Autore nel 2003 di uno dei pochi film italiani che hanno saputo raccontarci il terrorismo degli "anni di piombo " ( " Buongiorno notte ", sul rapimento e l'uccisione di Aldo Moro ) Marco Bellocchio, ormai ottantenne, l' ultimo maestro vivente della nostra stanca, stanchissima cinematografia, torna alle indagini sulla storia italiana di questi ultimi anni. Un campo molto fertile ma tutt'altro che facile, stante l'opacità di molte vicende ed i misteri che aleggiano su alcuni dei personaggi di quegli anni . " Il traditore " affronta addirittura il problema della mafia, raffigurata in passato da pellicole di alterno valore e successo. E con essa la figura, centrale per le sue vicende a noi più vicine, di quel Tommaso Buscetta che permise più di trent'anni fa con le sue rivelazioni di capire la struttura ed il funzionamento di questo imponente fenomeno delinquenziale. Una organizzazione fino ad allora misteriosa e che Buscetta, nelle lunghe ore di interrogatorio condotto dal magistrato Giovanni Falcone, contribuì a sottrarre al velo di connivenze e di omertà di cui si era sempre vantaggiosamente ammantata. Centinaia, migliaia di omicidi rimasti senza un colpevole e soprattutto un mandante, traffici illeciti di ogni genere che accompagnarono per circa quarant'anni la trasformazione della mafia da associazione di mutuo soccorso contro lo Stato di stampo prevalentemente agricolo, contrassegnata da un preciso " codice d'onore ", a ricca e spietata multinazionale del crimine, radicata nelle città, sempre più psicopatica e sanguinaria. Buscetta fu la prima " gola profonda " che fece tremare molti capi di " Cosa Nostra " ( il vero nome dell'organizzazione ) e giunse a sfiorare le presunte ma tutt'altro che impossibili collusioni tra quest'ultima e i " palazzi " della politica.
Il film , presentato a Cannes due settimane or sono e subito immesso nel circuito italiano, sta avendo un ottimo successo di pubblico ed è stato accolto con generale favore dalla critica. Nulla da eccepire, lo dico subito. Il nostro cinema è in un tale stato pietoso (pensiamo a come se la passa invece quello francese ) che riuscire a vedere finalmente un film serio, che intende dipingere una realtà sgradevole eppure non risulta declamatorio, retorico o manicheo , che avvince dalla prima all'ultima sequenza ma che poco concede ad una facile spettacolarità, è già una lietissima sorpresa. Onore dunque al film di Bellocchio, nato da un suo soggetto originale ma certamente debitore delle inchieste giornalistiche , delle straordinarie interviste televisive o apparse sui giornali rilasciate dallo stesso Buscetta , dei filmati e dei resoconti scritti del " maxiprocesso" del 1986 a Palermo e degli altri dibattimenti in cui questi intervenne come "supertestimone". Tutto materiale che il regista - coautore anche della sceneggiatura - deve avere esaminato con cura e a cui si è voluto mantenere umilmente fedele. Ma che ha saputo ricostruire , reinventare quasi, in un'opera artistica di straordinaria intensità drammatica. Staccando, per così dire , il personaggio Buscetta dalla semplice cronistoria di violenze, lotte tra distinte fazioni, delazioni giudiziarie e connesse rappresaglie di quel determinato periodo e rendendolo protagonista di un'esemplare tragedia tutta italiana, ancor più che semplicemente siciliana. Un paese il nostro in cui, come sappiamo, la "famiglia ", quella elettiva, accanto e ancor prima di quella biologica - il gruppo, la corporazione, qualche volta la setta, la cosca - è la formazione sociale che finisce col riscuotere, mediamente, maggiore e più convinta adesione, sovente in contrapposizione o comunque in assenza di uno Stato troppo timido e ondivago. Un nero melodramma , in definitiva, come suggerisce talvolta la fotografia del film dalle cupe tonalità ed il roboante commento musicale, eccessivo ed un poco fastidioso , di ispirazione prettamente operistica, con tanto di coro del " Nabucco " in uno dei momenti più intensi.
Ed è qui che mi sento di avanzare qualche perplessità quanto alla " cifra " espressiva, al modo cioè con cui Bellocchio ha voluto rappresentare " Cosa Nostra ". Una congrega tristemente potentissima ed estremamente pericolosa. Ma infarcita al tempo stesso di tanta volgarità, " machismo " da strapazzo, cattivo gusto ed ignoranza da chiedersi come possa essersi imposta, ai tempi di Buscetta, su di un contesto sociale mediamente più articolato e complesso. Si dovrebbe forse vantaggiosamente ricorrere, qui, all'opinione di Leonardo Sciascia, il quale riteneva che l' indifferenza, quasi diremmo la " non belligeranza ", con cui i siciliani guardavano al fenomeno mafioso derivasse dalla loro incapacità di giudicare chi non avesse fatto loro " direttamente del male" . Comunque sia, un fenomeno lontano dalla materia tipica del melodramma cui Bellocchio ha voluto, mi sembra, artisticamente apparentarlo e che mi chiedo se meglio non si sarebbe giovato, vista la realtà implacabilmente descritta dallo stesso autore, di una chiave interpretativa più ricca di sfumature, basata magari sul " grottesco ". Quella, per dare un esempio, cui ricorre Shakespeare nel delineare i pur foschi delitti di un grande assassino e "mafioso" ante litteram come il Riccardo III della tragedia omonima. Il film, senza perdere nulla della sua forza drammatica, si sarebbe magari liberato un poco da quell'aura troppo romantica che il personaggio Buscetta fatalmente assume grazie al suo essere raffigurato quasi come un eroe , nonchè- probabilmente lo era - come un bravo padre ed un affettuoso marito. Facendo emergere però solo a tratti quel personaggio ambiguo e controverso che , pur preziosissimo collaboratore di giustizia ( dissociato ma non pentito ) indubbiamente è stato. Un uomo , per citare ancora Sciascia che di queste cose si intendeva,"che sente in pericolo la sua vita e vuole dalla parte della legge trovare vendetta e riparo ".
Ciò detto per dovere di completezza, mi schiero tra coloro che ritengono che " Il traditore" sia un bel film. Non un capolavoro come altri che Bellocchio ci ha dato, ma un'opera più che dignitosa, ben diretta e ancor meglio interpretata. Parlando di interpretazione, va certamente reso il dovuto a colui che riveste i panni del protagonista. Questi, Pierfrancesco Favino ( vincitore a Cannes del premio per il miglior attore ) ha studiato molto bene il suo personaggio, impostando la voce sino a darle una impressionante somiglianza con la particolare cadenza italo-sicula-brasiliana di un vero " boss dei due mondi " quale era definito Buscetta. Più a suo agio, forse, nei momenti di intimità familiare o nel quasi solenne e pacato dialogo con il giudice Falcone che in quelli più tragici e concitati, Favino è particolarmente bravo nelle scene processuali, nei quasi surreali " confronti " con Riina e con Pippo Calò, quando la sua forza tranquilla e la sua sottile ironia riescono a tenere a bada i colleghi mafiosi, stizziti e sorpresi della sua inopinata delazione. Altrettanto valenti mi sono sembrati tutti gli attori che interpretano i personaggi minori, in gran parte interpreti siciliani poco noti ma degni eredi di una ottima tradizione recitativa . Della musica e della fotografia ho già detto. Ho trovato tutto sommato inferiore alle aspettative la sceneggiatura, oltretutto un po' lunga e meritevole di qualche taglio. Cedendo alla moda dei film biografici più recenti, i " salti all'indietro " , anzi il continuo andirivieni tra il presente ed epoche cronologicamente precedenti, turbano lo spettatore e non aggiungono spessore drammatico ad una vicenda già intensa di per sé. Un film da vedere, anche per rendersi conto che non solo negli USA ma anche in Italia il fenomeno gangsteristico può essere incisivamente trattato al cinema, quando si abbia la forza espressiva e la capacità di creare veri personaggi e non solo " ombre cinesi " sullo schermo, come per nostra fortuna è riuscito indubbiamente a fare Bellocchio.
Il film , presentato a Cannes due settimane or sono e subito immesso nel circuito italiano, sta avendo un ottimo successo di pubblico ed è stato accolto con generale favore dalla critica. Nulla da eccepire, lo dico subito. Il nostro cinema è in un tale stato pietoso (pensiamo a come se la passa invece quello francese ) che riuscire a vedere finalmente un film serio, che intende dipingere una realtà sgradevole eppure non risulta declamatorio, retorico o manicheo , che avvince dalla prima all'ultima sequenza ma che poco concede ad una facile spettacolarità, è già una lietissima sorpresa. Onore dunque al film di Bellocchio, nato da un suo soggetto originale ma certamente debitore delle inchieste giornalistiche , delle straordinarie interviste televisive o apparse sui giornali rilasciate dallo stesso Buscetta , dei filmati e dei resoconti scritti del " maxiprocesso" del 1986 a Palermo e degli altri dibattimenti in cui questi intervenne come "supertestimone". Tutto materiale che il regista - coautore anche della sceneggiatura - deve avere esaminato con cura e a cui si è voluto mantenere umilmente fedele. Ma che ha saputo ricostruire , reinventare quasi, in un'opera artistica di straordinaria intensità drammatica. Staccando, per così dire , il personaggio Buscetta dalla semplice cronistoria di violenze, lotte tra distinte fazioni, delazioni giudiziarie e connesse rappresaglie di quel determinato periodo e rendendolo protagonista di un'esemplare tragedia tutta italiana, ancor più che semplicemente siciliana. Un paese il nostro in cui, come sappiamo, la "famiglia ", quella elettiva, accanto e ancor prima di quella biologica - il gruppo, la corporazione, qualche volta la setta, la cosca - è la formazione sociale che finisce col riscuotere, mediamente, maggiore e più convinta adesione, sovente in contrapposizione o comunque in assenza di uno Stato troppo timido e ondivago. Un nero melodramma , in definitiva, come suggerisce talvolta la fotografia del film dalle cupe tonalità ed il roboante commento musicale, eccessivo ed un poco fastidioso , di ispirazione prettamente operistica, con tanto di coro del " Nabucco " in uno dei momenti più intensi.
Ed è qui che mi sento di avanzare qualche perplessità quanto alla " cifra " espressiva, al modo cioè con cui Bellocchio ha voluto rappresentare " Cosa Nostra ". Una congrega tristemente potentissima ed estremamente pericolosa. Ma infarcita al tempo stesso di tanta volgarità, " machismo " da strapazzo, cattivo gusto ed ignoranza da chiedersi come possa essersi imposta, ai tempi di Buscetta, su di un contesto sociale mediamente più articolato e complesso. Si dovrebbe forse vantaggiosamente ricorrere, qui, all'opinione di Leonardo Sciascia, il quale riteneva che l' indifferenza, quasi diremmo la " non belligeranza ", con cui i siciliani guardavano al fenomeno mafioso derivasse dalla loro incapacità di giudicare chi non avesse fatto loro " direttamente del male" . Comunque sia, un fenomeno lontano dalla materia tipica del melodramma cui Bellocchio ha voluto, mi sembra, artisticamente apparentarlo e che mi chiedo se meglio non si sarebbe giovato, vista la realtà implacabilmente descritta dallo stesso autore, di una chiave interpretativa più ricca di sfumature, basata magari sul " grottesco ". Quella, per dare un esempio, cui ricorre Shakespeare nel delineare i pur foschi delitti di un grande assassino e "mafioso" ante litteram come il Riccardo III della tragedia omonima. Il film, senza perdere nulla della sua forza drammatica, si sarebbe magari liberato un poco da quell'aura troppo romantica che il personaggio Buscetta fatalmente assume grazie al suo essere raffigurato quasi come un eroe , nonchè- probabilmente lo era - come un bravo padre ed un affettuoso marito. Facendo emergere però solo a tratti quel personaggio ambiguo e controverso che , pur preziosissimo collaboratore di giustizia ( dissociato ma non pentito ) indubbiamente è stato. Un uomo , per citare ancora Sciascia che di queste cose si intendeva,"che sente in pericolo la sua vita e vuole dalla parte della legge trovare vendetta e riparo ".
Ciò detto per dovere di completezza, mi schiero tra coloro che ritengono che " Il traditore" sia un bel film. Non un capolavoro come altri che Bellocchio ci ha dato, ma un'opera più che dignitosa, ben diretta e ancor meglio interpretata. Parlando di interpretazione, va certamente reso il dovuto a colui che riveste i panni del protagonista. Questi, Pierfrancesco Favino ( vincitore a Cannes del premio per il miglior attore ) ha studiato molto bene il suo personaggio, impostando la voce sino a darle una impressionante somiglianza con la particolare cadenza italo-sicula-brasiliana di un vero " boss dei due mondi " quale era definito Buscetta. Più a suo agio, forse, nei momenti di intimità familiare o nel quasi solenne e pacato dialogo con il giudice Falcone che in quelli più tragici e concitati, Favino è particolarmente bravo nelle scene processuali, nei quasi surreali " confronti " con Riina e con Pippo Calò, quando la sua forza tranquilla e la sua sottile ironia riescono a tenere a bada i colleghi mafiosi, stizziti e sorpresi della sua inopinata delazione. Altrettanto valenti mi sono sembrati tutti gli attori che interpretano i personaggi minori, in gran parte interpreti siciliani poco noti ma degni eredi di una ottima tradizione recitativa . Della musica e della fotografia ho già detto. Ho trovato tutto sommato inferiore alle aspettative la sceneggiatura, oltretutto un po' lunga e meritevole di qualche taglio. Cedendo alla moda dei film biografici più recenti, i " salti all'indietro " , anzi il continuo andirivieni tra il presente ed epoche cronologicamente precedenti, turbano lo spettatore e non aggiungono spessore drammatico ad una vicenda già intensa di per sé. Un film da vedere, anche per rendersi conto che non solo negli USA ma anche in Italia il fenomeno gangsteristico può essere incisivamente trattato al cinema, quando si abbia la forza espressiva e la capacità di creare veri personaggi e non solo " ombre cinesi " sullo schermo, come per nostra fortuna è riuscito indubbiamente a fare Bellocchio.
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