diritto naturale nelle leggi che man mano lo accolgono ed i ritardi e le remore   che vi oppongono altre "necessità" , altre concezioni, che quel " diritto " non sanno o non vogliono recepire . 
  • Tra i " diritti naturali ",  la categoria dei diritti umani e civili, nonostante la sorda resistenza che ad essa spesso viene opposta, va progressivamente affermandosi .Retrospettivamente,  non possiamo peraltro affermare che si sia trattato di un cammino facile e indolore. Se un diritto  come quello di unirci in matrimonio alla persona che amiamo ci sembra  oggi una delle  più elementari  tra le nostre pretese , ricordiamoci che sotto varie latitudini ed in epoche storiche, anche da noi non molto lontane, non è sempre stato così. Il film di cui mi appresto a parlare prende proprio  le mosse dalla situazione esistente , a cavallo tra gli anni '50 ed i ' 60 del secolo scorso, in varie parti del Sud dei pur civilissimi Stati Uniti d' America .  Le legislazioni di alcuni Stati come la Virginia, dove è ambientata la vicenda , contemplavano a quel tempo, infatti,  il divieto dei matrimoni interrazziali a protezione di una " racial integrity " considerata come uno dei pilastri del regime separatista che, anche dopo l'abolizione della schiavitù, aveva continuato a reggere quelle comunità . Regime che le lotte per i diritti civili andavano man mano smantellando. Ma senza ancora essere riuscite , all'epoca della nostra storia,   a rimuovere il  tabù delle unioni tra bianchi e neri così ancorato nella società locale.

  • " Loving " è un film " storico " perchè è veritiero e fedelmente ricostituita vi è l' " aria dei tempi ", cioè di  quel particolare momento  della condizione degli afroamericani negli Stati del Sud  che va dal 1958  (presidenza Eisenhower ) al 1967 ( presidenza Johnson ). Un periodo di grandi, , irreversibili cambiamenti, segnato dalle lotte per i diritti civili, la fine della segregazione nelle scuole, la progressiva iscrizione dei neri nelle liste elettorali. Epoca di conquiste ma anche di drammatici avvenimenti ( nel 1963 vi fu l'attentato a John F. Kennedy, e pochi anni dopo vi sarebbero state le uccisioni di Robert Kennedy e di Martin Luther King ). Da un anno, il  1958,  che nel film sembra uscito paro paro da un tradizionale romanzo di Caldwell, all'anno 1967 che vede già un'altra consapevolezza da parte della comunità  "colored" . Ma, storico anche perchè la vicenda narrata è autentica e ben conosciuta laggiù, avendo segnato la sconfitta definitiva degli uomini politici, dei giudici e di  quant'altri  erano contrari ai matrimoni misti, arroccati dietro il  " Racial Integrity Act " del 1924. Legge dichiarata incostituzionale nel 1967 dalla Corte Suprema a seguito di un caso giudiziario che fece epoca, il " Loving versus Virginia ". Quello per l'appunto, che costituisce il soggetto del film di cui parliamo qui. Film che ha per titolo  il cognome di due coniugi ( Richard e Mildred Loving appunto, bianco lui e nera lei ) i quali - sposatisi nascostamente nel distretto di Columbia per sfuggire alle leggi liberticide della Virginia dove vivevano e , tornati poi ad abitare nel loro Stato - furono arrestati, sottoposti a processo, condannati ad una pena detentiva commutata in 25  (venticinque! ) anni di esilio per aver violato il divieto di matrimoni misti. Costretti ad andare a vivere da una parente nei sobborghi di Washington, in pratica un ghetto di neri, i coniugi Loving furono aiutati  anni dopo dall' Associazione per l'avanzamento della popolazione " colorata " a sfidare nuovamente le leggi segregazioniste, ad essere ancora condannati e a fare questa volta ricorso. Ricorso che, perso dapprima in appello per mano di un tribunale dello Stato della Virginia, fu portato sino alla Corte Suprema federale , competente per la costituzionalità delle leggi. E la Corte Suprema, della quale- aggiungo - proprio in quell'anno stava per entrare a far parte , per la prima volta nella sua storia quasi bicentenaria, un giudice nero, dette ragione ai ricorrenti abrogando definitivamente la legge del 1924.

  • Se questa è la tela di fondo, il mosaico degli avvenimenti attraverso i quali fu scritta una pagina importante della storia degli Stati Uniti d'America, il film -molto intelligentemente - riesce quasi subito a liberarsi della sua pur essenziale componente socio-politica per fare rotta decisamente verso altri lidi, altri territori più congeniali al suo autore. Questi, il regista-sceneggiatore Jeff Nichols, 38 anni, al suo quinto lungometraggio in poco più  di un decennio, è senza dubbio uno dei nomi più interessanti dell'odierno cinema americano. Cineasta indipendente, i suoi film   (salvo in parte il precedente, " Midnight special ", inedito in Italia ) hanno in genere un costo contenuto, non si affidano ad attori troppo conosciuti e ruotano intorno ad alcuni temi basilari della prospettiva contemporanea. L'individuo sottoposto alla minaccia di un mondo che non capisce e che egli non può più dominare come un tempo , il timore di una catastrofe che può inopinatamente cadere su di lui, la famiglia come principale baluardo, il difficile ma affascinante rapporto di coppia, la continuità della specie. Ma, anche, come in " Loving ", l'attenzione al gruppo sociale, una puntuale ed affettuosa descrizione di quella piccola' America rurale che è forse maggiormente in grado della mastodontica realtà urbana di costituire un effettivo riparo  per la cellula familiare insidiata dal pericoloso turbine della modernità. " Take shelter ", come il titolo di quella ( 2011 ) che è ad oggi la sua opera  più convincente: mettersi al sicuro , proteggersi  dai pericoli ( forse dalle inquietudini ) della contemporaneità . 
  • Se questi sono i temi dominanti del cinema di Nichols, declinati sempre con assoluta coerenza narrativa, il suo cinematografo non è mai banale. Affezionato ad un classicismo che non è semplice "maniera" ma autentica condivisione dei propositi morali ed estetici del grande cinema americano del passato, le sue immagini hanno una forza ed una bellezza  tutt'altro che statica, inquieta direi e serena al tempo stesso, che deriva dalla solidità del suo approccio, dall'aderenza della sua funzione di " autore " alle preoccupazioni , alle " ragioni " interne dei  personaggi.

" Loving " è anche - è soprattutto- una bellissima storia d'amore. Un amore diretto innanzitutto verso l'altro soggetto nella coppia ma  teso,contemporaneamente, ad un traguardo ulteriore ed esterno : la creazione di una famiglia , di uno scampolo di società fondato su determinati valori, ed anche una testimonianza di vita verso la collettività ,in un percorso che vada dalla cerchia più piccola dei propri affetti ad una circonferenza più vasta che abbracci la comunità di cui siamo parte. " Loving ", lo sappiamo, ha un doppio significato. Patronimico dei due protagonisti, vuol dire anche, lessicalmente, " amarsi " o " amandosi ". Un film "sull "'amore prima ancora che " di" amore . L'amore tra i  coniugi, innanzitutto.  Un amore fatto di fiducia reciproca anche nei momenti più difficili ( la stupenda, minacciosa sequenza del primo arresto di Richard e Mildred e della loro crudele separazione in carcere ) e di costante,  mutua " presa in carico ". Penso a due stupende battute , nel film, che mi pare diano compiutamente conto di questo amore coniugale semplice e meraviglioso. Quando Mildred deve spiegare perchè non può fare a meno del marito, dice soltanto " egli si prende cura di me " ( " he takes care of me " ), intendendo riferirsi a  quell'ineffabile senso di protezione e di sicurezza che   Richard è capace di infonderle. Questi, a sua volta, richiesto dall'avvocato che lo difende nel ricorso alla Corte Suprema se abbia qualcosa da far sapere ai giudici in occasione dell'udienza pubblica alla quale ha scelto di non intervenire , si limita a dire " dite loro che io l'amo " ( " tell them I love her " ). Ma anche, dicevamo , un amore più vasto, che abbraccia  la piccola collettività di parenti, amici e simpatizzanti che sostiene la coppia nelle sue vicissitudini legali come la più larga platea degli abitanti della cittadina virginiana. Bianchi e neri, egualmente meritevoli dell'affettuosa pietà dell'autore e  dei suoi personaggi , perchè " prigionieri ", gli uni e gli altri, dell'ignoranza e della separazione razziale. Affetto, quindi perdono, senza mai una condanna, una manifestazione di disprezzo o di vendetta : " amandosi ", appunto.


Per significare tutto ciò, esprimere al meglio il ricchissimo mondo dei propri sentimenti e delle proprie idealità, Nichols ha  scelto di dirigere con mano ferma, senza fronzoli, pochi movimenti di macchina, molti primi piani ( come, dicevamo,  nel cinema " classico " americano ). Una regia attenta, precisa , che si affida alla suggestione dei volti , degli sguardi dei protagonisti , immersi in una natura ( quella rigogliosa della Virginia ) che fa da continuo " controcanto " agli stati d'animo della coppia sottoposta ad una " prova " che accrescerà la loro forza interiore, la loro capacità di continuare ad amarsi e ad amare. 
Ma aveva anche bisogno, il film, di una fotografia e di una musica capaci, di volta in volta, di evocare pudicamente o sottolineare con forza  i sentimenti che agitano le coscienze di quegli stessi personaggi principali. Non puro elemento esterno o " decorativo ",  ma autentico supporto  all'intera concezione del film . Traguardo, debbo dire, pienamente raggiunto, grazie agli abituali collaboratori di Nichols in questi settori.
Una parola, infine , assolutamente doverosa verso gli splendidi interpreti. Quasi assente qui l'attore "feticcio " di Nichols, incluso in tutti i suoi film precedenti ( Michael Shannon , in " Loving ", fa solo un apparizione come il fotografo autore di un reportage  della vicenda per " Life " ) il regista si è affidato per la parte di Richard a Joel Edgerton, un attore australiano poco noto ma che egli aveva già utilizzato con buoni risultati in " Midnight special ". Intenso,  dallo sguardo vigile ed inquieto, egli ci dà  una interpretazione credibile, molto accattivante  nell'improvviso sorriso fanciullesco da " good american ". Ma la vera rivelazione , colei per cui  soltanto varrebbe la pena di vedere il film anche se non fosse la notevole opera che è, posso tranquillamente affermare che sia l'interprete di Mildred. Ruth Negga, sconosciuta ai più , è una splendida attrice, figlia di un padre etiope e di una madre irlandese. Sottile e flessuosa, ha uno sguardo incantevole, due occhi da cerbiatta che ti rapiscono il cuore. Con l'intensità del suo sguardo, la delicatezza delle sue movenze, è una credibilissima mulatta virginiana degli anni cinquanta. Il peso del suo tutt'altro che facile personaggio è sostenuto da lei con una recitazione tutta " in sottreaendo ", cioè depurata da tutti quegli eccessi a cui il personaggio stesso si sarebbe prestato, ridotta alla più semplice, difficile verità. Candidata all' Oscar, ora che ho visto  "Loving " capisco quale ulteriore ingiustizia  è stata commessa attribuendo quel riconoscimento ad Emma Stone per il troppo premiato " La La Land ". Così va il mondo o, meglio, così non dovrebbe andare...

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mercoledì 15 marzo 2017

" La luce sugli oceani " di Derek Cianfrance ( USA, 2016 )

Quanto può essere determinante una cattiva , o tiepida, accoglienza critica di un film per il suo futuro commerciale ( a livello di distribuzione, programmazione nelle sale , incassi )? Molto, moltissimo, temo. Parlo, naturalmente , della vera e propria critica professionistica. Cioè quella dei quotidiani nazionali, dei settimanali , riviste specializzate, radio, televisione. Non il vostro umile ed affezionato rubricante che, al massimo, può dare qualche personalissimo consiglio ai 100-150 lettori che lo seguono e che non può  incidere certo sulle fortune di questa o quell'opera...
Specie i film che vengono presentati nei festival ( Cannes , Venezia, Berlino, Locarno, Roma, New York, Toronto, Montreal e via enumerando ) corrono un bel rischio. Se la critica non li sostiene - segnalando i loro punti di forza quali regia, interpretazione, soggetto, sceneggiatura - ovvero li trascura quando addirittura non  li condanna in malo modo per partito preso ( succede, succede anche in tempi, come questo, di diffuso "buonismo " o di lenocinio critico se preferite...) essi rischiano una brutta fine, indipendentemente dal valore intrinseco . Ecco il motivo per cui alcuni produttori e registi preferiscono ormai evitare l'insidiosa vetrina delle rassegne dianzi citate ed uscire "a sorpresa"   durante la stagione, vergini di recensioni festivaliere. Un film che abbia avuto successo a Cannes o Venezia- ottenendo magari qualche premio- può godere di buone aspettative quando viene distribuito sugli schermi. Ma i film maltrattati in quelle stesse sedi ( e ci sarà sempre qualcuno, statene pur certi, che si farà premura di rammentarlo alla vigilia della loro uscita pubblica ) partono con un pesante handicap. Vengono negletti dalla grande distribuzione, gli esercenti si mostrano restii a noleggiarli,  sono programmati in poche sale e destinati a lasciare presto il posto ad altre opere giudicate più allettanti. E il pubblico, già non incoraggiato dalle recensioni malevole, non è certo posto nelle condizioni migliori per  andarli a vedere. E se, infine, a vederli ci va, la  "negatività" sviluppatasi intorno ad essi finisce col condizionarne sfavorevolmente il giudizio. Al di là, voglio dire, del loro effettivo significato artistico. Potrei fare diversi esempi, nel passato, di buoni film sfavoriti dalla " professione " ( critici, distributori, esercenti ) che sono stati, di conseguenza, ingiustamente, trascurati dal pubblico. Se poi ci rapportiamo alla poco allegra situazione, oggi, del cinema in Italia - pubblico in calo, diffusa diffidenza verso i film che non esercitino un forte richiamo commerciale - facciamo presto a capire come sia difficile per un 'opera frettolosamente giudicata dai media riscuotere l'interesse che meriterebbe.

Mi scuso di questa lunga premessa ma sono davvero dispiaciuto- anzi, irritato - per la poco calorosa accoglienza che, a gran torto, " La luce sugli oceani ", il film di cui vorrei parlarvi, ha avuto da parte della critica italiana. Il sito specializzato " My movies " gli ha affibbiato addirittura la stessa etichetta " assolutamente no " che impiega per le sciocchezzuole nostrane o americane di bassissimo conio. I critici, italiani e stranieri, presenti a Venezia  dove il film è stato presentato , lo hanno trattato con condiscendenza ( strappalacrime, melodrammatico, irrealistico, e via cantando ). Né migliore è stata l'accoglienza negli " States ", da cui pur proviene. Unica , notevole eccezione, la rivista francese " Positif " che gli ha dedicato un articolo elogiativo quando è uscito a Parigi nel mese di Ottobre. Da noi ha faticato a trovare un distributore ( a causa , per l'appunto, dell'insuccesso di Venezia ) ed è uscito solo alcuni giorni fa, dopo molti rinvii e a distanza di quasi sei mesi dalla sua disponibilità, probabilmente anche qui per far dimenticare le stroncature del Festival. Gli esercenti, almeno a Milano dove l'ho visto, lo hanno noleggiato solo per poche sale, tre in periferia ed una sola - piccola e  con uno schermo inadeguato- in centro. In queste tristi condizioni è chiaro che la " carriera " commerciale del film, iniziata in salita, rischia di concludersi anche peggio. Il pubblico, che non può non essere influenzato dallo scarso rilievo che è stato riservato ad un'opera che avrebbe meritato ben maggiore attenzione, sta rispondendo male ( anche se , nelle ultimissime ore, il film si va un po' riprendendo al box office rimanendo peraltro sempre ai livelli di filmetti molto meno ambiziosi ) . Così va il mondo, potreste farmi notare . D'accordo, non è la prima ingiustizia che colpisce il cinema di valore ( penso all'incomprensione iniziale, di pubblico e perfino di una certa critica, nei confronti di Bergman  o di Antonioni ). Ma qui è quasi da sospettare che vi sia stato anche un sottile , automatico rifiuto  "ideologico " nei confronti di un film che ha come " focus " l'amore di coppia , la famiglia, il desiderio di procreare, la responsabilità ed i doveri dell'individuo. Tutti temi che non sono certo nel "mainstream" odierno, scomodi, spiazzanti. Da esorcizzare, forse.

Tom, il protagonista ( Michael Fassbender ) è un reduce della prima guerra mondiale. Australiano, ha combattuto in Europa. Smobilitato e tornato in patria , accetta un impiego temporaneo come guardiano di un faro in una isoletta sperduta e disabitata , alla confluenza tra l' Oceano Indiano e il Pacifico. Sulla via della propria destinazione, prima di imbarcarsi, conosce una ragazza, Isabella  (Alicia Wickander) . Se ne innamora e , tornato dopo qualche mese nella località dove questa risiede, la chiede in matrimonio e la conduce con sé sull'isola ( nel frattempo il suo incarico si è trasformato in duraturo ). Lui e la sposa non sembrano avere timore di quella esistenza solitaria, quasi da naufraghi. In realtà ci rendiamo conto che entrambi hanno desiderato di isolarsi, scossi dalle tragiche vicende belliche . Tom ha visto morire molti dei suoi commilitoni in combattimento, Isabella ha perso tutti e due i suoi fratelli, anch'essi al fronte. Il loro desiderio è ora quello di abitare in un luogo  incontaminato, quasi una sorta di neo-paradiso terrestre dove condurre una vita semplice, amarsi , fondare una famiglia. Ben presto però il destino si accanisce contro la giovane coppia. Isabella non riesce ad avere un figlio e  abortisce due volte ( l'ultima in circostanze drammatiche, durante una terribile tempesta ). Proprio il giorno seguente, calmatasi la furia degli elementi, la risacca conduce a riva una barca... Non dirò di più perché  il film va visto - almeno la prima volta -  nell' inconsapevole succedersi  dei suoi snodi narrativi, nelle sorprese che ci riserva quasi fosse una favola o meglio un apologo sul desiderio insopprimibile e umanissimo di realizzare le proprie aspirazioni, anche contro i diritti o gli interessi  degli altri. Ma anche sul senso del dovere che avvertiamo dentro di noi, sulla responsabilità che abbiamo verso il nostro prossimo e che non possiamo disattendere. Posto di fronte alle traversie della vita, colpito a volte duramente dalla sorte avversa, l'individuo continua ad inseguire il proprio sogno di felicità. Ma tutto si complica  ( anche se ci si rifugia in un isola deserta ) quando il destino che è venuto a cercarci ci pone di fronte ad interrogativi morali ai quali dobbiamo dare risposta. E non è sempre , purtroppo, una partita da cui tutti escono vincitori. Anche se, nell'ultima bellissima sequenza con cui si chiude il film, " vent'anni dopo " come ci informa una didascalia, ci rendiamo conto che i sentimenti, alla lunga,  finiscono col  premiare i  nostri comportamenti responsabili. Cuore e ragione non sono più in insanabile conflitto.

Grande narratore, Derek Cianfrance non ha paura di raccontarci una " storia ", come purtroppo oggi sembrano averla tanti sceneggiatori di film  che girano in tondo o , se preferite, menano il can per l'aia alla ricerca dei propri personaggi e non riescono a calarli in una vicenda che abbia un significato compiuto, che sia davvero " esemplare ".  Nel senso, cioè,  che esemplifichi  aspetti oggettivi della condizione umana , non mere elucubrazioni della mente dell'autore o  cascami psico-sociologici senza un vero puntello nella realtà che ci circonda. Cinema, voglio dire, che abbia  il sapore del pane che ci nutre, il soffio dell'aria che respiriamo. E Cianfrance ha dimostrato di essere in grado di offrirci l'uno e l'altro nei suoi film precedenti. Nel sorprendente " Blue Valentine "( 2010)  e, soprattutto, in "Come un tuono"  (2013, una volta tanto un titolo italiano bene azzeccato, perfino più dell'originale " The place beyond the pines "...). Con quest'ultimo, il regista ci diede una vera e propria saga articolata su due generazioni, senza timore di apparire desueto od eccessivo. Il cinema, arte visiva per eccellenza, necessita però di una ossatura solida  ( il racconto ) su cui innervare le immagini che fanno la nostra felicità di spettatori. Qui, al pari di " Come un tuono ",  " La luce sugli oceani " possiede inquadrature che sono una festa continua per gli occhi ( gli spettacolari paesaggi oceanici in cui è stato girato, la maestosa bellezza di una scogliera o  di un mare in tempesta contrapposti alla delicatezza intimistica di interni di abitazione semplici e spogli nei quali entra , attenuata, la luce abbagliante del giorno, illuminati di sera dal fuoco scoppiettante di un invitante caminetto ). Ma quegli elementi " esteriori " non sono puramente decorativi. Sono essi stessi parte integrante della narrazione, sottolineano intelligentemente gli stati d'animo dei protagonisti, accompagnano la nostra progressiva  acclimatazione con la vicenda, si fondono mirabilmente con gli sviluppi narrativi. La " storia ",  è , quanto ad essa, bella e profonda e soprattutto raccontata benissimo. Si pensi al modo, diretto ed essenziale, con cui facciamo conoscenza con Tom nella prima scena del film. La macchina da presa lo inquadra in campo medio mentre è a colloquio con il  "reclutatore " per il faro che andrà a gestire , che non vediamo che per un breve attimo. Siamo concentrati invece sul volto del protagonista che seguiremo per tutta la vicenda, severo, stanco eppure solido e buono come intuiamo anche dalle poche parole che pronuncia. E poi, subito, il viaggio, il breve contatto con la famiglia di Isabella, il nascente sentimento tra lui e la ragazza, l'arrivo nell'isola maestosa e solitaria. La capacità narrativa di Cianfrance, tutta per scorci, brevi inquadrature dal taglio preciso, senza fronzoli, è degna di un Melville, di un Hawtorne, di quei grandi scrittori del " Nuovo mondo " nel secolo scorso in cui il meraviglioso si sposa perfettamente al semplice ed all'essenziale. Sequenze parimenti esemplari: l'arrivo di Isabella nell'isola, il suo giovanile stupore nell'entrare nella modesta ma ordinata dimora, l'idillio con Tom, la loro prima conoscenza carnale, la terribile tempesta in cui la donna perde il nascituro, la sua corsa folle la mattina dopo verso la misteriosa barca  che Tom sta portando a riva quasi nella speranza che contenga qualcosa , qualcuno, che possa attenuare il suo dolore.

Grande narratore, Cianfrance  non ha paura dei sentimenti, di mostrarci in modo semplice e diretto la ingenua gioia di Isabella nel correre sull'isola e  giocare con gli animali che alleva vicino alla casa, il doloroso conflitto che è in Tom tra l'amore per la moglie ed il suo senso del dovere, l'angoscia di una madre ( Rachel Weisz ) che ha perso la propria neonata, la serena solitudine di Tom, fattosi vecchio, alla fine del film. Tra i registi quarantenni o non ancora del nuovo cinema americano, Paul Thomas Anderson ( " Magnolia " )  James Gray ( " Two lovers " ) Jeff Nichols  ( " Take shelter" ) Cianfrance è forse quello che maggiormente intende, rivisitandola,  ricollegarsi alla produzione hollywoodiana dell'epoca " classica " del dopoguerra ( gli anni '50-'60 ). Gli anni, per intenderci, dei grandi melodrammi di Aldrich, Ray, Minnelli, Sirk. Un " genere "  che allora piacque soprattutto al pubblico ma che poi la critica più recente ha puntualmente rivalutato. Alla luce di questo doveroso accostamento ( pensiamo ad un film " eccessivo " come " Johnny Guitar " di Nicholas Ray o al denso " Lo specchio della vita " di Douglas Sirk ) sfido ora chiunque a trovare che il film di Cianfrance è   "zuccheroso " o " smodato " come incautamente è stato definito. Meravigliosamente servito dai suoi tre interpreti ( Fassbender su tutti, ma la Wickander è destinata ad una grande carriera di interprete drammatica ) " La luce sugli oceani " si giova di due altre caratteristiche fondamentali per un cinema che voglia  suggestionare il pubblico, colpirlo quasi a livello emotivo. Da un lato la fotografia, abilissima , di grande efficacia plastica, perfettamente in linea con le intenzioni del regista. Dall'altra la musica ( di Alexandre Desplat ) solenne ed onnipresente come si addice ad un film di questa intensità e vigore narrativo ( che melodramma sarebbe senza una adeguata partitura ? ). Della regia credo di aver detto. In due ore e tredici minuti di proiezione non ho praticamente assistito ad un momento di " stanca " , come si dice , di distrazione insomma da parte  di Cianfrance. Anche qui il materiale girato ( in un " tournage " protrattosi per mesi e mesi, dando il tempo a Fassbender e Wickander di conoscersi bene e di decidere di vivere assieme... ) sfiorava - come in " Tony Erdmann " - le duecento ore di proiezione. Ma, mentre in quest'ultimo non è stato capace di organizzarsi in maniera equilibrata e coerente, in " La luce sugli oceani " non vi è una sequenza o una inquadratura che non abbia la sua coerenza ed il suo significato, senza sbavature od eccessive compiacenze.  "Chapeau", come si dice.                                                                                                                                                                                                                   









lunedì 6 marzo 2017

" Moonlight " di Barry Jenkins ( USA , 2016 ). " Vi presento Toni Erdmann " di Maren Ade ( Germania, 2016 )

Ho detto altre volte, qui,  che un film ( al pari di una commedia o di un dramma, un libro, un brano di musica, un quadro ) deve saper parlare non solo alla nostra mente, che è facilmente ricettiva verso le cose intelligenti, nuove e stimolanti, ma anche e soprattutto al nostro cuore. Occorre, insomma,  che risvegli le nostre emozioni, ci coinvolga, catturi il nostro spirito perché questo entri in una sorta di comunicazione con l'anima, il soffio vitale  che ispira ( o dovrebbe ispirare ) l'autore, regista o sceneggiatore che sia . Solo così, io credo, l'opera d'arte - ed il cinema è arte, la forma artistica più autenticamente popolare che vi sia - raggiunge il suo fine. Che è quello di risvegliare i nostri sentimenti, consolarci, accompagnarci per un tratto di strada nel difficile cammino della vita.
Sono, queste, riflessioni abbastanza scontate ma che si ripropongono ogni volta che vedo un film cui  sento di poter aderire sul piano puramente intellettuale ma che tradisce poi le sue intenzioni a livello di risultato estetico, di trasfusione di quelle idee nel prodotto che si offre , in ultima analisi, al mio sguardo ed alle mie sensazioni. Fenomeno purtroppo non infrequente, specie di questi tempi. Tempi in cui le idee ci sarebbero, ma poi la capacità di ricavarne qualcosa di convincente sul piano cinematografico alcune volte latita e ci lascia - come dicono i francesi-  "sulla nostra fame", cioè in una perenne attesa che non può  mai venire soddisfatta.  Nella speranza, magari, di  occasioni più propizie.

Prendiamo " Moonlight", il film che,  alla cerimonia degli Oscar e nel modo rocambolesco che sappiamo, è stato proclamato proprio sette giorni or sono il miglior film del 2016. La vicenda, articolata in tre parti, corrispondenti ciascuna ad una età e ad un momento particolarmente significativo vissuto dal protagonista, ci conduce nella Miami di questi ultimi anni. Non quella delle spiagge di lusso , dei grandi alberghi e del " beautiful people ". Piuttosto quella meno conosciuta ma terribilmente vera delle periferie tormentate dalla povertà, l'emarginazione razziale, la violenza e la droga. In questo panorama così poco accattivante siamo chiamati a seguire l'evoluzione, l'apprendistato individuale e sociale di Chiron, un ragazzino nero orfano di padre, rimasto con  una madre dispotica e cocainomane, gentile e taciturno, oggetto di scherno e di continue vessazioni in un mondo  "macho " e che vede con crescente sospetto la sua " diversità ". Cresciuto avendo a modello un " dealer " cubano, duro di modi ma  di ottima disposizione d'animo che lo prende a ben volere ma che presto uscirà di scena, Chiron  fattosi adulto  cercherà dapprima di mimetizzarsi nell' ambiente circostante, diventando a sua volta uno spacciatore di successo, tutto muscoli e sguardo feroce. Ma alla fine capirà che non vi è via d'uscita da un mondo siffatto - dal nostro mondo- se non attraverso la pietà verso sé stessi e gli altri, la condivisione dei sentimenti, l'amore, la serena accettazione di ciò che autenticamente siamo  e delle ragioni profonde che ne sono alla base.
Difficile non aderire all'assunto del film e non condividere il percorso iniziatico di Chiron bambino, adolescente e giovane adulto tra le difficoltà della vita. Tema e ambientazione non sono nuovissimi , almeno da Dickens in poi, ma si fanno seguire sempre con interesse ; specie quando siano esposti con chiarezza e vigore sufficienti. Il nostro sostegno, diremmo quasi il nostro " tifo "per i giovani protagonisti di storie del genere, come  per questo di " Moonlight ", è dato generalmente per scontato e ci si attende solo di vedere attraverso quali passaggi la storia evolva verso  una tranquillizzante palingenesi.

Ma, se queste erano le aspettative, o almeno gli auspici,  del regista-sceneggiatore, l'afroamericano non ancora quarantenne Barry Jenkins al suo secondo lungometraggio, debbo dire che ad una istintiva simpatia dello spettatore per il suo personaggio principale non fa seguito poi alcuna effettiva immedesimazione nelle " ragioni " del medesimo, che rimangono troppo generiche , troppo irrisolte per catturare la nostra emozione estetica. Se la prima delle tre parti del film  ( Chiron bambino ed il suo sodalizio con lo spacciatore Juan ) è anche la migliore per una certa freschezza di toni- non supportati peraltro a dovere dalle esitazioni e dalle ingenuità di una regia abbastanza accademica -  la seconda ( Chiron adolescente e la presa di coscienza della sua omosessualità ) segue sentieri già battuti mille volte incespicando continuamente nella prevedibilità e scarsa significanza di molte scene. La terza, infine ( Chiron divenuto a sua volta  un piccolo " boss " che ritorna a Miami per rivedere  il primo ed unico amore della sua vita ) è francamente deludente e noiosa. Peccato davvero che una storia potenzialmente interessante sia stata trattata con tanta povertà di ispirazione e di  mezzi espressivi ( faccio appena salvi il personaggio di Juan, interpretato con intelligenza da Mahatma Alì, che ha avuto l' Oscar per il miglior attore non protagonista, e il musetto simpatico del bambino che interpreta Chiron , sempre nel primo episodio ). Troppo lungo, il film sente maledettamente la sua derivazione teatrale. A far bene, il regista avrebbe  dovuto avere il coraggio di condensare la vicenda, renderla più serrata, eliminando l'eccessivo sentimentalismo che è fatalmente in agguato in storie del genere.  Ne avrebbero certamente guadagnato e la descrizione ambientale, troppo molle ed edulcorata, e lo spessore, insufficiente, del personaggio principale. Siamo  intellettualmente dalla parte di Chiron, in definitiva , ma non trepidiamo per lui, non vi è vera emozione nei suoi confronti . E questo, francamente,  un po' ci dispiace.

Stessa storia - facile adesione intellettuale ma scarsa " presa " emozionale -  per il secondo dei film di questa settimana. Quel " Toni Erdmann " ( da noi, curiosamente, " Vi presento ecc. " ) che la giovane ma già sperimentata regista germanica Marion Ade ha concepito e diretto lavorandoci, pare, per ben tre anni o anche qualcosa di più. E che, presentato la  scorsa primavera a Cannes, vi ha riscosso i favori della più gran parte della critica internazionale . Scambiato, almeno a tratti, dal pubblico per un film umoristico - a giudicare almeno dalle frequenti risatine che si udivano nella sala dell' " Eliseo " di Milano dove l'ho visto in questi giorni - è in verità un 'opera piuttosto amara, una severa radiografia della nostra epoca. O almeno della crescente infelicità che i troppi beni materiali di cui disponiamo, o se volete la continua ricerca dell'appagamento dei sensi e la brama di potere che ad essi si accompagna,  hanno ormai contribuito a diffondere. Ricerca e brama che - ecco la cornice ambientale del film - il dilagare delle multinazionali in Europa, le  loro pratiche  ed i comportamenti interpersonali che ad esse ineriscono esaltano vieppiù. Sicchè, come dice nel film  Wilfried, alias Toni Erdmann,  "abbiamo finito col ridurre la nostra  vita ad un elenco di cose da fare, dimenticandoci dell'attimo, cioè della vita stessa ". Ines, sua figlia ( una sensibile e brava Sandra Huller ) lavora a Bucarest  come consulente, al servizio appunto di una multinazionale incaricata di ristrutturare società ed impianti industriali non più in linea con le " performance " che ci si attende da essi. Compito, questo, svolto con spietata fermezza e un bel disprezzo per le implicazioni umane  sottostanti , in un  ambiente ( i paesi dell' Est ex comunista )  frastornato dall' improvviso benessere e vampirizzato in pratica dai valori del consumismo. Un tema, questo, su cui si intreccia poi la vicenda del film, il delicato e a tratti doloroso incontro tra una figlia ed un padre molto diversi tra di loro, come lo sono tra di esse le due generazioni tedesche cui questi appartengono :  da un lato quella nata all'indomani della seconda guerra mondiale, progressista ed aperta, e dall'altra quella di oggi,  prevalentemente tesa al successo, spesso materialista e priva di solidi punti di riferimento . Come si vede, questioni complesse ed affascinanti. E con le quali, o meglio con l'assunto con cui  Maren  Ade le affronta, posso dire di sentirmi, così come  credo molti spettatori, in  sostanziale sintonia.

Peccato, anche qui come per " Moonlight ", che alle intenzioni non seguano i fatti.  Intendo dire che al ( spesso lodevole, in alcune parti più discutibile ) sostrato ideologico del film non corrisponda una " rappresentazione " di quelle idee esteticamente valida. E mi spiego. Non basta, in effetti, mostrarci   personaggi che vorrebbero essere esemplificazioni del marciume del neocapitalismo senza frontiere ma che risultano, per lo più,   artisticamente  privi di consistenza, raffazzonati,  neanche tanto antipatici da stimolare la nostra condanna morale. Che dire della lunga, insistita, a tratti grottesca, descrizione della " vita mondana " di Bucarest, che appunto a tratti suscita il riso ma non aggiunge nulla di " significante " alla psicologia della giovane protagonista ? Il film, troppo lungo ( due ore e quaranta, e con orgoglio la regista afferma di aver girato materiale per cento ore di proiezione ! ) si perde in questo modo in una infinità di " bozzetti " ( il boss tedesco arrivato in Romania  per supervisionare il lavoro della consulente, l'amante romeno di quest'ultima, la segretaria timida e belloccia ) poco riusciti,  quando non, a tratti,  francamente imbarazzanti. Per non parlare , appunto, dello  "humour" pesantemente teutonico di alcune situazioni ( chi vorrà vedere il film mi saprà dire... ) che , francamente, introduce  quasi una nota di sguaiata goliardia in un film che vorrebbe avere tutt'altra dimensione. Resta il personaggio del padre- che, nelle intenzioni della regista, vorrebbe probabilmente essere quello positivo - un eterno burlone ( in realtà triste e depresso ) che cerca di ridare alla figlia il " senso della vita ". Ma anche quest' ultimo non mi è sembrato creazione artistica di sufficiente coerenza. Si esce dalla proiezione di " Toni Erdmann " sconcertati per i grossi scompensi di sceneggiatura, davvero troppo autoindulgente  nella sua errata convinzione  che basti dire che  vi è del marcio in Danimarca, senza necessità di provarlo in modo esteticamente convincente, per portare a casa un successo qual si voglia. E si esce anche irritati nel vedere un buon tema, sicuramente degno di un migliore trattamento, ridotto in definitiva a mero aneddoto nazional-familiare. Quasi alla fine del film , il supposto Toni Erdmann si traveste da gorilla e sembra  stupisca tutti   con la sua apparizione, nell'appartamento di Ines prima e nel centro di Bucarest poi.  Chiaramente,  si tratta dell'esternazione del desiderio del personaggio maschile di tornare allo stato di natura, alla genuinità dei rapporti ,  ricalcando, fin nel travestimento da scimmione, certi momenti di " Morgan, matto da legare ", un bel film inglese di Karel Reisz ( 1966 ). Non so se Maren Ade lo conosca ed abbia preso da lì la sua idea. Ebbene, tanto forte  appariva quell'immagine in "Morgan" - un film genuinamente sovversivo per l'epoca - quanto debole e poco suggestiva si rivela questa,  così che più che un autentica provocazione  essa finisce, in " Toni Erdmann", con l'apparire  solo una ennesima " trouvaille ". Peccato davvero.