sabato 29 giugno 2019

" THE WILD GOOSE LAKE " di Diao Yinan ( Cina, 2019 ) / " PARASITE " di Bong Joon Ho ( Corea, 2019 )

Due film asiatici hanno chiuso, in questi giorni, la  consueta rassegna a Milano di alcuni dei film presentati al Festival di Cannes.  Uno cinese, di un regista con all'attivo pochi titoli ma  che alcuni avvicinano ormai ai " mostri sacri" della cinematografia di quel paese ( è stato vincitore dell' " Orso d'oro " a Berlino nel 2014 ) l'altro coreano , opera di un veterano delle rassegne internazionali  e trionfatore adesso sulla Croisette, primo regista del suo paese nella storia ad aggiudicarsi una " Palma d'oro ". La cinematografia asiatica, in questo momento, è senza dubbio in piena salute. Ricorderete che l'anno scorso, sempre a Cannes, il gran premio andò ad  un film  giapponese ( " Un affare di famiglia " di Koreeda ). Ma oggi sono soprattutto cinesi e coreani ad imporsi  in Occidente. Per i primi, esplosi letteralmente  una volta finita la fase peggiore della tirannide comunista, non  è da meravigliarsi stante le proporzioni  e lo spessore di quella realtà culturale e commerciale nonché la presenza, accanto alla Cina continentale, di altri due distinti poli di produzione cinematografica: Hong Kong  e Taiwan egualmente prodighi di opere interessanti. Stupisce invece la Corea, che ha numeri ed ordini di grandezza più ridotti e  dove , benché le condizioni politico-sociali siano state , nel secondo dopoguerra, relativamente più favorevoli che in Cina per lo sviluppo di una maggiore libertà creativa, il cinema fino a pochi decenni or sono non aveva dato autori ed opere particolarmente significativi. Negli ultimi anni, complice la rapida evoluzione di quella società, anche la Corea offre con apprezzabile costanza film di  grande qualità tecnica accoppiata a brillantezza di tematiche e profondità di visione.

Il titolo originale del film cinese, per la verità, si traduce come "Appuntamento alla stazione Sud". Meno suggestivo, senza ombra di dubbio, di quello internazionale che gli è stato imposto dai distributori. Eppure molto aderente alla storia, perchè l'inizio del film  si svolge proprio in uno scalo ferroviario di una imprecisata città dell'entroterra di quell' immenso contenitore di persone e di cose che è oggi più che mai la Cina. Qui  il protagonista, un piccolo gangster specializzato nel furto di motociclette ( le due ruote a motore  sembrano aver soppiantato  laggiù le tradizionali biciclette )  e che è in fuga per aver ucciso un poliziotto, deve incontrarsi non si capisce bene se con la moglie o con il proprio capobanda, od entrambi, ma è intercettato invece da una giovane donna che gli si affianca e  gli propone di aiutarlo. Scopriremo presto che si tratta di una prostituta che, con le sue compagne, opera abitualmente sulle sponde di un laghetto circostante ( il lago, appunto, delle oche selvatiche). Specchio d'acqua presso il quale si aggirano personaggi quantomeno dalla incerta collocazione sociale e professionale e dove trovare temporaneo rifugio non è poi troppo complicato per il nostro eroe, braccato dalla polizia ma ricercato anche  dai colleghi per fini non propriamente caritatevoli. Trama che si dipana poi,a partire dal classico "incipit" del delinquente in fuga e abbandonato dai suoi, fino ad una conclusione che ovviamente non dirò. Una vicenda non sempre lineare ma  molto simile alle tante del cinema " noir " occidentale, al quale del resto chiaramente si ispira. Una storia che unisce moduli tipici di quel genere ormai stravisitato con altri propri della cinematografia estremo-orientale, in un " mix " abbastanza accattivante e tale da tenere sufficientemente desta l'attenzione dello spettatore medio.

I meriti del film, tali da  giustificare penso la sua presenza a Cannes ,risiedono proprio nella capacità del regista di rivolgersi a patrimoni visivi piuttosto disparati ( Il teatro ed il cinema classici cinesi, il balletto moderno -alcune scene di inseguimento e di baruffa sono organizzate come vere e proprie coreografie - il fotoromanzo, il fumetto perfino ) riuscendoli a fondere insieme in uno stile iperrealistico e tutto sommato unitario. Dinamico e nervoso nel ritmo per   conferire opportuno vigore alle sequenze in cui è articolato, il film è particolarmente suggestivo nelle immagini, coloratissimo, curato nei particolari, finendo però talvolta col peccare di eccessivo formalismo. Segno, questo, che la sceneggiatura non è sempre lineare ed  il regista   non riesce a dominare con continuità una materia così complessa.  Diremmo quasi che egli abbia voluto mettere  troppa carne al fuoco e si sia un po'  perso per strada  rispetto ai probabili intendimenti di partenza. Vedendosi costretto, in mancanza d'altro, a rifugiarsi nella bella inquadratura, nel movimento di macchina un po' troppo ricercato. Vizi che sono tipici del novanta per cento dei film , intendiamoci, ma che se non ci fossero stati ci avrebbero dato un'opera  più convincente. Peraltro l'interesse del film per noi  occidentali sta anche- occorre precisarlo - nella rutilante realtà cinese di oggi che l'autore offre al nostro sguardo. Un autentico caleidoscopio di immagini, di colori , di suoni, in un evidente contesto di grandi sconvolgimenti economici e culturali, fatto spesso di disordine,  di sporcizia e di squallore, di incredibile incuria, dominato dal denaro e dall'affannosa ricerca di un minimo di sicurezza, caratterizzato dall'incessante brulichio di moltitudini dalle smisurate proporzioni. Sembra quasi che l'elemento umano ivi raffigurato ( delinquenti, poliziotti, piccoli trafficanti, ristoratori e avventori dei mille localini pubblici ) non abbia limite  numerico e finisca, in definitiva con l'occupare il più piccolo quadratino dello schermo... Meno " politico " del cinema di Zhangke ( " I figli del fiume giallo", recensito da poco  ) quello di Diao Yinan finisce egualmente col parlare del suo paese e col " vederlo " con l'occhio di un osservatore attento ed emotivamente partecipe.

Più manifesti e decisi, si direbbero, gli intendimenti politico-sociali del film coreano che si è imposto a Cannes. Il regista Bong Joon Ho persegue da tempo un suo personalissimo discorso sulla lotta di classe ai giorni nostri ( convinto che esista ancora  più che mai) e lo fa senza girarci troppo intorno, attraverso allegorie e metafore che non necessitano di particolari spiegazioni. In questo " Parassiti " il distacco tra i meno fortunati e gli abbienti è  addirittura plasticamente descritto dall'abitare i primi in un angusto scantinato senza luce ed esposto a più di un pericoloso inconveniente ed i secondi in una meravigliosa villa modernissima situata sulle alture della città, creazione di un celeberrimo architetto, con tutto il lusso e le comodità che sono naturale appannaggio della loro condizione di privilegiati. Ma la situazione , apparentemente statica, si mette subito in movimento grazie alla scaltrezza dei " cavernicoli " e alla dabbenaggine dei loro ricchi datori di lavoro. Ecco così che la famiglia dei diseredati ( padre, madre e due figli adolescenti ) riesce a penetrare nella  "fortezza nemica " apparentemente inespugnabile e ad insinuarsi nella vita della famigliola agiata, simmetricamente composta, anche qui,  da una coppia sposata e dai loro due rampolli. La prima metà del film è piuttosto felice nelle notazioni di costume, sapide e mai troppo esagerate, alla ricerca di una cifra espressiva che permetta di coniugare commedia di ambiente e denuncia sociale. Ed è qui che si rinvengono le cose migliori del film, preciso nella caratterizzazione dei personaggi e sottile nel descriverne comportamenti e reazioni, abile nel sfruttare lo spazio e darci inquadrature sofisticate, morbide nella loro apparente cordialità ma taglienti come lame nella critica politica che sottendono.

Le cose, purtroppo, si guastano nella seconda parte. Da  una buona satira di costume, sospesa tra lo  sberleffo e  il teorema politico-sociale, si passa a toni più propri del genere grottesco ( molto più difficili da sostenere per l'autore )  che virano poi presto al dramma e , nel finale, addirittura all'elegiaco. La contaminazione di moduli  espressivi e di " generi " cinematografici non è di per sé da condannarsi " a priori ". Occorre però mano ferma e saldezza di visione prospettica. Cioè l'autore deve sapere molto bene dove sta andando a parare ed essere in grado di farlo in modo convincente, pena una certa oscurità di propositi complessivi ed il disorientamento finale dello spettatore. Giudicherete da voi.  Perchè il film , comunque, merita di essere visto  - mi affretto a precisare -  per la personalità manifestata ancora una volta da Bong Joon Ho e la singolarità della trama . Personalmente l' ho trovato troppo discontinuo per vincere una " Palma d'oro " a Cannes ( quando c'era in concorso un film come " Dolor y gloria ", dal vigore e dall'unità stilistica ben maggiori )  ed inferiore al film giapponese che vinse lo scorso anno. Lodevole comunque, ripeto, la capacità del regista di dominare lo spazio, facilitato dalla splendida struttura architettonica nel quale il film è in gran parte ambientato. Apprezzabile , anche, la recitazione degli attori, a cominciare da quello che fa il " pater familias " dei nullatenenti, giù giù fino all' ultimo ragazzino. In Francia, dove il film è già in distribuzione nelle sale, sta avendo un discreto successo. Vedremo da noi, quando uscirà, considerata una certa refrattarietà del nostro pubblico a passare con disinvoltura dal riso alle emozioni troppo forti.




3 commenti:

  1. I film del 2019 o del 2018 sono per lo più in rassegna? Ci sono cinema moderno e trailer https://www.cineblog01.cloud/ per loro?

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  2. Dear LolaKate, may I ask you where are you writing from ? Glad to have readers of my blog living abroad ! Do you speak or understand italian ? Why not communicating, if you prefer, in english ( or french ) as a common language ? I am not sure to understand properly the question you posted.... Eager to have more news about you and your blog.

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