lunedì 26 marzo 2018

" GLI UCCELLI " di Alfred Hitchcock ( USA, 1963 )

Il marinaio Ismaele ( la " voce narrante " del " Moby Dick " di Melville ) quando voleva scacciare la malinconia  si rimetteva a navigare al più presto. Diversamente da lui, se io incomincio ad avere pensieri un pò tetri, mi rivolgo piuttosto ad un buon film ( non necessariamente uno leggero od allegro ma che sia  una storia forte, narrata bene, con stile ed intelligenza ). Questo pomeriggio - ora è sera- mi sono regalato, dopo tanto tempo che non l'avevo più fatto, la visione di un  bel film di Hitchcock. Non sono andato al cinema, purtroppo non siamo a Parigi dove i grandi film del passato vengono regolarmente mostrati sugli schermi delle sale, e ho dovuto far ricorso ad un DVD di resa comunque più che soddisfacente, proiettato sul televisore domestico. Ho scelto "Gli uccelli" ( " The birds " ) perchè qualcuno di recente ne aveva tessuto l'elogio e questo mi incuriosiva. Ho già detto altre volte tutto il bene che penso del Maestro inglese e non starò a ripetermi. Tra tutti i titoli della sua filmografia però proprio questo, pur apprezzandolo ( ci sono forse  film di "Hitch " che possano non piacere neanche un pò ? ) non l'ho mai considerato un'opera di primissima grandezza alla stregua di " La donna che visse due volte ", " L'altro uomo ", " Il peccato di Lady Considine " (ovvero " Under Capricorn ", il film con cui incominciai quasi due anni or sono questa rubrichetta ). Ricordo che la prima volta che vidi " Gli uccelli ", era uscito da poco in Italia, rimasi  leggermente deluso . Tutta quella prima parte, che avevo preso per una banale commedia leggera, prima che incominciassero finalmente gli attacchi dei volatilii, mi aveva sconcertato per la sua lunghezza e per la mancanza- così mi sembrava - di una vera tensione che preparasse la somministrazione della abituale dose di "suspense",  quella sensazione di pericolo e di minaccia che rende così inquietanti ed  appassionanti tutte le sue opere. Film " minore " , anche se figurativamente impeccabile, ben riuscito esercizio  di stile ma privo di quella carica "sulfurea " che contraddistingue quasi tutto il cinema di Hitchcock del periodo americano. Così lo giudicavo. E le riletture successive ,a partire dal momento in cui il film - scomparso come altri per vent'anni - fu di nuovo visibile, se avevano contribuito a correggere quelle mie prime impressioni non mi avevano ancora dischiuso una vera, piena comprensione del film ed il suo riconoscimento come un capolavoro assoluto.

E' quanto mi e' invece capitato adesso. Un  film struggente, pieno di sottile poesia, di inquietudine mitigata all'ultimo da una tregua precaria ma pur sempre tregua, interruzione dello sforzo e della lotta. E poi , come già altre volte , una grande lezione di cinema da vedere e rivedere ( sceneggiatura di ferro e regia che sa perfettamente tradurla in immagini in movimento ). Quella prima parte che allora trovai troppo lunga , una sorta di " sophisticated comedy " un pò fuori luogo in quello che comunque veniva presentato come, e doveva pur essere, un "thriller ", mi ha fatto ora capire quanto geniale sia stato anche qui Hitchcock con l'ausilio del granitico copione di Evan Hunter. Quei ghirigori, quella sorta di gioco del gatto col topo ( ma chi è il gatto e chi il topo ? ) tra la ricca ed oziosa Melanie Daniels e l'avvocato Mitch Brenner nelle vie, nei condomini e nei negozi di ornitologia di San Francisco , quella improvvisa decisione della ragazza di andare nella piccola località marina di Bodega Bay per portare in regalo due pappagallini alla sorellina di Mitch che compie gli anni ( ma in realtà per rivedere , sedurre , impadronirsi dell'aitante giovanotto ). Quel fortuito incontro con la maestra di scuola Annie Hayworth, che non si fatica a capire quanto abbia cercato invano di diventare lei la ragazza stabile di Mitch , e che  guarda Melanie con sospetto intuendo le sue  mire. Il successivo incontro, a casa dei Brenner, con la madre di Mitch, Lydia,rimasta vedova e perciò gelosa del figlio che teme, sposandosi, possa abbandonarla e con la figlia minore di lei, la deliziosa undicenne Cathy. Le prime schermaglie tra i due giovani reciprocamente incuriositi ed   attratti .  La piccola comunità di Bodega Bay che tanto ricorda nella sua deliziosa, pigra semplicità quella di Santa Rosa (geograficamente vicina ) dove Hitchcock aveva girato vent'anni prima " L'ombra del dubbio." Tutto questo quadro ambientale, saporitamente descritto ma senza mai sconfinare nel triviale, nell'ovvio, prepara in realtà perfettamente il drammatico sviluppo della situazione. Si comprende così come all'intreccio dei rapporti che si stabiliscono tra i vari personaggi, relazioni lievi ma pur dense di implicazioni psicologiche anche dolorose, possa sovrapporsi, con tutta  la repentina imprevedibilità del caso,una sfida che cala una incomprensibile- e perciò tanto più angosciosa-  minaccia sui personaggi, ponendo a rischio la loro stessa esistenza. "Commedia " , certo, questa prima parte de " Gli uccelli " ma, oltre che di alta qualità, ricca di quell'umorismo e di quel " pathos "  sempre presenti in Hitchcock , preparazione magistrale, nei tanti "segnali di pericolo " che il regista dissemina nelle varie situazioni, al successivo sviluppo narrativo. Non dunque " film nel film ", avulso dal principale nodo espositivo come mi era sembrato all'inizio, ma necessaria fase prodromica all'imprevisto e  misterioso attacco degli uccelli  verso la  comunità degli umani..

Precedute da segni premonitori disseminati qua e là con perizia nelle prime sequenze, le aggressioni degli uccelli, prima isolate o in piccoli gruppi e poi in numeri davvero devastanti, pongono una forte sfida ai personaggi, al contesto in cui essi si muovono, ma anche a noi spettatori. Nel cinema di Hitchcock, che  il pericolo sia individuale ( un killer psicopatico, come ne " L'altro uomo " ) o sia rappresentato invece da una vera e propria organizzazione ( i filonazisti di " Notorious " o di "Sabotaggio ", i terroristi di " Intrigo internazionale " ) occorre farvi fronte, in genere,  superando una vera e propria prova ( il rischio della vita o il semplice abbandono delle proprie certezze e delle proprie  abitudini ). I protagonisti , quando vi riusciranno, non saranno più quelli di prima. Cosi' la viziata Melanie avrà conosciuto il pericolo ed il sacrificio e sarà degna di ricevere l'affetto di Mitch e dei suoi familiari. I personaggi dei film del Maestro- come in questo " Gli uccelli " - "crescono " attraverso le peripezie che sono chiamati ad attraversare. Nascono, in un certo senso, una seconda volta  incontrando il Male e riuscendo a non farsi da esso sopraffarre. Sono storie che potremmo ben definire  di iniziazione ad una superiore qualità e consapevolezza di vita. Altro che semplici congegni per farci paura e provocare così quel brivido epidermico da tradizionale " romanzo giallo " ! Anche lo spettatore, ovviamente, è messo alla prova , costretto quasi a fare i conti con la propria coscienza , con le proprie debolezze ,con le proprie sensazioni più nascoste. Hitchcock psicanalista " del " e " al " cinema ? Perchè no, se questo significa aiutarci a fare  i conti con quello che si agita dentro di noi e che non riesce sempre a venire alla superficie. Alla fine, malconci e profondamente segnati nella loro essenza ma vittoriosi prima di tutto su sè stessi, i personaggi profittano di una tregua negli attacchi degli uccelli e riescono a sfuggire all'assedio cui erano stati condannati. Forse,noi  non possiamo saperlo, è solo un modesto intervallo prima di altre più difficili prove, ma l'umanista Hitchcock è riuscito intanto a riaffermare ancora una volta la propria speranza e la propria " pietas " verso gli esseri umani.

Se dal punto di vista della vicenda e dei suoi significati " Gli uccelli " è uno dei film  meno ambigui ed indecifrabili di Hitchcock ma al tempo stesso  più densi ed articolati, la sua  qualità figurativa è davvero sorprendente. La fluidità delle immagini, la perfetta fusione tra i sentimenti che agitano i personaggi , la severa, trattenuta bellezza del paesaggio e la minaccia che su di esso incombe ( all'epoca poteva pensarsi forse alle inquietudini della "guerra fredda ", oggi le nostre paure si sono purtroppo assai diversificate ) contribuiscono a fare del film un'opera indimenticabile ed uno dei punti più alti raggiunti dal cinema occidentale. Oltre alla regia di Hitchcock , ricca di inquadrature " parlanti " nella loro plastica evidenza, il  merito va riconosciuto , come abbiamo più volte ricordato, ad una sceneggiatura perfetta negli snodi narrativi e che serve perfettamente le idee messe in campo dal regista stesso. Tenue, ma delicatissima nelle sfumature pastello del colore,la fotografia del grande Robert Burks .All'epoca fece molto discutere la questione degli uccelli impiegati nel film. Il ricorso a tre tipologie diverse ( uccelli " veri ", uccelli ammaestrati e uccelli finti, ricostruiti questi ultimi mediante un particolare procedimento tecnico- fotografico) fa sorridere nell'era del digitale ma riconferma ancora oggi tutta la sua validità artistica. Agghiaccianti le strida degli uccelli stessi ( il supervisore del suono era Bernard Hermann... ). L'interpretazione, infine, è di primissima classe . Se Rod Taylor ( Mitch ) ha trovato qui un ruolo perfetto che Hollywood non saprà più offrirgli in futuro, l'esordiente Tippi Hedren ( Melanie ) è molto convincente nella sua algida bellezza venata da evidenti pulsioni erotiche. Molto brave anche la  Lydia della veterana Jessica Tandy e la spigliatissima Cathy della piccola Veronica Cartwright. Ma la vera rivelazione del film , a mio avviso, è l'allora venticinquenne Suzanne Pleshette. Una bruna di non eccelsa statura ma di elegante, sensuale bellezza, dalla recitazione intelligente e sensibile nella parte della sfortunata maestrina Annie. Un'attrice, purtroppo,  cui la " fabbrica dei sogni " hollywoodiana non ha più saputo offrire, dopo questo film , una parte altrettanto interessante. Gli interpreti , come sembra si sia espresso una volta lo stesso Hitchcock , saranno anche " bestiame " da sottoporre alla volontà del regista-demiurgo. Ma senza di essi e le suggestioni che emanano dal loro solo apparire sullo schermo, ombre fuggitive in un sogno che continuamente ci appare e svanisce ad ogni proiezione, cosa resterebbe di quelle immagini che si imprimono così vivide nel nostro ricordo ?

martedì 20 marzo 2018

" THE DISASTER ARTIST " di Jesse Franco ( USa, 2017 )

" The disaster artist "è un film sul cinema. Un filone, questo, davvero  inesauribile. Perchè sempre il cinema, nella sua finzione, mostrerà persone che fanno , che scrivono, che interpretano film (  non importa se film  immaginari o che sono stati veramente realizzati ). Il cinema, si potrebbe dire, ama sè stesso. Si compiace di vedersi raffigurato sullo schermo in un gioco di specchi che potrebbe non finire mai   (pensate ad un film che descriva persone che fanno un film su delle persone che a loro volta fanno un film e via continuando... ). Tutte le arti, del resto, prima o poi lo fanno. Quanti sono i libri in cui c'è un personaggio che sta scrivendo un romanzo ? Quante le " pièces " teatrali in cui assistiamo ad  una messa in scena di una commedia o di un dramma ? Quanti i quadri, perfino, in cui è dipinto un pittore che sta riprendendo a sua volta un soggetto, talvolta un paesaggio, spesso una figura umana ? E non è solo, io credo, il gusto di autocelebrarsi, di eternizzare, affidandolo all'opera compiuta, l'effimero momento della creazione filmica, letteraria o  pittorica . No, c'è qualcosa d'altro. L'arte, raffigurandosi, in realtà interroga sè stessa. Cerca di dare una risposta alla domanda che ogni autore si pone: cosa sto facendo e perchè lo sto facendo, qui e non altrove. Massimamente  ciò è vero al cinema e forse nel teatro ( si pensi al gioco pirandelliano finzione - realtà dei " Sei personaggi " o di " Enrico IV "). Nella creazione filmica  l'intreccio tra la " cosa rappresentata "- le  riprese  di un film , ad esempio - e l'atto del rappresentare ( la macchina da presa che inquadra il lavoro dei tecnici, del regista, degli attori ecc. ) induce a chiedersi quale sia la realtà ( quella del film cui stiamo assistendo in quel momento sullo schermo  oppure quella, altrettanto viva ed evidente,  del film ivi raffigurato ed al quale , per così dire, viene data vita all'interno di quest'ultimo ). Un gioco di scatole cinesi o, se si preferisce, di continui , reciproci rimandi che ci porta a concludere che il cinema in generale è tutto " finzione "  ( scaturita dalla mente dei suoi autori ) e, al tempo stesso, tutto " realtà " ( quella ancora più vera del vero che, come in un sogno, si impadronisce dei nostri sensi e delle nostre facoltà di reazione facendoci credere di essere lì, abbattendo l'immaginaria parete che separa gli spettatori dall'azione filmica).

" The disaster artist "  ( letteralmente " l'artista del disastro ", intendendo con quest'ultimo il pessimo film che il protagonista, nella vicenda narrata, riesce malamente a portare a termine ) è una storia vera. Riprende le vicissitudini che portarono, nel 2003, tale Tommy Wiseau, un aspirante attore senza alcun talento, un personaggio di dubbia provenienza ma dotato di cospicui mezzi finanziari, a girare interamente a sue spese ,ai margini di Hollywood, il  film " The room " da lui prodotto, diretto ed interpretato insieme all'amico Greg Sestero. Il film, dotato di un soggetto ed una sceneggiatura bislacchi- una storia di amicizia virile minata dal tradimento di una donna, con una quantità però di "subplot" mal collegati tra di loro- risultò ancora peggiore una volta montato e pronto per essere mostrato al pubblico a causa della erratica e poco professionale direzione dello stesso Wiseau e della sua quantomeno discutibile interpretazione nel ruolo principale. Grosso insuccesso commerciale in un primo momento (a fronte dei sei milioni di dollari che era costato, ne incassò poche migliaia ) fu poi ritirato dagli schermi venendo giudicato uno dei più brutti, se non il più brutto di sempre, tra i film realizzati dall'inizio della storia del cinema . Proprio questa " enormità ", dovuta anche ad una pretesa atmosfera " altamente drammatica " che al film voleva infondere Wiseau e che scadeva invece per lo più in una vera e propria farsa involontaria, attirò in un secondo momento l'attenzione dei cinefili e del pubblico più smaliziato degli " States ". In cerca sempre di nuovi " idoli " e di situazioni " estreme ", costoro ne fecero un autentico " film di culto " , da vedere e rivedere per meglio apprezzarne il lato grottesco e decisamente surreale, Ancora oggi, pare , " The room " è proiettato ogni tanto da qualche parte in Nord America di fronte a folle di spettatori entusiasti che gli riservano accoglienze pari a quelle, ad esempio, tributate ad un altro " cult movie " qual'è il celebre " The Rocky Horror Picture Show ", con recitazioni ad alta voce in sala  delle battute più celebri , fremiti e risate seguite da autentiche ovazioni. Stranezze, potremmo dire, del pubblico nordamericano. Ma anche prova di come alla fine, al cinema, non contino tanto le intenzioni degli autori quanto il modo con cui il film finisce coll'essere recepito ( tra tutte le forme d'arte il cinema , si sa, è quella che deve affidarsi maggiormente alla sensibilità del singolo spettatore ).

Riprendendo le considerazioni che avevo sviluppato prima, a me pare che " The room " , il film di Wiseau, del quale , alla fine di " The disaster artist ", ci vengono mostrate delle " clip " autentiche, accanto al rifacimento delle stesse scene attuato dal film di Franco,  sia la migliore prova di come l'immaginario filmico ( intendendo per tale non solo l' "oggetto film" ma con esso l'insieme di sensazioni e le reazioni che ne ricava lo spettatore ) finisca col " fagocitare " il film stesso ed essere poi il  "vero" protagonista del fenomeno-cinema. Non voglio dire che quanto viene girato sia solo l' " antefatto ", in un certo senso , del film che poi ognuno di noi si " rifà " nella propria mente. Ma , certo, nel cinema quanto ci mette di suo lo spettatore, per la natura onirica e quasi direi metafisica dell' " oggetto film ", è più importante che nelle altre arti, dove il fruitore ( lettore, ammiratore di un quadro ) ha limiti obiettivi ( la struttura  linguistico-letteraria del libro, il perimetro della superficie dell'opera pittorica ) al suo fantasticare, al suo " vivere in trance " l'esperienza che gli è offerta invece dal film . Se il cinema, mostrando l'atto di filmare,si interroga su sè stesso, sul suo significato, sul suo statuto nell'insieme delle varie espressioni artistiche, " The disaster artist " con la sua paradossale vicenda di disastro-successo ci offre più di una ( convincente ) risposta.

Bel film , dunque, che procede spedito fino all'epilogo che si è detto, ripercorrendo la storia dell'amicizia tra Tommy ( Wiseau ) e Greg ( Sestero ), le stentate ed alterne fortune dei due nella mecca del cinema, la decisione di Tommy di scrivere e girare un film, la scelta dei collaboratori, il " tournage " vero e proprio , dominato sempre dalla straripante e folle personalità di Wiseau. Ecco, se un appunto ( non lieve ) si può fare al film è proprio questo strapotere del " demiurgo " Wiseau che finisce un pò, nell'economia di " The disaster artist ", con lo schiacciare tutto il resto, conferendo al film una dimensione un pò troppo personale (che " The room " certamente   personale lo fosse per Wiseau non vuol dire che il racconto della sua nascita debba necessariamente riprodurre la stessa caratteristica ! ). Insomma, Franco è bravo come regista ( il film ha ritmo, mordente, si lascia vedere con piacere ) ed ancora più bravo è come attore ( ma qui forse, innamorato del personaggio che gli somiglia tremendamente, esagera un tantino ). A posto gli altri ( attori ) come si sarebbe detto una volta. Il film, infine, mi è parso anche una bella meditazione su come un film  ( sempre " The room " ) che era nato come antitesi artistico-produttiva al sistema hollywoodiano  finisca poi, al momento del definitivo successo, coll'essere riassorbito dal sistema e a divenire parte di quell'infernale " macchina del divertimento " che muove le folle ed i soldi. Bella lezione per i " rivoluzionari " e i " solitari " di questi tempi, tempi in cui il successo  e la consacrazione artistico-commerciale possono saltar fuori perfino da un disastro...annunciato e forse perfino inconsciamente ricercato. 

lunedì 12 marzo 2018

" LADYBIRD " di Greta Gerwig ( USA, 2017 )

Dicevamo qualche tempo fa che i film sull' apprendistato della vita, equivalenti in sostanza a quello che è il " bildungsroman " in letteratura ( la " formazione " di un giovane protagonista attraverso varie esperienze esistenziali ) sono sempre interessanti di per sè . Soprattutto , almeno potenzialmente , rappresentano una formula di successo. Piacciono al pubblico perchè lo stimolano a cercare di intuire come andrà a finire e in più, indirettamente, lo pongono di fronte ai propri personalissimi ricordi, alle speranze e alle delusioni del passato di ognuno. Ecco perchè il cinema ci ha prodigato numerose  opere di questo filone, alcune pregevolissime , altre meno. E continuerà a darcene, state pur certi. 
Sulla stessa lunghezza d'onda ci arriva ora dagli Stati Uniti, a qualche mese di distanza dalla  uscita, questo " Ladybird ". Film scritto e  diretto da una donna, Greta Gerwig, anche attrice ( forse l'avrete vista in " Frances Ha " di Noah Baumbach ) non ancora trentacinquenne ma già considerata più di una semplice speranza per il cinema americano.  Il film, a casa sua, ha nettamente diviso critici e pubblico. Alcuni sostenendo che è un film non privo di grossi  difetti, immeritevole di venire candidato agli Oscar in due o tre categorie ( tranquilli, non ha vinto nulla ). Altri lodandolo invece come "una piccola gemma purissima ". Poi, naturalmente, ci si è messo anche il fatto che il regista è una donna e voi sapete come le questioni " di genere " siano diventate spinosissime al di là dell' Oceano. Essere donna , in questo clima esasperato, può essere un vantaggio per l'effetto- simpatia che può determinare nei due sessi finalmente uniti. Ma anche un handicap perchè fa planare il sospetto che si è andati avanti solo per questa specifica caratteristica (orrore!) .Vediamo allora,  senza pregiudizi, di capire quanto valga il film.

Siamo a Sacramento  ( California ). La città non sarebbe  male : molto verde, ampi spazi, bella situazione geografica, come tante altre  città americane di media grandezza. Solo che la protagonista, una ragazza di diciassette anni, morde il freno perchè  lì non ci si può proprio più vedere e medita , finita la scuola superiore ( è all'ultimo anno in un istituto di stretta osservanza cattolica ) di andare al " college " a New York o comunque sulla costa orientale, terra di libertà , di cultura e di anticonformismo ( o così almeno la vede lei ). Angosciata da una famiglia di origini modeste, senza grandi possibilità economiche, in perenne conflitto con la madre ( un'infermiera che si ammazza di lavoro e che le rimprovera la poca concretezza ed un vago  ribellismo ) cerca faticosamente di trovare una via di crescita personale che la affranchi, almeno emotivamente, dal contesto ambientale. La vicenda è collocata temporalmente nei primissimi anni di questo secolo- le torri gemelle e l'invasione dell' Irak - e segue tutto l'anno scolastico di Ladybird ( il nomignolo infantile , equivalente al nostro " coccinella ", con il quale Christine, la  protagonista, pretende di farsi ancora chiamare da tutti, genitori, amici ed insegnanti , in un ostinato rifiuto di accettare la sua crescita e di affrontare pienamente l'impegnativa realtà della vita che la attende ormai dietro l'angolo ). Amicizie adolescenziali che si annodano e si disfano, piccole vicende in classe e fuori, prime esperienze sentimentali e sessuali, conflitti nella e con la famiglia. Poi ll sospirato diploma e  Ladybird ( l'insetto ) si trasforma in  una crisalide,spicca il volo e , ad un certo punto, diventa finalmente Christine. La sua maturazione si è così completata.

Ho voluto riassumere la trama del film perchè mi sembra rivelatrice della ( legittima ) ambizione che guida l'autrice. Non solo cioè descrivere un ambiente provinciale con tutto il suo " charme "  e le obiettive limitatezze, tracciando un ritrattodi giovane donna che è attratta e intimorita al tempo stesso dal futuro  verso il quale è diretta. Ma anche- e forse di più- regolare i conti con la propria personale esperienza adolescenziale ( la vicenda è in gran parte autobiografica, come si intuisce dal fatto che anche la Gerwig è nata  a Sacramento e che gli anni della sua personale formazione sono quelli che vive Ladybird- Christine ) ed inoltrarsi così sul sentiero dei rapporti genitori-figli. Sentiero già molto battuto  in letteratura e al cinema, ma sempre impervio da percorrere se non si è  in possesso di finezza di analisi e di qualità di scrittura cinematografica. Bene, tenere insieme questi due obiettivi non è sempre facile. Mentirei se dicessi che la Gerwig eccelle, qui,  nel perseguire entrambi. La parte descrittiva è molto ricca- forse c'è troppa carne al fuoco - e non è tutta felicissima ( penso ad un film senza pretese come " Picnic " di Joshua Logan  che era però magistrale nella raffigurazione della società semi-rurale di quegli anni ). Certe sequenze sono divertenti e perfino interessanti nella loro scioltezza  ed originalità,  ma ci si perde un pò, specie all'inizio, in un sovraccarico di notazioni abbastanza abusate senza che il film prenda  un colpo d'ala e si sollevi a qualcosa  di meno scontato. Meglio, tutto sommato, il parallelo tentativo dell'autrice di affrontare il tema della conflittualità con la madre che però rimane anch'esso troppo in superficie, senza che si scavi veramente a fondo sulla inevitabile rivalità tra le due generazioni e le connesse, più o meno sotterranee,  correnti di affetto e di volontà di sopraffazione al tempo stesso che percorrono rapporti così delicati e complessi. In definitiva diciamo che "Ladybird" promette molto, ci lusinga , ci dispensa qualche ottimo momento ma non riesce poi a valorizzare tutto il materiale di cui si è servito.

Sceneggiatrice un pò troppo sicura di sè ( ma oggi, si sa, tutti ambiscono ad essere " autori" esclusivi ) la Gerwig  mi è sembrata tutto sommato migliore sul terreno della regia. Certe inquadrature, il taglio di alcune scene, la fluidità dei raccordi, in breve " il linguaggio ", sono spesso pregevoli e fanno del film un prodotto che spicca e che giustamente ha attirato l'attenzione dei giurati dell' Oscar ( che però poi, come ho detto, non gli hanno conferito alcun riconoscimento ). Merito anche di una bella fotografia che rende omaggio alla solarità dei luoghi ( la California non si riduce solo a San Francisco o a Los Angeles... ) ed accarezza  con proprietà le mezze tinte degli interni. Scenografia, arredamento, costumi, testimoniano della consolidata meticolosità anglosassone che tanto rende gradevole la superficie  dei film d' Oltreoceano ( perchè poi un film dovrebbe essere esteticamente sciatto , anche quando non è un capolavoro ? ). Parlo alla fine della interpretazione perchè mi pare che nei due personaggi femminili (Christine e la madre ) stia tutto il meglio - ed anche però l'irrisolto - del film. Se Saoirse ( pronunciare " sciorsc " , è gaelico ... ) Ronan è certamente brava nel ritratto ingrato di una giovinetta tutto sommato antipaticuccia ma di cui non vengono esplorate tutte le potenzialità, davvero eccellente è la veterana Laurie Metcalf nella parte altrettanto ostica della madre. Duro, rigoroso con sè e con gli altri , il personaggio si porta dietro il ricordo di una esistenza grama e la paura di un futuro economicamente incerto. Nei suoi occhi, taglienti come lame e sempre prossimi al pianto, si intravede a tratti quel difficile rapporto genitori-figli, l'animosità e la " pietas " che ne sono l'humus sotterraneo e che il film  ( timido ? incerto ? ) sfiora solamente, donandoci egualmente verso la fine un sottile, rinfrescante brivido di inquietudine.








mercoledì 7 marzo 2018

DOPO LA NOTTE DEGLI OSCAR

Dunque, come promesso, torno brevemente sull'assegnazione degli Oscar, avvenuta nella notte tra domenica e lunedì di questa settimana. In contemporanea c'è stato anche, come avete constatato, quel pò pò di terremoto politico derivante dalle nostre elezioni e questo, confesso, mi ha fatto perdere un pò di vista la nostra comune passione cinematografica. Non so ( e non chiedo di sapere... ) come l'avete trascorsa voi, la defilippiana, classica " nuttata " ( che poi, a dire il vero, è tutt'altro che passata ). Lasciamo perdere ed andiamo a consolarci con degli Oscar che , lo dico subito, per due terzi del verdetto quest'anno  mi trovano del tutto consenziente. Stavolta, mi sento di poter dire, le considerazioni " artistiche " di cui abbiamo parlato nella puntata precedente sembrano aver miracolosamente fatto premio su quelle commerciali o quelle " politically correct ".A dir di più, e questo non mi dispiace affatto, i principali candidati che se la sono battuta sino all'ultimo ( " La forma dell'acqua " e " Tre manifesti ad Ebbing , Missouri " ) riescono sapientemente a coniugare proprio tutti e tre gli  aspetti cui ho accennato, in modo da piacere ad ognuno, critici, cinefili, gente del cinema e " opinion makers " sempre pronti ad azzannare chi non è nel " mainstream " ( gli eretici, insomma ).

Vediamo più da vicino i premi principali. Che il miglior film ( di lingua inglese ) sia stato giudicato " La forma dell'acqua " mi pare un'ottima notizia. Il film è vivace, surreale e sentimentale quanto ci vuole per riconciliarci con la finzione che è madre di tutte le arti ( so che qualcuno pensa invece che la loro mamma sia la realtà, ma io  rimango sulla  mia posizione ). In pari tempo è una bella realizzazione tecnico- produttiva ( musica , costumi , scenografia, tutte cose  di prim'ordine, la prima e la terza premiate ancora con un Oscar ) e piacerà al pubblico. Infine , il che non guasta, l'alleanza  dei più deboli che viene delineata nel film ( donne, omosessuali, gente modesta, perfino i " diversi " come il simpatico mostro acquatico divoratore di uova sode ) rende il film ineccepibile sul piano della rispondenza all'odierno " comune sentire " che, vorrei rassicurarvi in proposito, è ovviamente anche il mio. Bene anche il premio per la regia, andato a Guillermo Del Toro, sempre per " La forma dell'acqua ". Una regia inventiva , fluida, piena di " pathos ", in definitiva più " classica" di quella , pur lodevolissima, di Martin McDonagh, il talentuoso regista di " Tre manifesti... ", appesantita solo-  evidentemente  per i giurati che gli hanno preferito quella di Del Toro - da certi  toni grotteschi e, in definitiva,  più ambigui di quanto non si ravvisi nella  esempare linearità de " La forma dell'acqua ".

Detto dei due Oscar più importanti , veniamo a quelli , egualmente prestigiosi, per l'interpretazione nei ruoli principali , rispettivamente femminile e maschile. Il primo ha premiato giustamente , anche qui , Frances McDormand, sulfurea interprete di " Tre manifesti " . In verità grandi avversarie la Signora Coen non ne aveva, atteso che non erano in concorso le altre due grandi interpretazioni femminili di questa stagione ( Judi Dench in " Victoria e Abdul " e Kate Winslet in " La ruota delle meraviglie " ). Premio nel reparto uomini, egualmente senza discussioni, a Gary Oldman per un Churchill più vero del vero ( " L'ora più buia " ). Grande sconfitto qui, se vogliamo , Daniel Day Lewis per " Il filo nascosto " : film tra i principali concorrenti in varie categorie e che, alla fine, ha avuto solo l' Oscar per i costumi, e trattandosi di un film su di un grande sarto, la scelta pare ineccepibile.
Da notare poi il premio per il migliore attore in un secondo ruolo, andato meritatamente a Sam Rockwell per " Tre manifesti "( è l'aiutante psicopatico dello sceriffo ). Nel settore donne , l' Oscar per il " supporting role " è andato ad una attrice a me sconosciuta per il  thriller  sul ghiaccio " Io Tonya ", non ancora giunto da noi. Peccato per la veterana Laurie Metcalf che in " Lady Bird " ci dà un commovente ritratto della madre della protagonista.

Infine, il premio per il miglior film straniero mi ha invece profondamente deluso. Dei cinque concorrenti , la foltissima giuria ( 7000 membri della " Motion Pictures Association " ! ) aveva  avuto davanti agli occhi  almeno tre bellissimi film ( " Loveless " , " Corpo ed anima " e " The square " ) più un quarto niente affatto male ( Il libanese " L'insulto "  ) . Sorprendentemente, è andata a scegliere il cileno " Una donna fantastica " ( che doverosamente segnalo di non aver visto ) cioè quello che a detta di tutti era il più debole. Merito del soggetto ( la storia di un transgender ) ? Non si sa , ma i sospetti sul pregiudizio " politically correct ", a questo punto, sembrano difficili da mandar via. Non mi sono molto piaciuti neanche gli Oscar per la sceneggiatura, una categoria importantissima atteso che , come sappiamo,un buon film senza una buona sceneggiatura non va da nessuna parte. Il premio per la migliore sceneggiatura originale è stato attribuito, infatti, a " Get Out " , un film di grande successo in America ma in Europa passato senza lasciare grandi tracce. Il fatto che lo sceneggiatore e regista sia un nero sembra puramente casuale ( o forse no, visto le polemiche di due anni fa sulla sottorappresentazione negli Oscar di artisti di colore ? ). Il premio per la migliore sceneggiatura non originale è andato al veterano James Ivory per  " Chiamami col tuo nome " ( sì, il film del nostro Guadagnino con attori americani che tante polemiche ha suscitato ) . Il mio spirito blandamente nazionalistico , a quest'ora della sera mi impedisce di esprimere ogni pur giustificato dissenso...  



domenica 4 marzo 2018

LA NOTTE DEGLI OSCAR !

Ecco, puntuale come ogni anno, la " notte degli Oscar " ( che cadrà oggi 4 dicembre , o meglio domani, visto che da noi sarano le due del mattino di lunedì quando inizierà la cerimonia di consegna degli ambiti premi ). Fare previsioni,in queste ore di attesa, è il passatempo più diffuso tra gli esperti ed i semplici appassionati della " settima arte ". Non voglio quindi sottrarmi, come modesto appartenente alla seconda di queste due categorie, al piacere di avanzare anch'io qualche pronostico e di renderne partecipi coloro che seguono questa rubrichetta.

Diciamo subito una cosa. E' chiaro che l'attribuzione degli Oscar, soprattutto del più ambito (miglior film di lingua inglese ) non avviene sempre secondo valutazioni puramente "artistiche ". La cerimonia annuale nacque " illo tempore " come autocelebrazione dell'industria cinematografica americana ( che il cinema sia anche un fenomeno produttivo e commerciale mi pare incontrovertibile ).  Ed è quindi pacifico che i giurati, membri a loro volta delle varie corporazioni di coloro che fanno il cinema, artigiani e tecnici che vi investono la loro vita lavorativa, tengano conto, nel conferire i premi, degli aspetti più cari a produttori, distributori ed esercenti di sale cinematografiche : a tutti coloro cioè che intendono trarre dai film in generale e massimamente da quelli coronati dagli Oscar il giusto ritorno economico e di prestigio dei loro sforzi. Quindi abbiamo visto premiare, di volta in volta, non necessariamente i film migliori o più belli secondo un parametro estetico-comparativo tra quelli dell'anno precedente, quanto piuttosto quelli di maggiore successo di pubblico, di particolare importanza sul piano dell' impegno tecnico e produttivo, oppure che rispondevano maggiormente a quei canoni formali e  contenutistici che l'industria cinematografica in quel momento considerava prevalenti ai fini della continuità della sua rilevanza sociale. Cerco di spiegarmi meglio con tre esempi di film premiati con l' Oscar in  passato. Nella prima categoria ( film di successo ) metterei "  Via col vento " nel 1939, che  oltretutto non era poi affatto male ed ebbe l'esito planetario che sappiamo. Nella seconda (film di particolare impegno tecnico e produttivo ) senza dubbio " Ben Hur ", vent'anni più tardi. Nella terza infine ( film  " politically correct " e che quindi l'industria riteneva adatto per continuare a " fare bella figura ") voglio includere il vincitore dello scorso anno, " Moonlight",  di cui sono sicuro che pochi si ricorderanno ( era la storia, in tre episodi, di un ragazzino nero ed omosessuale ) ma che ha fatto molto, apparentemente, per ridare al cinema americano un blasone di correttezza ed " audacia " contenutistica che sembrava, secondo alcuni, aver perso. Poi, naturalmente, ci sono anni in cui il vincitore è  stato anche uno di quei film che nobilitano il cinema come arte, al di là ( ma mai contro ) i profili tecnico-produttivi del comparto. Pensiamo a  " Eva contro Eva " nel 1950, a " Fronte del porto " nel 1954 oppure a " Annie Hall"  nel 1977. Già , quel Woody Allen che, sospettato di pedofilia, oggi rischia di essere messo al bando e che certo, in omaggio al " bon ton ", non vincerebbe più neanche se ci desse un altro capolavoro...

 Una volta chiariteci le idee, vediamo quest'anno chi potrebbe vincere nelle principali categorie. Oltre a praticare un giochino che ci piace tanto ( chi buttiamo giù dalla torre tra le varie "nominations" ? ) l'esercizio  ci permette di fare utilmente il punto sull'andamento della stagione cinematografica, giunta - almeno in Italia - a più della metà del suo percorso. Non grandissima stagione ( mancano all'appello alcuni  nomi di registi oggi  tra i più appassionanti, I fratelli Dardenne ad esempio, Xavier Dolan e,tra gli americani,James Gray e Jeff Nichols) Stagione , comunque, con diversi film di buon livello, interessanti, a volte persino piacevoli e almeno, fin qui, con cinque o  sei film di assoluta caratura, dei quali- naturalmente secondo il mio gusto- ho cercato di darvi conto nelle precedenti puntate.

Nella categoria del " miglior film " ( di lingua inglese ) le nominations sono, come sapete , ben nove e non sto qui ad elencare tutti i titoli. Emergono due film bellissimi : " La forma dell'acqua " ( che però ha già vinto a Venezia ) e " Tre manifesti ad Ebbing, Missouri ". Chiunque vinca ( io scommetto sul primo ) sarà stato un ottimo verdetto. Non ho ancora visto " Il filo nascosto " ( che mi dicono egualmente molto bello ) e " Lady Bird ", abbastanza controverso. Essendo però il film di una gentildonna ( Greta Gerwing ) e non avendo mai vinto un film diretto da una donna non possiamo escluderlo del tutto dal pronostico. Film " di cassetta " (ma costato relativamente poco , quindi il " cocco " di molti professionisti del settore ) " Dunkirk " ha obiettivamente qualche chance. Ma , a mio avviso, qui entriamo nel regno della pura supposizione. E allora, seconda guerra mondiale per seconda guerra mondiale, " L'ora più buia " francamente è meglio.

Andiamo rapidamente per qualche altra categoria. Migliore regia ( sempre di film in inglese ) la lotta qui è, a mio avviso, tra Del Toro ( " La forma... ) e Mc Donagh ( "Tre manifesti... ). Vedremo. Mio preferito,se interessa,  Del Toro, più classico e inventivo al tempo stesso.
Miglior film straniero, qui abbiamo tre grandi film : " Senza amore " ( Loveless ) del russo Diaguintsev, " Corpo ed anima ", dell'ungherese ( una donna ! ) Enyedi e " The square " del norvegese Ostlund. Per me è il migliore è il primo, certamente , ma se vincesse una donna - per di più della mia amata Ungheria - non sarei certo scontento.
E veniamo, infine , ai due più importanti premi per l'interpretazione, quelli per una " parte principale " ( leading role ). Tra i signori - scusate se incomincio da loro, ma il posto d'onore è sempre quello di chi entra per ultimo... - Gary Oldman ha dato una tale magnifica , anche se a tratti istrionica, " rappresentazione " del divo Churchill da non avere rivali. Ma siccome i giurati sono dispettosi, temo per un " compenso " a " Il filo nascosto " se dovesse vincere poco nelle altre categorie e  un Oscar , quindi, a Daniel Day Lewis ( che , comunque, è un ottimo attore ).
Tra le gentili signore la lotta è più aperta. Non c'è ( vergogna ! ) Judy Dench ( " Victoria e Abdul " )  ma per fortuna Frances McDormand, sublime in " Tre manifesti ", che dovrebbe farcela. Non trascuriamo però l'ipotesi Sally Hawkins, l'inglesina bravissima nella parte di una muta (" La forma dell'acqua " ).

Ora , si spengano le luci ed appaiano i nomi dei vincitori reali , non quelli immaginati e descritti dal vostro umile servitore ! Ne riparleremo !