domenica 27 novembre 2016

"L'asso nella manica " di Billy Wilder ( USA , 1951 )


Ho già avuto modo in precedenza di esprimere tutta la mia ammirazione per Billy Wilder, il regista di Holliwood - tra i grandi del passato - che , con Hitchcock, mi è più congeniale.Con Wilder, che questi scriva e diriga commedie ( " L'appartamento " , " Baciami stupido " ) oppure drammi ( " Giorni perduti ", " Viale del tramonto " ) si va sempre sul sicuro. La sua onestà nei confronti dello spettatore, considerato non uno stupido da incantare con qualche giochino puramente formale ma un essere dotato di normale capacità di giudizio, ne fanno un costruttore di immagini , anzi di forme cinematografiche tra i più sinceri ed amati dal pubblico. Piace la forza e la dirittura morale del suo cinema, accoppiate ad un garbo- anche nella satira o nella critica più accesa- che tradisce la sua appartenenza ( era di origine austriaca ) a quella società mitteleuropea che, anche nella catastrofe, non è venuta meno ad un intenso amore per la vita e ad uno stile elegante e sottile.
Questa settimana non sono andato al cinema. Sbaglierò ( e chiedo scusa a quelli che la pensano diversamente ) ma non ho trovato film in uscita di un qualche interesse. Nè quelli ancora in programmazione e che non ho visto hanno saputo indurmi in tentazione. Andrà sicuramente meglio in dicembre , ho pensato, con l'arrivo, una dietro l'altra, delle ultime opere di Clint Eastwood, Xavier Dolan ( quello di " Mommy " , per intenderci ) e Stephen Frears. Sono stato quindi costretto - ma è tutt'altro che un ripiego- a guardarmi un DVD sul televisore di casa. E la scelta,per non commettere errori, non poteva che cadere su un vecchio film di Wilder. " L'asso nella manica ", uscito nel 1951, ebbe successo a suo tempo per l'interpretazione di Kirk Douglas e per un soggetto particolarmente " forte " : gli eccessi della stampa a sensazione di stampo americano a fronte della banalità delle tragedie a cui ci espone la nostra condizione umana. Non lo vedevo da parecchio tempo e una seconda analisi mi ha convinto, poche ore fa, che Wilder, anche quando non è in un vero stato di grazia, rimane sempre un valore sicuro sul quale rifugiarsi quando l'attualità cinematografica non ci appare particolarmente stimolante.
La pellicola, un rigoroso bianco e nero, è ambientata nello Stato del New Mexico , desertico in gran parte e - almeno pochi anni dopo la fine della guerra-senza particolari attrattive. Gente semplice, popolazione con forte presenza ispanica , qualche autoctono di origine indiana, insomma una America rurale che il progresso aveva appena sfiorato.La storia inizia, alla prima inquadratura, con l'arrivo nel capoluogo di un giornalista millantatore, molto sicuro di sè ( Douglas , appunto ) che , cacciato per le sue intemperanze dai principali quotidiani della costa orientale è costretto a cercarsi un impieguccio nel giornale locale ( L' " Albuquerque Sun ", e scusate se è poco ). Chuck Tatum, questo il nome del gazzettiere esiliato, morde il freno nella cronaca locale ( inaugurazioni di mostre floreali, caccia ai serpenti nel deserto e via di seguito ) e sogna di rilanciarsi nel circuito della stampa che conta ( New York, Boston , Chicago ). Perchè questo si avveri gli ci vorrebbe però uno " scoop " , come si dice, una grande esclusiva su un qualche fatto capace di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica nazionale, altro che i tranquilli lettori dell'organo che al momento lo impiega per poca pecunia.
La fortuna sembra assisterlo quando, in una sperduta località semidesertica dove è stato inviato dal giornale per coprire uno dei tanti fattarelli di cui è costretto ad occuparsi, si imbatte in quello che è , o almeno potrebbe diventare, un caso finalmente degno di nota. Un povero agricoltore mezzo messicano ,di nome Leo Minosa, proprietario di un piccolo posto di ristoro e di una pompa di benzina eternamente privi di clientela, è rimasto intrappolato da una frana in uno scavo abusivo da lui ricavato alla base di una modesta altura ( la " Montagna dei sette avvoltoi ", probabilmente un antico sepolcro indiano ) per permettergli di trafugare qualche modesta ceramica funeraria da rivendere agli scarsi turisti che si avventurano in quel luogo. Fiutando il colpo giornalistico , Tatum organizza le cose per benino. Conquistata la fiducia del disgraziato Leo, diventa una sorta di tramite obbligato tra questi ed il mondo " di fuori ", si fa raccontare tutta la sua storia e lo trasforma, inviando cronache molto pittoresche al suo giornale,in una sorta di " eroe quotidiano " che ben presto cattura l'interesse e la trepida ansia dei lettori per la sua sorte, sospesa- secondo quanto racconta il furbo giornalista- tra la vita e la morte. In realtà Leo potrebbe essere salvato molto presto con tempestivi interventi di rafforzamento della galleria in cui è rimasto prigioniero. Ma per creare un vero caso nazionale che tenga a lungo tutti col fiato sospeso ed attiri l'attenzione della grande stampa Tatum non esita a fare in modo che i soccorsi scelgano una strada più lunga e perigliosa ( un improbabile traforo a partire dal vertice dell'altura ).

Le cose, intanto, sembrano mettersi bene per l'audace e cinico giornalista, ormai sotto tutti i riflettori e nuovamente conteso dalle principali testate nazionali che gli offrono di lavorare con loro a suon di bigliettoni ( " voglio anche trovare sul mio tavolo di lavoro " - dice lo sfacciato al telefono, non contento, ad un direttore di giornale che a suo tempo l'aveva licenziato- " un mazzo di fiori ed un biglietto con scritto sopra bentornato ! " ). A questo punto non proseguo nel raccontarvi la storia ( che sceneggiatura di ferro, ricca di colpi di scena , coesa nello sviluppo della vicenda ! ) e vi lascio il compito di scoprire da voi, se già non lo sapete, come andrà a finire.Qui basti dire che le inquadrature che accompagnano il crescente interesse - forse sarebbe meglio dire l'attrazione morbosa - che esercita la storia del povero Leo su di una massa di persone facilmente influenzabile dai " persuasori " non tanto occulti dei media dell'epoca ( stampa, radio , la nascente televisione ) descrivono in modo magistrale la trasformazione del povero borgo dove è intrappolato il disgraziato agricoltore. Folle di gitanti con famiglie, accampati con tende e roulottes nell'attesa degli sviluppi della vicenda ( che non sospettano essere stati artatamente rallentati ) giornalisti senza scrupoli o rispetto verso il dramma che si sta svolgendo, speculatori di ogni genere , autorità locali preoccupate unicamente della pubblicità che possono ricavarne.Un coacervo di spietati traguardi personali, di brame fin troppo evidenti, alimentate- si diceva- da una stampa pronta a raccontare bugie e a tradire così quelli che dovrebbero essere i propri doveri verso l'opinione pubblica in una democrazia ben ordinata.
Critici troppo frettolosi e forse prevenuti verso Wilder hanno tratto spunto da queste inquadrature- forti, a volte quasi insostenibili - per rafforzare il loro convincimento di un regista de l' " Asso nella manica " solitamente cinico, volgare ,con poca empatia verso la gente comune, fortemente misogino ( qui la moglie del povero Leo ci fa una figura davvero molto, molto negativa ).Nulla di più falso, e vi invito a constatarlo voi stessi. Gli uomini - e le donne - sembra dirci il grande Billy , e più che " dircelo " ce lo mostra, come deve sempre fare il cinema , arte visiva per eccellenza- non sono nè buoni nè cattivi. Sono le circostanze che possono renderli tali , e soprattutto gli esempi, le ispirazioni che essi possono trarre dalle persone che ci guidano o ci influenzano ( la cattiva stampa, sensazionalistica e disonesta, appunto, " versus " gli organi di informazione che hanno scopi meno commerciali ed a cui si può prestar fede ).E quando ci mostra una donnetta che addolorata per il povero Leo diviene forse improvvisamente consapevole che il grande carnevale costruito intorno alla sua sorte è fasullo ed ingiusto, si stringe piangendo al marito anch'egli improvvisamente pensoso, Wilder ci regala immagini forti che ci fanno capire quanto egli creda in realtà negli esseri umani , i piccoli , gli umili, nella loro capacità di intuire dove sia la verità e la giustizia. Americano di adozione, egli non si fa illusioni su quanto di sbagliato e di pericoloso ci può essere nel " sogno " a stelle e strisce. Ma sente profondamente che una società libera e permeata da grandi valori ha gli anticorpi per poter resistere e , all'occorrenza, faticosamente trionfare.
Un film positivo, dunque, contrariamente a quanto potrebbe apparire, drammatico, acre nella critica verso i misfatti di una certa informazione ( forse il più violento atto di accusa , in questo senso, che si sia visto al cinema ) ma largamente ottimista sulle possibilità di redenzione dell'essere umano posto di fronte alle piccole e grandi tragedie della vita. Quello di Wilder, non mi stancherò di ripeterlo è un cinema umanistico , in definitiva, L' " Asso nella manica " è grande cinema , a dispetto del suo essere probabilmente inferiore ai capolavori del regista che ho ricordato all'inizio. Leggermente appesantito da una recitazione a tratti un pò istrionica da parte di Douglas ( la sua rimane peraltro una gran bella " performance " ) e da una scena finale un pò troppo melodrammatica, il film si raccomanda - oltre che per la sceneggiatura- per un ritmo serrato , inquadrature sempre efficaci ( vedasi la sequenza dell'arrivo di Tatum all' " Albuquerque Sun " ) e un dialogo pieno di sfumature e dal solido impianto narrativo. Insomma , un film da vedere ( e come " bonus ", almeno nel DVD che ho comprato io e che è appena uscito, una sontuosa intervista a Wilder, realizzata negli anni ' 70, dal critico francese MIchel Ciment ) . Qui a Milano l'inverno batte ormai alle porte . Cosa volere di più ?

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