giovedì 16 maggio 2019

" I FIGLI DEL FIUME GIALLO " di Jia Zhangke ( Cina, 2018 )

Il cinema cinese- come tutto quello orientale in genere -  non ha mai potuto eludere l'obiettivo di conciliare modi e tempi tipici della propria tradizione culturale, del proprio modo  di affrontare il problema della rappresentazione della realtà, con le " ragioni " del cinema occidentale, cioè del prodotto di una cultura e di una esperienza di vita che hanno  radici ed orizzonti assai diversi. Voglio dire, con questo, che anche il più " moderno " dei film orientali ( cinese , giapponese , coreano, non importa ) deve fare i conti con l'eredità di un passato culturalmente ricchissimo, insopprimibile e per noi forzatamente lontano. Dando vita, quindi, ad un esperimento tanto più interessante quanto sottende una sorta di lotta o se preferite di dialettica, più o meno consapevole, tra il patrimonio "genetico" da cui forzatamente prende le mosse e la direzione , a volte modernissima, nella quale la personalità dei cineasti autoctoni tende avventurosamente a spingersi . Connubio di classicismo e di modernità, i film cinesi degli ultimi quarant'anni ( dal tramonto di quel maoismo che aveva completamente demonizzato ll mondo occidentale ad un oggi , ancora politicamente ambiguo, ma in cui si sono -per così dire - rotti gli argini che separavano la loro dalla nostra civiltà ) non finiscono di stupirci per il modo con cui essi riescono ad integrare, in ultima analisi, sia il peso delle origini che le esigenze di una cinematografia più aderente alle preoccupazioni odierne e al modo di dar conto di queste sul terreno della " finzione ".

Jia Zhangke ( " Still life "  che fu vincitore a Venezia nel 2006, " Il tocco del peccato " , " Al di là delle montagne " ) è un regista ancora relativamente giovane ( 48 anni ) ma che ha ormai conquistato uno statura internazionale. Il suo ultimo film , presentato a Cannes proprio un anno fa ma solo ora distribuito commercialmente in Europa, è un ottimo esempio di quanto dicevo prima. Impossibile non scorgere infatti, nella  sceneggiatura opera dello stesso Jia o nella recitazione degli attori o ancora nella particolare durata di alcune inquadrature , l'influenza di una lunga e ricca tradizione originaria, fatta di attese, di apparenti tempi morti, di atteggiamenti ieratici. Al tempo stesso, l'attrazione evidente che egli avverte per il " canone " occidentale ne fa un autore di inquieta, modernissima sensibilità, corposo ed articolato quanto basta e quindi particolarmente godibile per noi spettatori di questa parte dell'emisfero. La storia è quella di un " amour fou " ma sostanzialmente a senso unico di una donna, Qiao,nata in un ambiente modesto di minatori  di una regione del nord della Cina , per un uomo, Bin, che da capo della piccola ma fruttuosa malavita locale si trova a precipitare, per colpa dell'avversa fortuna, in una condizione di povero sciancato appena compatito e sopportato da tutti. Non così però  per Qiao, che continua pervicacemente ad amarlo e ad aiutarlo anche quando Bin si sottrae, si nasconde, tenta di sfuggire all'amore assoluto della sua compagna. Sullo sfondo della vicenda - ma vera protagonista essa stessa - la realtà cinese degli ultimi dieci-quindici anni : i tumultuosi cambiamenti che hanno visto la forzata modernizzazione del paese, la crescente marginalizzazione di vecchie comunità locali impegnate in settori economici obsoleti, l'irrompere sulla scena di una piccola e media borghesia avida di benessere, il rigore delle istituzioni e il lassismo crescente dei legami sociali.

Ed è questa, senza dubbio, la componente del film che salta maggiormente ai nostri occhi e che ci spinge a più di un " oh " di meraviglia quando vediamo cose ( le pacchiane discoteche che scimmiottano quelle di casa nostra, la licenziosità dei costumi, l'invadente ed inarrestabile occidentalizzazione dell'ambiente circostante ) che avrebbero fatto rabbrividire il " Grande Timoniere " se solo avesse potuto immaginarle sovrapposte alla Cina frugale, morigerata ed egualitaria dei suoi sogni totalitari. Il proliferare delle piccole e grandi sette mafiose, la corruzione e il vortice di " mazzette " per ogni cosa, la violenza e la maleducazione della popolazione specie giovanile , sembrano farla da padrone in un contesto socioeconomico mobilissimo e senza più punti di riferimento, salvo quello di una autorità statuale la quale, per continuare ad avere in pugno la situazione ed evitare l'anarchia totale, è costretta a tenere le briglie sciolte e a colpire a caso ogni tanto. A persone poco familiari, quale io sono, dell'odierna realtà  cinese, questo melodramma di Qiao e Bin, esteso sull'arco di più di quindici anni di vicende private e pubbliche, fa l'impressione di un film americano degli anni quaranta-cinquanta. Un pò Howard Hawks per la descrizione nervosa, puntuale, dei maneggi e degli andirivieni delle tante formichine impazzite che si muovono nella realtà del paese. Un pò Douglas Sirk per la sorniona ma ariosa descrizione dei tormenti psicologici e comportamentali  dei personaggi.

Il film, al di là dell'interesse quasi documentaristico che inevitabilmente finisce con l'assumere per noi occidentali, si raccomanda per la capacità di articolare la vicenda su di un esteso arco temporale , facendo ricorso ad un procedimento ellittico quanto mai efficace ( si veda il passaggio, in poche ma significative inquadrature dall' aggressione ai dinni di Bin al viaggio di Qiao per ritrovare l'amato dopo ben cinque anni di forzata interruzione del rapporto ).Il regista cerca, con tutta evidenza, di creare figure solide, di conferire al suo cinema uno spessore  che lo sottragga alla semplice descrizione anedottica per approdare all'olimpo della grande "narrativa" figurativa , quella per intenderci dei Welles e dei Rossellini, dei Renoir e dei Wilder. E ci riesce quasi sempre, sposando  moduli  tipici della rappresentazione orientale (ad esempio lunghe inquadrature sul volto dei personaggi principali ) con ritmi espositivi più fluidi e tali da imprimere al film  una salutare scorrevolezza. Nella storia di Qiao e di Bin si sente un respiro vasto che è quello della Cina, con la sua storia millenaria, con il sacrificio di centinaia di milioni de suoi abitanti, con il senso profondo di un fato che avvolge ed indirizza inesorabilmente l'esistenza di ogni uomo e di ogni donna. E per rendere tutto questo in modo appropriato necessitavano grandi attori. Cito solo la bella e brava Zhao Tao, che interpreta la magnetica Qiao , perchè moglie ed attrice preferita di Jia oltre che "star " di rinomanza continentale.Unico difetto del film, anche qui ( e non mi stancherò mai di farvi riferimento ) è la durata oltre le due ore canoniche , sforate  di ben sedici minuti senza che tale " extra time " aggiunga realmente qualcosa ad una vicenda che -pur facendo la tara alla sua forzata dilatazione dovuta al gusto orientale - si sarebbe probabilmente avvantaggiata di qualche taglio od almeno profonda limatura. Ma accontentiamoci, giacchè  vale la pena di ammirare l'opera anche così com'è.

3 commenti:

  1. Ho visto il film, condivido pienamente le sue parole, ciò che emerge è la realtà cinese che deve fare i conti con l’occidente, ma il regista ha saputo raccontare una storia d’amore con un linguaggio universale, non mi sono accorta della lunghezza, ho associato la lentezza della cinepresa al sentimento che si trasforma nel tempo e assume un altra dimensione. Grazie ancora se non lo avesse segnalato non sarei andata a vederlo!!!

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    1. Grazie, carissima amica .A presto !

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  2. è che le persone giuste sono in qualche modo significativamente diverse da me, ma anche per imparare i pensieri giusti https://cineblog01.casa dai film...

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