Perchè alcune commedie al cinema funzionano bene ( tutte quelle di Billy Wilder o di Blake Edwards, ad esempio ) ed altre assai meno ? Qual'è il segreto per far "montare"- sì, proprio come la panna - una storia piacevole, destinata a farci passare due ore con quella serenità e quell'ottimismo che certe volte chiediamo ad un cinematografo inteso semplicemente come benigna ed inesauribile " fabbrica dei sogni" ? Due film che mi è capitato di vedere a distanza di pochi giorni uno dall'altro sembrano in grado di darci qualche schiarimento in proposito. Che il primo, di cui vi consiglio caldamente la visione, sia il frutto di un sistema produttivo prolifico e ben collaudato mentre il secondo, per cui non saprei fare altrettanto, provenga da una piccola industria senza grandi precedenti in materia, potrebbe sembrare una circostanza, tutto sommato, ininfluente .E non dico che, in questo, non vi sia un pizzico di verità. Anche una cinematografia marginale, con pochi film all'attivo, può riservarci ogni tanto una piacevole sorpresa. Più facile però che ci dia qualche opera coraggiosa nel registro drammatico che in quello leggero e sentimentale. Per i film che facciano ridere o almeno sorridere, meglio, molto meglio, andare a cercarli- parlo del cinema occidentale - nella mastodontica produzione USA o in quella francese ( un tempo sarebbe stato così anche per quella di casa nostra , ma si sa come è andata a finire ).
Ecco, prendiamo il cinema americano, così entriamo subito in argomento per quanto riguarda l'ottimo " Big Sick ". A parte le opere destinate, in prima battuta, al grande schermo, laggiù la macchina produttiva oggi lavora soprattutto per la televisione : " sitcom " e serie di tutti i generi, con una cospicua presenza di commedie, storie leggere fatte per farci divertire, consolarci magari ( e qui è il loro limite, ne sono consapevole). Ma che fucina di sceneggiatori e " battutisti ", che palestra di attori ed attrici, protagonisti o semplici comprimari ! Hollywood stava morendo - e, in verità, non se la passa ancora bene - se la televisione non avesse infuso nuova vita, nuovo vigore intellettuale ed artistico nell'intero sistema. D'accordo, una bella fetta dei programmi televisivi di " fiction " sono modesti ed alcuni addirittura esecrabili. Ma ne restano tanti altri di ottima fattura e che hanno rinnovato quei " generi " che erano la forza del cinema dei bei tempi che furono. Tra questi, in primo luogo, proprio la commedia. Stimolata dalla continua crescita di scrittori di testi di ottimo livello, per le varie " sitcom " televisive o i " talk show" di intrattenimento , la commedia è nuovamente tornata sugli schermi ed ha arricchito e rivitalizzato un " filone " che sembrava a corto di talenti e di idee. Certo, ormai una commedia come " Ninotchka "( Lubitsch, 1939 ) o anche solo " Victor Victoria " ( Edwards, 1983 ) non la si saprebbe ( o potrebbe ) più concepire. I gusti delle più giovani generazioni - il nerbo dei frequentatori delle sale cinematografiche - sono cambiati e diverso è il meccanismo che suscita interesse, induce simpatia e coinvolgimento nelle vicende e nei personaggi. Ma film, anche recentissimi, capaci di farsi ammirare senza offendere la nostra intelligenza e di unire, nello spazio di una proiezione, le vecchie e le nuove categorie di spettatori ce ne sono ancora. Cambia il ritmo, le battute sono più rapide e un tantino pepate, si ride in un modo diverso. Ma ci si continua a divertire. Ed è il caso di questo " Big Sick " ( titolo originale rimasto invariato per la distribuzione in Italia ) prodotto da quel Judd Apatow che , come sceneggiatore e regista, aveva già dato interessanti prove del suo talento a cavallo tra televisione e cinema.
La sceneggiatura , scritta dal comico di origine pakistana Kemail Nanjiani e dalla moglie Emily Gordon, non è altro che la narrazione della vicenda personale della coppia, cioè di un sodalizio costituitosi attraverso non poche difficoltà da superare : l' incapacità di Kemail di sottrarsi alla cultura d'origine e alla propria famiglia ligia alle tradizioni anche dopo l'ingresso negli USA , una grave ed improvvisa malattia di Emily, la diffidenza poi venuta meno dei genitori di lei nei confronti del giovane immigrato. Storia vera ma roba vecchia, verrebbe fatto di dire, pensando che non è certo la prima volta che il cinema ci rappresenta -ora in chiave leggera ora in chiave più drammatica - differenze " etniche " tra innamorati, incomprensioni di coppia su cui influiscono le famiglie, persino malattie che rischiano di mettere la parola fine ad una bella storia d'amore. Un pò " Indovina chi viene a cena ", un pò " The perfect couple " di altmaniana memoria e non senza un pizzico del lacrimoso " Love Story ", questo " Big Sick " riesce ad evitare, in realtà, tutti gli scogli del " copia incolla " in agguato e se la cava brillantemente , rivisitando con garbo i moduli della " romcom " e trovando, in ultima analisi, un tono fresco e genuinamente umoristico. Da manuale, tra le tante, la sequenza del primo incontro tra Kemail ed Emily,le gustose scene con i familiari di lui e la baruffa all'ospedale tra i genitori di lei. Ulteriore prova che anche con pochi mezzi ( il film è costato " solo " 15 milioni di dollari e negli USA ne ha già incassati 45 ) ma con una buona dose di intelligenza e qualcosa da dire, si possono raggiungere non disprezzabili risultati in termini di piacevolezza e di dignitoso " entertainement ". Bravi gli attori ( oltre al simpatico e pacioso Nanjiani, va citata Zoe Kazan nella non semplice parte di Emily e la strepitosa coppia dei genitori di lei , gli " evergreen " Holly Hunter e Ray Romano ). Il registaMichael Showalter, di franca derivazione televisiva, dal canto suo rinuncia saggiamente a qualunque superfluo virtuosismo.
Per venire invece al secondo dei film di questa puntata, l'irlandese DOC " My name is Emily ", naufraga proprio sull' assenza di un solido e collaudato retroterra di " genere ". Eppure non si può certo dire che nella verde isola manchi una tradizione di umorismo e di commedia leggera, di stampo almeno teatrale, e soprattutto che non vi siano schiere di ottimi attori ( alcuni dei quali, nelle parti minori, sono stati poi effettivamente utilizzati). Ma un film che , per partito preso, voglia essere al 100 % autoctono rischia di essere penalizzato dalla indisponibilità di sceneggiatori di tratto svelto e genuino ( la televisione in Irlanda, soffocata da quella inglese e " massacrata " dai programmi provenienti dagli USA, praticamente non decolla ). Non ci sono neanche gli attori adatti, forse - chissà - manca anche un pubblico che ci creda. Risultato: invece di essere quella piccola ma simpatica commediola, " rosa " e divertente, che pur sarebbe stato lecito attendersi, questa " Emily " è un filmetto pretenzioso e sbagliato. Nè racconto filosofico sul significato dell'esistenza così come può vederlo un'adolescente - cui pure ambirebbe - nè romanzetto " di formazione " e d'amore come poi potrebbe limitarsi ad essere, finisce col deragliare totalmente e rimane solo un " road movie " con due giovani scriteriati. Una lei ed un lui, impegnati in una poco comprensibile fuga dalla capitale, metà amorosa e metà alla ricerca del padre di lei : più sopportabile lui, non ricordo il nome dell'attore, e nettamente meno la protagonista , tal Evanna Lynch, che non trovando mai il passo giusto della commedia rovina definitivamente con il proprio debolissimo personaggio . Peccato davvero perchè il film non è minimamente avvicinabile al solare e festoso " Sing Street " della scorsa stagione, egualmente girato in Irlanda ( regia di John Carney ) ma con idee e propositi fortunatamente più rivolti al mercato globale . Quindi, forzatamente, con occhio attento a quanto si è fatto e si fa in Inghilterra e negli " States ", senza scimmiottature ma avendo introitato le esperienze di particolare successo che da quei lidi provengono. Ed avvalendosi, anche, di strutture produttive ed artistiche più solide e convincenti di quanto un piccolo film della piccola Irlanda potrebbe permettersi se non volesse spaziare al di là dei propri confini. La cosa può piacere o no. Ma ho il fondato convincimento che , in fatto di commedia, complice la televisione " senza frontiere " ed una diffusa omologazione degli stili di vita, i gusti dei vari pubblici nazionali si vadano uniformando. E a non tenerne conto il cinema rischierebbe di perdere la sua straordinaria capacità di rinnovarsi continuamente.
La sceneggiatura , scritta dal comico di origine pakistana Kemail Nanjiani e dalla moglie Emily Gordon, non è altro che la narrazione della vicenda personale della coppia, cioè di un sodalizio costituitosi attraverso non poche difficoltà da superare : l' incapacità di Kemail di sottrarsi alla cultura d'origine e alla propria famiglia ligia alle tradizioni anche dopo l'ingresso negli USA , una grave ed improvvisa malattia di Emily, la diffidenza poi venuta meno dei genitori di lei nei confronti del giovane immigrato. Storia vera ma roba vecchia, verrebbe fatto di dire, pensando che non è certo la prima volta che il cinema ci rappresenta -ora in chiave leggera ora in chiave più drammatica - differenze " etniche " tra innamorati, incomprensioni di coppia su cui influiscono le famiglie, persino malattie che rischiano di mettere la parola fine ad una bella storia d'amore. Un pò " Indovina chi viene a cena ", un pò " The perfect couple " di altmaniana memoria e non senza un pizzico del lacrimoso " Love Story ", questo " Big Sick " riesce ad evitare, in realtà, tutti gli scogli del " copia incolla " in agguato e se la cava brillantemente , rivisitando con garbo i moduli della " romcom " e trovando, in ultima analisi, un tono fresco e genuinamente umoristico. Da manuale, tra le tante, la sequenza del primo incontro tra Kemail ed Emily,le gustose scene con i familiari di lui e la baruffa all'ospedale tra i genitori di lei. Ulteriore prova che anche con pochi mezzi ( il film è costato " solo " 15 milioni di dollari e negli USA ne ha già incassati 45 ) ma con una buona dose di intelligenza e qualcosa da dire, si possono raggiungere non disprezzabili risultati in termini di piacevolezza e di dignitoso " entertainement ". Bravi gli attori ( oltre al simpatico e pacioso Nanjiani, va citata Zoe Kazan nella non semplice parte di Emily e la strepitosa coppia dei genitori di lei , gli " evergreen " Holly Hunter e Ray Romano ). Il registaMichael Showalter, di franca derivazione televisiva, dal canto suo rinuncia saggiamente a qualunque superfluo virtuosismo.
Per venire invece al secondo dei film di questa puntata, l'irlandese DOC " My name is Emily ", naufraga proprio sull' assenza di un solido e collaudato retroterra di " genere ". Eppure non si può certo dire che nella verde isola manchi una tradizione di umorismo e di commedia leggera, di stampo almeno teatrale, e soprattutto che non vi siano schiere di ottimi attori ( alcuni dei quali, nelle parti minori, sono stati poi effettivamente utilizzati). Ma un film che , per partito preso, voglia essere al 100 % autoctono rischia di essere penalizzato dalla indisponibilità di sceneggiatori di tratto svelto e genuino ( la televisione in Irlanda, soffocata da quella inglese e " massacrata " dai programmi provenienti dagli USA, praticamente non decolla ). Non ci sono neanche gli attori adatti, forse - chissà - manca anche un pubblico che ci creda. Risultato: invece di essere quella piccola ma simpatica commediola, " rosa " e divertente, che pur sarebbe stato lecito attendersi, questa " Emily " è un filmetto pretenzioso e sbagliato. Nè racconto filosofico sul significato dell'esistenza così come può vederlo un'adolescente - cui pure ambirebbe - nè romanzetto " di formazione " e d'amore come poi potrebbe limitarsi ad essere, finisce col deragliare totalmente e rimane solo un " road movie " con due giovani scriteriati. Una lei ed un lui, impegnati in una poco comprensibile fuga dalla capitale, metà amorosa e metà alla ricerca del padre di lei : più sopportabile lui, non ricordo il nome dell'attore, e nettamente meno la protagonista , tal Evanna Lynch, che non trovando mai il passo giusto della commedia rovina definitivamente con il proprio debolissimo personaggio . Peccato davvero perchè il film non è minimamente avvicinabile al solare e festoso " Sing Street " della scorsa stagione, egualmente girato in Irlanda ( regia di John Carney ) ma con idee e propositi fortunatamente più rivolti al mercato globale . Quindi, forzatamente, con occhio attento a quanto si è fatto e si fa in Inghilterra e negli " States ", senza scimmiottature ma avendo introitato le esperienze di particolare successo che da quei lidi provengono. Ed avvalendosi, anche, di strutture produttive ed artistiche più solide e convincenti di quanto un piccolo film della piccola Irlanda potrebbe permettersi se non volesse spaziare al di là dei propri confini. La cosa può piacere o no. Ma ho il fondato convincimento che , in fatto di commedia, complice la televisione " senza frontiere " ed una diffusa omologazione degli stili di vita, i gusti dei vari pubblici nazionali si vadano uniformando. E a non tenerne conto il cinema rischierebbe di perdere la sua straordinaria capacità di rinnovarsi continuamente.
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