lunedì 24 agosto 2020

DUE FILM SULLA CREAZIONE ARTISTICA : " SCARPETTE ROSSE " di Michael Powell ed Emeric Pressburger ( Regno Unito, 1948 ) / " LA FONTE MERAVIGLIOSA " di King Vidor ( USA, 1949 ) Unito, 1948 ) / " LA FONTE MERAVIGLIOSA

 E' possibile che i normali sentimenti  che prima o poi si fanno strada in ogni essere umano, ad incominciare dal più fondamentale di essi che è l'amore, non confliggano con la passione per la propria professione, la totale dedizione, il furore creativo che soprattutto- ma non solo -l'esercizio dell'arte  postula spesso in modo così impetuoso ed esclusivo ? Ecco un interrogativo bello e stimolante per la nostra riflessione. Un interrogativo che sovente proprio alcune vite di artisti, o  talune opere d'arte che di esso hanno fatto il loro nucleo essenziale,  hanno proposto alla nostra attenzione senza , ovviamente, poter offrire una risposta univoca e convincente. Perchè le scelte, nella vita come nella finzione sono pur sempre personali e , per fortuna, non tutte così radicali come quelle che vengono esposte in quelle opere o emergono da quelle biografie, consentendo cosi, nella prassi, vari tipi di soluzione, di arrangiamenti più o meno armoniosi, più o meno duraturi. Ma quando la passione  per la propria creazione o  per il percorso professionale che si è intrapreso, si fanno assoluti e totalizzanti, senza ammettere alcun compromesso, le cose diventano nettamente più difficili. L'uomo ( la donna ) lascia il posto al creatore, al  demiurgo pronto a tutto sacrificare per la propria impresa finendo così,  fatalmente, col travolgere spesso altri sentimenti, altre pulsioni, perfino altre vite umane.                        Due bellissimi film rivisti in questi giorni, purtroppo non in sala ma comunque in splendide copie digitali restaurate, mi hanno sorpreso perchè, indipendentemente l'uno dall'altro, trattano entrambi proprio questo tema così affascinante, offrendoci personaggi e vicende in cui esso assume forme certamente estreme ma di una pregnanza di significati e di una vivacità espressiva tali da emozionarci e restare impressi in noi lungamente dopo la visione. Pregio , quest'ultimo, che è indice di grande , grandissimo cinema. E questi due film , oltre a rappresentare un apice delle carriere artistiche dei loro autori, sono per me da includere certamente in quella ristrettissima cerchia - non più di un centinaio di opere - che racchiude i migliori film di ogni tempo e di ogni latitudine.  Girati, anche qui sorprendentemente, a pochi mesi  ma a molti chilometri di distanza tra di loro, uno ad Hollywood l'altro in Gran Bretagna senza , ritengo, che il secondo - che è stato concepito temporalmente per primo - potesse influenzare l'altro tanto sono diversi gli stili e le ambizioni che li animano,  essi appaiono peraltro meravigliosamente uniti dall'identità del tema e dal suo impetuoso, inarrestabile svolgimento. E se quello girato negli Stati Uniti ha un luminoso lieto fine ( imposto in realtà dai produttori ed accettato " obtorto collo " dal regista ) e l'inglese, invece, un finale decisamente più tragico, non va trascurato il  loro identico assunto: l'esercizio, ad alto livello, di una attività artistica o comunque creativa ed autonoma incide prepotentemente sul proprio vissuto, sul rapporto con gli altri. Anche se è spesso fonte  di compiuta autorealizzazione e di grandi soddisfazioni personali  esso non può  che entrare in conflitto non solo con gli altri ma con le nostre stesse ed altrettanto profonde aspirazioni. Ancora una caratteristica non da poco che accomuna i due film e che ne giustifica la loro piena riuscita estetica è la totale corrispondenza tra il loro assunto drammatico e le forme in cui questo viene reso manifesto. Il contrasto, come si è detto più volte, tra il desiderio di libertà da ogni costrizione e quasi di sopraffazione indotto dalla creazione artistica  e, dall'altro lato, la difficile esigenza di armonizzare, di fondere la nostra vita con quella degli  esseri che vivono insieme a noi  trova nelle immagini, nel dialogo, nella recitazione degli attori, un perfetto, coerente  modulo espressivo. Dalla fotografia, ai movimenti di macchina che dettano le varie inquadrature, alla scenografia, alla musica di accompagnamento : tutto è splendido, funzionale al racconto e dà piena testimonianza di due opere d'arte ( mai definizione per dei film fu più meritata ) di assoluto valore e di grande impatto emotivo. Difficile non gioire per tanta perfezione tecnica e non commuoversi per tanta bellezza che scorre sotto i nostri occhi.

" Scarpette rosse " ( " Red Shoes " ) è uno dei frutti della totale, intensa collaborazione artistica che legò per una quindicina d'anni due cineasti britannici, Emeric Pressburger ( di origine ungherese come tanti protagonisti della storia del cinema mondiale ) e Michael Powell. Se il primo era più propriamente tagliato per le sceneggiature dei film firmati poi come registi da entrambi, il secondo aveva uno spiccato talento visivo che mostrò anche da solo, prima e dopo il periodo di sodalizio con l'amico. Convinti propugnatori di un cinema " totale "- che riunisse il meglio della fotografia e della tecnica delle immagini in movimento, della scenografia e della pittura, della danza e della musica, considerati essenziali e alla pari -  Powell e Pressburger girarono insieme una dozzina di film di valore ineguale ma tutti illuminati dal loro stile, dalla grazia e dalla intelligenza che essi  profusero a larghe mani. " Scarpette rosse ", che è del 1948, è concettualmente meno ambizioso, forse , di altre loro creazioni. Ma certo è di una assoluta perfezione e di una totale coerenza contenutistica e formale. Ispirandosi ad una fiaba di Hans Christian Andersen , ampliata e rivissuta in chiave contemporanea, ha come personaggio principale una giovane ballerina di grande ma ancora inespresso talento che , scoperta e valorizzata da un esigentissimo impresario che vive solo per l'arte,  è indotta a barattare la sua autonomia ed i suoi sentimenti con quel successo che finirà col travolgere la sua stessa esistenza. E che  trascinerà  via con sè anche l'amore tra lei ed il giovane  musicista e compositore che, egoisticamente infatuato a sua volta della propria arte e della propria carriera, aveva in fondo contribuito così al naufragio della parabola  umana di entrambi. Un triangolo non necessariamente di significato erotico in ognuno dei rapporti che legano i personaggi tra di loro. Ma indubbiamente basato  ( specie nei due personaggi maschili ) su di una comune visione egocentica e dionisiaca della  propria realizzazione professionale, incompatibile in definitiva con qualunque genuino e costante scambio d'amore con gli altri fondato sul concetto di "dono". Una storia altamente drammatica ma ,conformemente allo stile dei due registi, circonfusa egualmente di grande bellezza , eleganza, equilibrio tra momenti più  o meno sereni, umorismo ed armonia dell'insieme. Qualità che emergono spiccatamente, all'interno del film,  nella lunga sequenza del balletto dal titolo appunto di " Scarpette rosse ", messo in scena dall'impresario e danzato dalla giovane ballerina che vi trova la sua prima, smagliante consacrazione artistica. Una sequenza da applausi a scena aperta per l'inventiva, lo splendore visivo, la fruttuosa partecipazione collettiva di tutti coloro che vi hanno contribuito.Ed oltre alla performance della ballerina, la giovanissima Moira Shearer alla sua prima importante prova cinematografica, metterà conto di citare almeno lo scenografo Hein Heckroth, inventore delle frequenti " aperture " della ribalta del teatro dove si suppone venga messo in scena il balletto in meravigliosi e sempre sorprendenti scenari fantastici in cui, quasi per magia , viene di colpo trasportata l'azione scenica . E come non concedere una menzione d'onore ancora al direttore della fotografia , il grande Jack Cardiff, che ci regala un technicolor dalle raffinate tinte pastello , ricche di chiaroscuri come se si trattasse di un bianco e nero e non di un film a colori. Regia, interpretazione, scenografia , fotografia , tutte contribuiscono ad offrirci uno spettacolo raffinatissimo, di grande classe. Ma, soprattutto queste componenti sono sempre perfettamente sincroniche all'atmosfera della vicenda , ai significati che i due sceneggiatori-registi intendono infondervi. Una simbiosi di forma e di contenuto quale rare volte è stata realizzata al cinema.E non mi sembra poco.

Diverso lo stile e le ambizioni del regista USA King Vidor nel girare la trasposizione del romanzo di grande successo " The Fountainhead "( letteralmente " La sorgente ", conosciuto da noi, al pari del film, con il titolo " La fonte meravigliosa " ).Scritto nel 1946 da Ayn Rand , una russa naturalizzata americana, già autrice dieci anni prima del forte romanzo antisovietico " We the living " da cui nell' Italia del 1941-42 erano stati tratti due straordinari melodrammi,  "Noi vivi " e " Addio Kyra ! ", il libro era popolarissimo negli Stati Uniti per la personalità dell'autrice e per le teorie individualistiche da essa propugnate. Ed anche Vidor dovette restare affascinato dal personaggio principale, l'architetto dalle idee rivoluzionarie Howard Roark (liberamente ispirato alla figura del grande Frank Lloyd Wright ) che sentiva in qualche modo vicino al suo credo artistico teso in quel momento alla valorizzazione del creatore , del demiurgo , così nel cinema come nelle professioni liberali e negli affari. I produttori , come era normale ad Hollywood a quei tempi, per quanto convinti che egli fosse il regista adatto a trasferire il romanzo sullo schermo, non gli concessero dopo l'assoluto dominio del suo lavoro. Salvarono per motivi commerciali intere sequenze e soprattutto inquadrature di sapore marcatamente erotico che Vidor avrebbe voluto togliere in sede di montaggio e pretesero da lui un lieto fine con il definitivo trionfo del travagliato rapporto tra il protagonista ( interpretato da un carismatico Gary Cooper ) e la donna amata ( una Patricia Neal in versione "vamp ", al suo quasi esordio ). Occorre dire che almeno quella volta i produttori videro giusto. L'esplicita reciproca attrazione carnale tra i due personaggi principali risulta tra le cose figurativamente più belle dell'intero film e la sequenza finale che vede Patricia Neal salire letteralmente in cielo per ricongiungersi a Gary Cooper ( percorrendo con un montacarichi esterno la vertiginosa altezza del grattacielo costruito da Roark , il quale l'attende alla sommità in atteggiamento di trionfatore ) è esagerata ma di sublime bellezza. Anche in " La fonte meravigliosa " il conflitto tra fuoco della creazione artistica, esaltazione dell'individuo che osa e produce, e la vita ordinaria, i sentimenti "borghesi " è portato al parossismo, come già in " Scarpette rosse " . E vi è anche qui un triangolo, certamente più esplicitamente erotico, tra l'architetto, la donna amata ed il ricchissimo magnate, egualmente preso di sé e della sua opera , che salverà l'architetto dalla catastrofe professionale ma gli toglierà la donna amata. Niente atmosfere leggere, fantasiose, ricche di ironia come in " Scarpette rosse " ( qui predomina il melodramma ed in certi punti quasi la tragedia greca ). Ma l'analoga sorprendente lotta tra l'individualità tesa nel suo sforzo creatore e le lusinghe di un mondo convenzionale e " normale ", che ripropone il tema sempre attuale della difficoltà per l'essere umano volto alla realizzazione di un progetto totalizzante di entrare in convinta, armoniosa simbiosi con l'ambiente circostante, gli altri esseri umani, il mondo.                                                                                                                                            "La fonte meravigliosa " può apparire come un film " reazionario " per il suo assunto un po' troppo intellettualistico ed elitario in cui rischiava di confinarlo il romanzo di Ayn Rand da cui prende le mosse. E, forse anche per questo, non è particolarmente amato da una certa critica, specie quella francese collocata più a sinistra. Ma fermarsi al suo tema centrale, pur svolto con grande onestà e coerenza stilistica da un Vidor  nella sua fase più  individualistica e "ribelle" ( si pensi al coevo " Peccato " e, andando indietro, a " Duello al sole"   e , pochi anni dopo, a " Ruby Gentry " ) significherebbe farsi sfuggire i valori plastici del film, il superbo ritmo narrativo ricco di  brillanti ellissi , i movimenti di macchina audaci ma sempre giustificati dal " partito preso " ideologico-stilistico del regista, l'impressione infine per lo spettatore di una creazione a tutto tondo tesa a raggiungere valori estetici di inusitato splendore. Che dire della fotografia  ? Opera di Robert Burks, il direttore più amato da Hitchcock che gli affidò ben dodici film, è un rutilante bianco e nero  a tratti ricchissimo di drammatici contrasti, ma anche di morbidi sapientissimi toni, che accentua quell'atmosfera barocca e genialmente " sopra le righe " che è in tutte le opere di Vidor di quel periodo.  In definitiva, anche qui grandissimo cinema.Un genere con cui, in quegli anni, non era infrequente un felice incontro.













2 commenti:

  1. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

    RispondiElimina
  2. e che il film https://cb01nuovo.net ha esattamente ragione: il peccato è un miserabile tentativo di trovare una fonte di speranza, accettazione, significato e gioia senza Dio

    RispondiElimina