venerdì 22 marzo 2019

" ZAZIE NEL METRO "di Louis Malle ( Francia, 1960 )/ TOTO', PEPPINO E LA MALAFEMMINA " di Camillo Mastrocinque ( Italia, 1956 )

Ieri, primo giorno di primavera, mi è venuto di pensare a quei film liberi, ariosi, come un cielo azzurro solcato solo da qualche innocua nuvoletta sospinta da un sottile, pungente  venticello: film che racchiudono in sé quelle caratteristiche di leggerezza, ed insieme di infinite possibilità,  proprie di una bella giornata marzolina che  predispone la mente a sereni, eppur fantasiosi ragionamenti. Complice la forzosa scelta di rivolgermi ad opere del passato ho rivisto a casa due film, tra loro diversissimi per ambizioni degli autori, stile e risultati estetici. Ma accomunati, direi, da un primaverile anelito di libertà. Libertà formale dagli schemi tradizionali del racconto cinematografico, libertà dalla stessa logica di un discorso che, come si dice, intenda conservare un capo ed una coda. Tutto il cinema del resto, a differenza della letteratura, possiede, nella magia di quella spirale di immagini in cui facilmente si avvolge il sogno cosciente dello spettatore, una capacità di uscire dai percorsi già tracciati, e di sorprendere continuamente, che le pagine di un romanzo non riuscirebbero quasi mai ad eguagliare. Senza scomodare l' "Ulisse " di Joyce, nemmeno il " nouveau roman " o la narrativa sperimentale degli ultimi anni arrivano  secondo me ad ottenere risultati altrettanto liberi e convincenti. Vediamo perchè.

Incominciamo da " Zazie nel metro ", tratto dall'omonimo romanzo di un singolare "piccolo maestro " della letteratura francese del Novecento, Raymond Queneau, pubblicato nel 1959 e diventato presto un grandissimo e meritato successo.La vicenda della piccola provinciale Zazie, una bambina di undici-dodici anni, affidata dalla madre per un week-end parigino allo zio Gabriel ( di professione  danzatrice spagnola " en travesti " in un locale notturno) è quanto mai esilarante per i personaggi, buffi e sorprendenti, che la minuscola protagonista, sottrattasi alle cure parentali, incontra in una Parigi devastata dal traffico, dall'invasione dei turisti, dalla incipiente e collettiva follia della modernità. Una selvaggia, rinfrescante cavalcata quella cui assistiamo a ritmi sempre più incalzanti, al di fuori di qualsiasi logica che non sia il bizzarro intrecciarsi e sovrapporsi di eventi sempre più improbabili, animati da figure maschili e femminili che Zazie, imperturbabile e divertita spettatrice, sembra quasi evocare dalla propria inesauribile, fervida fantasia. Alla fine, quando il " crescendo " delle  avventure improvvisamente si arresta e la piccola riparte in treno con la madre per far ritorno a casa, non avrà realizzato il desiderio, il " chiodo fisso " venendo a Parigi, di vedere il " metro "( chiuso in quei giorni per sciopero ) ma, alla madre che le chiede cosa ha fatto durante il suo soggiorno, potrà annunciare, pensosa e un pò fiera, " sono invecchiata ".

I libro è già " rivoluzionario " di per sè. Volutamente avulso dagli accadimenti reali, come immaginiamo almeno che essi debbano svolgersi sotto i nostri occhi, cioè in modo progressivo e lineare, " Zazie dans le métro " non è soltanto una critica divertente ed acuta della vita di oggigiorno ma una intelligente e spietata radiografia dell'assurdità di una esistenza che, di per sé, non può che ribellarsi agli schemi nei quali pretendiamo di ingabbiarla ( ad esempio la contrapposizione maschile-femminile, il perbenismo della legge e dell'ordine, la superiorità delle cose di casa nostra rispetto a quelle che non ci sono familiari, il cosiddetto  senso comune , e via discorrendo ). Per farlo Queneau, oltre ad una libertà stilistica e ad una costruzione narrativa svincolate dalla tradizione, giunge - come già aveva fatto in Italia Gadda , sia pure muovendo questi da un versante più propriamente realistico - ad una vera e propria " rivolta lessicale ", smontando e rimontando il linguaggio convenzionale, autentica trappola per catturare, attraverso una ortografia (quella francese) complicata e lontana dal suono delle parole pronunciate normalmente, una realtà viva , cangiante e quindi refrattaria ad ogni ordine precostituito.

Il film , sceneggiato dallo stesso Malle e da Jean-Paul Rappeneau, è se possibile ancora più fresco ed innovativo del romanzo. Dove quest'ultimo, per dare corpo all'immagine di un mondo sottomesso ad una struttura apparentemente ordinata, ma in realtà del tutto irrequieto e disarticolato, doveva rivolgersi necessariamente ai giochi sintattico-lessicali e alla vera e propria disintegrazione del linguaggio codificato,transitando continuamente dal discorso aulico-burocratico a quello popolaresco e trasgressivo, il film di " Zazie " ricorre con successo ad una vera e propria rivoluzione dell'immagine. Moltiplicando le situazioni divertenti ed assurde, deformando le inquadrature, accelerando o rallentando le sequenze, in una girandola di scene che molto , certamente, si rifanno al cinema comico dei primordi, da Ridolini a Mack Sennet, al " nonsense " carico di poesia e di interiorità di certi film di Chaplin ma anche al cinema più " moderno " di un Tati o perfino di un Godard, " Zazie " perviene, e con ancora maggior forza, alla stessa riflessione critica del romanzo da cui è tratto circa la  sostanziale " follia " della vita moderna. Avvalendosi di una cifra stilistica originalissima, il film di Malle rimane un gioiello di pura poesia, un'audace incursione in una dimensione quasi onirica, ma non per questo meno pregnante ed efficace sul piano dei contenuti.

Ed anche un film , per venire al secondo quelli di questa settimana, apparentemente - e programmaticamente - lontano dalle preoccupazioni estetico-concettuali di Malle così come espresse in " Zazie ", quale è il casareccio " Totò , Peppino e la malafemmina " , riesce sorprendentemente, in alcune sequenze, a trasmetterci la stessa sensazione di vertigine, di smottamento di tutto un ordine predefinito : quello della logica, delle convenzioni di vita che si riflettono automaticamente in quelle narrative, del " senso comune " che contrasta in realtà con la vera comprensione delle cose. Non vi è modo qui di raccontarne la trama , del resto esilissima come in quasi tutti i film pur illuminati dal genio del grande Antonio de Curtis. Basti rammentare che le sequenze giustamente più celebri ( l'arrivo dei fratelli Caponi - Totò e Peppino De Filippo - alla stazione centrale di Milano il giorno di Ferragosto, la predisposizione della lettera indirizzata alla " malafemmina "- una strepitosa, straboccante Dorian Gray - il dialogo surreale con il vigile in Piazza del Duomo ) raggiungono un parossismo di " illogica logicità " degno della stessa " Zazie " ed una profondità di  critica dei parametri della nostra vita- anche qui il linguaggio, vera camicia di forza dell'esistente -  tutt'altro che banale. Il " varietà " e l' avanspettacolo  ( generi oggi miseramente scomparsi ) che sono alla base delle " scenette " esilaranti con Totò e Peppino rivelano  qui insospettate  capacità di  indagine sociologica e semiologica che,  al cinema, hanno una resa molto maggiore che sulla pagina scritta. Bisognerebbe andare a certe situazioni, a certi personaggi del " Bertoldo " anteguerra, a un " Signor Veneranda " di Carlo Manzoni, per ritrovare lo stesso piacere della libertà da tutto ciò che imbriglia ed ingessa la nostra vita, il sapore acre, popolaresco e colto al tempo stesso, di una benefica, riconquistata autonomia dalle mille convenzioni che ci affliggono.




venerdì 15 marzo 2019

" IL COLPEVOLE " di Gustav Moller ( Danimarca,2017 ) / " L'AMANTE " ( LES CHOSES DE LA VIE " ) di Claude Sautet ( Francia, 1970 )

Prima o poi, doveva succedere. Voglio dire, che mi capitasse di andare a vedere un film per cui, a conti fatti, non valeva troppo la pena di scomodarsi. Non brutto-brutto, intendiamoci. Non un film di cui vergognarsi, tanto da farlo concorrere al poco attraente riconoscimento del " peggior film dell'anno ". Ma, certo, piuttosto deludente, ingannevole nell'assunto e traditore nel modo di sviluppare quest'ultimo. Due colpe non lievi, comunque e che un film - come qualunque opera dell'ingegno o semplice prodotto commerciale -  non dovrebbe mai avere. E vedremo perchè, nell' esempio concreto che sto per fare. Parlo del film di un regista danese, alla sua prima prova nel lungometraggio, tale Gustav Moller (pronunciare moeller, visto che non ho trovato per segnalarlo i due puntini da sistemare, come in tedesco, sulla o ) e dal titolo abbastanza anodino di " Il colpevole ", credo anche nella versione originale. Un film girato nel 2017 e presentato con un certo successo, l'anno seguente,  al " Sundance Festival ", la rassegna cinematografica destinata ad un pubblico giovanile che si tiene negli Stati Uniti. Anzi lì vinse il premio del pubblico e questo successo ne ha propiziato una carriera , oltre che negli USA, in diversi paesi europei tra cui ora anche il nostro, accompagnato da critiche piuttosto benevole e , in qualche caso, addirittura ditirambiche di cui non so dirmi proprio la ragione.

Procediamo con ordine. Fin dalla primissima inquadratura scopriamo di trovarci a Copenaghen, in una stazione di polizia dove un poliziotto , che capiremo poi essere stato relegato a quel compito per aver commesso in precedenza un misterioso e grave errore professionale, ha l'incarico - insieme ad altri - di rispondere al telefono alle chiamate di emergenza, quasi tutte di banalissima, stanca routine. Fin qui, non uno spunto particolarmente originale ma possiamo accettarlo come semplice e passabile "introibo " .Senonchè il film ha ambizioni maggiori, come capiamo ben presto. Il regista e sceneggiatore Moller ha deciso infatti di non farci minimamente allontanare da quel " set " leggermente claustrofobico, tenendoci praticamente per un'ora e venti fissi sul volto del poliziotto. Il quale è stato raggiunto, nel frattempo, da una strana telefonata di una donna, dalla quale sembra intuirsi che è stato commesso un grave reato che sta per avere un seguito ancora peggiore se nessuno interverrà in tempo per impedirlo. Gli spettatori, oltre a godere, visto che non c'è altro da guardare, dei continui primi piani, di faccia e di profilo, del tutore dell'ordine con cuffia e microfonino e poche altre immagini non tanto più eccitanti, possono anche seguire i dialoghi che si intrecciano tra il poliziotto ( chiamiamolo Arno, per comodità ) ed i suoi interlocutori telefonici : la donna predetta , un uomo che è di questa il marito o il compagno, la bambina che è la loro figlia ed un altro poliziotto che Arno chiama per aiutarlo nell'improvvisata indagine e che , come tutti gli altri, non vedremo mai. 

Cosa sarebbe stato necessario per farci digerire- o addirittura assaporare con piacere - una storia con un solo, vero, personaggio e poche voci leggermente metalliche di esseri umani che non si manifesteranno mai in carne ed ossa ? Innanzitutto, una sceneggiatura letteralmente di ferro : compatta ed astuta, ricca di punti di svolta ben calibrati, con un finale magari di assoluta meraviglia per tutti, protagonista e spettatori . Una trama  e dei dialoghi assolutamente coesi, senza smagliature, capaci di evocare, rendendolo palpabile, ciò che non vedremo. Una storia simile a certi drammi, i radiodrammi innanzitutto, di un Harold Pinter, per intenderci; con quel senso di minaccia che nasce dai silenzi, dalle pause in un'azione pur avara di colpi di scena, dalla insostenibile assurdità di certe situazioni pur comprensibili e banali . Niente purtroppo di tutto questo ne " Il colpevole ", dove ci viene inflitto invece un "plot" abbastanza scontato e di fronte al quale un normale lettore di " gialli " o un semplice ragazzino che avesse visto qualche poliziesco in televisione capirebbero subito dove si cela la " sorpresa " , o sedicente tale,che ci prepara il buon Moller a metà film,  non tralasciando prima di seminare quà e là vari indizi che permettono di intuire in anticipo che cosa bolle in pentola. E poi, per rendere più sopportabile un film che appare stanco e debole nella struttura narrativa, direi che ci sarebbe voluto almeno un grande attore , un interprete carismatico per la difficile parte del poliziotto. Non che Jacob Cedergren ( Arno ) non sia tagliato per la parte, con la sua solidità fisica e lo sguardo di ghiaccio. Ma, insomma, per essere capaci di reggere un intero film sulle sue spalle ci sarebbe voluto ben altro. Non aiuta, infine- diciamolo una volta di più - un doppiaggio italiano che, nella  familiare sonorità della lingua " de noantri ", sottrae quell'unico ma non trascurabile piacere che sarebbe derivato al film  da voci maggiormente attraenti nel nordico esotismo del loro timbro originale. In definitiva, più che un film , un appena passabile " sceneggiato televisivo " che dura una buona mezzora di troppo. 

" A contrario ", come si direbbe in linguaggio curiale, ecco le ragioni per cui ancor oggi può vedersi un film,  per altri versi un pò invecchiato, come " L'amante " di Claude Sautet, che data quasi di cinquant'anni fa. Non che anche " Les choses de la vie " (  come recita il titolo originale ) abbia una grande trama : un uomo sulla quarantina avanzata è indeciso tra la moglie e l'amante , entrambi belle e più giovani di lui, finchè alla fine si decide a raggiungere quest'ultima, perendo però miseramente in un banale incidente d'auto. Ma la sceneggiatura, dove ha messo le mani Jean-Loup Dabadie, che diventerà uno dei migliori del mestiere, è perfetta, ben più solida di quella de " Il colpevole " : originale,ingegnosa, ricca di punti di svolta molto indovinati, oliata alla perfezione, sempre al bivio tra commedia e dramma, commozione ed umorismo ( come sono , appunto, " le cose della vita " ). Sautet, lo confermeranno i suoi film successivi, non è un vero autore ma un ottimo artigiano, capace di dare convincente ed accattivante immagine ai tanti personaggi , scontati ma simpatici ed umani, che la fantasia degli sceneggiatori creerà per lui. Aiutato in questo- ed ecco la seconda, capitale differenza con il film del danese Moller - da splendidi attori, capaci di catturare lo spettatore senza che il regista ci metta molto di suo. Michel Piccoli, allora al suo apogeo, rende attraente e comprensibile un personaggio che altrimenti potrebbe apparire incoerente e leggermente antipatico. Romy Schneider ( non più principessina  Sissi ma sensuale e sofisticata " amante " del titolo italiano ) nonchè la  sontuosa e bravissima Lea Massari ( che dà corpo alla moglie del personaggio interpretato da Piccoli ) rivaleggiano in luminoso splendore fisico, tra gli eleganti appartamenti della parigina " rive droite " ed il bel cielo azzurro della Provenza. Ho visto il film alla Cineteca di Milano, la settimana scorsa, e confesso che ho provato un briciolo di comprensibile mestizia di fronte a tanta bellezza e semplicità di cui oggi, purtroppo, sembriamo troppe volte, al cinema e non solo, aver perso  il segreto.


giovedì 7 marzo 2019

UNA POSTILLA ALL' ASSEGNAZIONE DEGLI OSCAR 2019

Non ho commentato quest'anno, a differenza delle precedenti edizioni, l'assegnazione degli Oscar, avvenuta nella notte ( da noi ) tra il 24 ed il 25 febbraio. Non l'ho fatto perchè , come si dice, ho perso il momento giusto e dopo ho pensato che la questione non fosse più di attualità . Ma lo faccio ora , un pò perchè stimolato al riguardo da una gentile amica , desiderosa di raccogliere la mia opinione, per quello naturalmente che vale. Un pò anche perchè, non più a caldo, si ha maggiormente agio di riflettere e ciò che prima magari  sembrava discutibile, a conti fatti risulta comprensibile e perfino giustificato. Non dimentichiamo mai, a tale riguardo,   che gli Oscar non sono, diversamente dai premi della critica e dal " palmarès " dei festivals ( Cannes, Locarno, Venezia, Berlino ecc. ) una scelta che premia - o dovrebbe premiare- essenzialmente il valore estetico di un film,di una regia o di una interpretazione. I giurati della " Motion Pictures Academy " non sono studiosi del cinema, giornalisti specializzati o almeno cinefili incalliti. Sono i rappresentanti di tutte le categorie, le " gilde " professionali  che partecipano, a vario titolo, a quel gigantesco sforzo produttivo che dà vita ogni anno ad un numero di film di genere diversissimo che vengono poi distribuiti nelle sale, negli Stati Uniti e poi in tutto il mondo. Hollywood , insomma, non più nel pieno fulgore di qualche decennio fa ma sempre capitale del cinema, quello " alto " come quello che a noi può apparire un tantino più commerciale . Con logiche " industriali" che seguono percorsi particolari ed  una mentalità in cui il successo economico è altrettanto importante di quello artistico, una costante attenzione al cinema quale fenomeno finanziario, sociale, di costume ( come indubbiamente è anche  ) oltre che espressione creativa al pari delle altre arti nelle quali si manifesta il genio dell'umanità.  Atteso il fatto che il più gran numero delle celebri statuette pertiene a categorie tecnico-produttive che interessano poco agli spettatori e che questi neanche sono sempre  in grado di valutare (montaggio, trucco, effetti speciali, scenografia, costumi  e via discorrendo ) la consegna degli Oscar è una forma di autocelebrazione del " business " del cinema in tutte le sue componenti. Nella convinzione che se un film è anche bello attirerà ancora più spettatori e quindi porterà ancora più soldi ai finanziatori e a chi vi ha lavorato, ma senza una esasperata ricerca dell' " arte " nella sua purezza : ammesso e non concesso, poi, che nel cinema ( fenomeno ibrido, in questo senso) questo " specifico " possa poi agevolmente separarsi dal resto.

Dunque , alla luce di quanto osservato, ripercorriamo brevemente i principali riconoscimenti attribuiti e vediamo se , a nostro modestissimo parere,essi sono valsi ad individuare  realmente " i migliori " tra i diversi candidati in lizza.
Incominciamo, naturalmente, dal più importante degli " Oscar ", quello per il miglior film , vinto da " Green Book ", la  simpatica ma tutt'altro che superficiale commedia sulla singolare amicizia tra un musicista nero ed il suo autista- guardia del corpo italoamericano negli anni '60 del secolo scorso. Qui non vi è dubbio che l'opera migliore era in realtà " Roma ", il film del messicano Alfonso Cuaron prodotto da " Netflix ", uno dei più artisticamente validi addirittura delle ultime stagioni . Tra quindici-vent'anni, probabilmente, rivedendo " Green Book ", ci si meraviglierà un tantino che sia giunto addirittura a conquistare un premio così prestigioso a fronte di meriti artistici certamente non eccelsi, inferiori, ad esempio, a quelli de " La forma dell'acqua "di Guillermo Del Toro, vincitore lo scorso anno. Sarà che i giurati hanno forse giudicato eccessivi due  " Oscar " consecutivi ad altrettanti film diretti da un regista messicano, sarà che non se la sono sentita di premiare un progetto produttivo e distributivo antagonistico a quello del " cinema in sala ", oppure che hanno voluto dare un riconoscimento ad un film " politically correct " e dai buoni, anzi dagli ottimi sentimenti : fatto sta che, alla fine hanno scelto comunque un discreto film, che sta facendo degli ottimi incassi in America ed in Europa e che rinnova la tradizione di un cinema americano capace di scrivere e girare delle ottime commedie, divertendo e facendo perfino riflettere.Del resto , qui, soluzioni alternative obiettivamente più valide, a mio avviso, non ve n'erano. Non " Bohemian Rapsody ", troppo celebrativo e diseguale. Non " The Favourite ", troppo  "di testa" e poco di cuore. Non gli altri due film " all black " , troppo poco spendibili fuori dagli "States ".

Passiamo alle altre categorie. Tra i film non di lingua inglese ( per cui era egualmente candidato ) " Roma " ha, questa volta, meritatamente stravinto, anche se il polacco " Cold War " non era niente male. E , sempre " Roma " ha vinto poi  con Alfredo Cuaron , incoronato miglior regista. Questa statuetta è certamente meritata- anche se la regia del film è poco vistosa , sapiente eppure discreta - ma un pensiero per il fiammeggiante Pawlikowski ( regista di " Cold War ") io ce l'avrei fatto... Il premio per la migliore attrice , andato ad Olivia Colman ( la regina Anna de la " Favorita " ) compensa una interpretazione certamente straordinaria e riconferma il primato degli attori formati nelle Isole britanniche. Un piccolo pensiero si poteva obiettivamente fare anche sulla "outsider" Yalitza Aparicio ( la cameriera di " Roma ") ma non recitando in inglese, difficile che potesse vincere.Nella categoria per il miglior attore protagonista, il sorprendente Christian Bale ( Dick Cheney in " Vice " ) avrebbe dovuto vincere con la stessa logica con cui l'anno scorso fu premiato l'attore che interpretava Churchill  ne " L'ora più buia ": autentici " tour de force " per risultare più veri del loro modello reale. Peccato per Viggo Mortensen ( l'autista in " Green Book ") che forse lo meritava di più, certo più dell'istrionico Rami Malek ( il solista dei " Queen " in "Bohemian Rapsody " ) che alla fine ha prevalso.Il premio per il miglior attore non protagonista è andato invece, per la seconda volta consecutiva , a Mahershala Ali ( il pianista in " Green Book " ) oggi il più quotato tra gli interpreti afroamericani. Nulla da eccepire. Qualcosa da ridire , invece, per il premio alla migliore attrice non protagonista, attribuito alla egualmente nera Regina King , per  " Se la strada potesse parlare " , che non sono riuscito ancora a vedere. Bella performance , non c'è dubbio, mi dicono. Ma forse il premio l'avrei dato ad Amy Adams, veramente brava ed inquietante nel personaggio della moglie di Cheney in " Vice " .

Andiamo infine a qualcuno dei più significativi tra gli altri riconoscimenti. Voi sapete quanto ritenga essenziale, in un film, la sceneggiatura ( forse il 50 % del successo o dell' insuccesso di ogni opera ). Bene . Qui giustamente sono state premiate due sceneggiature senza smagliature, coese e convincenti. Quella di " Green Book " ( ancora ! ) per le  originali, e quella di" BlacKKKlansman " per quelle tratte da romanzi od opere teatrali.Sono particolarmente felice per il premio a " Green Book " perchè ritengo che uno dei segreti della buona riuscita complessiva del film risieda proprio  nella sceneggiatura, oltre che nella interpretazione. Ottimo " script " ed ottima recitazione : da sempre il cinema funziona così , quando colpisce nel segno . Il regista ( pur determinante ) nulla potrebbe, in effetti,  per raddrizzare un film scritto male o recitato peggio...Infine , due premi che so che interessano particolarmente alcuni lettori di questa rubrichetta. La fotografia è certo un elemento non trascurabile nell' economia complessiva di un film : quante volte , anche di fronte ad un film così così, abbiamo detto " però , che immagini suggestive , che bella fotografia ! ". Quando poi la fotografia è asse portante di un bellissimo film, allora la festa è completa. E' il caso della fotografia di " Roma " premiata con un altro Oscar ad Alfonso Cuaron, regista ma anche direttore della fotografia - un meraviglioso, corrusco bianco e nero - dell'ottimo film messicano. Da ultimo ( ma di Oscar " tecnici " ce ne sarebbero ancora una ventina, di cui vi faccio grazia ) vorrei citare il premio per il miglior sonoro ( non la  sola colonna sonora musicale , ma l'insieme del " sound " che si percepisce in un film e che ne crea, a volte, la particolare suggestione ). Qui, giustamente, non poteva che vincere " Bohemian Rapsody ", straordinario " revival " anche auditivo degli straordinari anni tra la fine dei ' 60 ed i '70 , in Gran Bretagna ed in America, quando la musica ( allora ancora piuttosto buona ) sembrava accompagnare armoniosamente ogni aspetto della nostra vita.