sabato 26 ottobre 2019

" L'ETA' GIOVANE " di Jean-Pierre e Luc Dardenne ( Belgio, 2019 )

Sotto il generico titolo datogli dai distributori italiani si cela l'ultimo, magistrale, film dei fratelli Dardenne, quel " Le jeune Ahmed ", presentato in maggio a Cannes e vincitore della " Palma d'oro " per la migliore regia, attraverso il quale essi, almeno come punto di partenza, hanno avuto il coraggio di cimentarsi con quel fondamentalismo islamico che proprio in Belgio, nelle comunità magrebine immigrate, ha trovato non pochi, accesi e sanguinari, proseliti. Sbaglierebbe peraltro chi pensasse ad un film " politico ", volto all'analisi delle motivazioni sottostanti il fenomeno o della genesi di quest'ultimo. Come sempre , nei Dardenne, la realtà, l'elemento storico o sociologico, sono dati per scontati e costituiscono solo l'antefatto o , se si preferisce, la cornice di una indagine - questa sì che ad essi preme-  nel cuore degli uomini e delle donne che abitano le  loro vicende .Qui non è tanto il processo di radicalizzazione del giovanissimo protagonista ad interessare gli autori, o  le modalità del proselitismo (nel film appena adombrate) quanto l'itinerario inverso, quello cioè della redenzione e dell' uscita dal tunnel della rabbia e dell'odio che separa l'adolescente dalla sua stessa comunità e, più in generale , dal resto del genere umano. Che ne fanno , insomma, una sorta di automa prigioniero di circuiti mentali e comportamentali sottratti alle sue stesse emozioni ed una temibile arma di guerra pronta ad aggredire quanti si frappongano al suo percorso di follia e di morte. Per tornare a vivere, cioè ad amare gli altri e quindi la vita, Ahmed dovrà riconquistare il senso della realtà da cui è stato tagliato fuori a causa dell' ideologia che si è impadronita di lui. E lo farà attraverso il dolore e la sofferenza del suo stesso corpo, quel corpo che era il suo scudo protettivo contro l'altro, il diverso, ma anche la  sorda prigione della sua anima e dei suoi sentimenti.

Ciò che trovo ammirevole nel cinema dei Dardenne, giunti qui al loro nono lungometraggio dal 1996, l'anno de " La promessa " che li rivelò alla critica ed al pubblico,  è la loro estrema coerenza nel girare solo quello che vedono affacciandosi alla soglia di casa. La realtà, voglio dire, esclusivamente del loro piccolo territorio, quella Seraing, nella periferia di Liegi, dove sono nati ed hanno  la loro centrale operativa. Un mondo, quello della Vallonia francofona ,che era un tempo l'asse portante dell'economia belga ed oggi è in preda ad una difficile riconversione: multietnica, disagiata ma brulicante di energia e di vita, in fondo tutt'altro che depressa, immagine perfetta della nostra civiltà postindustriale. Ma da qui, poi, Jean-Pierre e Luc Dardenne sanno subito  come  seminare tracce di vita che vanno al di là di quella esperienza tanto circoscritta, arrivando così a significati universali. Senza mai uscire però, e questo è la forza del loro modo di raccontare delle storie e di filmarle, da quella precisa realtà, descritta con precisione e rigore quasi documentaristico . Una realtà evidentemente ben conosciuta ed amata da questa singolare coppia di sceneggiatori e registi, decisi a parlare solo di quanto i loro stessi occhi hanno veramente visto, alla stregua di un Rossellini o di un Pasolini prima maniera (da "Accattone" a "Mamma Roma ") sia pure dilatandone lo spazio concettuale e portandolo a coincidere con quello che, idealmente o  materialmente, circonda ognuno di noi. Ahmed, il ragazzino appena entrato nell'adolescenza, timido come lo sono tutti a quell'età ma reso baldanzoso e aggressivo da una lettura tendenziosa del Corano ispiratagli da un imam locale, metà bottegaio e metà agitatore di giovanili coscienze, è un personaggio che a Seraing o a Flémalle, nella cerchia esterna urbana di Liegi, potremmo facilmente incontrare. Non so altrove. Ma la problematica che si agita nel suo cuore, quel rancore verso la supposta corruzione dei costumi, quel desiderio di difendere i principi della tradizione fino a colpire ed eliminare chiunque vi si opponga, infedele o apostata, soprattutto quell'essere prigioniero di una ideologia tanto più stringente quanto più dura, sono fenomeni, stati d'animo, frammenti di vita reale che  non hanno confini e con i quali tutti potremmo prima o poi trovarci a fare i conti.

" L'età giovane " ha il raro pregio di essere breve, anzi brevissimo (84 minuti, contro le due ore-due ore e mezza di tanti odierni " capolavori "). In letteratura lo definiremmo un racconto lungo, più ancora che un romanzo breve, per la compattezza, la coerenza stilistica, la secchezza della narrazione (non priva peraltro di momenti di intensa anche se pudica drammaticità, si pensi al primo colloquio di Ahmed detenuto con la madre). E' un film, starei per dire,  che non ha solo tenerezza e "pietas" per i suoi personaggi, nessuno dei quali dipinto in modo spregevole- nemmeno l'imam - ma che vuole bene anche agli spettatori facendo loro comprendere chiaramente (mai ambiguo od oscuro) le intenzioni degli autori : qualità non da poco se si pensa ai troppi film che trasmettono solo incertezze, esitazioni nel riconoscere la posizione morale di chi li ha scritti e diretti. Ma il cinema dei fratelli Dardenne,  che non a caso vengono dal documentario e da una significativa esperienza di insegnamento nel " dopo scuola ", a contatto  quindi con i giovani, muove da un forte afflato morale e si propone di educare il pubblico ad una visione del mondo non manichea,  ricca di comprensione e di  amore per l'altro. Ricordo un critico americano che si chiedeva in un suo libro se il cinema " ci può rendere migliori ". Arduo dargli una risposta di carattere generale, che abbracci tutti i tipi di film, belli o brutti, intelligenti o stupidi. Ma un " certo " tipo di cinema  direi che senz'altro ha il magico potere di renderci ottimisti, di riconciliarci con la vita, anche nei suoi aspetti più problematici. Ed è il cinema che altra volta abbiamo definito " maggiorenne " : capace di emozionarci e di farci pensare al tempo stesso, dando ordine al tumulto del nostro cuore. Jean- Pierre e Luc Dardenne, persone buone (lo si capisce al primo sguardo) ed autentici umanisti, infondono nelle loro opere- dunque anche in questa - quella vena di ottimismo , quella possibilità di riscatto dai tanti piccoli e grandi torti della vita, che rende quest'ultima un'esperienza- rovesciando quel che credeva Shakespeare- " da bramarsi devotamente ".



Veilleuz bien trouver ci-dessous un court commentaire en francais :

 Palme d'or pour la mise en scéne au dernier Festival de Cannes, " Le jeune Ahmed " est le dernier né des films des frères Dardenne, Jean- Pierre et Luc, ce couple de cinéastes belges (vous avez bien lu: belges et non pas francais, tellement il portent haut le flambeau de cette vaillante cinématographie !) qui sont aujourd'hui parmi les plus grands au monde. Leur cinéma part toujours d'un terroir bien déterminé (la commune de Seraing, dans la banlieue liégeoise, où ils habitent et travaillent) et s'élargit, au fur et à mésure que leurs histoires progressent et acquièrent une signification plus large, à une véritable dimension universelle, capable de percer la réalité du quotidien,et d'agiter en meme temps les problèmes  qui accompagnent la vie de tous les hommes : la conscience de soi, le rapport avec l'autre, les valeurs moraux, la haine et le pardon.
De meme pour ce film , qui se déroule à partir d'un garcon magrébin issu d'une famille immigrée en Belgique, le Ahmed du titre, fervent musulman, radicalisé par un imam fondamentaliste , pret à agresser, voire à tuer pour " protéger " sa religion et ses prétendues valeurs. Mais le film devient vite l'histoire d'un difficile apprentissage d'un vrai rapport avec les autres etres humains, un itinéraire vers  le développement d'une conscience et vers la libération de tout  schéma idéologique à travers l'apprehension du réel et la souffrance. Quelle belle histoire ! On est ému juste à la raconter, mais il faut voir le film pour admirer la facon dont les Dardenne l'ont rendue tout à fait cinématographique, loin de toute suggestion littéraire, passionante grace à la force et à la justesse de l'élement visuel  (quoique le scénario soit , comme d'habitude, très bien ficelé ) . Une réussite totale et un des plus beaux film de cette année 2019.



Please find here a short commentary in english on this film :

Latest work by the Dardenne brothers (Jean- Pierre et Luc, the talented belgian couple of movie directors, among the greatest of today) " The young Ahmed ", winner of the " Palme d'or " for the best direction at this springtime Cannes Festival, is definitely one of their best.
As usual, the story starts from a precise microcosm, the tiny multiethnic town of Seraing, near Liège, where the two authors live and work, and soon becomes a tale of universal significance : self conscience, interaction with the other, human values, hate and forgiveness. The main character, a moroccan boy from a family immigrated to Belgium and perfectly integrated, is instead a fervent muslim, radicalised by a fundementalist local imam and raised to hate and kill in order to " protect " the so called " purity " of his religion . A reality well known, unfortunately, by several european countries where many criminal episodes  of this kind have recently spread the knowledge of this dangerous problem. But the film is less interested in describing how Ahmed has become a fondamentaist than in accompanying him in a difficult itinerary towards a psychological liberation and apprehension of reality.
A truly moving story, full of sentiment (but not sentimentalist) where the beauty and the force of the theme developed by the Dardenne brothers is perfectly matched by superb visual description of the space and the characters within. Youd could appropriately say that everything is in the cinematic frame, nothing of the author's intentions sounds purely ideological or litterary. A real joy for the eyes if you feel that this, as it is, is true and pure cinematic art.

domenica 20 ottobre 2019

" GRAZIE A DIO " di Francois Ozon ( Francia, 2019 )

( Commentaire en francais après le texte italien/Commentary in english after the italian text )

Di questo straordinario film, da giovedì scorso sugli schermi italiani, avevo avuto modo di parlare su questo stesso blog in " Lettera da Parigi ", quando lo vidi appena uscito in Francia nello scorso febbraio. Regista prolifico ed eclettico (quindici film in vent'anni , molto diversi per temi ed ambientazione) Francois Ozon non ha avuto timore nell'affrontare un argomento controverso come quello dei preti pedofili, già oggetto in passato di trasposizioni cinematografiche non esenti da un pizzico di morbosità e da una buona dose di pregiudizio verso il sacerdozio  e la religione cattolica. 
Nulla di tutto ciò in " Grazie a Dio ", giacchè qui non è tanto in questione la maggiore o minore colpevolezza del religioso che si è reso responsabile di odiosi abusi sessuali sui fanciulli affidati a lui in una colonia estiva, reo confesso e apparentemente pentito, quanto la richiesta, da parte di un professionista quarantenne che da ragazzo fu tra le vittime del pedofilo, di verità e giustizia da parte delle autorità ecclesiastiche della diocesi. All'arcivescovo ed ai suoi collaboratori che lo invitano al perdono e all'oblio, il protagonista del film oppone l'esigenza morale che la Chiesa ammetta la responsabilità consistita nel non aver dato seguito a suo tempo alle segnalazioni degli interessati e delle loro famiglie  allontanando  il colpevole e  facendo intervenire la stessa giustizia civile. Il film , e lo ricorda una scritta che appare sullo schermo, si ispira ad un caso giudiziario occorso a Lione e giunto  proprio ora ad una svolta clamorosa : l'arcivescovo di quella città, Barbarin, è stato infatti condannato con la condizionale ad una pena detentiva, pochi giorni dopo l'uscita del film,  per omessa denuncia e non assistenza a persone in pericolo.Si tratta dello  stesso prelato che, in occasione del  precedente non luogo a procedere per prescrizione nei confronti del sacerdote pedofilo della sua diocesi, in una conferenza stampa si era maldestramente felicitato (" grazie a Dio") per tale esito, chiaramente pregiudizievole agli interessi delle vittime e delle loro famiglie e contrario ad una vera giustizia.

Nessuna descrizione delle violenze commesse - appena suggerite da una  tenue e quasi onirica rievocazione del triste accaduto- e soprattutto nessun infierire del film sul diretto responsabile, in tutta evidenza un povero malato, ormai vecchio e non pienamente consapevole della gravità delle sue azioni.  " Grazie a Dio " si concentra invece sulla esigenza di verità e di trasparenza fatta valere dal protagonista nei confronti di una istituzione, la Chiesa, poco adusa ad assumersi le proprie responsabilità nei confronti dei fedeli che hanno ricevuto un torto al suo interno, visti  da essa non come individui meritevoli di ascolto ma come sudditi tenuti all'obbedienza e soprattutto al silenzio nei confronti del mondo. Ed al centro del film è dunque piuttosto l'itinerario morale e psicologico del protagonista, uomo di fede ma sempre più dubbioso e critico verso un potere che rifiuta quella esigenza di verità e di trasparenza che egli persegue con forza crescente e che gli viene dal proprio foro interiore, dalla sua stessa natura di cristiano : una richiesta che i suoi pastori, per un malinteso senso di autoprotezione, non sono disposti ad accogliere. Ed il film, tratteggiando tale tormentato percorso, mostra anche quanto sia importante il sostegno che il protagonista riceve da due suoi compagni di sventure, egualmente tesi al raggiungimento della verità, con i quali, stretto un fruttifero sodalizio di sentimenti ed intenti, crea un'associazione che raccoglie tutte le vittime dei preti pedofili della diocesi. Restituendo ad esse, questo il punto veramente centrale della vicenda, quel diritto di parola che era stato loro lungamente negato non solo dalle autorità ecclesiastiche ma dagli stessi timori retrospettivi e dal senso di inadeguatezza e di vergogna che essi provavano  in precedenza verso un'esperienza personale così traumatica e dolorosa. Una storia, questa di " Grazie a Dio" ,  che potremmo definire di liberazione dai fantasmi del passato e di riconciliazione con la vita. Un tema bellissimo, commovente, trattato in modo drammatico ma sempre sereno e virile, lontano da ogni partito preso, tutto calato nel magma doloroso della natura umana e delle umane vicissitudini.

Ma sbaglierebbe chi pensasse che il film lo affronti in modo troppo retorico, con il tono sovente sopra le righe dei tanti film " di denuncia " che il cinema ci ha dispensato a iosa negli ultimi anni. Se si eccettua una sola scena simbolica, peraltro potente ed efficace, in cui si vede l'arcivescovo che  da un'altura sovrastante Lione solleva l'ostensorio, brandendolo quasi come un'arma verso la città ai suoi piedi, mancano le scene " forti ", magniloquenti, tese apoditticamente a dimostrare una tesi. Il cinema di Ozon ( e chi ha visto in passato anche uno solo dei suoi film, penso ad esempio a " Franz ", spero me ne darà ragione) è asciutto, essenziale, a volte tenero od ironico , ma sempre privo di quell'atteggiamento sornione e un pò paternalistico con cui, a volte , il cinema vuole imporci un punto di vista, una regola di vita. La " lezione " morale (ed estetica) del regista, anche sceneggiatore dei suoi film, scaturisce non da un " a priori " che si cala nella vicenda e nelle immagini di cui questa è rivestita, ma dalla reazione intellettuale e dalle emozioni visive dello spettatore, posto di fronte alle semplici, nude risultanze di quanto viene offerto al suo sguardo. Cinema, pertanto,  di grande suggestione, che fa appello alla sensibilità e all'autonomia di chi osserva e che di queste si alimenta,non cibo precotto nel solo immaginario dell'autore e scodellato in tavola.
Film in cui il dialogo e la recitazione sono altrettanto importanti , se non di più, dell'elemento puramente visivo, " Grazie a Dio " si avvale di una eccellente interpretazione di Melvil Poupaud ( il protagonista ) coadiuvato in modo egregio da due altri attori poco conosciuti da noi ma assai validi, Denis Ménochet e Swann Arlaud nella parte degli amici. Girato con uno stile che diremmo da inchiesta televisiva ( abbondanza di primi piani, montaggio serrato ) il film lascia pienamente soddisfatti e, dopo un moderato successo in Francia ( paese troppo laico, forse , per apprezzare fino in fondo i temi del film)si raccomanda ora ad una difficile, ancorchè non impossibile carriera in un paese come l' Italia in cui, ad un cattolicesimo di facciata, fa da molto tempo riscontro un sostanzioso agnosticismo. Importante comunque vederlo, al di là del problema religioso e morale che agita, per apprezzare un'ottima pagina di cinema ed il coraggio di un autore sempre più completo.

















Veuillez trouver ci-dessous un court  commentaire sur ce film à l'intention des lecteurs francophones

" Grace à Dieu " ( le titre original du film ) est l'expression bien maladroite avec laquelle l'archeveque de Lyon, Monseigneur Barbarin, salua il y quelques années, dans une conférence de presse, le non-lieu prononcé par un tribunal sur les poursuites judiciaires afférant un pretre de sa dyocèse inculpé  pour comportements criminels pédophiles rémontant à plusieures années en arrière et couverts déshormais par la préscription. Suivant les démelés de son protagoniste- un homme qui fut jadis victime de ce pretre et qui démande maintenant justice, épaulé par sa famille et d'autres camarades- le film de Francois Ozon ( sorti en France en février  dernier et à présent sur les écrans italiens ) est moins un film sur une  affaire de moeurs qui a sévi dans l' eglise catholique de plusieurs pays que un plaidoyer trés convaincant au nom de  principes de vérité et de  transparence dont l'institution ecclésiastique manifestément n'intend pas  se rendre interprète.
Problème de société ( " fiction fondée sur de faits réels " , dit le scénariste et metteur en scéne Ozon ) le noyau dur du film ne saurait pas néanmoins  se cantonner  à un simple fait divers. Il s'agit-là d'une belle histoire d'amitié ( celle qui s'instaure entre le protagoniste et deux des autres victimes du pretre pédophile, unis dans la lutte pour faire emérger leur histoire personnelle  ) et de l'essor d'un sentiment individuel et collectif de courage et de véritable libération vis-à -vis du passé.
Comme souvent dans les films de ce vaillant artiste transalpin, la mise en scène est sèche, dépourvue de tout artifice et l'interprétation très soignée. Vraiement une belle réussite pour une oeuvre qui,tout en faisant honneur à la tradition du cinéma francais classique, est d'une modernité épatante dès par son thème et la facon très captivante avec laquelle elle a été tournée.


Please find here a short commentary on this film for english speaking readers.

" Thank God " ( the film's original title ) is the most unfortunate wording by the archbishop of Lyon , Monsignor Barbarin, in a press conference at the outcome of a controversial  case involving a catholic priest of his diocese accused of sexual abuse on some children. Due to the long lapse of time between the facts and the formal judicial proceedings the priest, who has confessed his wrongdoing, has been acquitted. So,contrary to the satisfaction shown by the religious authorities, justice has not been made. But the main character of the film , a courageous man in his forties who as a child had been a victim of the priest, is still bent, with two of his unhappy companions, on trying to obtain a public recognition of accountability by the Church and his clerical representatives.
Based on a true story, the film is nonetheless something more than a simple " court movie " or a  story of an ancient crime unpunished. It's a tale of friendship and solidarity among men who find within themselves the courage to question a powerful and silent institution. asking for truth and justice. Handsomely crafted by a clever and eclectic director like Francois Ozon, the film is a good piece of cinema, a " classic " film on the path of the wellknown " french tradition ", rejuvinated by a tight visual style and a vibrant command of several themes underlying the plot. 


venerdì 11 ottobre 2019

" JOKER " di Tod Phillips ( USA, 2019 )

" Joker " ha vinto il Leone d'oro per il miglior film alla recente Mostra cinematografica di Venezia raccogliendo unanimi plausi da parte sia  della critica che del pubblico. Proiettato da pochi giorni in America e in  Italia, sta battendo tutti i record di incassi e si avvia ad una trionfale carriera commerciale. Poichè di questi tempi non è comune che un film metta tutti d'accordo, commentatori specializzati e semplici spettatori, vale la pena che si cerchi di andare un pò più a fondo nelle ragioni dello straordinario successo che sta salutando un'opera di grande pregio e che ha meritato di trionfare in un concorso dove pure non mancavano  alternative sicuramente interessanti. 
Lasciamo da parte la popolarità di cui godono, grazie ai " fumetti " e ad alcune pellicole accattivanti ma  di diseguale valore, i personaggi delle avventure di Batman e , in particolare, il diabolico " Joker " dalla sinistra e  compulsiva risata. Ciò può spiegare un certo seguito da parte del pubblico che ama un determinato tipo di cinema, lieto di ritrovare i propri beniamini in  nuovi "sequel " o " prequel " delle vicende che già ha  conosciuto. Ma non ci dà le vere ragioni del successo di questo film. Credo che esse vadano trovate invece nel non aver avuto timore, sceneggiatori e regista, di dare vita ad un prodotto che si inserisce senza complessi nel novero dei " blockbuster ", cioè dei film spettacolari che non lesinano sulle avventure, anche fantasiose, di personaggi ben tipicizzati (il buono spinto verso la cattiveria dalla incomprensione degli altri ) con quel tanto di emozioni, sorprese , violenza, battute fulminanti, un pizzico di irriverenza, che piacciono al pubblico meno smaliziato : e il cinema , beninteso , è sempre stato anche questo dalle origini ad oggi.

Ma qui c'è anche altro, tanto da poter  distinguere nettamente il film vincitore a Venezia da quelli che, nella stessa " saga ", lo hanno preceduto e dagli altri consimili film " di azione " che vengono continuamente sfornati dal mercato. L''idea vincente, prima di tutto, è stata quella di ricorrere ad una storia " minimalista ", andando ad inventarsi le origini giovanili del  personaggio " Joker "e facendo del criminale folle uno " sfigato ", un certo Arthur Fleck, povero, costretto a guadagnarsi da vivere con una piccola attività di clown da strapazzo, affetto da una grave nevrosi che lo porta ad improvvise risate senza senso, ma mite di indole, attaccato alla madre inferma. Moscerino senza alcuna importanza nella classica  " Gotham "  delle avventure dei "detective comics ", epitome delle  metropoli di oggi prossime al collasso, il futuro joker  può essere visto, poi, come la vittima di una società  spietata, il simbolo di una umanità derisa, cui viene man mano negata  ogni forma di assistenza dal malgoverno e dalla cupidigia dei potenti così come un poco di calore umano e di affetto da parte di un mondo arido e frettoloso. Tradito nelle sue speranze e nelle sue illusioni  (diventare famoso partecipando ad uno dei tanti talk show televisivi  ribaldi e paternalistici )ad Arthur non  rimarrà che la rivolta e il crimine. Una conclusione, questa, in perfetta simbiosi con una città in progressivo, turbolento disfacimento, incapace di incanalare pacificamente la collera e la protesta di tutti gli " have not ",sempre  più difficili da convincere che anche per essi, un giorno, come dice la canzone , pioveranno " pennies from heaven ".

Ora mi si potrà dire che l'inquadramento politico-sociale della vicenda non è poi così originale, avendolo visto in tanti altri film americani a sfondo anche più acre e  drammatico. Ma qui , l'intelligenza del regista , Todd Philips, e degli sceneggiatori, è di aver tenuto in perfetto equilibrio vicenda privata del personaggio principale- con " in nuce " il suo istinto criminale - e dramma collettivo. La prima è certamente ampliata, resa ancora più evidente dal secondo. Ma non ne è mai schiacciata in un  rapporto di causa ed effetto. Il " Joker " , è vero , è una raffigurazione della miseria dei nostri tempi, uno di noi nel senso che abbiamo ricordato prima. Ma rimane, ad ogni passo della sua traiettoria, anche un personaggio fantastico, una pura costruzione del nostro intelletto, capace di farci uscire per un momento dalle trite banalità del quotidiano, un rifugio nell'irrazionale così comune per  quegli eterni fanciulli che torniamo ad essere quando andiamo al cinema e in sala si spengono le luci. Ed è in questo sagace, abilissimo " mix " di realtà e fantasia che il film sferra un colpo da maestro. Nè opera realistica nè pura evasione nel sogno, ma un pò una e un pò l'altra,  "Joker " acquista una forza , una tensione interna che ne fanno un'esperienza intellettuale ed estetica di sicuro spessore. Se il cinema, è stato detto tante volte, deve essere "emozione ", qui ci siamo senz'altro. Se vogliamo anche riflettere e non fermarci alla superficie delle cose, c'è materia per farlo.

Merito degli sceneggiatori e del regista, abbiamo detto poc'anzi. Se lo " script ", il testo intorno al quale si costruisce un  film (come un albero, per disporre tutti i rami e le foglie, ha bisogno del tronco) rappresenta almeno il 50% della sua maggiore o minore riuscita, qui molto è dovuto ad una sceneggiatura solida, ben calibrata, che tende a non strafare ma a darci tutti gli elementi narrativi, e solo quelli, di cui dobbiamo disporre. Todd Phillips, che ha anche diretto il film , non è nuovo nella scrittura di un film e qui si è avvalso della collaborazione di un ottimo professionista, Scott Silver, in predicato per l' Oscar nel 2012 con " The Fighter " e che con  Joker  potrebbe  ora finalmente conseguirlo. Ma anche la regia dello stesso Phillips è  assolutamente degna di lode. Conosciuto fin qui soprattutto per commediole leggere, come " The Hangover" ( In Italia " Una notte da leoni " ) questo regista dimostra di essere pienamente padrone del materiale a disposizione, secco ed incisivo nei momenti drammatici, sciolto e sinuoso in alcune emozionanti raffigurazioni della fatiscente "Gotham " (una riconoscibilissima New York anni '70, prima della cura Giuliani).
Ma una menzione a parte la merita l'interpretazione, ancora una volta eccellente, di Joaquim Phoenix nella parte del Joker. Questo attore ha ormai raggiunto una capacità di calarsi nei personaggi, anzi di farli propri e in un certo senso di ricrearli, da meritare  riconoscimenti sempre più ampi. Non ci dimenticheremo tanto presto della sua sinistra, agghiacciante risata, autentico sigillo di una tragica condizione esistenziale e terribile monito per ognuno di noi.E un'ultima citazione, infine , al vecchio ed indomito Robert De Niro nei panni di Murray, il subdolo, condiscendente presentatore televisivo. Se Phillips lo ha voluto e lui ha accettato la parte è anche per rendere retrospettivamente omaggio a  " Taxi Driver ",
il film che negli anni '70 dipinse meglio il degrado di New York e la rivolta di un altro "sfigato"  di quei tempi.
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Please find here a short commentary on the film in English:
  
"Joker " won the first prize  ( the so called " Golden lion " ) at the recent Venice International Film Festival, widely acclaimed both by the critics and the audience. Its commercial career started under the best auspices on the two shores of the Atlantic and the film is likely to be prized also at the Oscar ceremony next february.
I regard it as a very intelligent, well crafted mix of  traditional elements of any good blockbuster : a strong main character-  the " Joker " made popular by comics and films on Batman - the difficulties this character has to overcome to succeed,  a tasty dialogue, a fair dose of action and violence, a bit of irreverence. Cleverly associated, in this case, with some more evident social and political scope. The Joker  here is not only a  lunatic who becomes a  psichopatic criminal. He is the victim of our society, of the rising division between well-off and poor people, magnified by the lack of proper public policies for coping with  inequality and discrimination. Like the disabled people, the dropouts, the shy or unhappy persons , all those that cannot seize the opportunities provided by  our  tough times, he suffers from the indifference, and sometimes the contempt, of his " square "neighbors.  Suffering from the absence of warmth and tenderness by his fellow citizens of " Gotham ", the Joker cannot but grow wild and unsympathetic himself . His crazy, compulsive laughter sounds as the seal to a tragic existence and a sinister reminder for everybody.
Nevertheless, having read that, don't assume erroneously that the film might be a bit boring, unattractive  or kind of biased by too easy anti-Trump or anti-Wall Street rhetoric. The story on wich it is built is good, solid stuff, developed in a clever and convincing way through a wellwritten script . " Joker " is also a truly , magnificent piece of cinematic art to watch. Full of action, nervous, with no " dead zones ", shot in a highly professional way, it conveys to the wiewers a sense of  formally splendid plenitude. Having paid due tribute to the director and screenwriter Todd Phillips , so far more reputed for light comedies ( " The Hungover " ) but   always perfectly in control of the movie, most of the credit goes to the extraordinary performance of Joaquim Phoenix. Quite impressive in his characterization of a young " Joker " at the beginning of his criminal record, Mr. Phoenix is abosolutely superb and worth of praise.

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Veuillez trouver ici un court commentaire sur le film en francais:


" Joker "  a gagné en septembre dernier, à la " Mostra " de Venise, le Lion d'or pour le meilleur film. Fort bien accueilli par le public en salle et considéré par la critique,  pour une fois unanime, une oeuvre très brillante, il vient d'entamer depuis quelque semaine une belle carrière commerciale  en Amerique et en Europe. Il est à parier qu'il  obtiendra encore beaucoup de succès  aux prochains Oscar.
La raison de cette belle réussite réside dans le mélange, astucieux et bien équilibré, de  certains motifs traditionnels dans tout bon " blockbuster ": un personnage central  bien construit et aux prises avec pas mal de difficultés qui lui entravent la voie, beaucoup d'action, un peu de violence,  des savoureuses répliques. Mélange toutefois associé, ici, à une perspective plus large et intelligente, sociale et politique, qu'on rétrouve en général dans de films qui ne sont pas forcemment " grand spectacle " mais font appel à un  public plus averti.  Le Joker  est moins, dans ce film,  le masque classique qu'on connait, un homme cérébralement dérangé qui devient un criminel, que une victime de la société, un produit de  notre époque bien difficile où le clivage entre  les richissimes et les couches défavorisées se fait de plus en plus  important et les moins favorisés ont bien du mal à saisir les maigres opportunités qui leur sont réservés. Son fou rire déchainé et soudain est, à ce regard, le témoignage poignant d'une existence tragique et un bien sinistre avertissement pour nous tous.
Mais il ne faut pas s'imaginer qu'il s'agisse d'une oeuvre quelque peu rhétorique et ennuyeuse. Ceux qui iront  la voir découvriront un scénario bien ficélé, écrit par de très bons professionels, un film passionant  à chaque instant. " Joker " est toujours éblouissant du point de vue aussi purement visuel, avec  pas mal de plans à vous couper le souffle,  un accomplissement d'une splendeur formelle et d'une évidence plastique dignes des meilleurs films d' Hollywood d'antan. Le metteur en scène ( et co-scénariste ) Todd Phillips était jusqu'ici mieux connu pour ses comédies légères (" The Hangover") mais il démontre ici une aisance et un style unsoupconnés. En lui réconnaissant une bonne partie du mérite de la réussite du film il ne faudra néanmoins  pas oublier l'interprétation de Joaquim Phoenix, un " Joker "  au jeu très subtil, très interiorisé , un clown triste classique, de toute évidence , mais capable de vous prendre aux tripes et de vous bouleverser carrément. A voir absolument.

venerdì 4 ottobre 2019

" AD ASTRA" di James Gray ( USA, 2019 )

Vi ricorderete, forse, di come io la pensi sul cinema di fantascienza. Ne abbiamo già parlato e non starò a dirvi un'altra volta perchè sia una categoria che mi attira poco, nonostante qualche lodevolissima eccezione  di fronte alla quale anche la mia idiosincrasia ha dovuto in passato cedere il passo. Ritengo però che con " Ad Astra ", uscito da pochissimi giorni qui da noi, siamo nuovamente di fronte ad un'opera che sfugge vittoriosamente alle costrizioni di un " genere " ormai troppo  codificato e tale da consentire difficilmente ai grandi cineasti di essere pienamente sé stessi. L'ultimo film di James Gray, il talentuoso regista americano che è senza dubbio tra i migliori eredi della tradizione degli Scorsese e dei Coppola, sposa  solo fino ad un certo punto l'architettura esteriore, quella che piacerà comunque ai patiti della " science fiction ", nonchè i moduli espressivi ed i contenuti tipici dei  film sull'esplorazione dello spazio. Ma al debole o scontato significato della maggior parte di questi ultimi riesce a sottrarsi con intelligenza.  Il fulcro del film, infatti, non è tanto la conquista dello spazio in sé quanto l'eco, la risonanza nei comportamenti e  nelle coscienze degli esseri umani che questa vivono da protagonisti e che sono stati avviati verso di essa da un mondo in cui la scienza e soprattutto la tecnologia sono gli incontrastati padroni. Eco indiretto ,risonanza psicologica, scavo delle coscienze, che già sullo schermo, parecchi anni addietro si insinuarono in un genere popolare ed amato come il " western " trasformandolo da mero catalogo di lotte e di avventure in un cinema " maggiorenne ", cioè  capace di riflettere su di sé e quindi libero di atteggiarsi secondo l'estro creativo e la sensibilità dei suoi autori . Mi sembra , in quest'ordine di idee, di poter dire  che " Ad Astra", ricollegandosi  nell'ispirazione e nell'esito ad un altro grande  film di fantascienza di alcuni anni fa, "Zardoz"  di John Boorman, si avvicini per intensità di analisi non disgiunta da grande splendore formale a quelle opere che,rompendo l'involucro ( la categoria, il genere) nelle quali rischiavano di venire incapsulate, sono riuscite a conquistare pienamente la loro autonomia artistica.

Per situarci subito nella dimensione temporale del film , sullo schermo appare, nella prima inquadratura, la dicitura sibillina " Nel futuro prossimo ", accompagnata dalla chiosa " un'epoca di intelligenza e di amore ", così tanto per renderci curiosi di vedere cosa sia questa specie di epoca dell'oro che ,inesorabile, ci attende. Ed incominciamo a scoprire il protagonista, Roy,  un'astronauta appena reduce da una  rischiosa operazione (riparare con successo un'avaria di un'astronave spaziale aggravata da una misteriosa tempesta di materiali cosmici che, diretti verso la terra , stanno ivi causando ingenti danni e molte perdite di vite umane ). Dopo pochi e reticenti elogi dei suoi superiori,  vediamo come egli venga  da costoro incaricato sull'istante di altra e ben più perigliosa  missione. Questa volta si tratta infatti di dirigersi, partendo dalla Luna, verso Marte per rintracciare una spedizione spaziale partita più di quindici anni prima per tentare di raggiungere quel pianeta e guidata da uno scienziato spaziale, McBride, da cui non si ricevono  più notizie e che potrebbe essere impossibilitata a fare rientro. Quando si pensi che McBride non è altro che il padre (peraltro molto assente ) di Roy, il quale spera  ancora che il genitore possa essere in vita, il nucleo drammatico del film è già bello e servito. Senza che vi riveli cosa succederà, se cioè Roy troverà suo padre e cosa si diranno, mette conto che si ponga attenzione invece  alla particolare atmosfera in cui si svolge la vicenda e che circonda il suo  protagonista. Di "intelligenza " l'ambiente dovrebbe essere pieno, visto che grazie ad essa l'uomo è andato nello spazio e ne ha conquistato sempre più ampie porzioni. Eppure lo sguardo ed il comportamento delle persone ( alti ufficiali o semplici assistenti ) che ruotano intorno a Roy esprimono più  pedissequa obbedienza a " protocolli " routinari, mitigata da una chiara insicurezza di fondo, che vivido fervore intellettuale. Quanto all' "amore ", non se ne vede grande traccia, sepolto dall'aridità dei rapporti umani che il gigantesco sforzo tecnologico della conquista spaziale, con la gerarchizzazione sempre più accentuata dei ruoli, ha probabilmente determinato. Insomma , o io ho capito male o lo sceneggiatore - regista Gray ci dà qui la maggiore critica riscontrabile in un film di fantascienza al sogno dell'uomo di arrivare sempre più in alto, di raggiungere traguardi iperuranei che lo facciano uscire dal nostro caro, vecchio pianeta Terra. " Ad astra ", appunto, verso le stelle. Gettando altresì , con l'occasione , uno sguardo obliquo a quella sovrastima delle conquiste tecnologiche sempre più avanzate che l'uomo pensa erroneamente possano dare risposta alla sua insoddisfazione esistenziale.

Che sia questo ciò che voleva dirci Gray è possibile, anzi probabile, vista la grande coerenza formale e contenutistica delle descrizioni ambientali, ispirate a toni plumbei, gravidi di ambiguità e di sottintesa minaccia. E tutta la vicenda di Roy alla ricerca del padre - novello Telemaco che soffre per l'assenza di Ulisse - è un pò l'epitome delle difficili relazioni  interpersonali in questa umanità del futuro : sottomessa, attenta a non turbare l'ordine costituito ma in acuta, dolorosa mancanza di reciproca " pietas ". Un paradigma molto bello, declinato da par suo da un grande cineasta come è ormai Gray. E non si storca il naso affermando che erano " meglio"  i primi film del regista ( magari " Little Odessa " o " I padroni della notte " ) perchè più articolati intorno ad  una tematica accattivante e di presa immediata ( la realtà della New York delle bande gangsteristiche degli immigrati ) che non le più recenti incursioni verso molteplici direzioni ( le spedizioni in contrade inesplorate  di " Civiltà perduta " o appunto la fantascienza di questo " Ad Astra " ). Oltre a testimoniare l'inesauribile vena artistica e la curiosità intellettuale di Gray, pronta anche a sfidare i " generi ", l'apparente erraticità del suo cinema trova un ancoraggio sicuro nelle costanti preoccupazioni dell'autore, che potremmo sintetizzare in due temi che da sempre ( e pertanto anche in " Ad Astra " ) costituiscono il nerbo concettuale delle sue opere. Da un lato il rapporto tra l'individuo e il gruppo, il desiderio di affrancarsi da parte del singolo opposto alla vischiosità dell'ambiente ove è costretto a muoversi. Dall'altra la dicotomia padre-figlio come espressione , anche qui di un vecchio mondo che deve cedere necessariamente il passo a quello nuovo. Ed a coronare il tutto la ricerca continua dell'amore come unico antidoto alle paure ed alle delusioni di una esistenza che espone l'uomo sempre di più ad una vita conflittuale, povera e alienante. Tutto questo , in " Ad Astra",  è ancora più evidente che nei film precedenti di Gray ed assume un rilievo plastico di grande forza ed intensità.
Gli adepti del genere  fantascienza  possono comunque stare tranquilli. Avranno tutti i motivi ed i passaggi narrativi classici che questo genere di film porta con sé : mistero, emozione, eroismo sapientemente dosati per consentire anche una lettura immediata e più semplice di una vicenda che , come ho cercato di dimostrare, si presta ad altra e più convincente decifrazione. Di Gray regista, creatore di forme cinematografiche piene, splendide nella loro bellezza, in questo film ce n'è quanto se ne vuole, a conferma della circostanza che , al cinema, quando si hanno le idee chiare è infinitamente più facile calarle in uno stampo esteriore di piena soddisfazione  e chiarezza per lo spettatore. Una parola sull'interpretazione. Brad Pitt ( che ha coprodotto il film ) è praticamente in scena dalla prima all'ultima sequenza. Simpatico, con un bel sorriso costantemente accennato ma pronto a trasformarsi in una smorfia di dolore, combatte vittoriosamente con un personaggio non facile, pugnace e al tempo stesso combattuto al suo interno, e ne rende convincentemente speranze e timori.