lunedì 22 febbraio 2021

" BIANCO, ROSSO E VERDONE " di Carlo Verdone ( Italia, 1981 )

Esattamente quarant'anni fa usciva nelle sale " Bianco, Rosso e Verdone ", secondo film diretto e interpretato da Carlo Verdone. Reduce dall'ottima accoglienza del  lungometraggio di esordio ( " Un sacco bello " , 1980) il popolare comico romano mirava ad ottenere un nuovo e più ampio successo attraverso la reiterazione- ma anche l'approfondimento - di alcuni personaggi fortemente caratterizzati , a volte al limite della macchietta, che costituivano la sua maggiore risorsa, già utilizzata nelle precedenti apparizioni teatrali e televisive. La formula di partenza era la stessa del film precedente : tre figure di " homo italicus " in buffa , a volte parossistica contraddizione con un ambiente circostante poco propenso ad accettarne le nevrosi, i tic, la maniacale esuberanza. Tre personaggi che inducono al riso ma sostanzialmente incapaci di fare del male anche se ( specialmente uno ) piuttosto egocentrici, prigionieri della propria limitatissima visione delle cose. Uniti , questa volta, da un tenue filo conduttore : in viaggio tutti e tre lungo le autostrade italiane, ciascuno con la propria autovettura, una domenica di giugno per andare a votare nei rispettivi seggi elettorali. Domenico è un taciturno emigrato in Germania che da Monaco di Baviera deve tornare nella natia Matera. Furio è un  pignolo , logorroico romano trapiantato a Torino ma con residenza nella capitale che si sposta con moglie (sull'orlo dell'esaurimento nervoso ) e due ragazzini. Mimmo, infine, è un giovane ed ingenuo "single", accompagnatore della vecchia, grassa e autoritaria nonna che è andato a recuperare a Verona, dove stava dalla figlia, per riportarla a Roma e compiere così entrambi il loro dovere elettorale. Una trama esile ma con al centro tre figure che consentono a Verdone di calarsi con eccezionale bravura  in tre creazioni non solo di grande impatto umoristico ma anche di discreto spessore psicologico. Un passo avanti, insomma, verso i personaggi e le situazioni di maggiore complessità  e finezza narrativa che caratterizzeranno il suo cinema successivo (  " Borotalco ", " Compagni di scuola ", " Maledetto il giorno che ti ho incontrato ", " Sono pazzo di Iris Blond" ).

La forza dell'interpretazione di Verdone sta nella cura attenta e meticolosa con cui tratteggia i tre personaggi : esemplari umani al limite della credibilità ( il genere comico, del resto, non ha mai disdegnato gli eccessi ) ma non privi di una loro coerenza interna, spinta talvolta fino alla follia ( l'incidente causato dalla determinazione di Furio di "lanciare " la sua automobile, incurante della viabilità,  esattamente al termine del rodaggio su strada ; l'ostinazione di Mimmo di non dire neanche una piccola bugia per salvare il camionista dalla polizia ). Se la sceneggiatura  presenta qualche "buco " narrativo e non sempre le tre vicende si intrecciano a puntino, sopperiscono i personaggi minori, anch'essi indimenticabili. Dalla nonna di Mimmo, interpretata in modo magistrale da Elena Fabrizi ( sorella di Aldo, la popolare " Sora Lella " ) alla riccioluta Magda, l'infelice moglie del noiosissimo Furio,  con gli occhioni perennemente sgranati( " Non ce la faccio più !" è il suo celebre tormentone  in schietto accento torinese) al seduttore che la insidia con sorniona costanza( il barbuto, simpatico e misurato Angelo Infanti che diventerà nel 1982 il " fregnacciaro " di " Borotalco ", il mitico Manuel Fantoni ). E , su tutti, il leggendario Mario Brega ( interprete di tanti " spaghetti western ", uno dei migliori comprimari del nostro cinema ) nella  irresistibile caratterizzazione del camionista che fa l'iniezione alla nonna di Mimmo ("La vedi stà mano ? Pò esse fero e pò esse piuma : oggi è stata piuma... "). Sono altrettanti ritrattini che sostengono astutamente l'andamento della vicenda, contornandone i momenti di stanchezza , dovuti ad una sceneggiatura un pò frettolosa e a qualche caduta di ritmo. Dall'intero film emerge un ritratto a tratti impietoso- peraltro abbastanza  veritiero- di una Italia che, dopo gli " anni di piombo ",faticava a riprendersi : le persone che si vedono nel film ( doganieri, forze dell'ordine, benzinai, portieri d'albergo, presidenti di seggio e scrutatori ) appaiono singolarmente indifferenti ai casi altrui, poco empatici, stanchi ed avviliti. Un film comico, in sostanza, con poca tenerezza per la materia trattata. Ma, si sa, Verdone  non è una persona che ami tremendamente il suo prossimo. Un pò come Sordi, in definitiva.

Mette conto di soffermarsi, peraltro, sul personaggio di  Domenico, l'immigrato lucano che vive a Monaco di Baviera e si dirige, solitario, alla volta di Matera con la sua tamarra "Alfasud ". Qui, forse, Carlo Verdone ha avuto un momento di " pietas ", di autentica compartecipazione umana, offrendoci un ritrattino gustoso, antropologicamente esatto, di un eterno perdente, un piccolo " umiliato e offeso " dalla sua condizione sociale prima ancora che dalla sorte. E, al tempo stesso, forse senza averne piena coscienza, una delle rappresentazioni  più penetranti del dramma dell'emigrazione. Senza parole ( si esprimerà lungo tutto il film con  strabuzzare d'occhi ed una sommaria gestualità , sino all'esplosione verbale della fine ) Domenico è raffigurato quasi come un automa nelle sequenza iniziale prima della partenza da Monaco., vestito di un paio di vistosi pantaloni a scacchi, una magliettina troppo aderente e  con una foltissima capigliatura riccioluta. Sposato con una tedesca che lo ingozza , per prima colazione, di enormi salamini di carne di maiale e bicchieroni di latte, lo vediamo a disagio con i suoi stessi connazionali dai quali prende congedo nel caffé italiano. Sfottuto alla frontiera dai doganieri austriaci e poi  da quelli italiani che lo squadrano con pari diffidenza, conoscerà lungo il viaggio nella penisola indifferenza se non fastidio verso la sua ingenua gioia di ritrovarsi in patria, prezzi altissimi nei negozi lungo l'autostrada, truffe nelle trattorie dove si ferma a mangiare, ripetuti furti  a danno della sua automobile che lo fanno arrivare a destinazione in condizioni pietose. L'unico momento di sollievo in questa sfortunata anabasi è quando, in un'area di sosta, si imbatte in una comitiva di tedeschi in gita che scherzano tra di loro e si raccontano una storiella - per noi incomprensibile - alla quale essi ridono. Domenico, che si è avvicinato attratto quasi inconsapevolmente da persone che gli ricordano la Germania, ride fragorosamente anche lui. Evidentemente, anche se non l'abbiamo mai  sentito parlare, conosce ormai bene la lingua. Ma i tedeschi, perplessi ed impauriti da una persona che vedono così esteriormente lontana  dal loro mondo, smettono di ridere e quasi fuggono a rifugiarsi nel loro torpedone che li aveva portati fin lì.. Ecco, mai nel cinema italiano prima di allora ( con l'eccezione forse di " Pane e cioccolata " di Brusati, 1974 ) mi pare che si fosse così ben tratteggiato- e con pochi tocchi- il dramma identitario dell'emigrato : guardato con sospetto  per la sua " diversità " antropologica dagli abitanti della nazione  dove è andato a stabilirsi e al tempo stesso con diffidenza e sarcasmo dai connazionali che, quando torna a casa, lo percepiscono a loro volta come  ormai estraneo alla loro comunità. Condizione quanto mai amara, certo estrema ( non tutte le storie di emigrazione sono altrettanto dolorose ) ma che è un pò il filo nascosto  che unisce le tante vicende- di maggiore o minore successo-  dei nostri  emigrati in giro per il mondo.

martedì 19 gennaio 2021

DUE GRANDI FILM DEGLI ANNI '50 : " HIROSHIMA MON AMOUR di Alain Resnais ( Francia, 1959 ) " UN UOMO TRANQUILLO " di John Ford ( USA, 1952 )

Il cinema, nella sua grande bellezza, ha molte anime. Intendo dire modi diversissimi di declinare il proprio linguaggio che è, fondamentalmente, il raccontare per immagini con il  facoltativo ausilio della parola, talvolta della musica. Anche la letteratura- tanto per tracciare un paragone -  ha voce, ispirazione e modo di esporre  non certo riconducibili ad una sola " ragione narrativa ", ad un unico stile. Eppure, l' armamentario di cui essa forzatamente dispone - cioè la parola scritta- non offre di per sé soverchie possibilità di dar vita a " forme "  o "prodotti " che poi si differenzino tra di loro, anche solo esternamente, tanto quanto sono in grado di fare i film. Alla fin fine, per prendere un genere letterario diffusissimo, possiamo sostenere tranquillamente che  dal punto di vista del risultato estetico esistono solo " buoni " o " cattivi " romanzi. Ma non romanzi che ,  legati come essi sono al loro impianto espressivo di tipo grammaticale-sintattico ed alla linea di comunicazione stabilita attraverso la  sola parola con il lettore, siano capaci di assumere vesti esteriori così diverse come nel caso delle opere cinematografiche.  La forza evocativa delle immagini con cui  sono costruiti i film, il ritmo ed il "taglio" con cui le immagini e le sequenze sono concatenate tra di loro, il significato che assumono agli occhi dello spettatore e soprattutto le immediate reazioni emotive, o addirittura subliminali, che ingenerano in lui, danno vita  ad esiti diversissimi: non solo sul piano estetico, poiché ciò è vero per tutte le arti,  quanto su quello del cangiante dispositivo formale  proprio del cinema e del modo così vario che questo offre di trasmettere  le intenzioni degli autori. E' ben vero che, anche in letteratura, sono esistite in ogni epoca  creazioni che sono sfuggite, o almeno hanno tentato di farlo, alla apparente costrizione della comunicazione postulata dallo schema logico obbligato soggetto-verbo-complemento oggetto. E abbiamo avuto, da ultimo,  poesia ermetica e romanzo sperimentale, l' "Ulisse" di Joyce. Ma sono appunto tentativi - talvolta  commoventi o sublimi- di aggirare l'ostacolo del linguaggio, forzandolo all'estremo o addirittura  dinamitandolo dall'interno. Non così il cinema, che dispone già di innumerevoli  possibilità di espressione giocando su di una sintassi  infinitamente più articolata e attraverso percorsi espressivi di sconfinata libertà. Per tornare al nostro punto di partenza,  è così che le singole creazioni cinematografiche possono risultare, alla fine, tanto diverse. E di due di queste, nate nell'epoca d'oro degli anni '50 del secolo scorso, si tratterà ora sia pure sommariamente. Sottolineando come, opere entrambe di primaria importanza e di massimo godimento per lo spettatore, esse siano assolutamente agli antipodi, eppure ci parlino in modo egualmente forte e  coinvolgente.

Presentato al Festival di Cannes del 1959 ( ottenendo la Palma d'oro per l'interprete principale, la luminosa Emmanuelle Riva ) "Hiroshima mon amour ", primo lungometraggio del regista Alain Resnais, è uno di quei film di cui si può ben dire che costituiscano una pietra miliare nella storia de cinema. Liberissimo rispetto alla tradizionale architettura dei film " classici " grazie ad un sapiente ed  ispirato montaggio in cui passato e presente, ricordi che riaffiorano e situazioni attuali, contesti ambientali molto distanti tra di loro, si giustappongono o si accavallano continuamente , possiede una unità che non è più quella di tempo o di luogo - esterna ai personaggi -  ma quella dettata dallo stato d'animo interno della protagonista. Questa, un'attrice francese di passaggio ad Hiroshima per girarvi un film pacifista ispirato dall'olocausto nucleare avvenuto quattordici anni prima , vive una breve ma intensa storia di "amour fou" con un ingegnere giapponese incontrato casualmente. Attraverso l'emozionante atmosfera che si respira nella città, simbolo degli orrori della seconda guerra mondiale, ma ancor più grazie alla totale intimità di anima e corpo stabilita con il suo amante, la donna ricorda per la prima volta da allora la storia dolorosa della sua sfortunata relazione in una cittadina francese , Nevers, con un giovane militare tedesco che sarebbe poi stato ucciso  nei giorni della liberazione del 1944. Relazione che determinò la sua punizione da parte dei partigiani ( rasata a zero e condotta, venendo dileggiata, in giro per le vie della città ) , la rottura con i genitori ed il  successivo allontanamento alla volta di Parigi per sfuggire agli sguardi di riprovazione dei  locali benpensanti. Ecco allora che, intrecciati al dramma del nuovo distacco che la donna ritiene di doversi imporre dall'amante   giapponese - entrambi, apprendiamo, sono felicemente sposati - da un lato la tragedia collettiva della città giapponese e dell'intera umanità esposta alla minaccia atomica e dall'altro quella  individuale, la fine violenta del suo amore  e l'umiliazione ed il torto subiti dalla donna , colpevole solo di aver amato, finiscono con il rappresentare un unico, irrimediabile "vulnus" inferto all 'essere umano. Una ferita al sentimento di pace e di amore che dovrebbe regnare tra di noi, una prova di quella difficoltà di vivere che rende così faticosa e precaria la condizione umana. Mai, credo, al cinema tutto questo è stato rappresentato con altrettanto vigore morale e novità di linguaggio. La maestria di Resnais ( il quale ci darà poi, nel corso dei cinque successivi decenni, altri film egualmente di grande valore ) la sua vibrante macchina da presa, i suggestivi dialoghi di Marguerite Duras, la fotografia di un bianco eclatante per le scene girate ad Hiroshima e di uno sfumato bianco e nero per quelle ambientate a Nevers, non ultimo il raffinato commento musicale del nostro Giovanni Fusco ( collaboratore preferito di Antonioni ) fanno di "Hiroshoima mon amour " un film che sfida trionfalmente gli anni. Oggi le sue commistioni di tempi e di luoghi non sorprendono più come nel 1959. Ma ciò che resta, e lo rende un classico senza tempo, è il suo umanesimo di fondo e la fede in un cinema che, emozionandoci ed interrogandoci, può  contribuire a renderci migliori.

"Un uomo tranquillo " ( nell'originale "The quiet man" ) è un film del 1952, diretto da John Ford, il quale grazie ad esso ottenne il premio per la migliore regia alla Mostra del cinema di Venezia di quell'anno. La storia è molto semplice, ancorchè movimentata e ricca di colpi di scena. Un americano di origine irlandese ( non a caso si chiama Sean, Giovanni in gaelico ) viene a stabilirsi nuovamente nel villaggio da cui era emigrato  tanti anni prima con i suoi genitori. In cerca di pace e di ritrovata serenità ( scopriremo in corso d'opera  che, pugile affermato negli USA, si è ritirato sconfortato dalla "nobile arte" dopo aver accidentalmente ucciso sul ring il suo ultimo avversario ) l'uomo si innamora a prima vista, corrisposto, della giovane e bella vicina di casa- un vero prototipo dell'irlandese fiera ed appassionata - e medita di sposarla. Superate grazie ad un inganno degli amici compiacenti le difficoltà frapposte al matrimonio dal burbero ed aggressivo fratello della sua innamorata, i problemi nasceranno quando questi, accortosi di essere stato raggirato, negherà per ripicca alla sorella la dote di famiglia di cui egli è depositario. Se Sean, con cui la sposa per antiche consuetudini si rifiuta di convivere in assenza della dote di cui è stata privata, vorrà riconquistarla dovrà forzare il proprio sopravvenuto ripudio della violenza ed affrontare in una omerica scazzottata finale il forzuto e collerico cognato. Una trama sanguigna, come si vede, ma niente affatto violenta ( nell' Irlanda teatrale ed immaginifica i pugni preludono solo ad altrettante gioiose riappacificazioni condite da musica e canti, inaffiate da fiumi di ottima birra scura e schiumosa ) alla quale fa da singolare contrappunto un paesaggio paradisiaco in cui il verde dei prati si stempera nell'azzurro dei corsi d'acqua e della costa marina dalle mille insenature. Una Irlanda che è più un "topos" letterario , un luogo dello spirito, che una geografica "location". Una occasione per Ford per esprimere ancora una volta la sua convinzione che l'uomo, stretto tra le mille insidie e difficoltà della vita, non cesserà mai di anelare con tutte le sue forze ad un mondo di pace  e di serenità . Una convinzione manifestata in ben sessanta anni di cinema - prima il muto e poi il parlato-   e che ha dato vita a tantissimi capolavori e che qui viene, ancora una volta, declinata con tutto il pathos, la forza e la dolcezza, la sobrietà e l'entusiasmo che gli sono congeniali. Ricco di simpatia e di "humour"  nei confronti dei suoi personaggi, gradevolissimo nel tratteggiare usi e costumi di una Irlanda rurale oggi ormai lontanissima e forse già allora più vagheggiata che reale, " Un uomo tranquillo " è senza dubbio un piccolo capolavoro, ricco di uno spessore umano e di una sottile malinconia ben più corposi di quanto il suo andamento lineare e la recitazione, apparentemente " facili "  entrambi, non lascino a prima vista immaginare. Film "classico " quant'altri mai se collocato vicino ad un'opera rivoluzionaria quale era ( e per certi versi rimane)  " Hiroshima mon amour ", esso testimonia quanto prima si è detto sulla diversità non solo contenutistico-formale nel cinematografo ma anche sul diverso modo, grazie al linguaggio, al ritmo, alle inquadrature ed alla percezione che esse ingenerano nello spettatore, di  riuscire a trasmettere le intenzioni dell'autore, il suo credo o , se volete, quello che potremmo chiamare la sua "poetica". Diversissimi nella forma e nel contenuto, " Hiroshima mon amour" e "Un uomo tranquillo" evidenziano entrambi fiducia nell'uomo e nelle capacità dell'amore e della solidarietà di reagire alle tante insidie di cui è costellata la nostra esistenza. Ed il cinema, qui, fa egregiamente la sua parte.